BANCHETTO

Enciclopedia Italiana (1930)

BANCHETTO (fr. festin, banquet; sp. banquete; ted. Bankett; ingl. banquet)

Ugo Enrico PAOLI
Francesco COGNASSO

L'antichità classica. - Col nome di banchetto o convito, s'intende, se ci si riferisce all'antichità classica, la forma più complessa e ricca del pasto comune; esso occupava una non piccola parte della giornata; non era esclusivamente sede di baldoria, ma modo usuale di convegno e di ricevimento, periodo di riposo dopo le faccende della giornata, occasione d'informarsi, di conversare, di discutere.

Nell'età omerica il pasto principale è posto a metà della giornata; la colazione della mattina (ἄριστον) e lo spuntino serale (δόρπον) si consumano senz'alcun apparato, fornendosi dalla dispensiera (ταμίη) di quel poco che è necessario a una breve refezione. Il pasto principale, se ha un carattere più modesto (δεῖπνον), è apprestato dalle ancelle (Od., XV, 93-4); quando invece s'intende che abbia maggior consistenza e apparato (δαΐς), è servito da schiavi, talvolta da araldi. I commensali sono riuniti nella stanza principale del palazzo (μέγαρον), nella quale abitualmente stanno gli uomini, e i preparativi si fanno o nel μέγαρον stesso o nella corte (αὐλή) che vi dà accesso, e dove gli animali sono uccisi e cotti. Gli animali che servono da cibo sono buoi, pecore, capre e porci. Il pollame non appare ancora conosciuto. Modo usuale di cottura è l'arrosto (un'allusione al lesso si ha in un'immagine dell'Il., 362-364). Prima dell'imzio del banchetto gl'intervenuti si lavano le mani con l'acqua versata da ancelle o da araldi; un'abluzione simile avveniva alla fine del banchetto; tale abluzione non era suggerita soltanto da evidenti ragioni di pulizia personale, ma anche da quel carattere sacrale che ebbe il banchetto primitivo e di cui si conservarono tracce in tutta l'antichità. L'ospite che giunge di lontano, prima di essere introdotto nella sala del banchetto è condotto a fare il bagno (Od., IV, 38-40, VIII, 424 segg. e passim).

I commensali stavano seduti davanti a una piccola tavola (v. fig. 1; e cfr. Od., XXII, 19-21, 74) sulla quale venivano deposti i cibi e le coppe. Talvolta, invece, si facevano sedere i commensali davanti a un'unica tavola, naturalmente più grande (Il., IX, 216); ma anche in questo caso ciascuno aveva innanzi a sé porzioni separate. Non appartiene all'età omerica l'uso di cenare sdraiati, né d'incoronarsi durante il banchetto. Sulla piccola tavola individuale o sulla grande tavola in comune i servi, o gli araldi, o l'ospite stesso distribuivano a ciascuno dei commensali il pane, entro un cestino (κάνεον), e, su piatti (πίνακες), le carni già prima preparate dallo scalco (δαιτρός). Le donne non partecipavano al convito, ma v'intervenivano a farvi gli onori di casa, purché fosse presente il marito, come fa Elena a Sparta nella reggia di Menelao (Od., IV, 216 segg.) ed Arete, moglie di Alcinoo, nell'isola dei Feaci (Od., VII, 136-141; 231); al contrario Penelope, nell'assenza del marito compare solo raramente, accompagnata da ancelle e con i veli abbassati sul volto (Od., XVI, 413-416) sulla soglia del μέγαρον, dove i Proci stanno banchettando.

Oltre al convito, che risponde al desiderio di riunirsi con i familiari e alle esigenze dell'ospitalità, troviamo menzionati in Omero: 1. il banchetto solenne che segue il sacrificio (Il., I, 458-474); 2. il banchetto nuziale celebrato fastosamente, con larghi inviti, canti, suoni (lira o flauto) e spettacoli di giuochi d'acrobazia; 3. il banchetto funebre (Il., XXIII, 29; XXIV, 802), prima o dopo la cremazione del cadavere, che può esser seguito da una gara agonistica; 4. il banchetto fra ἑταῖροι, cioè fra uomini appartenenti a uno stesso sodalizio (ἑταιρία) e uniti, in pace e in guerra, da vincoli di solidarietà. Questa forma d'organizzazione, che in Omero appare propria della nobiltà, imponeva periodici banchetti nei quali gli intervenuti conducevano i figli maschi. L'essere esclusi o tollerati in tali riunioni significava non essere trattati da pari a pari dalla nobiltà del luogo (Il., XXII, 492; Od., XI, 185-187).

Nell'età storica i costumi conviviali greci appaiono profondamente cambiati. Ci mancano gli elementi per una compiuta ricostruzione di tali usi che permetta di tener conto, per ciò che concerne il banchetto, della diversità di tempo, di luogo e di stirpi. Per giunta nell'età romana il banchetto romano e il greco si andarono uniformando, per cui le copiose informazioni che in questo periodo gli scrittori greci, e particolarmente Plutarco, ci forniscono sull'argomento, non possono servire a stabilire con sicurezza differenze fra il convito greco e il romano. Esporremo in breve quanto, attraverso le lacune delle fonti, ci è dato di poter considerare certo.

