Avventure e metamorfosi di un genio: Raffaello da Urbino a Roma

I classici della pittura (2016)

Avventure e metamorfosi di un genio: Raffaello da Urbino a Roma

Vincenzo Farinella

La vita

Raffaello era figlio d’arte: nato ad Urbino nel 1483, probabilmente il 6 aprile, trascorse i suoi primi anni nella bottega del padre, Giovanni Santi, un pittore di buon livello in rapporto con la corte dei Montefeltro. Rimasto orfano della madre, Magia di Battista di Niccolò Ciarla, quando aveva solo otto anni, perse anche il padre poco dopo l’undicesimo compleanno. Ma Raffaello era anche un fanciullo prodigio: dovette infatti, in questa primissima fase dell’esistenza, riuscire ad assorbire alcuni importanti tratti della figura paterna, tenuti vivi, negli anni successivi, da Evangelista da Pian di Meleto, principale collaboratore del Santi, a cui fu verosimilmente affidata la gestione della bottega urbinate, in attesa che il piccolo Raffaello crescesse, maturasse e potesse assumere commissioni in proprio.

Per parlare del giovanissimo Raffaello bisognerà quindi, preliminarmente, fissare l’attenzione su suo padre: un artista polivalente, in grado di fornirgli forse, più che un concreto esempio nella pratica pittorica, decisivi stimoli intellettuali. Giovanni Santi, infatti, poteva incarnare il modello, inconsueto nella società quattrocentesca, di un pittore colto, animato da notevoli ambizioni intellettuali, non solo come artista figurativo, ma anche come regista di teatro e vero e proprio poeta in volgare. Oltre alle rappresentazioni sceniche che lo videro protagonista presso la corte di Urbino nel 1474 e nel 1488, è appunto uno sterminato poema in terza rima, La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino (noto come Cronica rimata), redatto negli anni Ottanta del Quattrocento, epoca in cui si colloca anche un suo prestigioso intervento nel Palazzo Ducale (l’avvio della decorazione della cappella delle Muse), a rivelare pienamente l’ampiezza dei suoi interessi culturali: indubbiamente questa originale figura di artista-letterato dovette contribuire non poco ad orientare la mente, certamente già curiosissima, di Raffaello bambino.

In particolare, dovettero risultare memorabili i versi della Disputa de la pictura, contenuta nel poema dedicato ai duchi di Urbino, in cui il Santi, in un testo che fu certamente letto con devozione da suo figlio e conservato nella bottega raffaellesca, aveva tracciato un articolato periplo della civiltà figurativa quattrocentesca, in un’Italia policentrica dove i grandi maestri di inizio Quattrocento (Masaccio e Beato Angelico, Gentile da Fabriano e Pisanello) dialogano alla pari con i patriarchi fiamminghi (Van Eyck e Van der Weyden). Colpiscono la vastità dell’informazione, frutto di conoscenze spesso di prima mano, maturate in viaggi e frequentazioni in molte regioni d’Italia, e, allo stesso tempo, l’acutezza dei giudizi: la gerarchia dei valori, dopo la segnalazione di due giovani ‘emergenti’ come Leonardo e Perugino, culmina in Mantegna (uno degli artisti quattrocenteschi più ammirati da Raffaello) che, grazie ad insuperabili competenze prospettiche e antiquarie, «tien in ciò [cioè nella pittura] lo impero».

Un omaggio al ruolo svolto dal Santi andrà probabilmente scorto nel volto maschile di mezza età, affabile e sorridente, che si sovrappone, come in un ideale passaggio di consegne, al celeberrimo autoritratto di Raffaello nella Scuola di Atene, dove anche gli artisti figurativi attivi alla corte di Giulio II, finalmente affrancati da qualsiasi pregiudizio meccanico, si confondono tra i maggiori pensatori dell’antichità: un probabile modello, ammirato da Raffaello durante il suo soggiorno fiorentino, può essere individuato nel dittico raffigurante i ritratti di Francesco di Bartolo Giamberti e Giuliano da Sangallo, opera di Piero di Cosimo, dove padre e figlio, l’uno musico l’altro celebre architetto, si rispecchiano all’interno della stessa famiglia di intellettuali ed artisti. D’altronde l’esistenza di un (perduto) ritratto in miniatura di Giovanni Santi, realizzato da Raffaello nel 1507 (poco prima quindi dell’affresco vaticano) e posseduto nel 1520 dal banchiere fiorentino Bindo Altoviti (effigiato in un memorabile ritratto dall’urbinate), risulta testimoniata nel Settecento: viene infatti descritto nelle Efemeridi (s. II, IX, maggio 1781) di Giuseppe Bencivenni Pelli, allora direttore della Galleria degli Uffizi. Nell’ottobre del 1511, in un Motu proprio (Archivio Segreto Vaticano, Reg. Suppl. 1370, f. 66r) dove Giulio II nomina Raffaello «scriptor brevium apostolicorum», l’artista, giunto ormai all’apice della sua carriera, viene ancora definito «Johannis de Urbino scolari», ribadendo il fondamentale rapporto, non solo affettivo, che continuava a legarlo a questo padre pittore e letterato.

Il secondo problema che si pone, nella ricostruzione della primissima attività di Raffaello, è quello della sua formazione. I documenti, purtroppo, sono di scarso aiuto: se si prescinde dall’annosa disputa ereditaria ad Urbino con la matrigna, Bernardina di Piero Parte, nulla di certo sappiamo sulla vita di Raffaello negli anni che corrono dal luglio del 1494 – quando, nel testamento paterno, viene nominato erede universale, insieme con lo zio Bartolomeo di Sante – al dicembre 1500 – quando, diciassettenne, sigla il contratto per la realizzazione di un grande dipinto per Città di Castello, la cosiddetta Pala di San Nicola da Tolentino. Giorgio Vasari, a metà Cinquecento, sosteneva che il giovane urbinate si sarebbe formato nella più ricca e cosmopolita bottega pittorica dell’Italia centrale, quella del Perugino, attivo in questi anni sia a Firenze sia a Perugia. Vari studiosi moderni hanno invece giudicato la costruzione critica vasariana priva di credibilità, ipotizzando per Raffaello una lenta maturazione nella bottega paterna, affidata alla supervisione di Evangelista da Pian di Meleto, consentendogli così di confrontarsi non solo con la figura dominante di Perugino, ma anche con altri protagonisti della pittura in Italia centrale nell’ultimo decennio del Quattrocento, come Luca Signorelli e il Pinturicchio.

Che quest’ultima sia, probabilmente, la strada più convincente sta a suggerirlo una testimonianza indiretta del primissimo laboratorio mentale raffaellesco: il cosiddetto Libretto veneziano di Raffaello, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Si tratta di un taccuino di disegni dove un artista molto vicino a Raffaello, un suo allievo o collaboratore, ha replicato e riordinato in bella copia, all’aprirsi del Cinquecento, una serie di appunti grafici raccolti dal giovane urbinate in anni di studi e di viaggi. La formazione dell’artista, ricostruita alla luce di questa testimonianza grafica, rivela uno sguardo senza preclusioni sui fatti più moderni della pittura in Italia centrale: accanto alle soluzioni protoclassiche dell’amatissimo Perugino, trovano posto le nuove invenzioni a grottesca di Pinturicchio, le acri indagini anatomiche del Pollaiolo e di Signorelli, il dramma pietrificato di Andrea Mantegna, senza trascurare uno sguardo all’ossessivo realismo nordico e alle complicazioni psicologiche di Leonardo. Compaiono, inoltre, i luoghi più amati da Raffaello adolescente (Perugia e soprattutto Urbino, con il memorabile studiolo di Federico da Montefeltro) e la fascinazione per l’arte classica, probabilmente ancora prima di vedere Roma, in un percorso libero dalla tutela esclusiva di un grande e ingombrante maestro, dominato da un’onnivora curiosità intellettuale e dalla capacità, già evidente a queste date, di assimilare ogni elemento con cui si viene in contatto senza traumi apparenti, anzi con sovrana naturalezza.

Il 10 dicembre 1500 Raffaello, già definito «magister» a soli diciassette anni d’età, ed Evangelista da Pian di Meleto, che doveva avere circa quarant’anni, come già accennato, siglano con Andrea Baronci (un mercante di lana di Città di Castello che fu varie volte priore della città umbra, tra il 1466 e il 1502) il contratto per l’esecuzione di una pala d’altare per la cappella di famiglia nella chiesa di Sant’Agostino: l’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, completata e saldata il 13 settembre 1501, gravemente danneggiata dal terremoto del 1789, di cui si conoscono oggi solo quattro frammenti, oltre ad una copia parziale settecentesca che ci fornisce un’idea dell’aspetto originario. Intorno al 1502 Raffaello risulta in rapporto con il Pinturicchio, collaborando a Siena alla progettazione degli affreschi per la Libreria Piccolomini nel duomo, dipingendo la predella di una perduta pala d’altare nella chiesa di San Francesco e fornendo dei disegni per l’Incoronazione della Vergine per Santa Maria della Pietà ad Umbertide, realizzata dal Pinturicchio in collaborazione con Giovanni Battista Caporali. Nel gennaio e nel marzo del 1503 il giovane maestro si trova invece a Perugia: nello stesso anno realizza la cosiddetta Pala Gavari (oggi alla National Gallery di Londra), per l’altare del mercante e banchiere Domenico de’ Gavari nella chiesa di San Domenico a Città di Castello, e avvia la Pala Oddi, commissionata da Alessandra degli Oddi per la cappella di famiglia nella chiesa di San Francesco a Perugia. È documentato che nel gennaio del 1504 Raffaello risiedesse a Perugia: la data 1504 compare, insieme alla firma, sullo Sposalizio della Vergine (Pinacoteca di Brera), destinato alla cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Francesco a Città di Castello, realizzato per il mercante e notaio Filippo di Lodovico Albizzini.

Non è noto con sicurezza il momento del trasferimento dell’artista a Firenze. La celebre lettera di presentazione a Pier Soderini del 1° ottobre 1504, da parte di Giovanna Feltria Della Rovere (pubblicata per la prima volta da Giovanni Gaetano Bottari nel 1754), è stata plausibilmente interpretata come un falso settecentesco: la fama di Raffaello e la rarità dei suoi autografi furono tali, nei secoli, da spingere abilissimi contraffattori a produrre non solo falsi dipinti e disegni dell’urbinate, per collezionisti ansiosi di possedere sue opere originali, ma anche falsi documenti, evidentemente offerti a caro prezzo agli studiosi che stavano avidamente cercando inedite notizie sulla sua vita e agli appassionati che desideravano possedere qualche reliquia della sua mano. Comunque il soggiorno fiorentino, che consentì a Raffaello di approfondire la conoscenza dei ‘padri fondatori’ del Rinascimento (come Masaccio e Donatello) e di aggiornarsi sulle opere modernissime di Fra Bartolomeo, Leonardo e Michelangelo (senza trascurare anche, come si è visto, un pittore ‘eccentrico’ ma affascinante come Piero di Cosimo), dovette iniziare proprio verso la fine del 1504. L’anno successivo, nel frattempo, si infittiscono le commissioni perugine: la Trinità e santi per la chiesa di San Severo, completata nel 1521 dal Perugino, l’Incoronazione della Vergine per il convento delle Clarisse di Santa Maria di Monteluce presso Perugia, in collaborazione con Berto di Giovanni (conclusa solo tra il 1523 e il 1525, dopo la morte di Raffaello, da Giulio Romano e Giovan Francesco Penni), la Madonna Ansidei per la chiesa di San Fiorenzo. La prima opera realizzata per un committente fiorentino, Taddeo Taddei, è invece la Madonna del prato (o del Belvedere), datata 1505 o 1506.

Nel 1506 cominciano i primi accrediti letterari del giovane pittore: il 6 dicembre Baldassare Castiglione da Londra si rivolge, in un abbozzo poetico, all’effigie di Elisabetta Gonzaga da lui posseduta (ipoteticamente identificabile con il ritratto degli Uffizi), opera di Raffaello, il quale realizzerà l’anno seguente per la duchessa di Urbino un Cristo nell’orto degli ulivi (perduto). In questi anni fiorentini si consuma la breve ma intensa stagione cortigiana del giovane artista, a contatto con i raffinatissimi ambienti culturali delle corti dei Montefeltro ad Urbino e degli Este a Ferrara. Nel 1507 Raffaello firma e data uno dei suoi capolavori giovanili: la Deposizione Baglioni per la chiesa perugina di San Francesco al Prato, che costituisce il punto d’arrivo del confronto a tutto campo con le rivoluzionarie novità della ‘maniera moderna’, in particolare con l’interpretazione che ne stava fornendo Michelangelo.

