Cavalcanti, Bartolomeo

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Cavalcanti, Bartolomeo

Claudio Mutini

Noto anche come Baccio, nacque a Firenze il 14 gennaio 1503 da Mainardo, che aveva assolto qualche incarico nella Repubblica, e da Ginevra Cavalcanti, figlia di Giovanni, il quale era stato amico di Marsilio Ficino.

Gli anni della giovinezza trascorsi nella città natale furono caratterizzati da una serie di relazioni che orientarono i gusti di C. verso la letteratura umanistica e la filologia: frequentò Antonio degli Alberti e Piero Vettori, al quale rimarrà legato per tutta la vita, Nicolò Ardinghelli, Giovanni Della Casa e Luigi Alamanni (→), che ritroverà in Francia durante l’esilio. Con questi compagni seguì le lezioni di Marcello Virgilio Adriani, ed è possibile che ascoltasse quelle di Francesco Cattani da Diacceto. Discussa è la sua frequentazione diretta delle riunioni degli Orti Oricellari, anche se fu in contatto con molti dei giovani che vi partecipavano, come Alamanni e Iacopo da Diacceto, e in particolare con M., per il quale espresse grande ammirazione fin dalla sua prima lettera superstite, quella dell’11 agosto 1526 indirizzata allo stesso M.: «i ragionamenti del quale, come suavissimi e prudentissimi, ogni giorno più desidero né posso fare che d’esserne privato non mi doglia» (lettera pubblicata da ultimo in Simonetta 2002). Dietro l’esempio delle relazioni e delle lettere machiavelliane («che appresso di me sono in luogo di oraculi», si legge nella stessa epistola) si preparò alla vita politica, intesa come estrinsecazione di un sentimento repubblicano di ispirazione classicheggiante e, forse più sottilmente, permeata di un’altrettanto decisa volontà di ridurre razionalmente i dati reali entro uno schema del sapere che corrispondeva, appunto, alla ‘scienza’ politica di Machiavelli.

Nel fallimento delle aspirazioni e nel quadro di un disagio economico implicante l’intera famiglia, la letteratura sarebbe stata anche un richiamo ai piaceri nobilmente dilettanteschi del giovane, che nel 1519 si era visto citato da Antonio Francino nella dedica a un’edizione dell’Odissea e che nel 1527 aveva partecipato alla celebre edizione giuntina del Decameron. Nel 1523 sposò Dianora Gondi, dalla quale ebbe un figlio, Giovanni, e due figlie, Lucrezia e Cassandra.

Nell’estate-autunno del 1526 si colloca lo scambio epistolare con M., di cui sono sopravvissute due lettere di quest’ultimo a C. (una del 13 luglio, mutila della parte iniziale, e una probabilmente del 15 ottobre: Masi 1998, p. 511) e due di C. a M. (quella citata dell’11 agosto e un’altra dell’8 settembre), nelle quali, con affettuosa reverenza (indirizzandole «al mio come padre onorando»), C. sollecita M. a inviargli responsive con analisi politiche sulla situazione della guerra in corso: M. si trovava infatti «al campo» dell’esercito della lega di Cognac, presso Francesco Guicciardini, e di lì aggiornò il giovane interlocutore sui retroscena del conflitto con lunghissime disamine riguardanti le possibili mosse delle potenze in gioco sullo scacchiere internazionale.

L’attività diplomatica di C. ebbe inizio nel 1527, all’indomani del sacco di Roma, quando a Firenze si era ristabilita la Repubblica sotto il gonfalonierato di Niccolò Capponi. In un primo tempo fu incaricato dal governo fiorentino di accompagnare attraverso il territorio di Firenze i legati imperiali Bartolomeo di Gattinara e Lodovico di Lodrone, diretti a Parma e a Piacenza; in seguito, nella primavera del 1528, fu spedito come inviato speciale della Repubblica a To-di, presso il marchese di Saluzzo, onde assicurargli i vettovagliamenti e i rinforzi militari indispensabili qualora si fosse presentata all’esercito del marchese l’occorrenza di difendere Firenze da un eventuale attacco dei lanzichenecchi ancora stanziati a Roma.