I Greci dell'età classica pranzano stando sdraiati; i commensali di uno stesso letto talvolta si volgono le spalle, altre volte son posti l'uno di seguito all'altro. Le suonatrici stanno o in piedi (fig. 4), o sui letti degli uomini ora sdraiate, ora sedute (fig. 5). Si mangia, al solito, con le dita; raro il coltello, men raro il cucchiaio (μύστρον, μυστίλη). Va notato come greco l'uso di pulirsi le mani, invece che con salviette, con pallottole di mollica di pane (ἀπομαγδαλίαι), che si gettavano ai cani (fig. 8). Che alcuni per non scottarsi le dita si ponessero i guanti (δακτυλῆϑραι) è affermazione dovuta all'erroneo sistema di dar come usanza di tutto un popolo la stravaganza di un singolo (Ateneo, I, 10, p. 6 d).

Il pasto maggiore (δεῖπνον) si fa la sera: semplici refezioni son quelle della mattina (ἀκράτισμα) e del mezzogiorno. Biasimevole raffinatezza è considerato il far due pasti forti nella giornata. Il tenore della vita greca nell'età classica e tra i Greci della madre patria generalmente è modesto; frugalissimo è il vitto anche presso i popoli tra i quali non vi è, come fra i Dori, l'obbligo del pasto in comune (συσσίτια), garanzia severa di sobrietà. Insolito risalto ha quindi il convito che interrompe la quotidiana abitudine di un pasto modesto in famiglia e senza apparato; ne è occasione, come sempre, o un avvenimento importante che si suole solennizzare con il banchetto, o la consuetudine di riunioni periodiche fra amici; in quest'ultimo caso, ognuno contribuisce per la sua parte (ἀπὸ συμβολῶν o anche ἀπὸ σπυρίδος, dal panierino che i commensali portavano con sé e che talvolta vediamo rappresentato appeso alla parete; v. fig. 2). Anche in ciò che concerne il banchetto sembra a noi moderni che spiri quell'aria provinciale e borghese, caratteristica della vita privata greca, e a cui dà risalto, con il confronto, la signorile larghezza dei Romani. Agli ospiti gli schiavi di casa tolgono i calzari (fig. 3) e lavano i piedi facendoli poi adagiare nei letti (κλῖναι) secondo l'ordine predisposto dal padrone, di regola due per ogni letto (non tre come presso i Romani); quindi viene offerta l'acqua per l'abluzione alle mani, si avvicinano le tavole una per ogni letto e il banchetto comincia.

Il convito greco constava di due momenti: il δεῖπνον e le δεύτεραι cioè il dessert; solo nell'età imperiale s'introdusse l'uso romano dell'antipasto. Terminato il δεῖπνον si facevano abluzioni e s'invocava l'ἀγαϑὸς δαίμων, libando vino puro; dopo di che venivano cambiate le tavole. Il dessert era formato di seccumi, cacio, sale, cibi atti a eccitar la sete; si usava anche leccare delle gallette salate (ἐπίπαστα λείχειν).

Col dessert aveva principio il simposio (συμπόσιον). Gl'intervenuti, coronatisi di fiori e cosparsi di abbondante unguento, eleggevano con i dadi o per acclamazione il re del simposio (ἄρχων, βασιλεύς), secondo le cui ingiunzioni si beveva. Normalmente la preparazione dei crateri e le libazioni si facevano a suon di flauto (fig. 7), e bruciando incenso.

Oltre alla conversazione, intramezzata da libazioni e da brindisi, allietavano il simposio i canti (σκόλια; anche il peana fu in origine un canto simposiaco), o la recitazione di antichi poeti per lunga tradizione accetti ai simposî; qualche volta si assisteva a spettacoli di equilibrio e di acrobazia (Senof., Symp., II, 7 segg.). Vi era anche l'uso di giocare, non esclusi i giuochi d'azzardo; di gran voga fu per secoli (VI-III a. C.) un giuoco d'abilitb, detto il cottabo (κότταβος: cottabo).

Per ciò che riguarda il banchetto presso gli Etruschi, sicuri indizî ci fanno ritenere che nel periodo più arcaico anche presso quel popolo vi fosse l'usanza di mangiare stando seduti (fig. 6). Ma dalla fine del sec. VI in poi si è introdotta la consuetudine di banchettare sdraiati su letti conviviali; al banchetto etrusco partecipano anche le donne della famiglia; e, per lo più, anch'esse come gli uomini stanno sdraiate (cfr. Aristot., in Ateneo, I, p. 23, d).

I convitati stanno a due a due, un uomo e una donna, per ciascun letto; la moglie sta presso il marito: uso al quale si dà tanta importanza, che spesso sopra i sarcofagi è rappresentata la coppia coniugale a convito. Davanti a ciascun letto è posta la tavola, per lo più bassa e rettangolare, sopra la quale stanno il vasellame e le vivande che i servi, in piedi tra i letti, sono pronti a distribuire. A un lato del letto dei genitori, i figli stanno seduti davanti a una piccola tavola (fig. 9). Animali domestici quali il cane, il gatto, il gallo e la gallina, sono lasciati stare liberamente sotto i letti conviviali perché raccolgano i rifiuti che i corivitati gettano via (fig. 10).

In seguito il banchetto divenne più allegro e fastoso: vediamo rappresentate coppie di giovani a banchetto in fioriti giardini: i letti sono posti sotto alberi fra i rami dei quali svolazzano gli uccelli, e il convito è rallegrato da scene di danza, da suonatori di flauto e di cetra (fig. 11). Ma nei monumenti figurati etruschi - per quanto in alcuni di essi appaiano figurazioni oscene - non troviamo mai nulla in tema di banchetto che possa giustificare l'affermazione di Timeo che, presso gli Etruschi, αἱ ϑεράπαιναι γυμναὶ τοῖς ἀνδράσι διακονοῦνται (Timeo presso Ateneo, XII, p. 517, d). Nelle pitture delle tombe, in urne cinerarie, in cippi, l'arte etrusca ripete costantemente temi conviviali, indizio evidente, questo, della grande importanza che il banchetto aveva nella vita (fig. 13).