Finalmente, nel 1508, Raffaello, che negli anni precedenti si era specializzato in una serie di Madonne col Bambino di destinazione privata, comincia a ricevere le prime commissioni pubbliche anche a Firenze: dopo aver chiesto, il 21 aprile, una lettera di «recomandatione» del duca Francesco Maria Della Rovere al gonfaloniere Pier Soderini in vista di «una certa stanza da lavorare», due pagamenti, tra il maggio e il giugno, documentano che «Raffaello di Giovanni dipintore» ha realizzato la doratura di una ghirlanda di metallo per coprire le nudità del David di Michelangelo e un’importante Madonna col Bambino per la Sala dell’Udienza dei Nove in Palazzo Vecchio (ipoteticamente identificabile con la Grande Madonna Cowper di Washington). Alla fine del 1508 Raffaello dovette decidere di allontanarsi da Firenze e di trasferirsi a Roma, lasciando incompiuta la Madonna del baldacchino commissionata per la cappella della famiglia Dei in Santo Spirito: tuttavia, anche in questo caso non è nota la data esatta del trasferimento, dal momento che la celebre lettera del 5 settembre 1508 da Roma a Francesco Francia a Bologna è stata credibilmente giudicata un falso seicentesco, realizzato da Carlo Cesare Malvasia.

Il primo pagamento a Raffaello per alcuni lavori compiuti in Vaticano, probabilmente riferibili alla Disputa del Sacramento, nell’ambiente del nuovo appartamento di Giulio II che prenderà il nome di Stanza della Segnatura, è datato 13 gennaio 1509: si tratta di 100 ducati versati «ad bonum comptum picture camere de medio eiusdem Santitatis testudinate». Il giovane pittore umbro, a queste date, risulta ancora un membro della composita équipe sovraregionale di artisti convocata da Giuliano Della Rovere nei Palazzi Vaticani per procedere celermente alla decorazione delle nuove stanze del pontefice: il 3 giugno del 1509, infatti, il canonico fiorentino Francesco Albertini, siglando il manoscritto dell’Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis romae (pubblicato a Roma il 4 febbraio dell’anno successivo), ricorda i «pictores concertantes» al lavoro nelle stanze di Giulio II, ancora senza distinguere il nome di Raffaello. In questo momento si datano anche alcuni sporadici tentativi poetici del pittore: cinque sonetti petrarcheschi appuntati su una serie di disegni preparatori per la Disputa del Sacramento (1508-1509 circa) e per il Parnaso (1510-1511 circa).

La prima sicura attestazione dei rapporti intrattenuti da Raffaello con Agostino Chigi risale al 10 novembre 1510, mentre fervevano i lavori nella Stanza della Segnatura, ormai interamente affidata per volontà di Giulio II al giovane urbinate, dopo che i primi affreschi terminati (e cioè la Disputa del Sacramento e la Scuola di Atene) avevano dimostrato la maggiore modernità della lingua figurativa raffaellesca rispetto a quelle dei suoi compagni convocati in Vaticano: in questa data il ricchissimo banchiere senese versa 25 ducati all’orafo perugino Cesare Rossetti per la realizzazione di due tondi bronzei (di dubbia identificazione) basati su disegni e modelli di Raffaello. L’artista inoltre era ormai sul punto di essere coinvolto nella decorazione pittorica della splendida villa suburbana del Chigi affacciata sul Tevere, che più tardi verrà denominata Villa Farnesina, progettata da Baldassarre Peruzzi, l’architetto e pittore senese che risulta in documentato rapporto con l’urbinate nel novembre dell’anno successivo.

Tra il luglio e l’agosto del 1511, Gian Francesco Grossi detto il Grossino, un informatore di Isabella d’Este, scrive alla marchesa di Mantova che il pontefice aveva commissionato la decorazione di due camere (oggi note come Stanza della Segnatura e Stanza di Eliodoro) a «un Rafaello da Urbino, che ha gran fama di bon pictor in Roma», riferendogli anche, con un sorprendente errore che sarà replicato nel 1536 da Johann Fichard, la responsabilità della decorazione della volta della Cappella Sistina: in quest’occasione viene rimarcato anche che Giulio II aveva voluto che il figlio di Isabella e Francesco Gonzaga, l’undicenne Federico ostaggio presso la corte papale, vi venisse ritratto. L’anno successivo Raffaello verrà incaricato da Isabella di dipingere anche un ritratto autonomo di Federico, «dal pecto in suso armato», che giungerà a Mantova solo nel 1521 (oggi perduto). Nel luglio del 1512 è in Vaticano Alfonso I d’Este, per una delicatissima missione diplomatica: il duca di Ferrara, tuttavia, a questa data sembra più interessato alle decorazioni pinturicchiesche nell’Appartamento Borgia e alla volta michelangiolesca della Cappella Sistina, in corso di esecuzione, che non alle prime due stanze di Raffaello. Dopo il 24 giugno del 1512, quando la città di Piacenza entrò a far parte dello Stato della Chiesa, Raffaello dovette probabilmente ricevere dal pontefice l’incarico per la Madonna Sistina: l’opera era probabilmente già compiuta prima della morte di Giulio II (21 febbraio 1513). Nel settembre del 1513, mentre fervono i lavori nella Stanza di Eliodoro, il ritratto raffaellesco di Giulio II, eseguito un paio d’anni prima, viene esposto per otto giorni sull’altare di Santa Maria del Popolo, la chiesa romana che aveva accolto, nella cappella bramantesca alle spalle dell’altar maggiore, un vero e proprio mausoleo della famiglia Della Rovere: come riferisce Marin Sanudo a Venezia, «tutta Roma core a vederlo; par un jubileo, tanta zente vi va».

Nel 1514, alla morte di Bramante, un nuovo gravoso compito cade su Raffaello, che nel frattempo ha concluso la Stanza di Eliodoro e avviato la terza camera del nuovo appartamento pontificio, quella detta dell’Incendio di Borgo: la responsabilità di dirigere i lavori della Fabbrica di San Pietro. Il 1° luglio scrive allo zio Simone Ciarla ad Urbino per informarlo di questo remunerativo impegno, assunto dapprima in collaborazione con l’anziano e «doctissimo» Fra Giocondo. Il 1° agosto, dopo la presentazione di un proprio modello architettonico per la nuova basilica, viene nominato ufficialmente da Leone X ‘architetto della Fabbrica di San Pietro’.

Nel dicembre del 1514 Alfonso I d’Este scrive a Roma al fratello, il cardinale Ippolito (probabilmente ritratto una decina d’anni prima dall’urbinate nel dipinto conservato oggi a Budapest), perché versi a Raffaello 50 ducati, come acconto per una tela dedicata al tema del Trionfo indiano di Bacco, destinata nelle intenzioni del duca ad ornare, insieme ad altri dipinti di Giovanni Bellini, Dosso Dossi, Fra Bartolomeo e forse Michelangelo, il proprio ‘camerino delle pitture’: probabilmente l’urbinate era stato contattato da Alfonso l’anno precedente, allorquando il duca di Ferrara, giunto a Roma per rendere omaggio al nuovo pontefice fiorentino, non attendeva, come notato da Mario Equicola, «ad altro che ad far fare picture e vedere antichità». Nel 1514 un altro problema pressante per Raffaello risulta quello matrimoniale: il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena gli aveva infatti offerto in sposa una propria nipote, Maria o Marietta. Secondo Vasari, Raffaello avrebbe esitato ad accettare questo prestigioso matrimonio per la possibilità, che gli era stata ventilata dal pontefice, di diventare cardinale.

Il 15 giugno 1515 Raffaello riceve il primo pagamento noto per i cartoni degli arazzi della Cappella Sistina, una nuova importante commissione ottenuta da papa Leone X, probabilmente verso la fine dell’anno precedente, che gli consentirà di porre un proprio sigillo sulla decorazione di quell’ambiente prestigioso, in emulazione con i maestri quattrocenteschi che vi avevano lavorato e con il genio solitario di Michelangelo (un secondo pagamento «pel residuo», forse quello conclusivo, è del 20 dicembre 1516). Nel frattempo si infittiscono le commissioni da varie parti d’Italia: già terminata nell’agosto del 1515 l’Estasi di santa Cecilia, realizzata per la cappella funeraria della gentildonna Elena Duglioli dall’Oglio nella chiesa bolognese di San Giovanni in Monte, Raffaello si impegna a realizzare un «quadretto» per Isabella d’Este (non ancora concluso alla fine del 1519).

Anche il pontefice si serve dell’artista in modo sempre più estensivo: il 27 agosto 1515, mediante un Breve redatto da Pietro Bembo, lo nomina «praefectus marmorum et lapidum omnium», cioè responsabile di tutti i marmi antichi e di tutte le epigrafi, scavati a Roma per rifornire di materiali costruttivi la Fabbrica di San Pietro, imponendo che ogni nuova iscrizione rinvenuta fosse sottoposta all’artista prima dell’eventuale riutilizzo, affinché ne fosse valutata l’importanza per lo studio della letteratura e della lingua latina; nel novembre Leone X si fa probabilmente accompagnare da Raffaello a Firenze, in vista del progetto della facciata della basilica di San Lorenzo, e a Bologna, per incontrare il re di Francia Francesco I. Nel 1515 un disegno di Raffaello, preparatorio per la Battaglia di Ostia nella Stanza dell’Incendio, donato ad Albrecht Dürer, documenta l’esistenza di rapporti di stima tra il maestro tedesco e l’urbinate, che ammirava le sue celebri e divulgatissime incisioni.

Durante il 1516 l’attività di Raffaello diventa sempre più ampia e frenetica, abbracciando praticamente tutte le tecniche artistiche: ritrae in un dipinto (perduto) per Francesco Gonzaga l’elefante bianco Annone, donato due anni prima al papa dal re del Portogallo, e forse anche un rinoceronte, che si diceva essere deceduto durante il viaggio via mare; chiede che gli siano mandate istruzioni per concludere la decorazione della Stufetta del cardinal Bibbiena (terminata nel giugno); comincia ad applicarsi anche alla scultura, non solo fornendo disegni agli orafi (due bacili d’argento dorato, basati su sue invenzioni «de desegno e fogia antiqua», entrano in possesso di Isabella d’Este), ma anche eseguendo un modello in creta di un putto (che sarà poi tradotto in marmo da Pietro d’Ancona, forse da identificarsi con il Pietro Stella documentato a Roma nel 1519); sempre nel 1516 viene completata la decorazione musiva della cappella Chigi a Santa Maria del Popolo, realizzata, seguendo i progetti raffaelleschi, dal veneziano Luigi de Pace.

Intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento Raffaello collabora intensamente con l’incisore bolognese Marcantonio Raimondi, incaricato di diffondere, attraverso il medium della stampa, la fama delle modernissime invenzioni dell’urbinate: invenzioni che saranno guardate con emozione non solo da generazioni di artisti italiani ed europei, ma anche, per lo sfoggio di erudizione antiquaria che le contraddistingue, da un pubblico di letterati e umanisti. Proprio nel 1516 si infittiscono le notizie sulle frequentazioni intellettuali, di altissimo livello, di Raffaello: il 4 aprile Pietro Bembo scrive al cardinal Bibbiena che il giorno successivo, con Raffaello, Andrea Navagero, Agostino Beazzano e Baldassare Castiglione, avrebbe fatto una gita a Tivoli per vedere «il vecchio et il nuovo, e ciò che di bello fia in quella contrada»; da un’altra lettera del Bembo (19 aprile) sappiamo che Raffaello aveva eseguito anche il ritratto del poeta ferrarese Antonio Tebaldeo, giudicato più realistico di quello del Castiglione. Probabilmente proprio nel 1516 si data anche la stesura della pagina introduttiva delle Prose della volgar lingua, pubblicate nel settembre del 1525, dove il Bembo esalta paritariamente Raffaello, pittore e architetto, e Michelangelo, scultore e pittore, per la loro capacità di emulare le inarrivabili opere dell’antica Roma.