Il 25 giugno 1529 C. venne mandato in Francia per saggiare, di rincalzo all’oratore fiorentino Baldassarre Carducci, la volontà del re e ottenere, se possibile, qualche vantaggio per la Repubblica. Giunto a Cambrai l’11 luglio, C. poté rendersi esattamente conto, insieme all’ambasciatore veneziano e al duca Francesco Sforza, che esistevano scarsissime possibilità per la tutela degli alleati italiani nell’accordo tra Francia e Spagna e che anzi il rigetto di tali interessi aveva costituito una condizione già subita dal re per favorire l’intesa con Carlo V. Tuttavia, C. soggiornò ancora un mese in Francia nel vano tentativo di far più attentamente considerare la situazione a Francesco I. Partì per Lione alla volta di Firenze verso metà settembre, accennando abbastanza esplicitamente, in una lettera a Giovanni Battista Della Palla (→), al tradimento del re di Francia e confidando ormai soltanto in un accordo con l’imperatore per la salvezza della città.

Considerando tale posizione, non v’è da stupirsi dell’appoggio che C., unitamente alla parte più moderata degli ottimati, concesse all’azione proditoria di Malatesta Baglioni. Il giorno prima che fosse firmato l’accordo per la capitolazione della città (12 ag. 1530) C. partì per Roma onde raccomandare le sorti di Firenze al papa e Clemente VII, che aveva tutto l’interesse di salvaguardare la città dalle devastazioni a opera delle truppe assedianti, accondiscese di buongrado alle richieste dell’inviato fiorentino. È significativo, a questo punto nevralgico della carriera diplomatica di C., rilevare alcuni screzi che si verificarono a Roma tra l’inviato della Repubblica e l’ambiente dei fiorentini filomedicei. Guicciardini non esitò a tacciarlo di presunzione e di vanità, irridendo alle intenzioni di C., che avrebbe voluto con il suo consiglio guidare il papa e i concittadini circa le decisioni da prendere per Firenze. Questa disputa non marginale serve bene, in effetti, a chiarire il crollo di un prestigio intellettuale non meno che il reale isolamento in cui venne a trovarsi C. nel clima restaurativo che doveva culminare con l’istituzione del governo di Alessandro de’ Medici (1532).

Il 1537 rappresenta sicuramente l’anno di maggiore attività diplomatica di C., che venne scelto dai fuorusciti per trattare la riconquista di Firenze con Francesco I, perplesso tra le ambizioni italiane e la necessaria considerazione che doveva essere rivolta ad altri settori dello scacchiere internazionale. Tramite il cardinale di Tournon, deciso assertore di un impegno francese in Italia, C., per conto di Salviati, cercò di sollecitare il finanziamento di un’impresa militare in Toscana di cui, nel frattempo, Filippo Strozzi reggeva le fila raccogliendo le truppe dei fuorusciti sbandate dopo i falliti colpi di mano contro Castrocaro e Borgo San Sepolcro. Inaspriti dalle molte tergiversazioni del re, i fuorusciti stabilirono di agire proprio mentre Francesco I si decideva per una modesta copertura finanziaria dell’impresa in Toscana, ma furono duramente battuti a Montemurlo (1º ag. 1537), ove vennero presi prigionieri Bartolomeo Valori e lo stesso Strozzi. Su questa disfatta pesò forse l’eccessivo ottimismo – sottolineato tra i moderni da Rudolf von Albertini (1955) – con cui C., probabilmente influenzato da Tournon, intese le volontà del re di Francia nei confronti del fuoruscitismo fiorentino.

Con la sconfitta militare dei fuorusciti si restrinse ulteriormente lo spazio dell’azione politica riservato a C., il quale, di ritorno da Lione nell’ottobre del 1537, si recò a Ferrara al servizio di Ercole II, avendo ottenuto una lettera di presentazione per il duca da parte dell’arcivescovo di Milano Ippolito d’Este. Normalmente stipendiato, sebbene tenuto lontano da incarichi di rilevante importanza, C. si volse quasi esclusivamente agli studi letterari, operando nell’ambito dell’Accademia degli Elevati e corrispondendo con personaggi di sicura notorietà quali i poeti Giambattista Giraldi e Lelio Capilupi, i filologi Lazzaro Bonamico e Daniello Barbaro, i retori Sperone Speroni e Vincenzo Maggi, l’editore Paolo Manuzio.

