BALAAM

Enciclopedia Italiana (1930)

BALAAM (ebraico Bil‛am; i Settanta βααλάμ, Giuseppe Flavio Βάλαμος)

Giuseppe Ricciotti

Figlio di Beor, è il protagonista di un caratteristico episodio avvenuto durante gli ultimi tempi della dimora degli Israeliti nel deserto, allorché, risalendo lungo le rive orientali del Mar Morto e del Giordano, si accingevano ad entrare in Palestina. La parte principale dell'episodio è contenuta nella lunga narrazione del libro dei Numeri, XXII-XXIV, la quale anche letterariamente ha un'importanza particolare per i carmi ivi conservati; un altro elemento invece della storia di B. e la notizia della sua morte sono conservati in Numeri, XXXI, 16 e 8. Secondariamente B. è ricordato in Deuteronomio, XXIII, 4-5 (Neemia, XIII, 2); Giosuè, XIII, 22; XXIV, 9-10; Michea, VI, 5: e per il Nuovo Testamento in II Pietro, II, 15; Giuda, vers. 11; Apocalisse, II, 14.

Allorché gl'Israeliti, dopo aver vinto i due re amorrei Sehon e Og e conquistati i loro regni, si accamparono sulle pianure di Moab, il re di questa regione, Balac figlio di Sefor, temette di far la stessa fine dei due re precedenti: prevedendo d'altronde che con le armi non avrebbe potuto resistere alla prevalenza degl'Israeliti, pensò ricorrere al mezzo più efficace e sicuro della magia. Egli quindi spedì dei messi a "Balaam figlio di Beor, a Pethor che sta sul Fiume, nel paese della gente del suo popolo, per chiamarlo e dirgli: Ecco, è uscito dall'Egitto un popolo che ricopre la faccia del paese e si è stabilito presso di me; ora dunque vieni e maledicimi questo popolo, perché è troppo potente per me: forse così riusciremo a sconfiggerlo, e lo scaccerò dal paese; giacché io so che colui che tu benedici è benedetto, e colui che maledici è maledetto" (Numeri, XXII, 5-6). La città di residenza di B., cioè Pethor, sembra corrispondere al Pitru dei monumenti assiri (Salmanassar II) e al Pedru degli egiziani (Thuthmes III), che stava sulla riva destra dell'Eufrate, chiamato qui come altre volte nella Bibbia "il Fiume" per eccellenza; questa ubicazione di Pethor è confermata da Deuteronomio, XXIII, 5: Pethor in "Aram dei due Fiumi" (= in Mesopotamia). Dunque B. era di stirpe aramaica (cfr. Num., XXIII, 7: da Aram). Se poi si nota che il re Balac, per chiamare B., invia i messi "nel paese della gente del suo popolo" (cioè dei suoi connazionali), si potrà concludere che anche Balac era un arameo, e che a ragione della connazionalità gli era nota la valentia magica del lontano B. (Tuttavia alcuni manoscritti ebraici ed antiche versioni, invece di ‛ȧmmô [\ebraico\] "suo popolo", leggono il nome proprio 'Ammôn [\ebraico\], che era un popolo assai più vicino a quello di Moab)

In Giosuè, XIII, 22 Balaam è poi chiamato con l'epiteto di qôsem, che nella Bibbia è usato sempre in senso cattivo, e applicato agl'incantatori, maghi, indovini, ecc. di popoli non israeliti.