Nel gennaio del 1517 Michelangelo a Firenze viene informato da Leonardo Sellaio della competizione nata tra Raffaello e Sebastiano del Piombo, a causa di due dipinti commissionati loro dal cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di Narbonne, rispettivamente la Trasfigurazione e la Resurrezione di Lazzaro. Mentre si concludono i lavori per la decorazione della Stanza dell’Incendio (terminata nel giugno del 1517) e della Sala dei Chiaroscuri (probabilmente già finita nel febbraio), dove avrebbe trovato posto il ‘letto da paramento’ di Leone X, Raffaello viene assillato da Alfonso I d’Este perché porti a compimento il dipinto mitologico promesso già da alcuni anni per il camerino delle pitture: per ammansire il duca, sempre più spazientito, vengono inviati in dono alla corte ferrarese dei cartoni di opere realizzate in quegli anni (tra cui quelli per uno degli affreschi realizzati nella Stanza dell’Incendio e per il San Michele destinato al re di Francia). Il 30 luglio Antonio de Beatis, nel diario del viaggio europeo compiuto in qualità di segretario del cardinale Luigi d’Aragona, annota di aver visto in lavorazione a Bruxelles, nella manifattura di Pieter van Aelst, gli arazzi per la Cappella Sistina e, già compiuto e «bellissimo», quello raffigurante la Consegna delle chiavi a San Pietro.

Nel 1518 Raffaello esegue vari dipinti per la corte francese, su cui siamo particolarmente ben informati dai documenti: nel febbraio viene inviato in Francia, via Firenze, il ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, in previsione del matrimonio con Madeleine de la Tour d’Auvergne; nel marzo risultano in esecuzione un San Michele Arcangelo e una Sacra Famiglia per il re Francesco I (due dipinti conclusi nel maggio); nel luglio Sebastiano del Piombo avvisa Michelangelo che la Trasfigurazione non era ancora stata cominciata e che i due dipinti per la corte francese presentavano un aspetto decisamente leonardesco. Anche il Ritratto di Leone X entrò a far parte di questa congiuntura francese: nel settembre sarà infatti inviato a Firenze per presenziare al matrimonio di Lorenzo e Madeleine. Da segnalare che nel frattempo si era aperto un nuovo impegnativo cantiere, quello delle Logge vaticane, dove Raffaello risulterà ampiamente coadiuvato da un’articolata bottega, organizzata secondo una razionale divisione dei compiti che delegava al maestro quasi solo quelli dell’invenzione e della supervisione.

L’artista, in questi anni, è sempre più coinvolto dalla propria passione antiquaria, come dimostra anche, nel luglio del 1518, la controversia con i Conservatori capitolini per il possesso di una scultura antica della collezione di Gabriele de’ Rossi. Entro il primo marzo del 1519 viene concluso il volgarizzamento del De architectura di Vitruvio, commissionato da Raffaello all’umanista ravennate Fabio Calvo, forse in vista di una nuova edizione a stampa, illustrata, dell’antico trattato di architettura, e risulta redatta la lettera dell’artista, ispirata alle descrizioni delle ville di Cicerone e di Plinio il giovane, sul progetto per Villa Madama. Inoltre, nel corso del 1519 si data probabilmente l’ultima redazione della lettera a Leone X sull’architettura classica, scritta da Raffaello («essendo io stato assai studioso di queste antichità») in collaborazione con Baldassare Castiglione, da riconnettere al progetto, già avviato negli anni precedenti, della ricostruzione grafica di Roma antica affidato dal pontefice all’artista.

Nel 1519 giungono a compimento vari cantieri raffaelleschi: il 1° gennaio Leonardo Sellaio informa Michelangelo che era stata scoperta la volta della Loggia di Amore e Psiche nella Villa Farnesina di Agostino Chigi, criticando aspramente gli affreschi eseguiti dalla bottega raffaellesca («chosa vituperosa a un gran maestro»); nel maggio, come riferisce il grande conoscitore veneto Marcantonio Michiel, doveva essere ormai conclusa anche la decorazione della seconda Loggia, avviata nel 1516 o nel 1517, un ambiente destinato dal pontefice all’udienza di ospiti illustri, passeggiando al coperto sotto volte arricchite con affreschi e stucchi all’antica, e all’esposizione di una raccolta di sculture classiche; nel mese di luglio arrivano dalle Fiandre i primi tre arazzi basati sui cartoni di Raffaello, mentre il 26 dicembre ne vengono esposti sette nella Cappella Sistina, riscuotendo un grandissimo apprezzamento. Nel frattempo Raffaello continua a dimostrare una straordinaria versatilità d’ingegno, assumendo i compiti più diversi: nel febbraio del 1519, ad esempio, gli viene commissionato dal cardinale Innocenzo Cibo l’allestimento delle scenografie per i Suppositi di Ludovico Ariosto, la commedia che sarà messa in scena a Roma il 6 marzo, alla presenza di papa Leone X. Tra maggio e giugno uno scambio di lettere tra Baldassare Castiglione e Federico Gonzaga ci informa anche che Raffaello ha eseguito un progetto, che non verrà mai realizzato, per la tomba del defunto Francesco Gonzaga, padre del marchese di Mantova.

La notte tra il 6 e il 7 aprile 1520 Raffaello muore improvvisamente per una febbre «continua et acuta»: come annota nel suo diario il Michiel, la scomparsa, del tutto inaspettata, dell’artista trentasettenne addolorò in particolare gli umanisti e i letterati «per non haver potuto fornire la descrittione e pittura di Roma antiqua che ’l faceva, che era cosa bellissima». Il 7 aprile venne sepolto al Pantheon, nella tomba realizzata restaurando un’edicola di quell’antico monumento particolarmente amato e studiato dall’artista, decorata da una Madonna con il Bambino (la cosiddetta Madonna del sasso) scolpita da Lorenzetto ispirandosi ad un’antica Venere e dotata di un epitaffio latino composto da Pietro Bembo (o da Antonio Tebaldeo).

Varie opere già avviate da tempo nella bottega raffaellesca rimanevano incompiute: la Trasfigurazione, quasi conclusa, dopo essere stata a quanto pare collocata accanto al feretro dove giaceva il corpo senza vita del pittore (nella fastosa residenza che Raffaello aveva acquistato nel 1517 a pochi passi dal Vaticano, il bramantesco Palazzo Caprini), venne trasferita dal committente, il cardinale Giulio de’ Medici, al Palazzo della Cancelleria, per essere poi trattenuta a Roma quasi come una vera e propria reliquia di Raffaello (non fu infatti mai inviata a Narbonne, ma venne donata nel 1522 alla chiesa di San Pietro in Montorio). D’altronde il grande dipinto mitologico per Alfonso I d’Este, che ancora all’aprirsi del 1520 veniva richiesto aspramente dalla corte estense, non fu mai eseguito: il duca di Ferrara, di fronte all’offerta degli allievi di Raffaello di realizzare l’opera basandosi su disegni originali del maestro, rispose che «non havendo noi potuto haver la pictura nostra di sua mano, non la volemo far fare in Roma». Giulio Romano e il Penni, potendo contare sull’eredità grafica della bottega di Raffaello, ottennero invece di concludere la decorazione della Sala di Costantino, realizzata in due fasi, con un’interruzione durante il biennio del pontificato di Adriano VI (1519-1521 e 1523-1524); nel giugno del 1520 una lettera di Giulio de’ Medici conferma anche la volontà di portare a compimento il cantiere di Villa Madama, intrapreso da Giulio Romano e da Giovanni da Udine, «quelli duo cervelli fantastichi dipintori».

Quasi un testamento dell’arte raffaellesca può essere considerata, oggi, la celeberrima lettera dell’artista a Baldassare Castiglione, solitamente ritenuta un testo originale del 1514, in realtà redatta, secondo l’interpretazione di John Shearman (1994), intorno al 1522 dal letterato mantovano «per satisfare alla buona memoria di Raphaello, il quale io amo non manco adesso di quello ch’io mi facesse quando vivea» (per citare le parole dello stesso Castiglione, nella lettera al cardinale Giulio de’ Medici del 7 maggio 1522). L’assoluta eccellenza di Raffaello, sullo stesso piano di Mantegna, Leonardo, Giorgione e Michelangelo, era già stata celebrata dal Castiglione in una redazione databile intorno al 1516 del Cortegiano, dato alle stampe nel 1528: ora, mediante questa finzione letteraria, lo scrittore intende ricordare l’amico recentemente scomparso, tracciandone un acutissimo ritratto intellettuale, non privo di ricadute sulla critica d’arte successiva (basti ricordare la celebre affermazione platonica messa in bocca al pittore: «[...] io mi servo di un certa Iddea che mi viene alla mente»), e allo stesso tempo celebrare anche sé stesso, rievocando il profondo legame affettivo e intellettuale che per tanti anni li aveva legati.

Intorno al 1525 si data la composizione della Raphaelis Urbinatis vita di Paolo Giovio, dove Raffaello, campione di «quella particolare bellezza che chiamano grazia», viene proposto come un esempio di artista affabile e raffinato, in contrasto con la natura «rude e selvatica» di Michelangelo: si loda la «meravigliosa amabilità e alacrità di un talento duttile», insieme alla capacità, grazie al «costume tutto civiltà e cortesia», di meritarsi una «grande intimità coi potenti». Tutta una serie di temi che verranno ripresi e ampiamente orchestrati nelle due redazioni della Vita di Raffaello da Urbino, pittore et architetto di Giorgio Vasari: la prima, detta ‘torrentiniana’ (pubblicata a Firenze da Lorenzo Torrentino, già manoscritta nell’autunno del 1547, consegnata all’editore nell’estate del 1549 e infine stampata entro il marzo del 1550), la seconda, chiamata ‘giuntina’ (pubblicata a Firenze dai Giunti, stampata prima del 9 gennaio 1568). Vasari ci pone di fronte ad un artista divino, un uomo in cui la natura aveva saputo concentrare tutti i suoi doni: le qualità artistiche, somme in ogni campo, e in particolare in quello dell’invenzione (in grado di porre la pittura sullo stesso piano della letteratura), si coniugano con un carattere dolce, umano ed affabile, capace di accordarsi mirabilmente con qualsiasi interlocutore, dal più umile al più elevato.

Nel frattempo, nell’intervallo tra la prima e la seconda edizione delle Vite vasariane, era stata pubblicata la Vita di Michelagnolo Buonarroti di Ascanio Condivi (1553): in questo testo, scritto da un amico dello scultore fiorentino quasi sotto sua dettatura, i due artisti vengono descritti in fiero contrasto reciproco, l’uno, Michelangelo, dotato dalla natura di capacità quasi sovrumane, l’altro, Raffaello, abile soprattutto, attraverso lo studio indefesso dell’arte antica e moderna, nell’imitare la maniera altrui («in imitare era mirabile»). Ma il paragone tra Raffaello e Michelangelo, variamente orchestrato e diversamente risolto, attraverserà tutta la storia della critica d’arte, giungendo fino ai nostri giorni: se per secoli il primato è stato assegnato al «grazioso» e «convenevole» Raffaello, inteso come una sorta di incarnazione della perfezione nell’arte, a partire dal romanticismo si è sempre più affermato l’astro di Michelangelo, genio scontroso, tormentato e inimitabile.

Le opere

La duttilità intellettuale del giovanissimo Raffaello risulta evidente se esaminiamo quanto oggi si conosce della sua prima commissione documentata: la pala dell’Incoronazione di san Nicola da Tolentino (cat. 3) per Città di Castello, più o meno contemporanea al piccolo Crocifisso (cat. 1) dipinto su due lati del Museo Poldi Pezzoli di Milano e allo stendardo processionale raffigurante la Trinità con i santi Sebastiano e Rocco (cat. 2 a), sul recto, e la Creazione di Eva (cat. 2 b) sul verso. In questo caso il magister diciassettenne venne coadiuvato dal vecchio collaboratore del padre, Evangelista da Pian di Meleto, al quale sono stati riferiti i passaggi meno convincenti qualitativamente di un’opera certo integralmente concepita, come dimostrano i disegni preparatori, e in parte anche realizzata da Raffaello in prima persona. Dovette trattarsi di una pala d’altare imponente (circa cm 392 × 230), un’occasione importante per farsi conoscere e per mostrare il livello del proprio aggiornamento culturale: ed in effetti i frammenti conservati non tradiscono le attese. L’ Angelo del Louvre e soprattutto la figura di Dio Padre (nel frammento conservato al Museo Nazionale di Capodimonte), nella marcata rotazione del volto e nelle accentuazioni anatomiche, mostrano come la dolcezza peruginesca potesse venire forzata da un’attenzione alle ricerche di Luca Signorelli, che nel 1499 si era trasferito ad Orvieto, ma che aveva lasciato negli anni precedenti, proprio a Città di Castello, prove importanti della propria modernità. Le candelabre monocrome che fregiavano lo spazio architettonico dove si svolgeva l’incoronazione del santo agostiniano rivelano un omaggio ai partiti decorativi all’antica che avevano fatto la fortuna, ad Urbino, dello scultore milanese Ambrogio Barocci, un altro vecchio amico di Giovanni Santi; ma allo stesso tempo risultano aggiornate sulla nuova moda decorativa ispirata all’antica pittura romana che, in tanti cicli affrescati degli ultimi due decenni del Quattrocento, era stata divulgata dal Pinturicchio. E proprio il linguaggio pinturicchiesco sembra essere stato tenuto presente da Raffaello anche per l’angelo bresciano, dove l’impassibile soavità di Perugino appare vivacizzata da una più fresca indagine psicologica, analogamente a quanto si può vedere nelle tre giovanili Madonne col Bambino (cat. 5, 6, 7) di Berlino.