I preparativi per la lussuosa imbandigione del banchetto affaccendano molti servi; sono cucinate le carni del bue, del capretto, della lepre, del pollame e della cacciagione (fig. 12). Il carattere rituale del banchetto appare dalla presenza del flautista. Anche il pane è impastato a suon di flauto (cfr. Alcimo, in Ateneo, XII, p. 518 b).

Il pasto principale presso i Romani è la cena (o coena); il ientaculum, colazione della mattina, e il prandium, refezione di mezzogiorno, son pasti alla buona che si fanno usualmente in piedi. Anticamente si pranzava nell'atrium, dove cioè la famiglia stava riunita la maggior parte della giornata; più tardi in un appartamento al piano superiore (tav. V), uso di cui rimase traccia nel nome cenaculum, soffitta; solo col diffondersi del lusso si cominciò a destinare per la cena stanze appositamente costruite, i triclinia; nelle case signorili vi era il triclinio d'estate e il triclinio d'invernò e potevano esservene altri ancora. Nelle città meridionali era largamente diffusa l'abitudine di pranzare all'aperto, sotto pergolati o tende (tavola V; cfr. Plaut., Most., v. 363 segg.). Nel triclinium, come dice il nome stesso (da κλίνη "letto") si cenava stando sdraiati; l'uso primitivo di cenar seduti è attestato solo per i tempi più antichi. Anche le donne di casa prendevano parte alla cena: il che non era considerato sconveniente in Roma come in Grecia; nella età repubblicana stavano a mensa sedute, nell'età imperiale sdraiate. I bambini, invece, siedono davanti a tavole separate. Quando la cena veniva allestita con maggior fasto e solennità e vi erano molti invitati, si chiamava convivium. Offrono occasione al convivio ricorrenze o avvenimenti familiari ovvero le feste del calendario, fra le quali in modo particolare i Saturnali.

Quando si preparava il banchetto si disponevano nel triclinio tre letti nel modo indicato dalla fig. 14. Questa è la disposizione che ricorre nei triclinî in muratura a Pompei. (Meno probabile è la disposizione dei letti lungo tre lati di un quadrato che si desume da Plutarco, in Quaest. conv., I, 3, p. 619 c). Il lectus tricliniaris consisteva in un fusto, molto basso, sul quale venivano stesi cuscini e materasse, rivestiti di coperte; torno al letto così preparato si stendevano delle lunghe balze di lino (toralia). In ogni letto stavano usualmente tre commensali, seduti di sbieco col gomito appoggiato al cuscino di sinistra e i piedi volti verso destra; i posti erano separati mediante cuscini. Durante il pasto i commensali tenevano i piatti nella sinistra e vi prendevano con la destra il cibo per portarlo alla bocca. I tre letti, andando da destra a sinistra, eran detti lectus summus, medius, imus e, analogamente, il luogo occupato dai commensali dello stesso letto locus summus, medius, imus. Il posto d'onore (locus consularis) era l'imus in medio, che permetteva a chi l'occupava di ricever messaggi dal lato esterno del letto. Al padrone di casa era riservato il summus in imo; egli veniva così a trovarsi accanto a chi occupava il posto d'onore. Nell'età imperiale venne in uso di sostituire i tre letti con un unico letto arcuato, chiamato sigma per la somiglianza con la forma lunata del sigma maiuscolo, usata accanto a Σ; esso offriva posto a un numero di commensali variante fra sei e otto; il posto d'onore era alle due estremità (cornua).

Delle tavole che ornavano il triclinio si debbono distinguere quelle piccole che venivano poste vicino ai letti tricliniari, in modo che i commensali potessero, allungando il braccio, prenderne o depositarvi le stoviglie, e quelle più grandi in cui erano esposti vasellami, argenterie, ecc. A volte tanto le une quanto le altre erano sostenute da un unico piede artisticamente lavorato (trapezophorum; tav. VI).

Le tavole di maggior pregio erano ricoperte di un panno, gausape (tappeto da tavola), che durante il banchetto poteva esser cambiato più volte; l'uso di una tovaglia simile alla nostra (mantele) è abbastanza tardo; se ne ha la prima menzione in Marziale (XII, 29, 11). La salvietta, mappa, fa parte dell'apparecchio del banchetto, e appartiene alla biancheria del padrone di casa. Ma anche i commensali ne recavano con sé, perché l'uso consentiva che vi s'involgesse dentro e si portasse a casa una parte della cena.

I piatti, con i varî cibi che contenevano, erano depositati in apposito sostegno posto sulla tavola (repositorium); durante tutta la cena rimaneva sulla tavola, a disposizione dei commensali, la saliera (salinum) e l'ampolla dell'aceto (acetabulum). Delle posate si faceva poco uso; la forchetta era ignota: la sostituivano le dita; era eleganza ed educazione servirsene con garbo, senza imbrattarsi la mano e quindi la faccia (Ovid., Ars am., III, 755): il coltello era pressoché inutile, poiché le pietanze venivano tagliate in piccole porzioni o in cucina, o nel triclinium stesso da uno scalco (scissor), dal quale si richiedeva oltre all'abilità del taglio anche eleganza di gesti; maggiore uso si faceva del cucchiaio (fig. 15), o schiacciato e tondo (coclear) o incavato e ovale (ligula).