Questa prima ambasceria rimase inefficace, giacché Balaam, prima di mettersi in viaggio per andare a maledire gl'Israeliti, volle consultare nottetempo Jahvè, il quale gli diede risposta, ma gli proibì di partire. Tornati addietro i primi messi, Balac ne mandò altri più numerosi, insistendo nell'invito con più ampie promesse. B. anche questa volta consulta Jahvè, ch'egli chiama "mio Dio" (Num., XXII, 18), e questi gli concede il permesso di partire purché sia pronto a fare ciò che gli sarà da lui comandato: perciò la mattina seguente B. si mette in cammino. Tuttavia, mentre è in istrada, ecco che contro lui "divampò l'ira di Dio perché era in cammino, e l'angelo di Jahvè si parò sulla strada per fargli ostacolo" (XXII, 22). Non è facile spiegare il motivo di questo sdegno divino, dopo il permesso conceduto: o si suppone che B. andasse con l'intenzione segreta di accontentare a qualunque costo Balac, violando la condizione impostagli da Dio; ovvero che questo punto della narrazione segni l'attacco di due documenti utilizzati, da uno dei quali sia caduto un frammento contenente il motivo dell'ira divina, o che per altre ragioni non mostrino la desiderata connessione logica. (La II Pietro, II, 15-16, che accusa B. specialmente di venalità, sembra mettere in relazione con questa l'ostacolo dell'angelo con le sue conseguenze). Veduto l'angelo, l'asina su cui B. conforme all'uso orientale cavalcava, si spaventò e deviò per i campi; Balaam, a cui non era ancora concesso di scorgere l'angelo, cominciò a picchiarla: ma invano, perché ovunque la bestia si volgesse, le si parava davanti l'angelo. Insistendo B. a picchiare, "Jahvè aprì la bocca all'asina" la quale parlò lamentandosi del modo in cui era trattata, nel racconto, B. non appare affatto meravigliato dell'improvvisa favella della giumenta, e le risponde giustificandosi. Solo dopo altre istanze da parte di ambedue gl'interlocutori "Jahvè aprì gli occhi a Balaam", che poté scorgere l'angelo. Questi scagiona l'asina: B. si dichiara pronto a tornare addietro, ma l'angelo gli permette di proseguire, purché dica soltanto ciò ch'egli gli suggerirà. Giunto B. presso il re di Moab, fu condotto sull'altura di Bamoth-Baal (v. baal), donde poté scorgere l'accampamento degl'Israeliti; ivi B. fece costruire sette altari, e sopra ciascuno immolò un giovenco e un montone; di lì a poco, entrato in relazione con Dio, pronunciò davanti al re il suo primo vaticinio, che però invece di essere di maledizione fu tutto un'esaltazione della potenza della nazione accampata là sotto. Allora "Balac disse a Balaam: Che mi hai fatto? Ti ho preso per maledire i miei nemici, ed ecco che li hai benedetti! - Questi rispose e disse: Non debbo io badare a proferire sol ciò che Jahvè mi mette in bocca?" (Num., XXIII, 11-12). Condotto B. successivamente sopra altre due alture e premessi gli stessi sacrifici, pronunciò altri due vaticinî, che furono egualmente di esaltazione e benedizione per il popolo d'Israele. Dopo la terza volta il re, disperando del buon successo, anzi temendo nuove benedizioni ai suoi nemici, comanda a B. di partirsene in fretta; ma questi, giustificandosi ancora una volta di avere semplicemente ripetuto ciò che Jahvè gli suggeriva, aggiunge spontaneamente un quarto vaticinio per predire ciò che quel popolo da maledirsi farebbe un giorno al popolo di Moab e a quelli di Edom, Amalec e Qeni (Cineo). Finiti i vaticinî, la lunga narrazione termina dicendo solo che B. partì e ritornò alle parti sue (XXIV, 25).