Proprio al Pinturicchio rimanda, con estrema chiarezza, un dipinto affascinante, anche nelle sue ingenuità, come la Resurrezione di Cristo (cat. 4) del Museu de Arte di San Paolo del Brasile: una piccola tavola che non ha saputo convincere dell’autografia raffaellesca quei critici che, vasarianamente, hanno voluto vedere in Raffaello un ‘creato’ esclusivo del Perugino, non potendo quindi ammettere una diversione stilistica così netta, proprio agli inizi del percorso dell’urbinate. In realtà l’esistenza di tre sicuri disegni preparatori di Raffaello per quest’opera, insieme alla presenza di alcuni passaggi meno convincenti, rende plausibile l’ipotesi che il dipinto sia stato concepito e in parte realizzato dal maestro, coadiuvato da un collaboratore. La Resurrezione diventa importantissima per comprendere come Raffaello abbia sentito il bisogno, nei primissimi anni del secolo, di andare a cercare nel repertorio ornamentale di Pinturicchio un arricchimento decorativo, ravvisabile anche nel San Sebastiano (cat. 8) di Bergamo, che incrina le serene armonie peruginesche: così si spiegano lo splendido sarcofago di marmi policromi, prezioso come un reliquiario, o le fantastiche armature dei soldati romani, sconvolti ma elegantissimi, chiusi entro estrosi costumi ben lontani da qualsiasi esigenza di correttezza antiquaria.

D’altra parte i rapporti tra Pinturicchio e Raffaello sono documentati con assoluta certezza. Il 29 giugno 1502 Pinturicchio aveva ricevuto, dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomini (papa Pio III tra il settembre e l’ottobre 1503), il prestigioso incarico di decorare la Libreria Piccolomini nel duomo di Siena: non sentendosi probabilmente all’altezza del compito di inventare un ciclo di scene così vasto e privo di precedenti iconografici (e forse anche a causa di gravi problemi di salute, che lo costrinsero, nel settembre del 1502, a fare testamento a Perugia), decise di convocare il giovane urbinate perché gli fornisse disegni capaci di tradurre in immagini, con la necessaria articolazione compositiva e prospettica, una serie di episodi della vita di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II tra il 1458 e il 1464). Un rapporto così insolito, che vede un maturo e affermato maestro chiedere aiuto per l’invenzione di un importante ciclo decorativo ad un artista diciannovenne poco più che esordiente, dovette basarsi, con ogni probabilità, su frequentazioni precedenti e trova una preziosa conferma in alcuni disegni di Raffaello, in effetti preparatori per le storie affrescate a Siena dal Pinturicchio e dai suoi collaboratori: è in particolare un foglio degli Uffizi, dove risultano fissati al volo alcuni pensieri per le figure in primo piano della Partenza di Enea Silvio Piccolomini per il concilio di Basilea, inverno 1432, che svela i motivi di questa decisione di Pinturicchio. In realtà, a queste date (intorno al 1502-1503), la modernità del giovane Raffaello doveva apparire, ad occhi avvezzi alla vecchia maniera quattrocentesca, stupefacente: i cavalli, monumentali come i colossi antichi di Roma, insieme ai cavalieri che turbinano liberi nello spazio, rivelano un dialogo avventuroso con i più sottili pensieri leonardeschi, in opere che il maestro aveva lasciato a Firenze, come l’incompiuta Adorazione dei Magi, e che erano tornate prepotentemente di moda dopo il ritorno di Leonardo da Milano.

Il 1503 è un momento cruciale nel percorso di accrescimento mentale del giovane Raffaello: proprio in quell’anno si colloca, probabilmente, un suo precoce soggiorno romano e quindi un primo confronto diretto con quelle rovine classiche che offriranno, per l’urbinate, esempi sempre più normativi, diventando quasi un’ossessione nella fase estrema della sua vita. Inoltre intorno al 1503 vengono concepite due opere che costituiscono l’omaggio più dichiarato e convinto offerto da Raffaello alla pittura di Perugino: la Pala Gavari (cat. 10) e la Pala Oddi (cat. 12). La prima distilla i modelli del maestro umbro fino a un limite estremo di perfezionamento tecnico e stilistico: ma il nudo del Cristo rivela, nella sua indagine anatomica, un’eco delle ricerche signorelliane (avvertibile anche nei due pannelli superstiti dell’originaria predella). Tuttavia l’opera, firmata ai piedi della croce (così che Vasari poteva asserire che, «se non vi fusse il suo nome iscritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro [Perugino]») e datata sull’originaria cornice di pietra ancora in situ nella chiesa di San Domenico a Città di Castello («MDIII»), sembra essere stata concepita come un omaggio plateale ed esclusivo al genio imperturbabile del Perugino.

La seconda, d’altronde, dimostra come anche questo estremo momento di passione peruginesca ben presto si complichi, nella mente prensile di Raffaello, quasi che l’ansia di sperimentare sempre nuove soluzioni lo spingesse a superare i propri stessi risultati, anche in opere non ancora compiute: la cesura stilistica che appare evidente tra la porzione superiore, dove l’Incoronazione della Vergine (cat. 12 a) recupera modelli non solo del Perugino, ma anche del padre Giovanni Santi, e la sezione inferiore con gli apostoli emozionati intorno al sarcofago marmoreo fiorito e colto arditamente di spigolo, è stata motivata supponendo una realizzazione scalata nel tempo e portando la conclusione dell’opera ai primi mesi del 1504 (mentre la cornice lignea fu terminata solo nel 1505), in un momento in cui l’esigenza di un confronto con le novità fiorentine era diventata per Raffaello sempre più pressante.

Il dialogo con Perugino culmina, e al tempo stesso si conclude, in un dipinto datato 1504, lo Sposalizio della Vergine di Brera (cat. 20), che assume un valore paradigmatico anche per la firma posta in grandissima evidenza sul fregio del portico che circonda il tempio, come un’orgogliosa dimostrazione di autocoscienza: il segno della raggiunta consapevolezza, da parte del pittore ventunenne, alla vigilia di un radicale mutamento di orizzonti culturali, di aver toccato un punto fondamentale del proprio percorso, e al tempo stesso un estremo bilancio delle proprie radici. In questo caso il confronto con due celebri composizioni peruginesche (la Consegna delle chiavi della Cappella Sistina e lo Sposalizio della Vergine di Caen, un dipinto quasi contemporaneo a quello dell’urbinate) rivela che l’intenzione di Raffaello non è più quella di rendere un omaggio all’artista che, nella sua adolescenza, aveva maggiormente ammirato, ma di sfidarlo sul suo stesso terreno, prendendo a modello una sua invenzione, liberandola dai ‘difetti’ quattrocenteschi e trasformandola in una scena spaziosa, moderna, coinvolgente. Per il giovane Raffaello rievocare il rapporto, escogitato da Perugino, tra l’edificio a pianta centrale sullo sfondo e il gruppo di figure in primo piano, avendo tuttavia trasformato quel rapporto, troppo meccanico, in un legame armonico e meditatissimo, doveva voler dire che un debito era stato definitivamente saldato e che ci si sentiva ormai pronti per nuove, ben più avventurose, sfide intellettuali.

Due piccoli dipinti, probabilmente realizzati anch’essi nel 1504, oltre a costituire l’esordio nel campo dei temi profani, che diventerà sempre più importante per Raffaello, dimostrano tutta l’ampiezza del repertorio di fonti su cui si basa la sua pittura: si tratta del Sogno del cavaliere della National Gallery di Londra (cat. 21) e delle Tre Grazie di Chantilly (Musée Condé; cat. 22), che dovevano verosimilmente costituire in origine le due valve di un unico dittico. Nulla di certo sappiamo sulla committenza, sul soggetto e sulla funzione di un’opera così preziosa, sottile ed intellettuale: anche se il tema viene spesso posto in relazione con il sogno di Scipione l’Africano, il rapporto della tavoletta londinese con una xilografia nordica raffigurante la Scelta di Ercole al bivio tra la Virtù ed il Vizio (un’illustrazione della celebre Nave dei folli di Sebastian Brant, stampata a Norimberga nel 1497) parrebbe offrire un indizio per interpretare così anche il cosiddetto Sogno del cavaliere; d’altra parte, le tre figure femminili nude impegnate ad offrire dei pomi d’oro, pur ispirandosi ad un celebre gruppo antico dedicato al tema delle Grazie (giunto da Roma a Siena, nella Libreria Piccolomini, nel 1502), forse intendevano raffigurare le mitiche Esperidi nell’atto di porgere ad Ercole, dopo la sua scelta virtuosa, i frutti dell’immortalità. Ci troviamo di fronte, quindi, ad un’opera raffinatissima, anche per il ricorso a fonti figurative antitetiche (senza dimenticare, per il paesaggio ‘moralizzato’ del Sogno, la puntuale ripresa da quello presente nell’Annunciazione di Cestello del Botticelli). Le due tavolette colpiscono per l’intenerimento della materia pittorica, sempre più fluida e luminosa, fino ad effetti di tangibile morbidezza nei nudi femminili, che sembrano vibrare come se fossero avvolti da un velo d’aria, scaldato dal tepore dell’epidermide: un risultato dove il confronto con Firenze, e in particolare con le suggestioni di Leonardo e di Fra Bartolomeo, diventa sempre più incalzante, al punto da suggerire che proprio il trasferimento di Raffaello in quello che poteva ancora dirsi il centro propulsivo dell’arte italiana vada inteso come la causa scatenante dell’improvvisa mutazione stilistica avvertibile in questo dittico.

È il Vasari, nella vita di Fra Bartolomeo, a confermarci il desiderio del pittore di allontanarsi dall’Umbria, dove ormai le sue opere dovevano averlo consacrato come un vero caposcuola, e di trasferirsi nel vitalissimo centro toscano: «venne in questo tempo [siamo verso la fine del 1504] Raffaello da Urbino pittore a imparare l’arte a Fiorenza». L’avvio di questo confronto con le travolgenti novità fiorentine va scorto in due opere compiute intorno al 1505 a Perugia, durante i periodici rientri in Umbria: se nella Pala Ansidei (cat. 26) spicca ancora, come nello Sposalizio della Vergine, il desiderio di perfezionare dall’interno il linguaggio peruginesco, il rinnovamento in atto si può cogliere non solo nella classica monumentalità della partitura architettonica, ma in particolar modo nei moti psicologici dei protagonisti, sempre più lontani dalla soave impassibilità di Perugino e già in debito con Leonardo, mentre nell’unico pannello conservato della predella, raffigurante la Predica del Battista, risulta evidente un primo influsso di Fra Bartolomeo. L’affresco di San Severo rivela invece la fortissima emozione visiva provata da Raffaello di fronte al grande affresco con il Giudizio Universale avviato da Fra Bartolomeo e portato a compimento da Mariotto Albertinelli per il fiorentino Ospedale di Santa Maria Nuova, un testo fondamentale e molto precoce (1499-1501 circa) per l’avvio a Firenze della maniera moderna: le sei figure nel registro inferiore, realizzate a distanza di molti anni dal Perugino (1521), sottolineano invece l’abisso che ormai si era aperto con quei maestri che avevano polemicamente rifiutato il confronto con i risultati del nuovo idioma cinquecentesco.