Oltre ai vasi che servivano ai commensali per bere (pocula; v. vol. IV, tav. L) vi erano i recipienti nei quali si portava il vino puro (oenophorum), o si teneva in caldo l'acqua per mescolarla, com'era uso corrente, nel vino (caldarium), e il cratere (κρατήρ, crater, cratēra, craterra), dove si versava in determinate proporzioni acqua e vino; la mescolanza era attinta mediante un piccolo recipiente con lungo manico, il cyathus, il contenuto del quale era unità di misura per i liquidi (45 centilitri). I coppieri mescevano nelle coppe ai commensali un certo numero di cyathi, facendo passare il liquido attraverso a un piccolo staccio (colum) o un filtro di lino (sacculus), giacché sembra che i Romani non riuscissero mai a ottenere naturalmente un vino limpido) Chi non desiderava bere caldo faceva mettere nel filtro della neve.

I commensali durante il convito vestivano una breve tunica (vestis cenatoria, synthesis). Al servizio erano addetti gli schiavi più giovani e più belli, accuratamente pettinati e con abiti eleganti dai colori vistosi, che facevano servizio di scalco o di coppiere. Altri, rasati e vestiti di tuniche grezze, erano occupati in faccende più grossolane, come gli analectae, che pulivano fra una portata e l'altra il pavimento. Ogni commensale, poi, conduceva con sé uno schiavo (puer ad pedes), che rimaneva presso di lui per tutto il banchetto, pronto ai suoi cenni.

Il banchetto romano, pur così vario, aveva un andamento uniforme. Vi erano tre momenti: il gustus; la cena propriamente detta; le secundae mensae. Il gustus o gustatio corrisponde, una con più larghezza, al nostro antipasto; di solito è formato di uova (onde il proverbiale ab ovo ad mala; cfr. Orazio, Sat., I, 3, 6), erbaggi, pesci in salsa piccante, olive. La cena consisteva in varie portate dette prima, secunda, tertia cena (anche ferculum o missus). Essendo ogni portata composta di varî cibi, il commensale sceglieva secondo i suoi gusti. Vi si beveva vino di varie qualità e si terminava con una libazione ai Lari dei quali venivano portate in tavola le statuette. Le secundae mensae consistevano in focacce, frutta, con qualche cibo leggiero e piccante che servisse a destare la sete.

Se nei pranzi ordinarî le secundae mensae terminavano la cena, nei conviti iniziavano la comissatio (dal gr. κωμάζειν), cioè quella parte del banchetto in cui, come nel simposio greco, si beveva copiosamente in mezzo alla generale letizia, coronandosi e facendo largo uso di unguento. Caratteristica della comissatio è il graeco more bibere, introdotto fra i Romani in tempi ancora primitivi; non vi si beveva a volontà, come durante la cena, ma agli ordini di un rex convivii, al quale spettava anche determinare in qual proporzione dovesse esser mescolata l'acqua col vino.

I Romani d'un tempo celebravano in canti conviviali le gesta degli antenati; ma già all'età di Catone (Cic., Brut., 19, 75) questa antica usanza era scomparsa. Trattenimenti usuali durante il banchetto erano le letture, le esecuzioni musicali, i giuochi d'azzardo. Vi si davano anche spettacoli che l'età moderna ha relegato nei caffè-concerto o nei teatri di varietà: sonatrici di nacchere (crotalistriae), che eseguivano danze lascive, effemminati e sfacciati ballerini (cinaedi), nani (pumiliones), buffoni (derisores), scelti di preferenza fra gli scemi (moriones), acrobati (petauristarii), ecc.

La sontuositâ del banchetto romano è proverbiale; i Romani ponevano una gran cura nell'assicurare alla mensa i cibi più delicati e più rari; si faceva anche dell'arte per l'arte, cercando di sorprendere il commensale col dare a un cibo l'aspetto di un cibo diverso (p. es. uccelli con carne di porco; cfr. Petr., 69-70) o riempiendo e cucinando un animale con altri animali (Macr. III, 13, 13) o creando dei piatti a sorpresa (p. es. un uovo di struzzo con beccafichi o un cinghiale pieno di tordi vivi; cfr. Petr., 33,40). Con tutto ciò l'opinione che comunemente si ha sul lusso della tavola romana è esagerata. Non devono infatti aver valore di regola generale e costante gli eccessi individuali. Se uno scellerato alimentava le murene con le carni degli schiavi (Sen., Declam., I, 18), se dei crapuloni si valevano dell'ἐμετική (vomito procurato artificialmente), che era un mezzo usuale di purga, per raddoppiare le gioie del pasto (Sen., Dial., XII, 103: vomunt ut edant, edunt ut vomant), se vi furono dei malati di follia gastronomica come gl'imperatori Vitellio ed Elagabalo, non dobbiamo. dare alla stranezza del particolare il valore di un sicuro indice dei tempi.