La lezione ‘paterna’ di M. influenza chiaramente scelte e motivazioni negli studi di questi anni, come la traduzione delle Historiae di Polibio. In una dedica a Ercole II d’Este si legge:

considerando bene queste cose, non crederà che per essere variato il tempo, sia impossibile imitarli [i Romani] e necessario perseverare in questa tanta corruzione degli ordini militari. Il che esser falso, non solo molte e vere ragioni, ma tutte quelle repubbliche o Principi in Italia con l’effetto dimostrerebbero, che avessero buon numero de’ sudditi e volessero, chinando l’intelletto e svegliando la generosità loro, per la via della disciplina antica camminar alla vera sicurtà e gloria, le quali due cose stimo dover essere l’obietto di quegli.

Il versante polemologico del pensiero di M. risulta invece palesemente operante in testi quali il Discorso circa la milizia romana, mai pubblicato, e La comparizione tra l’armadura e l’ordinanza de’ Macedoni, che, assieme al Calcolo sulla castramentazione, fu edita a Firenze nel 1552. Peraltro, il concetto di ‘virtù’ in C. differisce sensibilmente da quello machiavelliano, recuperando il valore morale tradizionale, secondo un modello di astratta «rettitudine» da contrapporre alla volubilità della fortuna e al precipitare degli eventi.

Ma fu soprattutto la Retorica che lo assorbì maggiormente nel periodo ferrarese: dapprima intrapresa per accondiscendere alle velleità letterarie del cardinale Estense, ma poi realizzata in forma personale – durante gli anni 1541-42 e 1545-46, tramite il consiglio e l’attiva collaborazione di Piero Vettori, che si stava in quel tempo interessando del medesimo argomento –, l’opera fu spedita in lettura al dotto corrispondente secondo l’abbozzo originario in quattro libri, e poi riveduta e ampliata fino alla stampa in sette libri (preludio di una notevole fortuna editoriale) avvenuta a Venezia nel 1559.

Nel 1548 C. lasciò Ferrara per recarsi a Roma al servizio di Paolo III. Grazie alla sua conoscenza di realtà francesi venne inviato nell’agosto in Piemonte per dissuadere Enrico II da un ennesimo progetto antispagnolo. Di ritorno a Roma, C. si fermò per qualche giorno a Firenze con lo scopo di riconciliarsi con Cosimo de’ Medici, riuscendo nell’intento dopo una serie di accordi preliminari stabiliti con l’ambasciatore fiorentino a Roma. L’anno successivo fu inviato presso Ottavio Farnese che tentava di impossessarsi di Parma mentre la città era contesa tra francesi e spagnoli e Piacenza si trovava, dopo la morte di Pierluigi Farnese, sotto il dominio degli imperiali. La guerra si concluse con piena soddisfazione per Ottavio e C. fu tra coloro che nel maggio 1552 firmarono la tregua fra i collegati franco-italiani e gli spagnoli.

Non v’era forse motivazione razionale, ma soltanto il desiderio di gloria – come suggerisce acutamente Christina Roaf (in B. Cavalcanti, Lettere edite ed inedite, a cura di C. Roaf, 1967) – e l’ambizione di dirigere ancora avvenimenti decisivi, che possa far intendere perché C., nell’ottobre del 1552, si decidesse a lasciare Parma, a rinunciare al recuperato favore di Cosimo de’ Medici per seguire il cardinale d’Este a Siena, compromettendosi in quella che doveva essere l’ultima e disperata difesa dei fuorusciti toscani.