Dopo questo primo imprinting artistico fornitogli dal frate appena tornato alla pittura, dovette diventare decisivo, per Raffaello, il confronto diretto con le opere di Leonardo. Il Ritratto di dama con liocorno (cat. 33), una giovane sposa che rivela la sua principale virtù, la castità, nell’animaletto simbolico stretto teneramente in braccio, dimostra la capacità di confrontarsi anche con testi figurativi impervi, come l’ineffabile Gioconda, da non molto messa in cantiere e certo ancora incompiuta, traducendoli in un idioma trasparente ed accostante. Il capolavoro di Leonardo, con la misteriosa psicologia di Monna Lisa campeggiante davanti ad un paesaggio dove le tracce dell’uomo risultano fagocitate da una natura avvolgente e in perenne trasformazione, offre il destro per ideare l’immagine primaverile di un’affabile dama dell’opulenta borghesia fiorentina, affacciata su una luminosa veduta della campagna toscana. In questo dipinto, riscoperto da Roberto Longhi nel 1927, quando era offuscato da ridipinture seicentesche che avevano calato l’anonima fanciulla nei panni di santa Caterina d’Alessandria, spicca «quella grazia di contegno, di portamento, di guardatura ch’è inimitabile nei ritratti di Raffaello a Firenze».

Nel dittico dei coniugi Doni (cat. 36 e 37), realizzato qualche tempo dopo il loro matrimonio (gennaio 1504) e come auspicio augurale in vista della nascita del primo figlio (1507), a cui si allude tramite il mito ovidiano di Deucalione e Pirra presente sui versi delle due tavole, dipinti da un anonimo pittore fiorentino, il cosiddetto Maestro di Serumido, la distanza dal fondamentale prototipo leonardesco diventa ancora più sensibile: Agnolo, ricco mercante di stoffe, il collezionista ed appassionato d’arte che di lì a poco commissionerà a Michelangelo lo spettacoloso Tondo Doni, fissa negli occhi lo spettatore con sconcertante franchezza, occupando prepotentemente lo spazio con la rotazione delle spalle e il braccio sinistro poggiato sulla balaustra. Maddalena Strozzi, ancora giovanissima, evitata qualsiasi tentazione idealizzante, cela la propria psicologia sotto l’eleganza delle vesti e il fasto dei gioielli. La coppia borghese, scrutata da uno sguardo memore della lenticolare limpidezza della pittura delle Fiandre (vengono alla mente i ritratti di Memling, così amati a Firenze, ma anche, per l’effige di Agnolo Doni, il Francesco delle Opere realizzato da Perugino a Venezia nel 1494), sicura di sé e padrona del proprio destino, ha scelto di farsi rappresentare dal pittore di fronte ad un paesaggio dolce e luminoso, lontanissimo dalle brume e dai vapori leonardeschi, mentre un soffio di brezza gentile scompiglia appena i capelli.

Negli anni fiorentini Raffaello torna insistentemente, in attesa di grandi commissioni pubbliche, sul tema della Madonna col Bambino, adatto per committenze private, sviluppandolo progressivamente verso forme sempre più articolate e monumentali. La cosiddetta Belle Jardinière (cat. 47; così denominata nel Settecento per il suo aspetto di ‘Vergine contadina’) rappresenta il punto di arrivo, intorno al 1507-1508, del tentativo, avviato negli anni precedenti (con la Madonna del cardellino, cat. 35, dipinta nel 1506 per Lorenzo Nasi, e la Madonna del prato o del Belvedere, cat. 32, nel 1505 o 1506 per Taddeo Taddei), di elaborare una soluzione compositiva che, tenendo presente i modelli offerti da Leonardo (il cartone della Sant’Anna) e Michelangelo (la Madonna di Bruges, i tondi Pitti e Taddei), pervenisse ad un risultato di compiuta armonia, dove le figure, fissate in gesti spontanei come tramite dei sentimenti più umani, sembrano atteggiarsi secondo uno schema di perfetta geometria piramidale, entro uno scenario che le avvolge come un grembo accogliente. La Sacra Famiglia Canigiani (cat. 44; così chiamata perché commissionata dal mercante di stoffe Domenico Canigiani) arricchisce queste ricerche, complicando la composizione mediante una maggiore insistenza sulle reazioni psicologiche dei cinque protagonisti: mentre i due bambini (dove «ogni colpo di colore», come notava stupito Vasari, sono «anzi pennellate di carne che tinta di maestro») giocano teneramente con il cartiglio del Battista, sotto agli occhi inconsapevoli della Vergine che ha appena interrotto la lettura, lo sguardo inquieto di Santa Elisabetta incrocia quello di San Giuseppe, appoggiato stancamente al proprio bastone. Ancora una volta l’ambizione di Raffaello sembra non solo quella di aggiornarsi sulle sconvolgenti novità formali della maniera moderna, ma di tradurre quelle impervie invenzioni, che sembravano alla portata di pochissimi intelletti, in immagini più umane e terrene, in un idioma armonico e universale.

Il punto d’arrivo di questo ‘paragone’ di Raffaello con la cultura artistica fiorentina si coglie in un’opera ambiziosa, realizzata per una committenza umbra: la pala voluta da Atalanta Baglioni (cat. 46) per la cappella di San Matteo nella chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, lungamente elaborata dall’urbinate (come dimostrano i numerosi disegni preparatori conservati, che consentono di seguire le varie fasi di sviluppo e trasformazione dell’originaria invenzione), firmata quindi e datata nel 1507. In origine Raffaello aveva concepito una scena molto più statica e contemplativa, immaginando il Cristo giacente sulla nuda terra dopo la deposizione dalla croce e prendendo le mosse ancora una volta da un’opera del Perugino (il Compianto sul Cristo morto realizzato nel 1495 per il convento fiorentino di Santa Chiara): un improvviso mutamento di progetto impone quindi di ideare un’immagine molto più dinamica, declamatoria e coinvolgente, sollevando il cadavere di Cristo e facendolo trasportare verso il sepolcro da un mesto corteo che sfila davanti ai nostri occhi.

Svariate fonti visive (da Mantegna, a Signorelli, ad un sarcofago romano di Meleagro) sono state utilizzate e rifuse da Raffaello con la consueta capacità assimilatrice, dando vita ad un dipinto la cui vera ambizione risulta quella di fare i conti con le opere di Michelangelo, che dovevano costituire, in quel momento a Firenze, la vera pietra dello scandalo. L’eroismo anatomico del David e la dolorosa elegia della Pietà vaticana riecheggiano nella Deposizione Baglioni, dove salta agli occhi un desiderio di competizione con colui che, nel cartone della Battaglia di Cascina, aveva inventato un nuovo genere di eloquenza drammatica, priva di divagazioni narrative, tutta calata e per così dire incarnata nell’articolazione delle figure umane.

La prima grande opera pubblica realizzata da Raffaello a Firenze, la cosiddetta Madonna del baldacchino (cat. 52) commissionata probabilmente nel 1506 da Ranieri e Pietro Dei per la cappella di famiglia nella chiesa di Santo Spirito, è rimasta incompiuta perché l’artista, nell’autunno del 1508, fu attirato da Bramante e da Giulio II a Roma, la città che proprio in quel momento stava avviandosi a diventare il nuovo centro propulsore dell’arte italiana, sostituendo definitivamente Firenze. In questa monumentale pala d’altare culmina il confronto con le austere ma modernissime composizioni di Fra Bartolomeo: un dialogo ormai alla pari, dal momento che sarà il frate, dopo il soggiorno veneziano, a guardare sempre più a Raffaello e in particolare a questa tavola mai condotta a compimento. L’opera rivela anche le nuove ambizioni dell’artista, soprattutto nello sfondo architettonico, modellato sulla forma di una nicchia del Pantheon (studiato dal vero durante un precoce soggiorno romano) e progettato per suggerire una continuazione dello spazio reale dell’edificio brunelleschiano nello spazio dipinto: la simmetria della composizione e l’equilibrio delle pose si riscaldano e vivacizzano nell’umana semplicità dei gesti e delle reazioni psicologiche, in una serie di dialoghi sacri di assoluta naturalezza.

L’arrivo di Raffaello nel cantiere dei Palazzi Vaticani, dove una squadra di pittori era già al lavoro per decorare le stanze del secondo piano dell’edificio che Giulio II aveva eletto a proprio appartamento privato, si deve porre nell’autunno del 1508: il 13 gennaio del 1509 è registrato il primo pagamento per un affresco eseguito dall’urbinate nella Stanza della Segnatura, e cioè, con ogni probabilità, la Disputa del Sacramento (cat. 55 b). L’esordio di Raffaello, in un ambiente dove era già al lavoro Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, dovette suonare, agli occhi del committente, ma anche degli umanisti e degli artisti che gravitavano intorno alla corte papale, come l’improvviso e imprevisto affermarsi di una lingua nuova, anche se lungamente attesa. Nella Disputa, infatti, Raffaello ha saputo sviluppare in una chiave di potente monumentalità quelle ricerche compositive che avevano dato vita, nel 1505, all’affresco perugino di San Severo. Tra i possibili modelli fiorentini andrà ricordato, oltre al Giudizio Universale di Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli, la tavola dipinta tra il 1474 e il 1476 da Francesco Botticini per la cappella Palmieri di San Pier Maggiore a Firenze, raffigurante l’Assunzione della Vergine: un dipinto che dovette colpire l’urbinate per l’inaudita grandiosità della concezione d’insieme, con i tre semicerchi di figure divine che dal cielo si riflettono sulla disposizione, in terra, delle figure e del vastissimo paesaggio. Nell’affresco vaticano, analogamente, le figure sacre assise su un trono di nuvole si rispecchiano nella liberissima abside di papi e teologi che si muovono intorno all’altare centrale. L’asse sacro verticale che domina la composizione, costituito da Dio Padre, Cristo, lo Spirito Santo e l’ostia consacrata, funziona anche da asse di simmetria dell’intera composizione: a destra e a sinistra i santi e i patriarchi della zona superiore fanno a gara per assumere pose, gesti ed espressioni di flagrante naturalezza. Adamo può così accavallare le gambe muscolose e stringersi un ginocchio tra le mani, dialogando con san Pietro, mentre le discussioni teologiche scoppiate tra i pensatori cristiani, nella zona inferiore, danno vita a dispute appassionate: nei volti l’esperienza delle indagini fisiognomiche leonardesche si coniuga con una probabile riflessione con quanto dipingeva, nella Stanza di Eliodoro, un originalissimo pittore lombardo come il Bramantino. Questo affresco, pur essendo dedicato all’esaltazione del pensiero teologico lungo l’intera storia del cristianesimo, si svolge come una vivacissima narrazione, che non esclude le più istintive reazioni emotive: come la figura del giovane all’estrema destra che, dialogando con il vecchio barbuto e panneggiato all’antica, si protende dalla balaustra marmorea per fissare lo sguardo sul Sacramento, invadendo prepotentemente, con un gesto di assoluta ferialità, lo spazio dell’osservatore.

Un’ulteriore maturazione di Raffaello, a contatto con l’ambiente della corte di Giulio II, si può cogliere sulla seconda parete cui mise mano nella Stanza della Segnatura, e cioè con ogni probabilità nella cosiddetta Scuola di Atene (cat. 55 c): se nella Disputa si possono ancora cogliere le ultime tracce del rapporto con i modelli del Perugino, in particolare nelle figure di Cristo e degli angeli della zona superiore, ora un pensiero di impressionante chiarezza e monumentalità – riassumere visivamente l’intera storia del pensiero filosofico classico entro una vasta aula antica posta sotto la protezione di Apollo e Minerva – viene tradotto con rinnovata sapienza compositiva, muovendo vaste masse di figure che circondano i protagonisti (i più celebri filosofi greci, da Platone ad Aristotele, da Socrate a Diogene, da Pitagora ad Euclide), ma salvaguardando anche la vitalità delle comparse secondarie. Con la Scuola di Atene si può veramente dire che la ‘maniera moderna’ ha trovato uno dei suoi testi fondamentali, destinato ad influenzare generazioni di artisti. Anche l’inserzione in primo piano, nell’estate del 1511, quando l’affresco era già compiuto, della figura del presunto Eraclito, come esplicito omaggio al genio michelangiolesco impegnato nella titanica impresa della volta della Sistina, avviene con assoluta naturalezza, quasi che il vuoto presente nel cartone preparatorio dell’Ambrosiana non potesse che essere colmato proprio da quel pensatore introverso e malinconico.