Nell'età repubblicaria senatoconsulti e leggi (leges sumptuariae) cercavano d'infrenare il lusso dei banchetti limitando la spesa relativa, o i generi di cibi usati, o anche l'accettazione dell'invito di parte di alti magistrati (Aulo Gellio, II, 24; Macr., loc. cit.); ma l'ultima di queste leggi si ebbe sotto Augusto, ed erano leggi tali da andar presto in disuso. Nel periodo imperiale il lusso dei banchetti aumentò; i signori erano circondati da un nuvolo di clienti che il miraggio di un buon pranzo rendeva disposti ai servigi più umili e alla più sciocca adulazione: sfarzo smodato raggiunse soprattutto l'ostentazione dei liberti arricchiti. Deplorata dalle persone più fini (Plin., Ep., II, 6), ma molto diffusa sembra essere stata l'abitudine di non fare a tutti i commensali il trattamento che il padrone di casa riservava a sé e alle persone di maggior riguardo.

Ciò che sappiamo circa il banchetto greco e romano consente alcuni rilievi generali e comuni. Più rumoroso, più incomposto del nostro, fu tuttavia più intimo e gioioso: poeti di ogni tempo hanno celebrato fra i piaceri della vita la letizia del convito, e il banchettare insieme fu presso gli antichi pegno sicuro di amicizia. Antico è l'uso di ricordare durante il banchetto, come invito a goderne la gioia fugace, l'inesorabilità della morte che a tutti sovrasta; né solo fra i Greci e i Romani. Racconta Erodoto (II, 78) che gli Egiziani facevano portare in giro ai commensali la piccola riproduzione in legno di un morto nella bara con la scritta: "guardando questo bevi e divertiti, perché morto sarai come lui"; non appare che un uso simile sembrasse di buon gusto ai Greci dell'età classica; che fosse diffuso presso i Romani rileviamo da un passo della cena di Trimalcione, durante la quale, dopo la gustatio, vien mostrato in varî atteggiamenti uno scheletrino d'argento con le articolazioni snodate (Petr., 34), e da alcune tazze d'argento rinvenute a Boscoreale, presso Pompei, dove con finissimo lavoro di cesello sono riprodotti degli scheletri (fig. 16).

Diverso dal nostro è anche il galateo conviviale degli antichi, la cui libertà metterebbe nell'imbarazzo il più spregiudicato fra gli uomini moderni, solo che avesse un po' di educazione. Numerose rappresentazioni figurate ci pongono sotto gli occhi giovani a banchetto abbracciati strettamente con facili donne seminude (fig. 18). In questo i giovani romani non erano da meno dei greci (Cic., Catilinaria, II, 5, 10); il triclinio assiste a scene d'amore d'ogni genere e in ogni tempo (Platone, Symp., 217 b; Petr., 85 segg.). La cortigiana nuda mollemente sdraiata nel letto tricliniare e in atto di libare, bere, giocare al cottabo, è un motivo di ceramica conviviale (fig. 18). È da supporre che le violentissime baruffe fra amanti di cui si parla così spesso negli autori, o gli scherzi brutali contro i parassiti, consistenti, per esempio, nel rompere sulla loro testa delle pentole, non avvenissero che dei banchetti di giovanotti scapati; ma un moderno non troverebbe tollerabili altri usi ben radicati presso i Greci (Aristoph., Ran., 543) e presso i Romani (Plaut., Most., 386; Mart., III, 82, 15-18; XIV, 119; Horat., Sat., I, 3, 90). Né sembrerebbe bella l'abitudine di gettare a terra sotto la tavola gli avanzi di quel che si mangia; eppure era questo un uso così comune, che nell'età alessandrina e romana venne di moda rappresentare in musaico nel triclinio un impiantito disseminato di rifiuti (ἀσάρωτος οἶκος: v. fig. 17 e cfr. Plinio, XXXVI, 184).

Bibl.: Per il banchetto omerico, Finsler, Homer, Lipsia 1914, 2ª edizione, I, pp. 122-123. Per il banchetto greco in generale, Becker, Charikles, ed. Göll, II, Berlino 1878, pp. 286, 361; Hermann-Blümner, Lehrb. der griechischer Privatalt., Friburgo 1882, §§ 27-28, pp. 235-251 (ricchissimo di dati). Per il banchetto etrusco si veda Ducati, Etruria antica, Torino 1925, I, p. 169 segg. e bibliografia precedente ivi cit. e la Storia dell'arte etrusca, Firenze 1927, dello stesso, per ciascuna delle opere d'arte da noi citate o riprodotte, e l'ampia bibliogr. ivi cit. Per le scene di banchetto sopra cippi chiusin e sopra urne: Gabrici, La collezione Casuccini, in Studi etruschi a cura del Comitato permanente per l'Etruria, II, p. 55 segg.; Baldasseroni, Gli animali nella pittura etrusca, in Studi etruschi, III, p. 383 segg. Per il banchetto romano: Blümner, Die römischen Privataltertümer, Monaco 1911, parte 2ª, sez. 5; Mahlzeiten und gesellige Unterhaltung, pp. 385 segg. (è opera fondamentale che si vale del contributo di tutti i lavori precedenti; vi rimandiamo anche per l'indicazione della bibliografia anteriore). Antiquata, ma più accessibile per molti, perché tradotta in francese, Marquardt, La vie privée des Romains (versione dal tedesco della seconda edizione rifatta dal Mau), Parigi 1892-1893; si vedano anche gli articoli del Mau, s. v. Cena, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, coll. 1895-97; di Saglio e C. M., s. v. Coena, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr. et rom., e Paoli, Lar familiaris, Firenze 1929, p. 107 segg. Splendide riproduzioni di suppellettile conviviale romana si trovano nell'edizione francese del tesoro di Boscoreale: H. de Villefosse, Le trésor de Boscoreale, Parigi 1899 (V, dei Monuments et mémoires Fondation Piot), e nella recente opera italiana dello Spinazzola, Le arti decorative in Pompei e nel Museo Nazionale di Napoli, Milano 1928.