La città cadde il 17 aprile 1555 e C. riuscì a stento a riparare a Roma, ove rimase sino all’inizio del 1557 come agente di Ottavio Farnese. Era il periodo in cui il neoeletto pontefice Paolo IV Carafa riproponeva una politica filofrancese che avrebbe dovuto contemplare un intervento armato del re in Piemonte e in Toscana. Finché Ottavio aderì a questa prospettiva, il suo uomo di fiducia a Roma assolse ancora qualche compito di rilievo, ma quando Enrico II, l’imperatore e Filippo II stipularono la tregua di Vaucelles (febbr. 1556) le funzioni del fiorentino decaddero rapidamente e si estinsero del tutto allorché, nel-l’agosto del 1556, C. venne informato dell’accordo tra Ottavio Farnese e il re di Spagna, il quale era disposto a restituirgli Piacenza. Ormai non esisteva più spazio politico per l’azione filofrancese di C. presso Ottavio che, stando alle ultime testimonianze epistolari, fu anche assai scarso nel corrispondere al diplomatico fiorentino le dovute retribuzioni. Si aggiungeva ai malanni di C. l’essere dichiarato ribelle da Cosimo de’ Medici, che non esitò a imprigionarne il figlio Giovanni sotto l’accusa di aver partecipato alla congiura di Pandolfo Pucci.

Lo sforzo economico compiuto per reperire i denari occorrenti per il riscatto del figlio lo portò alle soglie della miseria. Dal servizio presso Ottavio Farnese passò probabilmente agli ordini di Tournon, per trasferirsi infine a Padova, ove, sconfortato della vita pratica, attese all’edizione della Retorica, dettando quegli stanchi Trattati overo discorsi sopra gli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne che furono editi postumi (1571), con una prefazione di Sebastiano Erizzo. A Padova C. si spense il 5 dicembre 1562.

La parabola politico-letteraria di C. può essere interpretata come la crisi del machiavellismo, maturata in un clima di crescente, e talvolta confessata, sfiducia in quella pratica filologica che, riscoprendo il volto del passato, garantiva l’autorità e la scienza del ricercatore. Lo scrittore fiorentino visse in questo tramonto dell’ideale classicistico da cui solo l’esperienza di Guicciardini seppe dedurre la lezione più conseguente. Bilanciato tra la disistima della letteratura e un apprezzamento retorico della prassi, C. tentò di redigere e portò avanti un messaggio di tipo universalistico che in fondo soltanto il ‘filosofo’ Francesco Verino era propenso ad accettare sul piano delle disquisizioni alchimistiche.

Bibliografia: Lettere edite ed inedite, a cura di C. Roaf, Bologna 1967.

Per gli studi critici si vedano: G. Campori, Bartolomeo Cavalcanti, «Atti della regia deputazione di storia patria per le province modenesi e parmensi», 1866-1867, 4, pp. 137-70; G. Lisio, Orazioni scelte del secolo XVI ridotte in buona lezione e commentate, Firenze 1897 (v. l’introduzione di G. Folena alla ristampa, Firenze 1957); E. Picot, Les français italianisants au XVIe siècle, 1° vol., Paris 1906, pp. 257 e segg.; L. Pearsholt-Smith, The life and letters of sir Henry Wotton, Oxford 1907, ad indicem; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908, pp. 254 e segg.; C. Trabalza, La critica letteria, 2° vol., Milano 1915, pp. 139 e segg.; T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 44 e segg.; M. François, Le cardinal François de Tournon, Paris 1951, pp. 149-56 e passim; E. Garin, Note su alcuni aspetti delle retoriche rinascimentali, in Testi umanistici sulla retorica, Roma-Milano 1953, pp. 40 e segg.; R. von Albertini, Das florentinische Staats bewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla repubblica al principato, Torino 1970, pp. 165 e segg.); R. Cantagalli, La guerra di Siena, Siena 1962, ad indicem; G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, p. 341; E. Bonora, Il classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della letteratura italiana Garzanti, 4° vol., Milano 1965, ad indicem; G. Masi, Saper «ragionare di questo mondo». Il carteggio fra Machiavelli e Guicciardini, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1997, Roma 1998, pp. 487-522; M. Simonetta, Lettere «in luogo di oraculi»: quattro autografi dispersi di Luigi Pulci e di (e a) Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2002, 21, pp. 291-301.

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