Nel Parnaso (cat. 55 d) il trionfo della poesia antica e moderna si esplica in una inedita fusione di due epoche, lungo le pendici del monte sacro ad Apollo e alle Muse: se la Disputa e la Scuola di Atene avevano posto i due mondi, quello cristiano e quello pagano, a confronto, ora le schiere si mescolano, come se l’età dell’oro fosse veramente tornata sulla terra. Nel mondo della gloria poetica non c’è più spazio per differenze di cultura o di religione: Omero e Virgilio possono diventare compagni di Dante e Petrarca, mentre anche i letterati contemporanei intessono dialoghi con i grandi poeti del Medioevo e dell’antichità. L’osservatore che si muove nello spazio della stanza è chiamato a partecipare in prima persona a questa utopia intellettuale ambientata sull’ellenico Parnaso. Non solo Saffo, l’appassionata poetessa lirica che era stata celebrata con il titolo di decima Musa, scavalca la cornice della finestra, invadendo idealmente lo spazio fisico dello spettatore, ma il poeta tragico che le fa da pendant sulla destra, dialogando con due colleghi, indica chiaramente un punto al centro dell’ambiente: gesticola vivacemente verso di noi, che ammiriamo la scena dipinta, e verso il committente, orgoglioso di tali risultati, quasi che solo la persona del pontefice potesse concretizzare nella storia questo sogno ad occhi aperti.

I riferimenti a papa Giulio II, presenti ovunque nella decorazione della Stanza della Segnatura, diventano sempre più espliciti sull’ultima parete, quella dedicata alle manifestazioni della Giustizia: in questo caso, nell’attuale tripartizione della superficie pittorica (mentre in un primo momento sembra che si fosse progettato di esaltare la giustizia divina con una decorazione unitaria ispirata da una scena tratta dall’Apocalisse), l’omaggio al pontefice responsabile di aver avviato questa nuova età dell’oro delle arti e della cultura ricompare non solo nella lunetta, dove la virtù della Fortezza risulta impegnata a sorreggere un frondoso ramo di quercia (l’emblema araldico dei Della Rovere), ma anche nel ritratto di Giulio II barbuto, nella scena raffigurante Gregorio IX riceve le Decretali da Raimondo di Peñafort (cat. 55 i), sovrapposto al volto del pontefice medievale, in un’estrema, trasparente celebrazione del committente che appare il vero tema del programma iconografico approntato per questo primo ambiente dell’appartamento papale, destinato in origine a svolgere la funzione di biblioteca privata o studiolo del pontefice.

Uno dei candidati più verosimili al ruolo di ‘consulente umanistico’ della Stanza della Segnatura, per il compito cioè di tradurre i desideri autocelebrativi del pontefice in un articolato programma iconografico, è Tommaso ‘Fedra’ Inghirami, l’oratore e poeta che Giulio II aveva nominato nel luglio del 1510 prefetto della Biblioteca Vaticana: Raffaello lo ritrae come un intellettuale al lavoro, circondato dagli oggetti quotidiani (il libro, la penna, il calamaio, il blocco di fogli di carta bianca) nel chiuso del suo studio, alla ricerca dell’ispirazione con lo sguardo sollevato e perso nel vuoto (cat. 59), rivelando un rapporto di confidente amicizia e un tocco di bonaria ironia nel non aver voluto idealizzare le fattezze del letterato volterrano, con il suo aspetto paffuto e l’evidente strabismo.

Il Ritratto di Giulio II (cat. 61), eseguito nei mesi in cui Raffaello passa a decorare la seconda stanza dell’appartamento papale, detta di Eliodoro, mostra un personaggio lontanissimo dalla «terribilità» solitamente sottolineata dalle fonti: ma anche questo dipinto, che il pontefice donò alla chiesa di Santa Maria del Popolo perché venisse mostrato ai fedeli nelle occasioni solenni, è un’immagine ‘politica’. Giuliano Della Rovere, in un momento difficilissimo del suo pontificato (all’aprirsi del 1511 aveva subito una grave sconfitta da parte dei Francesi a Bologna), vuole offrire una nuova immagine della propria persona, assiso su uno scranno sormontato dalle ghiande dorate roveresche, nell’anticamera delle visite: non il papa energico e battagliero, che con la spada in pugno aveva scalato d’inverno le mura di una fortezza nemica, non il papa criticato per eccessi carnali e per un’iracondia che atterriva ambasciatori e postulanti, ma un pontefice fragile ed umano, rivolto finalmente ai valori spirituali, con lo sguardo acceso da una luce interiore, colto in un momento di introspettiva meditazione. Un uomo che si era lasciato crescere la barba come un voto, promettendo di non radersela finché il ‘barbaro’ straniero non fosse stato finalmente cacciato dall’Italia: un papa che, proprio nel momento in cui il re di Francia aveva indetto un concilio per deporlo, sembra voler combattere, in questo ritratto ‘etico’, con le armi dello spirito e della forza morale.

Un secondo dipinto probabilmente donato da Giulio II alla chiesa di Santa Maria del Popolo è la tenerissima Madonna del velo di Chantilly (Musée Condé; cat. 62), un’opera capace di sottolineare la crescita di Raffaello in questi primi anni romani. Di fronte ai pur mirabili risultati conseguiti nelle Madonne fiorentine, nuove invenzioni formali vengono a scardinare le consuetudini di questo genere: il gesto di Maria, che allunga illusionisticamente il braccio destro fuori dalla superficie dipinta, protendendosi nello spazio dell’osservatore; i riflessi del raggio luminoso sul velo trasparente, colti con impalpabile sottigliezza; la morbida cedevolezza delle carni del bambino che, quasi come in una prefigurazione dei putti del Correggio, affonda nelle candide lenzuola come in una soffice nuvola di bambagia; il volto in penombra e sfuocato del vecchio san Giuseppe, inserito all’ultimo momento da Raffaello sopra ad un’originaria finestra, incapace di prendere parte al gioco improvvisato dalla madre. Un gioco probabilmente allusivo alla futura passione di Cristo (il velo come sudario, il risveglio del bimbo come Resurrezione): ma la grandezza di Raffaello sta anche nella sua sovrana capacità di sciogliere ogni concettosità iconografica in trasparente e solare naturalezza.

Nella Galatea (cat. 64) realizzata intorno al 1511-1512 per il potentissimo banchiere senese Agostino Chigi, un committente in grado di rivaleggiare perfino con i papi, si inaugura quel confronto con la pittura veneta che caratterizzerà alcuni dei capolavori raffaelleschi degli anni seguenti: nella loggia della villa suburbana del Chigi (la cosiddetta Farnesina), infatti, Sebastiano del Piombo aveva affrescato nel 1511 una serie di lunette dove le figure ovidiane campeggiano su cieli tersi e luminosissimi, segnando così l’irruzione, nella cultura figurativa romana, dei più moderni risultati della pittura fiorita a Venezia intorno a Giorgione e al giovane Tiziano. Proprio Sebastiano aveva offerto, nell’appassionato Polifemo romanticamente immerso nel paesaggio, affrescato sulla parete dove avrebbe trovato posto la Galatea di Raffaello, uno stimolo a creare un vero e proprio ‘paragone’ con la maniera romana: le inquietudini sentimentali della scuola giorgionesca si confrontano, nel dittico dove il ciclope contempla la ninfa marina di cui si era vanamente innamorato, con un affresco pieno sì d’aria, di luce e di colore, ma dove il protagonismo della figura umana, colta in pose complesse e serpentinate, trova ancora il suo riferimento principale nell’ossessione anatomica di Michelangelo e nelle figure scolpite sui sarcofagi antichi.

Nella Stanza di Eliodoro, per la cui decorazione nel corso del Quattrocento si erano avvicendati Piero della Francesca e Bartolomeo della Gatta e dove, al momento dell’arrivo a Roma dell’urbinate, erano al lavoro Luca Signorelli, Lorenzo Lotto, Cesare da Sesto e il Bramantino, Raffaello, superato l’apice di classicismo e naturalezza raggiunto nella Stanza della Segnatura, intende offrire una risposta orgogliosa, da indiscusso dominatore dell’ambiente artistico romano, alle sollecitazioni che provenivano dalle fonti più diverse, dimostrando un’olimpica capacità di padroneggiare una lingua figurativa composita e stratificata che, come in un esemplare compendio, viene offerta alla futura pittura italiana: al tempo stesso in questo ambiente, destinato alle udienze ufficiali di ospiti illustri, i temi, sempre all’interno di un programma che celebra il pontificato Della Rovere, diventano più esplicitamente ‘politici’, illustrando l’intervento miracoloso della provvidenza divina.

Nella Cacciata di Eliodoro dal Tempio (cat. 69 b) l’evento drammatico è immaginato entro una complessa scenografia che rievoca i progetti bramanteschi per il nuovo San Pietro: una fantastica sequenza di bagliori e riflessi accende le volte e le cupole del Tempio di Salomone. Il centro ideologico è l’appassionata richiesta di soccorso divino, nella figura del sacerdote Onias inginocchiato in preghiera di fronte all’altare e ai simboli più sacri del popolo ebraico. La scena risulta concepita come il confronto tra due gruppi contrapposti: a destra l’irrompere miracoloso di tre figure divine che atterrano Eliodoro, il cancelliere del re Seleuco incaricato di confiscare il tesoro del tempio, un ‘barbaro’ michelangiolesco di tracotante potenza fisica; a sinistra l’ingresso sul palcoscenico, tra le vedove e gli orfani, del pontefice in prima persona che assiste all’evento (su una sedia gestatoria sorretta, tra gli altri, da Raffaello e forse Marcantonio Raimondi), sottolineando la perenne attualità della storia biblica. Al centro si spalanca invece un grande, emozionante vuoto: una cesura profonda, solo sfiorata dall’ombra dei due giovani in volo, muscolosi come gli eroi della Sistina, sospesi in un vortice d’aria e di panni.

La Messa di Bolsena (cat. 69 c) propone invece un confronto a tutto campo con la flagrante naturalezza cromatica conseguita dalla moderna pittura veneziana: accanto a Giulio II, che prende esplicitamente posto di fronte al sacerdote tedesco protagonista di questo miracolo avvenuto nel 1263, le guardie svizzere e i celebri ‘sediari’ (addetti al trasporto a spalla del pontefice sulla sedia gestatoria) in primo piano mostrano una serie di ritratti di tale intensità psicologica, calati entro vesti preziose definite da passaggi cromatici talmente vividi e sintetici, da evocare solo i mirabili affreschi realizzati da Tiziano nel 1511 per la Scuola del Santo a Padova. I nomi di Lorenzo Lotto e di Sebastiano del Piombo, che frequentavano da protagonisti l’ambiente romano, non sembrano sufficienti a spiegare la profondità del dialogo instaurato da Raffaello con le ultime modernissime prove di Giorgione e con il ‘classicismo cromatico’ del primo Tiziano: forse l’urbinate dovette avere modo di studiare qualche capolavoro veneto, oggi sconosciuto, portato da Agostino Chigi a Roma di ritorno nel 1511 dal suo viaggio in Laguna.

Questo momento di vero e proprio entusiasmo, da parte di Raffaello, per la nuova pittura fiorita a Venezia, è documentato anche dalla cosiddetta Madonna di Foligno (cat. 63), la pala d’altare realizzata tra il 1511 e il 1512 per la chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli. Il gruppo della Madonna assisa su un soffice trono di nuvole, che nella posa sembra rievocare la Vergine nell’Adorazione dei Magi di Leonardo, col Bambino sgambettante, ripreso da quello del Tondo Doni michelangiolesco, appare come un’umanissima epifania davanti al gigantesco disco solare giallo-arancio che domina l’intera composizione, con un’invenzione cromatica davvero inaudita nella pittura italiana. In terra il ritratto del donatore, Sigismondo de’ Conti, umanista e segretario particolare di Giulio II, è affiancato da una serie di figure sacre che esprimono emotivamente tutta la loro partecipazione all’evento, coinvolgendo con i gesti anche gli osservatori. Il paesaggio sul fondo, acceso da fantastici bagliori (con un arcobaleno e un meteorite o forse una cometa), percorso da minuscole figure che non sono altro che grumi quasi informi di colore, rivela il punto di massima tangenza, in tutta l’opera di Raffaello, con quella nuova visione della natura, sentimentale e coinvolgente, scaturita dalla rivoluzione giorgionesca.