Il Medioevo e l'età moderna. - I principi barbari che si stanziano nell'Impero romano durante il sec. V adottano con tutte le costumanze romane anche l'uso del banchetto. Sidonio Apollinare ricorda con disgusto le gozzoviglie dei re visigoti di Tolosa, lo storico Prisco narra con stupore di aver visto presso Attila le stesse costumanze conviviali romane: letti coperti di stoffe preziose, vasellame d'oro e d'argento, vini fini, pranzi allietati dal canto dei poeti, dai lazzi dei buffoni. Attila però, pur facendo sfoggio delle costumanze romane, personalmente usava piatti e coppe di legno. Anche presso i Vandali d'Africa vigono le usanze romane: nel 533 a Cartagine si preparò un grande banchetto per festeggiare la sperata vittoria sull'esercito bizantino di Belisario che minacciava la capitale; vinse Belisario invece, e a tavola sedettero i generali imperiali. Tragica gozzoviglia di barbari è, secondo la tradizione, il banchetto di Alboino a Verona dopo la conquista dell'Italia: ubbriaco, costringe la regina Rosmunda a bere nel cranio paterno e la spinge alla terribile vendetta. Famosi furono pure, presso i Franchi, i banchetti di re Chilperico, descrittici da Gregorio di Tours.

La Chiesa però cercò di combattere queste costumanze grossolane, e tutta la predicazione monastica è dedicata a frenare i piaceri del ventre. Carlomagno, il massimo rappresentante della civiltà cristiana medievale, era assai sobrio e alieno dai grandi banchetti: vi si rassegnava solo nelle solennità; il suo pranzo giornaliero consisteva di sole quattro portate e il grande principe durante il pasto amava sentir leggere libri religiosi o storici. Invece il banchetto aveva una grande importanza alla corte bizantina: ivi anche il banchetto, come tutti i momenti della vita quotidiana, assurgeva al valore di un'alta funzione e si svolgeva secondo un solenne cerimoniale. Famosa è la descrizione, lasciataci da Liutprando di Cremona, d'un banchetto bizantino ai tempi di Niceforo Foca. L'uso bizantino dei banchetti passò anche alla corte dei califfi arabi di Damasco.

Maggiori ragguagli abbiamo sui banchetti europei dopo il 1000. Poche notizie ci dànno gli scrittori di chiesa nei loro attacchi polemici contro vescovi e abati corrotti, e poco ci è dato dai cronisti; molti particolari invece offrono le Chansons de geste e i romanzi francesi d'avventure, per il banchetto dell'età feudale. Le tavole di solito sono posticce su cavalletti; i convitati siedono su panche guarnite di cuscini o tappeti; più alta è la cattedra su cui siede il principe e di solito messa sotto un baldacchino; vi è scarsezza notevole di vasellame, che si colloca non sulla tavola del banchetto, ma su una tavola di servizio e che viene lavato dai servi durante il banchetto, di volta in volta che si usa. Le dame intervengono ai banchetti e siedono frammischiate ai convitati. Contraddistingue il banchetto medievale la ricchezza delle portate e la grossolanità del servizio. La moda è di mangiar molto: chi più mangia, dicono le Chansons de geste, quegli è maggior cavaliere. Predominano nella lista i piatti di carni arrostite; di droghe si faceva un enorme uso; si usava molto la selvaggina e il pesce. I vini dei banchetti solenni sono di solito drogati: vi si metteva il miele o il pepe. Banchetti famosi furono quelli offerti da Bonifacio di Canossa in occasione delle sue nozze con Beatrice, la madre della contessa Matilde.

La maggiore ricchezza delle popolazioni nel basso Medioevo determinò il ritorno all'uso dei grandi banchetti per festeggiare nozze, nascite o altri avvenimenti importanti. Più di un cronista, nel sec. XIII e nel XIV, registra la tendenza nuova allo scialo. Anche i governi s'illudono di poter frenare l'andazzo con le proibizioni e le leggi suntuarie. Così a Bologna nel 1294 si stabilì che i banchetti nuziali non avessero più di tre vivande, esclusa la frutta. Poi si passò a tre vivande d'arrosto e tre di less0. Così a Firenze si vietò che alla mensa della Signoria potessero essere servite più di due once di zucchero, e tre, se erano presenti degli stranieri. Ai Fiorentini furono concessi due piatti di carne o di pesce. Il Petrarca, invitando un amico, lo avverte che si tratterà di un banchetto modesto "sul gusto di Virgilio": mele, castagne, latte, una lepre, una gru e un pezzo di cinghiale salato.

Banchetti sfarzosi sono però molto frequenti già nel Trecento. La Corte pontificia di Avignone presenta alcuni festini grandiosi. Così quello dato da Giovanni XXII nel 1324 per le nozze di una sua pronipote. Si consumarono 4000 pani, 8 buoi, 55 montoni, 8 maiali, 4 cinghiali, 200 capponi, 700 polli, 580 pernici, 270 conigli, 4 gru, 2 fagiani, 2 pavoni, 3 quintali di formaggio, 3000 uova, ecc.