Da Num., XXXI, 8, apprendiamo poi che B. (la cui identità col B. della precedente narrazione è garantita sia dalla paternità del personaggio, sia dal confronto con gli altri passi biblici citati a principio) fu ucciso insieme con cinque re di Madian dagl'Israeliti in una guerra religiosa bandita da Mosè contro i Madianiti: inoltre da XXXI, 16 raccogliamo che era stato appunto B. che aveva consigliato alle donne madianite di allettare a pratiche licenziose gl'Israeliti, per corromperli, mentre la guerra religiosa era stata bandita per vendicare lo scandalo che ne era seguito. Poiché questo scandalo è narrato in Num., XXV, 1 segg., cioè immediatamente dopo i vaticinî di B., si è pensato che B., viaggiando alla volta del suo paese, si sia fermato fra i Madianiti ed abbia dato allora il suo consiglio: il suo animo, infatti, doveva essere in fondo sempre avverso agl'Israeliti, nonostante i vaticinî forzatamente favorevoli; e d'altra parte egli era certamente amico dei Madianiti, giacché sappiamo che la prima ambasceria inviatagli dal re di Moab era formata da "gli anziani di Moab e gli anziani di Madian" (XXII, 7). Bisogna tuttavia riconoscere che questa ipotesi, della fermata di B. fra i Madianiti nel suo viaggio di ritorno, non appare suffragata dal testo, anzi sembra opporsi alla già vista con. clusione del racconto dei vaticinî, secondo cui B. partì e ritornò alle parti sue.

D'altra parte l'ipotesi, affacciata da altri, di due tradizioni del tutto opposte sullo stesso personaggio (B. indovino arameo - B. corruttore madianita) sembra anche meno giustificata, e s'incontra con molte difficoltà del testo. Sembrerebbe quindi più legittimo limitarsi a supporre due tradizioni su due punti particolari della storia dello stesso personaggio (vaticinî di B. - morte di B.), il cui collegamento non è schiarito dai documenti. Per moltì critici moderni anche la narrazione dei vaticinî proverrebbe dalla fusione, in parte ancora riconoscibile, di due documenti, quello Jahvista (parti principali: XXII, 22-34; XXIV; con altre minori) e quello Elohista (XXII, 35-41; XXIII; e minori), con varie aggiunte e ritocchi posteriori. Invece la breve notizia della morte di B. apparterrebbe allo strato più recente del cosiddetto Codice sacerdotale.

I quattro vaticinî di B., di struttura ritmica, sono documenti letterarî ebraici di prim'ordine, sia per il loro carattere arcaico, sia per la loro provenienza popolare; pur contenendo non pochi elementi comuni, i primi due appaiono più fini e ricercati, gli altri più robusti e spontanei. Nel quarto vaticinio è contenuto il celebre passo: "Una stella procede da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele...." (XXIV, 17), in cui stella e scettro sono certamente simboli di un re vittorioso che doveva sorgere in mezzo al popolo israelitico. Non solo i Padri cristiani hanno concordemente riferito questo passo allo spirituale re per eccellenza, cioè al messia Gesù Cristo (per la stella cfr. anche Matteo, II, 2); ma anche la tradizione giudaica lo ha applicato al futuro messia. Questa tradizione, testimoniata dal Targūm e da rabbini posteriori, è attestata anche dal nome dell'ultimo condottiero giudaico, che sotto Adriano insorse per l'indipendenza della sua nazione, e che per fare applicare a sé stesso la profezia, si fece chiamare Bar Kokheba ("Figlio della Stella"); egli anzi fu considerato messia non solo dalle sue numerose schiere raccolte fra il popolo minuto, ma anche da colti dottori della legge e tradizione ebraica, fra cui il grandissimo Rabbi Aqiba. Tutto l'episodio di B., compreso il tratto dell'asina che parla, fu in genere considerato strettamente storico sia dagli scrittori cristiani (cfr. già II Pietro, II, 16) sia dalla tradizione rabbinica.

Bibl.: Oltre ai varî commenti sul libro dei Numeri, V. Hengstenberg, Die Geschichte Bileams und seine Weissagungen, Berlino 1842; J. A. Bewer, The Literary Problems of the Balaam Story, in American Journal of Theology, 1905, pp. 238-262; E. F. Sutcliffe, De unitate litteraria Num. XXII, in Biblica, 1926, pp. 3-39; quest'ultimo è decisamente avverso alla pluralità di fonti.

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