Rientrando nella Stanza di Eliodoro, la Liberazione di san Pietro dal carcere (cat. 69 d) ci pone di fronte ad un improvviso cambio di scena, dominato da una raffinata regia narrativa e dalla ricerca su diverse e mutevoli fonti luminose. L’evento miracoloso, probabilmente allusivo alla liberazione del pontefice (che era stato cardinale di San Pietro in Vincoli) dalla minaccia francese, scoppia nella prigione, dietro alla mirabile grata abbagliata dall’apparizione notturna dell’angelo, per proseguire lungo la scalinata di destra, che conduce san Pietro, scavalcando silenziosamente i corpi addormentati delle guardie, verso lo spazio occupato dall’osservatore: la sequenza narrativa si conclude, infine, a sinistra della finestra, sulla scala che riconduce idealmente lo sguardo verso la prigione (che andrà immaginata, in questo caso, deserta), culminando nelle reazioni emotive dei soldati, bruscamente risvegliati dal sopraggiungere del cambio della guardia. Ma la trovata davvero indimenticabile di questa scena è costituita dal fantastico alternarsi di luci naturali ed artificiali, in una gara di virtuosismo con l’unico vero precedente nella pittura italiana (il Sogno di Costantino di Piero della Francesca ad Arezzo) e con le sottigliezze luministiche della pittura nordica: la luce argentea della luna nel cielo striato di nuvole, la luce soffusa dell’alba che arrossa l’orizzonte, la luce viva della fiaccola impugnata da una guardia, la luce sulfurea irradiata per due volte dal corpo dell’angelo, gli infiniti riflessi di tutte queste luci sulle armature specchianti dei soldati dovevano in origine trovare ancora un altro punto di confronto nel fascio di luce diurna che entrava dalla finestra, una luce filtrata e caricata di ulteriori suggestioni cromatiche dalle vetrate (oggi perdute) approntate da Guillaume de Marcillat per questo ambiente.

L’ultimo affresco della Stanza di Eliodoro, dedicato all’Incontro di san Leone Magno con Attila (cat. 69 e), portato a compimento sotto il nuovo pontefice Leone X, vede Raffaello muoversi ancora in un’altra direzione: la veduta archeologica di Roma, con i suoi più celebri monumenti campeggianti davanti a nuvole alte nel cielo mentre Monte Mario è arrossato dagli incendi, l’insistenza antiquaria sulle armi e sugli abbigliamenti dei barbari, la stessa concezione ‘a fregio’ della scena, ideata come una sequenza di figure che scorrono davanti agli occhi dell’osservatore senza effetti illusionistici, sono tutti elementi che dichiarano un confronto con i rilievi storici antichi, e in particolare con la Colonna Traiana, come sottolineato già da Vasari, che a Roma era ritenuta, insieme all’Arco di Costantino, il vertice di questo genere figurativo. D’altronde è proprio a partire da queste date, intorno al 1514, quando viene conclusa la Stanza di Eliodoro, che il paragone con l’antico, con la Roma archeologica nascosta nelle viscere di quella moderna, diventa per Raffaello sempre più pressante, assecondando le richieste degli ambienti umanistici della città, che da tempo ricercavano un artista-antiquario capace di riportare in vita i fasti sepolti del mondo classico.

Nella Madonna Sistina (cat. 67), dipinta tra il giugno del 1512 e il febbraio del 1513 su commissione di Giulio II per la chiesa di San Sisto a Piacenza, il coinvolgimento dell’osservatore non è più basato sulla forza emotiva del colore, come nella Madonna di Foligno, ma su una composizione teatrale, quasi una sacra rappresentazione, messa per sempre in scena davanti agli occhi dei fedeli. I due tendaggi verdi si sono spalancati di colpo sul palcoscenico ultraterreno, scorrendo lungo un’asta di ferro che si piega prosaicamente sotto il peso degli anelli e del tessuto: si tratta di un’invenzione che trova vari precedenti, sia a Firenze (la Madonna con il Bambino in gloria e i santi Maria Maddalena e Bernardo di Botticini), sia nella pittura nordica, come dimostra l’Adorazione dei pastori di Hugo van der Goes, dove sono due profeti a scostare il verde sipario e a rivelare così al pubblico, come in un teatro, la scena sacra. La Madonna col Bambino incede con passo deciso sulle candide nuvole, avanzando verso lo spettatore, mentre san Sisto, posata la tiara sul proscenio, fissa lo sguardo su questa apparizione divina di carnale naturalezza e indica con la mano destra il pubblico privilegiato, i monaci benedettini della chiesa piacentina seduti negli stalli del coro che, pur invisibili, diventano protagonisti attivi della scena. Santa Barbara distoglie invece lo sguardo dalla Madonna per cercare con gli occhi i due angioletti che, quasi annoiati di recitare ancora una volta la solita parte, appoggiano i gomiti sul parapetto ligneo in primissimo piano, attendendo la conclusione dello spettacolo. Non si era mai vista prima, nell’intera storia della pittura sacra, una pala d’altare così accogliente, disponibile e umana, così capace di catturare i sentimenti più semplici e profondi del fedele.

Intorno al 1514, con l’Estasi di santa Cecilia (cat. 74) per la chiesa bolognese di San Giovanni in Monte, Raffaello compie un ulteriore scarto nel genere della pala d’altare, aprendo una nuova strada, fondamentale non solo per il Cinquecento emiliano più classicista, ma, a causa dell’espressione estatica della santa, per l’intera pittura devozionale barocca. L’immagine appare tutta giocata sul contrasto che si crea tra la figura di santa Cecilia, immersa nell’ascolto delle mistiche note musicali provenienti dal coro angelico che, in un fulgore di luce divina, ha squarciato l’azzurro del cielo, e gli altri comprimari, pienamente terrestri nei gesti e nelle espressioni: san Paolo, immerso in una profonda meditazione, la Maddalena, con gli occhi appuntati sui fedeli, i santi Giovanni Evangelista ed Agostino, impegnati sul fondo in un muto dialogo di sguardi. Ma il dettaglio più innovativo dell’opera, aggiunto solo in un secondo momento (e riferito da Vasari alla mano di Giovanni da Udine), dove si nasconde una radice di un genere – la natura morta – che ancora non esisteva nell’arte italiana, è costituito dagli strumenti musicali gettati in primissimo piano: strumenti abbandonati ‘in posa’, per alludere al superamento della musica umana da parte dell’armonia divina (il legno della viola sta marcendo, le corde sono saltate, perfino l’organetto tra le mani della santa ha la tastiera sfondata, mentre le canne si stanno sfilando davanti ai nostri occhi), dove Raffaello ancora una volta sorprende, per una capacità di presa diretta sul reale che, solitamente, non gli è riconosciuta.

Nel frattempo, con la Madonna della seggiola (cat. 73), l’artista aveva toccato il punto d’arrivo di quelle ricerche, avviate negli anni fiorentini, che ambivano a coniugare la massima naturalezza sentimentale con la massima ricercatezza compositiva. L’enorme successo popolare di questo dipinto, di cui ignoriamo il committente (probabilmente un alto esponente della corte pontificia romana), si spiega tenendo presente la struggente dolcezza dei gesti e delle espressioni e, allo stesso tempo, il raffinatissimo incastro delle forme, che obbediscono mirabilmente alla disciplina imposta dalla forma del tondo: rielaborando un modello scultoreo michelangiolesco (il Tondo Pitti del Bargello), Raffaello riesce a suggerire all’osservatore le capacità di profetica preveggenza della Vergine, impegnata a serrare il figlio in un abbraccio protettivo, e al tempo stesso a rievocare il gesto senza tempo di ogni madre che culla dolcemente la propria creatura.

Siamo nel momento in cui, con la Velata (cat. 70), si giunge ad un punto estremo di quella libertà di impasto cromatico già sperimentata nella Madonna di Foligno e nella Messa di Bolsena, da intendersi come una risposta alle sollecitazioni che potevano venire dal giorgionismo di Venezia e di terraferma: la sensazionale manica di damasco che in primo piano quasi buca la superficie della pittura, concepita in superbo contrasto con la calma del velo, dello sfondo e dell’espressione idealizzata del volto, è costruita mediante un colore che crepita, vibra e si agita sotto i nostri occhi, in un impasto pittorico palpitante dove la passione del sentimento sembra, per una volta, prescindere da qualsiasi argine intellettuale. Si tratta di una soluzione già sperimentata qualche anno prima in un altro sensazionale ritratto di un giovane dandy, già a Cracovia e disperso dopo la Seconda guerra mondiale, che riusciamo ancora almeno in parte ad apprezzare grazie ad antiche fotografie in bianco e nero e a colori. D’altra parte è possibile che nella Velata il pittore abbia voluto immortalare la propria amante, Margherita Luti, la cosiddetta Fornarina, e che quindi il dipinto possa essere interpretato, almeno in parte, come un ‘pegno d’amore’ (mentre il dipinto di Palazzo Barberini, raffigurante qualche anno più tardi forse la medesima fanciulla, pur essendo firmato sul bracciale e raffigurandola in una sensuale seminudità, risulta tanto più algido e meccanico di quello fiorentino, da imporre, per l’esecuzione, la presenza accanto al maestro di Giulio Romano).

A partire dall’estate del 1514, quando Raffaello, scomparso Bramante, fu investito della responsabilità della Fabbrica di San Pietro, «un gran peso» cominciò a gravare sopra le sue spalle, per citare le parole messe in bocca all’artista dal Castiglione: è da queste date che il ricorso alla bottega, per la realizzazione delle proprie opere pittoriche, comincia a diventare sempre più estensivo. D’altronde Raffaello fu capace di circondarsi di collaboratori di prim’ordine, caratterizzati da diverse specializzazioni e competenze, in grado di far fronte, sempre sotto il controllo attento e armonizzante del maestro, agli impegni più vari. Ad esempio nella cappella funeraria di Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, la cui complessa decorazione fu concepita e in parte realizzata sotto la supervisione di Raffaello tra il 1513 circa e il 1516, il maestro si limitò a fornire i cartoni per i mosaici della cupola, realizzati da uno specialista veneziano, Luigi de Pace, e alcune idee grafiche per le sculture del fiorentino Lorenzetto, per la pala d’altare e per le tombe dei committenti: ma nuovissima risulta l’idea d’insieme di questa cappella-mausoleo, dove, quasi come in una prefigurazione dell’‘opera d’arte totale’ barocca, le diverse tecniche artistiche (pittura, scultura e architettura) risultano coordinate per un grandioso effetto unitario, facendo dialogare illusionisticamente entro lo spazio sacro, quasi che si trattasse di un palcoscenico, le figure dipinte sulla pala d’altare, quelle scolpite nelle nicchie e quelle musive che si affacciano dagli scomparti della volta.

Nel 1514 Raffaello avviò la decorazione della terza stanza del nuovo appartamento pontificio, detta dell’Incendio di Borgo, l’ambiente che sotto Giulio II aveva accolto il tribunale della Segnatura Gratiae et Iustitiae: negli anni di Leone X aveva cambiato funzione, diventando la sala da pranzo privata del papa, con una serie di temi dal trasparente significato politico (non a caso ruotanti tutti intorno a papi dal nome Leone). Il primo affresco realizzato, raffigurante per l’appunto l’Incendio di Borgo (cat. 78 a), inaugura un nuovo ‘stile tragico’ di altissima enfasi drammatica, che rende ancora più sorprendente la scelta di conservare la volta dipinta dal Perugino nell’autunno del 1508, con temi connessi alla funzione originaria dell’ambiente. La scena, ambientata nel quartiere della Roma medievale che circondava l’antica basilica di San Pietro, dove era scoppiato un incendio miracolosamente sedato da papa Leone IV, offre lo spunto per distendere una composizione che pare sconvolta dal soffio ardente che emana dalle fiamme, investendo a folate i panneggi e terrorizzando la folla. Le figure che fuggono a sinistra rievocano l’episodio virgiliano di Enea impegnato a portare Anchise e Ascanio fuori da Troia in fiamme, alludendo così al tema della rifondazione di Roma, caro al nuovo papa che intendeva proporsi come artefice di una nuova politica di pace e prosperità. Al tempo stesso i nudi eroici cercano un rinnovato confronto con le figure michelangiolesche: ma, se nel Profeta Isaia (cat. 71) affrescato su un pilastro della chiesa di Sant’Agostino Raffaello era quasi sembrato, per un attimo, schiacciato dal paragone con le titaniche figure dell’artista fiorentino, ora il confronto risulta riproposto senza alcuna soggezione psicologica, assimilando anche i tratti più ostici di quel tormentato linguaggio formale all’interno di una lingua figurativa composita e stratificata, che parla alla mente e al cuore dell’osservatore con la forza di un’emozionata oratoria.