Un grande banchetto, di cui abbiamo la relazione, è quello offerto nel 1343 dal cardinale Annibale di Ceccano a Clemente VI. La sala era tutta adorna di arazzi e tappeti; il servizio fu fatto da 4 cavalieri e 12 scudieri; gli onori furono resi da 50 scudieri. Furono portate in tavola nove vivande, ciascuna di tre piatti. Il banchetto fu abbellito da un torneo, da un concerto e da altri spettacoli coreografici di grande effetto.

Banchetto famoso fu in Francia quello di Rouen del 1356, dato da Carlo Delfino e duca di Normandia, e interrotto dalla comparsa del re Giovanni II, venuto ad arrestare personalmente il re di Navarra e i suoi amici accusati di tradimento; questi ultimi furono immediatamente decapitati. Per altri motivi famoso fu il banchetto offerto da Carlo V di Francia all'imperatore di Germania Carlo IV nel 1378: durante lo svolgimento del banchetto si assistette ad una rappresentazione grandiosa, la conquista di Gerusalemme per opera di Goffredo di Buglione. In Italia fu famoso in quegli anni il banchetto che Galeazzo Visconti diede a Milano nel 1368 per festeggiare le nozze della figlia con l'inglese duca di Clarence: alla tavola degli sposi sedettero Amedeo VI di Savoia e Francesco Petrarca. Furono portate in tavola 18 imbandigioni, ciascuna di diversi piatti. Così la sesta era di "carne di bo e caponi grassi con aliata e con sturioni in acqua". Ogni imbandigione era accompagnata dall'offerta ai convitati di doni ricchissimi: cavalli, segugi, collane, fibbie, scudi, pezze di panno, bacili, fiaschi d'argento, ecc.

Il banchetto principesco del sec. XV è caratterizzato, così in Italia come nelle altre regioni, dai cosiddetti intermezzi. Per il matrimonio di Isabella di Baviera e di Carlo VI di Francia, al banchetto nuziale si rappresentò l'assedio di Troia. Al banchetto di Chambéry dato da Amedeo VIII nel 1434 per le nozze di Ludovico principe di Piemonte con Anna di Cipro, gl'intermezzi ebbero carattere araldico. Il più noto banchetto è quello detto del Fagiano, dato a Lille da Filippo il Buono, duca di Borgogna, il 17 febbraio 1454. Le tavole avevano decorazioni colossali: sulla prima v'era una chiesa completa, con vetri, campane ed organi, poi una nave completa; sulla seconda vi era il castello di Lusignano con i fossati ricolmi di sciroppo d'arancio, un pasticcio su cui stavano 28 musicanti che suonavano e così altre decorazioni con dei fantocci automatici. Su una colonna stava una donna nuda incatenata che rappresentava Costantinopoli presa dai Turchi, su un'altra colonna stava, legato, un leone vivo che raffigurava il duca di Borgogna intenzionato a organizzare una crociata. Arrivarono poi su carri dorati 48 vivande. Poi comparve un gigante nero (gl'infedeli) che conduceva un elefante: su di esso in un castello stava una donna in preghiere (la Chiesa). E allora fu portato davanti al duca un fagiano con al collo un ricco collare: e su di esso Filippo giurò di organizzare la crociata.

Durante il Rinascimento continuò l'uso dei banchetti, grandiosi per durata e per quantità di vivande; però i più raffinati costumi dettero ai festini una maggiore correttezza. Anche l'arte fu utilizzata per abbellire i banchetti. Da ricordare sono: il banchetto dato nel 1473 a Milano da un cardinale, quello pure dato a Milano nel 1477 per le nozze di Caterina Sforza. Anche i privati nel secolo XV e XVI usarono dimostrare la loro ricchezza con offrire ricchi banchetti: il maresciallo Trivulzio per le sue nozze con Beatrice d'Avalos diede un banchetto di quindici imbandigioni. Così Andrea Doria diede a Genova banchetti meravigliosi durante un soggiorno di Carlo V. Famosi i pranzi romani della corte pontificia: Alessandro VI nel 1493 partecipò con i cardinali a un banchetto per le prime nozze della figlia Lucrezia; più tardi, nel 1501, per le nozze di Lucrezia con Alfonso d'Este, a Ferrara, si eresse nella sala del banchetto una fontana che dava vini diversi da 12 bocche; sulla tavola erano 24 castelli di zucchero. A Milano, nel 1489, sposandosi quel duca Gian Galeazzo Sforza con Isabella d'Aragona, diresse le feste per il banchetto lo stesso Leonardo da Vinci. A Venezia il sec. XVI vide i banchetti sontuosi dati dalla Compagnia della calza; più tardi ancora, nel 1574, il passaggio per Venezia di Enrico III re di Francia diede motivo a grandi festeggiamenti e a banchetti costosissimi. Anche Mantova vide a varie riprese nei secoli XVI e XVII banchetti assai ricchi: le vivande venivano di solito lavorate sì da riprodurre figure di uomini e di animali. A Firenze ebbero fama nel Cinquecento i banchetti delle compagnie del paiolo e della cazzuola. A Napoli ebbe fama il banchetto dato nel 1517 in onore di Bona Sforza che andava sposa a Sigismondo re di Polonia: la lista delle vivande conteneva fra l'altro anche le pizze sfogliate, le pizze fiorentine, la pignolata, ecc.

Lo spettacoloso scompare lentamente dai banchetti dell'età nuova, sebbene non del tutto; nel sec. XVII Carlo I d'Inghilterra fece portare in tavola un pasticcio gigantesco dal quale, appena tagliato, saltò fuori il nano del re.

