DEL BENE, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DEL BENE, Bartolomeo (Baccio)

Paolo Procaccioli

Nacque il 9 nov. 1514 probabilmente a Firenze, e non in Valdelsa (come ipotizzavano il Negri e il Couderc), dal banchiere Niccolò di Albertaccio di Vieri e da Maddalena Ridolfi.

Subito dopo essersi sposato, il padre del D., insieme con il fratello Pietro, aveva lasciato Firenze per Parigi (1503), dove aveva servito alla corte di Luigi XII (col titolo di maître d'hôtel ordinaire), alternando però lunghi soggiorni fiorentini (nel 1512 era stato priore) alla permanenza in Francia. La famiglia, ragguardevole per origini e posizione, vantava una tradizione politica in senso repubblicano e antimediceo; cosicché, in seguito agli eventi del 1530 che, con il ritorno dei Medici, segnarono la caduta della Repubblica e la perdita della libertà, i Del Bene si ritirarono in un possedimento della Valdelsa. A quegli anni vanno ascritte la morte di Niccolò e, stando almeno a quanto lamenta il D., una fase di ristrettezze economiche (dovuta anche alla spartizione dell'eredità paterna con i fratelli Francesco e Albertaccio).

Intorno all'anno 1533 il D. sposò Clemenzia figlia di Giuliano di Lorenzo Buonaccorsi, dalla quale ebbe quattro figli: Giuliano, che il padre introdusse alla corte francese e poi, con il matrimonio di Margherita di Francia e di Emanuele Filiberto di Savoia, a quella piemontese; Alfonso, autore di opere storiche, per il quale ottenne da Caterina de' Medici l'abbazia di Hautecombe e, dal 1588, il vescovado di Alby; Lorenzo, che morì in giovane età, e Margherita, della quale si sa che nel 1571 sposò un Raffaello di Bilicozzo di Bilicozzo Gondi. Quasi a conformare l'itinerario della propria vita su quello paterno, subito dopo il matrimonio (ma il Carducci sposta questa data al 1542), il D. lasciò la Toscana per la Francia, dove, ben inserito nella cerchia degli italiani che gravitavano intorno a Caterina de' Medici, riuscì a guadagnarsi e a consolidare col tempo un ruolo di notevole rilievo che non conobbe sostanziali eclissi. E questo senza nascondere alla regina il suo dolore di repubblicano di fronte all'operato antidemocratico di Alessandro e Cosimo nella Firenze degli anni successivi al 1530. Valletto di camera di Enrico II dal 1547, nel periodo 1553-54 si ritirò volontariamente in Valdelsa per motivi che restano tuttora sconosciuti, per poi tornare alla vita di corte come chevalier servant di Margherita, la figlia di Francesco I. Ottenuta nel 1558 l'abbazia di Belleville, l'anno successivo seguì Margherita (la "Madama" delle sue odi, per la quale nutrì affetto e riconoscenza sinceri e duraturi) a Torino, alla corte di Emanuele Filiberto di Savoia.

Un'idea precisa della fiducia e del prestigio di cui il D. godeva alla corte parigina si può avere ricordando gli avvenimenti del 1562, quando la regina Caterina lo inviò a Firenze, ambasciatore presso il cugino Cosimo I, con la richiesta di un grosso prestito. La missione, delicata e difficile, ebbe esito positivo, anche se non fu coronata dalla soddisfazione di condurre con sé a Parigi, secondo il desiderio della regina, il Cellini. Lo scultore, che si definisce "molto domestico amico" dell'ambasciatore (Vita, II, 102), era infatti propenso ad accettare l'invito e ad impegnarsi a portare a termine il sepolcro di Enrico II; ma il rifiuto del duca troncò il progetto sul nascere.

Compiuta nello stesso 1562 una missione alla corte romana (probabilmente di analogo tenore), il D. ritornò a Firenze tre anni dopo, in occasione delle nozze di Francesco de' Medici con Giovanna d'Austria e, nel 1567, di nuovo per la richiesta di un prestito. Raggiunta Margherita di Francia a Torino verso il 1570, si trattenne nella città piemontese fino al 1574, anno della morte della principessa. Dopo un probabile soggiorno in Valdelsa raggiunse definitivamente Parigi: lì risulta infatti nel 1584 e dopo quella data non fece più ritorno in Toscana. Non si conosce l'anno di morte, ma dovette essere senz'altro posteriore al 1587 indicato dal Couderc, se il 25 febbr. 1588 scriveva una lettera a Firenze a Lorenzo Giacomini.