Nella Battaglia di Ostia (cat. 78 b), l’affresco concepito da Raffaello intorno al 1515, ma realizzato per ultimo nella Stanza dell’Incendio di Borgo, dopo che le altre due pareti, dedicate a temi dichiaratamente politici (l’Incoronazione di Carlo Magno e il Giuramento di Leone III; cat. 78 c e d), erano state affidate dal punto di vista esecutivo quasi totalmente alla bottega, emerge tutta la forza normativa dei modelli antichi: l’intrecciarsi in primo piano dei corpi dei soldati e dei prigionieri, disposti come nel fregio di un sarcofago classico o di un rilievo storico, insieme all’esibizione di cultura antiquaria nella forma delle navi che si affrontano sullo sfondo dove campeggia la rocca ostiense, dimostrano fino a che grado Raffaello, negli ultimi anni di vita, avesse inteso approfondire le proprie competenze antiquarie, mediante uno studio sistematico, e al tempo stesso appassionato, dei resti monumentali di Roma antica. Sono questi gli anni in cui una serie di splendide incisioni di Marcantonio Raimondi – lo specialista scelto da Raffaello all’indomani del suo approdo a Roma per moltiplicare e divulgare tramite la stampa le proprie modernissime invenzioni – si arricchiscono di un’erudizione archeologica tale da presupporre un pubblico di letterati ed intellettuali, dando corpo al sogno umanistico della rinascita del mondo classico.

La commissione verso la fine del 1514 da parte di Leone X di una serie di cartoni per un ciclo di arazzi, da realizzarsi a Bruxelles nella manifattura di Pieter van Aelst e destinato a decorare la fascia inferiore delle pareti della Cappella Sistina, dovette offrire a Raffaello l’occasione per fare definitivamente i conti con i tonanti affreschi della volta, che Michelangelo aveva licenziato solo due anni prima: nei sette cartoni sopravvissuti, dipinti dal maestro almeno in parte in prima persona entro il 1516, e anche nella traduzione realizzata negli anni seguenti dalla più prestigiosa bottega di arazzieri fiamminghi, si coglie l’intenzione di mettere a punto un nuovo linguaggio figurativo, grandioso ma privo di retorica, coltissimo ma senza alcuno sfoggio di intellettualismi. Non a caso Roberto Longhi, il maggiore storico dell’arte italiana del secolo passato, aveva definito, negli Ampliamenti all’Officina ferrarese (1940), questo ciclo ispirato agli Atti degli Apostoli, con un’affermazione che ancora fatica ad essere compresa, «il più grande discorso che sia stato fatto in pittura nostra, l’oratoria rivolata a poesia». Nella Pesca miracolosa di san Pietro (cat. 79 a), ad esempio, l’energia fisica delle atletiche figure dei pescatori, posta a confronto con la calma impassibile di Cristo, entra in competizione con le esibizioni anatomiche michelangiolesche: ma l’evento è ambientato in un paese pacificato, dove l’acqua specchiante del lago e l’azzurro trasparente del cielo accolgono armonicamente i nuovi interessi naturalistici (i tre aironi sulla riva in primissimo piano, i pesci guizzanti nelle barche) che avevano trovato ospitalità, nella bottega di Raffaello, anche grazie alla presenza di uno specialista come Giovanni da Udine.

Il rapporto di Raffaello con il mondo degli umanisti e dei letterati che gravitava intorno alla corte papale trova un’emblematica espressione nel Ritratto di Baldassare Castiglione (cat. 76), l’ambasciatore di Urbino, il raffinato poeta, il geniale creatore del Cortegiano: Raffaello lo ha mostrato come un uomo sereno e affabile, avvolto in eleganti e morbidi abiti invernali, senza alcuna ostentazione, quasi che la sua humanitas non dovesse risultare disturbata da emblemi esteriori. Lo sguardo trasparente dello scrittore si fissa negli occhi del pittore: un dialogo sembra essersi interrotto proprio in quel momento, come se i due intellettuali ed amici avessero sospeso, per un attimo, le loro riflessioni. Siamo in un momento in cui l’artista sembra voler rimarcare i suoi legami di amicizia e di interessi con alcuni grandi scrittori presenti a Roma, da Antonio Tebaldeo, effigiato in un ritratto purtroppo disperso che Pietro Bembo giudicava superiore a quello del Castiglione (solo una vecchia fotografia in bianco e nero ce ne trasmette un’eco), ad Andrea Navagero e Agostino Beazzano, effigiati insieme nel doppio ritratto realizzato con ogni probabilità insieme a Giulio Romano in collezione Doria Pamphilj.

Era proprio il Castiglione, in una lettera scritta a Isabella d’Este il 16 giugno 1519, ad annunciare la conclusione della decorazione di una Loggia nei Palazzi Vaticani (cat. 92) «dipinta e lavorata de stucchi, alla anticha, opra di Raphaello, bella al possibile e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de’ moderni». In realtà Raffaello quasi non aveva messo mano alla fase esecutiva di questo progetto, avviato probabilmente tra il 1516 e il 1517, limitandosi ad elaborare un sistema decorativo nuovissimo, sperimentato nell’appartamento vaticano del cardinal Bibbiena, di tale fedeltà archeologica da sbalordire gli ambienti umanistici romani: al di là delle scene bibliche policrome nelle volte e di quelle, monocrome, che in origine decoravano lo zoccolo, concepite come un racconto piano e popolare della storia sacra (a cui verrà dato il nome di ‘Bibbia di Raffaello’), sono soprattutto gli stucchi bianchi all’antica realizzati da Giovanni da Udine che, per la capacità di svelare finalmente un segreto tecnico e per la felicità nella rievocazione di infinite iconografie pagane, dovettero convincere i contemporanei che Raffaello aveva finalmente saputo colmare il baratro che separava i moderni dagli antichi. Nella Loggia di Raffaello le esibizioni antiquarie negli stucchi e nelle grottesche convivono con nuovi interessi naturalistici, evidenti nei bellissimi festoni di frutta e verdura e nella ricca zoologia profusa a piene mani da Giovanni da Udine, che evidentemente portava a Roma esperienze maturate nella pittura dell’Italia settentrionale.

In questi ultimi anni, d’altra parte, Raffaello si era anche imbarcato nella sua opera antiquaria più ambiziosa e più rimpianta dagli umanisti dopo la sua morte: la ricostruzione grafica, in pianta, alzato e sezione, dei principali monumenti delle quattordici regioni dell’antica Roma. Un progetto grandioso, basato sullo scrutinio delle fonti letterarie classiche, su sistematici rilevamenti topografici e anche su vere e proprie indagini archeologiche condotte ad hoc, che purtroppo conosciamo solo attraverso fonti indirette: una serie di disegni della cerchia raffaellesca rivelano, almeno in parte, come l’artista fosse riuscito a far rinascere, davanti agli occhi ammirati di tutti gli appassionati dell’antico, la grandiosità spaziale e lo splendore decorativo dell’architettura romana.

Un momento di rinnovamento del linguaggio raffaellesco, in questi suoi ultimi anni di vita, si coglie anche nel genere dei ritratti: nell’effige di Leone X affiancato da due cardinali, Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (aggiunti in un secondo momento; cat. 99), il modello messo a punto per il Giulio II viene profondamente trasformato, puntando l’attenzione sulla figura di questo pontefice mediceo, impegnato, mediante una lente d’ingrandimento, nell’esame di un raffinato manoscritto miniato, come se si trattasse di un intellettuale appassionato di bellezze artistiche e, al tempo stesso, di un illuminato promotore delle arti. Nell’Autoritratto con un amico (cat. 108) si coglie invece l’esigenza di coinvolgere in modo sempre più efficace, nel muto dialogo di gesti e di sguardi che lega le due figure dipinte (il maestro precocemente invecchiato e un giovane compagno, forse proprio l’allievo prediletto Giulio Romano), anche lo spettatore, che viene chiamato a partecipare attivamente alla scena dal gesto della mano della figura in primissimo piano con la spada, che buca illusionisticamente la superficie dipinta.

Il punto d’arrivo dello ‘stile tragico’ di Raffaello, inaugurato dall’Incendio di Borgo e messo alla prova rielaborando un’incisione di Dürer nello Spasimo di Sicilia (cat. 81; il grande dipinto inviato a Palermo che diventerà fondamentale per gli sviluppi della pittura cinquecentesca in Italia meridionale), compare nella Trasfigurazione (cat. 109), commissionata nell’inverno del 1516-1517 dal cardinale Giulio de’ Medici come dono per la cattedrale di Narbonne (in competizione con la Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo), ma trattenuta a Roma, dopo la morte dell’artista, e collocata sull’altar maggiore di San Pietro in Montorio, come una specie di suo testamento: un dipinto quasi integralmente autografo, dove l’erede Giulio Romano parrebbe essere intervenuto solo per completare alcune figure della zona inferiore destra, rimaste probabilmente incompiute per la morte improvvisa del maestro (in particolare, la mano ‘caricata’ di Giulio risulta evidente nel volto stupefatto della figura maschile che sostiene il ragazzino ossesso). La Trasfigurazione, basata su due diversi episodi evangelici (il momento in cui Gesù si trasfigura nella luce sul monte Tabor e quello che vede gli apostoli non riuscire a guarire un indemoniato) collegati nell’Apochalypsis nova attribuita al beato Amadeo de Menes Silva, è un’opera che riassume un percorso figurativo incredibilmente ampio (anche se concentrato tutto entro i primi due decenni del Cinquecento), aprendo profeticamente, al tempo stesso, su ricerche che verranno portate a compimento solo un secolo più tardi. L’assordante esplodere dei sentimenti, espresso dai bagliori della luce che, emanando dal Cristo, deflagra nella zona superiore, acceca gli apostoli e trafigge i profeti, costituisce infatti un precedente fondamentale per la ricerca di Rubens, durante il suo soggiorno italiano, di uno stile fondato sull’antico e sui maestri del primo Cinquecento, ma al tempo stesso profondamente emotivo, in una direzione esplicitamente protobarocca. Al contrario, nelle figure degli apostoli immersi nell’oscurità che si addensa alle pendici del monte Tabor, evidenziati da improvvisi fendenti di luce che trasformano il chiaroscuro leonardesco in scultorea plasticità, nei volti studiati dal vero in alcuni mirabili disegni dove l’ombra e i lumi definiscono crudelmente l’epidermide, potrebbe celarsi una radice della rivoluzione naturalistica operata da Caravaggio, dapprima nel corso delle giovanili esplorazioni lombarde, perlustrando quindi affannosamente le strade romanzesche di Roma.

BIBLIOGRAFIA

Di fronte ad una bibliografia immensa e in continua espansione, si fornisce di seguito solo una traccia, limitata ai titoli più recenti da cui sia possibile ricavare, almeno a grandi linee, la vicenda pregressa; in particolare, per gli studi che precedono il 2004, si farà riferimento alla Bibliografia ragionata contenuta in V. Farinella, Raffaello, Milano 2004, pp. 111-125, e alla Bibliografia presente in Raffaello. Da Urbino a Roma, a cura di H. Chapman, T. Henry e C. Plazzotta, catalogo della mostra (Londra 2004-2005), Milano 2004 (ed. orig. London 2004), pp. 307-315.

Per il profilo biografico di Raffaello, dove si è cercato di concentrarsi sulle notizie presenti nei documenti e nelle fonti cinquecentesche, fondamentale risulta il ricorso a J. Shearman, Raphael in early modern sources (1483-1602), I-II, New Haven-London 2003 (con ampia bibliografia alle pp. 1537-1635); per il catalogo delle opere uno strumento aggiornato (anche se non sempre condivisibile dal punto di vista attributivo) è offerto da J. Meyer zur Capellen, Raphael. A critical catalogue of his paintings, I, The beginnings in Umbria and Florence, ca. 1500-1508, Landshut 2001; II, The Roman religious paintings, ca. 1508-1520, Landshut 2005; III, The Roman portraits, ca. 1508-1520, Landshut 2008; il IV, ed ultimo volume, dedicato agli affreschi e agli arazzi, è annunciato come di imminente pubblicazione.

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