Si cercò dal sec. XVII in poi di perfezionare la cucina, fatto la caratteristica dell'età precedente: i cibi indigesti, grossolani e nauseanti. I banchetti dell'età di Luigi XIV, così quelli dati dal re a Versailles, dal principe di Condé a Chantilly, come quelli dati dal Fouquet, dal Louvois e da altri ministri, rivelano la cura più minuziosa per rinnovare l'arte del banchettare: i festini di quell'epoca videro la comparsa di nuove salse e manicaretti, denominati dal nome dei cuochi inventori o dei principi loro padroni. Un'età famosa in modo speciale per i banchetti fu quella della reggenza del duca d'Orléans: ricchezza di vivande, ma di grande finezza. Fu famoso poi il principe di Soubise, che si recò alla guerra dei Sette anni con tutto lo stuolo dei cuochi: il generale fu sconfitto a Rossbach, ma il suo cuoco Marin continuò a imbandire pranzi succulenti. Pietro il Grande di Russia che, arrivato nel 1717 a Parigi, e alloggiato al Louvre, pranzò con pane, una rapa e due bicchieri di birra, fu giudicato rozzo e grossolano. L'arte del banchettare si raffinò ancora durante il sec. XVIII: scomparvero le innumeri portate, le grandi quantità arte e presentate in mezzo a fiori, su piatti artisticamente lavorati. Si ricercarono le primizie più rare, i vini più prelibati. Sul finire del Settecento la tradizione dei banchetti solenni appare in completa decadenza. Di moda furono i pranzi in casa di dame intellettuali che riunivano scienziati, filosofi, letterati e il pasto era solo pretesto per la conversazione. La Rivoluzione francese distrusse tutte le vecchie abitudini della società aristocratica. Lo spirito giacobino inaugurò i banchetti civici, di carattere politico. Così il 26 luglio 1792 sulle rovine della Bastiglia ebbe luogo un solenne souper fraternel. Banchetti però non mancarono, anche nell'epoca del Terrore, da parte dei giacobini amanti del gaio vivere. Così fece ad esempio Danton. La società del Direttorio rimise in voga i banchetti: si usò raccogliere gli amici nelle sale delle trattorie o ristoratori venuti in uso in quell'età. Barras riuscì a dominare per qualche tempo nel Direttorio, grazie ai banchetti squisiti che sapeva offrire; anche Cambacères e Talleyrand amarono la buona mensa. L'età napoleonica vide grandiosi banchetti alle Tuileries e a Saint Cloud per le solenni circostanze dell'impero: l'incoronazione, il matrimonio, la nascita del re di Roma; si ritornò alla vecchia tradizione di trasformare i viveri si da appagare la vista più che il gusto degl'invitati. Napoleone I però non dava alcuna importanza alla cucina, ben diverso in ciò da Luigi XIV. Una ripresa dell'arte conviviale solenne si ebbe ancora sotto Napoleone III, specie nei mesi che la corte trascorreva a Compiègne, ma ebbe scarsa durata.

Il sec. XIX vide svilupparsi nei paesi a regime parlamentare la moda dei banchetti politici. Così nel 1847 in Francia il partito riformista preparò l'insurrezione e la caduta della monarchia orleanista con una campagna politica di banchetti che davano modo di far brindisi e di trasformare questi in discorsi di propaganda. Il più famoso banchetto è quello di Mâcon del 18 luglio 1847, al quale intervenne e parlò Lamartine. Banchetti destinati a riunire i soci di una società o gruppo politico o sociale sono nell'età moderna comunissimi. I più caratteristici sono i banchetti massonici. Usati nelle logge massoniche di tutta Europa, hanno assunto nei paesi anglo-sassoni un'importanza grandissima, sì da essere quasi lo scopo precipuo dell'organizzazione. Si svolgono, o si svolgevano, secondo un minuzioso cerimoniale: la suppellettile e le stesse vivande erano indicate con nomi simbolici; si facevano varî brindisi, di solito 7, pure ritualmente. Si cantavano inni religiosi e si ascoltavano le istruzioni e gli ordini impartiti dai capi gerarchici. (V. Tavv. V a VIII).

Bibl.: T. Garzoni, La Piazza univerasle di tutte le professioni del mondo, Venezia 1565; D. Sterne, Histoire de la révolution de 1848, voll. 3, Parigi 1851-53; E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné du mobilier français, Parigi 1854-75; S. Mercier, Paris pendant la révolution, Parigi 1862; P. Lacroix, Les arts au Moyen-âge et à l'époque de la Renaissance, Parigi 1868; id., Le XVIII siècle. Institutions, usages et costumes en France, Parigi 1874; id., Directoire, Consulat et Empire. Moeurs et usages, Parigi 1883; L. Baudrillart, Histoire du luxe, Parigi 1878-80; L. Gautier, La chevalerie, Parigi 1884; V. Marone e L. Brangi, I banchetti politici: briciole di storia, Napoli 1888; L. A. Gandini, Tvola, cucina e cantina della Corte di Ferrara nel '400, Modena 1889; A. Franklin, La vie privée d'autrefois, Parigi 1887-90; VI: Les repas; G. Biagi, La vita privata dei Fiorentini, Milano 1893; L. Zdekauer, La vita privata dei Senesi nel Dugento, Siena 1896; E. Müntz, L'argent et le luxe à la cour pontificale d'Avignon, in Revue des questions historiques, LXVI (1899); L. Frati, Vita privata di Bologna nel Medioevo, Bologna 1900; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, Bergamo 1905-09.

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