Accanto agli impegni diplomatici e cortigiani il D. coltivò per tutta la vita quelli letterari; padrone del latino e del greco, con "grandissima inclinazione alle lettere" (Negri, p. 78), dal 1571 membro dell'Accademia fiorentina degli Alterati col nome di Gravoso e dell'Académie du Palais di Enrico III (al quale, insieme con Iacopo Corbinelli, leggeva Plutarco e Tacito), confidava nella sua produzione poetica e a quella affidava la memoria di tutta un'esistenza. In una delle ultime odi, infatti, rivolgendosi a Firenze e costatando rassegnato l'impossibilità di un ritorno definitivo in patria ("queste ossa ormai del settantesimo anno / carche non ti rendo io") si dichiarava certo di una memoria letteraria più viva e vivida ("e invece i raggi dell'ingegno mio / a lampeggiar nel tuo bel seno andranno". E del resto aspettative del genere erano sufficientemente motivate da quel prestigio che il D. godeva, anche come poeta, in Italia (è tra i non molti poeti contemporanei compresi nel Vocabolario degli Accademici della Crusca) e in Francia, e che è testimoniato a sufficienza dai rapporti con personalità di spicco del mondo letterario quali Torquato Tasso, Desportes e Ronsard. Quest'ultimo, rispondendo a due sue lodi, gli dedica un'elegia che può essere considerata a tutti gli effetti il primo intervento critico sulla poesia del D.: al di là di un tono apertamente adulatorio che la sua stessa evidenza attenua e riduce a convenzione ("Del Bene, second Cygne apres le Florentin [Petrarca]"; "les dons d'Apollon dont se vit embellie, / quand Petrarque vivoit, sa native Italie, / estoient perdus sans toy"; "sous les ombres là-bas le Calabrois Horace / entre les Myrthes verds te quitera sa place, / et Pindare Thebain te cedera son lieu"), Ronsard mostrava di aver colto i motivi salienti di quella poesia. Ne metteva infatti in evidenza la radice petrarcheggiante ("depuis que ton Petrarque eut surmonté la Nuit / de Dante, et Cavalcant'"; ma va attenuato il motivo antidantesco che è più ronsardiano-bembesco che del D.); ne coglieva l'evoluzione tematica dalle prove amorose iniziali ai più tardi impegni in senso religioso morale e civile ("si tost que ton menton par l'âge fut blanchi, / et ton coeur des ardeurs de Venus affranchi ... celebrant tusquement, par tes chansons lyriques, / les illustres vertus des hommes heroïques"); dimostra di averne penetrato la psicologia ("plein d'une ame vive et d'un coeur genereux"). Ma, soprattutto, Ronsard aveva coscienza del "difficile ouvrage" in cui si era impegnato il fiorentino quando si era riproposto di introdurre l'ode oraziana nella tradizione volgare (e, insieme, il caposcuola della Pléiade coglieva l'occasione di rivendicare la priorità dei Francesi in generale - "imitant les Romains, les Grecs, et les François" - e sua in particolare, nel recupero e nella sperimentazione di quel genere). In Italia infatti è solo a metà del secolo, con Bernardo Tasso, e con un certo ritardo rispetto alla Francia, che si adotta lo schema metrico dell'ode. Senza voler contrapporre le prime due esperienze, quella tassiana e quella del D., e senza sollevare un'improbabile questione di priorità, ché ciascuna sottendeva in realtà una mediazione diversa (bembesca la prima, conformata sui poeti della Pléiade la seconda), bisogna notare che le prove del fiorentino, anche se per linguaggio e capacità compositiva non sono in genere all'altezza di quelle tassiane, pure rispetto a quelle denunciano una maggiore consapevolezza e autonomia tecnica. Al D. infatti risale l'introduzione della quartina secondo lo schema ABbA o AbBA o aBBA o l'adozione della strofa di cinque versi dallo schema AbCaA o aBBAA, mentre le odi del Tasso, che ignoravano il tetrastico, comprendevano "strofe di cinque o sei versi, tutti endecasillabi o settenari ovvero endecasillabi misti a settenari, secondo lo schema aBbAcC ovvero aBabB" (W. Th.

Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze 1973, par. 102).

L'opera poetica del D. ci è giunta conservata in due codici cartacei, il cod. 7 della Biblioteca universitaria di Le Mans e il cod. Magliabechiano, VII, 446 della Nazionale di Firenze. Il primo, che è in parte autografo, contiene novantasette odi, due delle quali cancellate poi dallo stesso autore (non è improbabile che il manoscritto, per le caratteristiche che presenta, fosse oggetto di revisione e integrazione da parte dell'autore in vista della stampa). Si tratta di una raccolta dalla struttura ben precisa: i componimenti, quasi tutti d'occasione e dedicati ad amici o a grandi personalità del mondo politico o culturale, sono preceduti da una breve prosa che serve insieme a darne una rapida spiegazione e a motivarne la presenza tra gli altri; inoltre, sono tutti disposti secondo un chiaro disegno cronologico che, assegnando ogni ode a un giorno del mese, inizia col primo dicembre e continua con tutto gennaio per fermarsi di colpo al 26 febbraio. Scopo dell'autore era evidentemente di proporre un'ode per ogni giorno dell'anno, dato che proprio Anno avrebbe dovuto essere il titolo. La poesia delle odi sottende un itinerario amoroso-morale tutto implicito, incentrato inizialmente intorno alla figura di Clori (forse da identificare con una certa "madama d'Arme gentildonna di Normandia") e ben presto risoltosi in componimenti sinceri e devoti di lode e, poi, di compianto, per Margherita di Francia. Non mancano comunque toni più fermi nei componimenti contro l'eresia ugonotta, contro il servilismo dei cortigiani o contro l'ambizione e l'avarizia dei papi; mentre invece quelli di più decisa condanna antimedicea ("vid'io fiorir di Libertade il Giglio / già fanciulletto a pena, / et pure in questa età di danni piena / anchor del suo sfiorire ho mesto il ciglio") sono poi, probabilmente proprio per i rapporti con Caterina de' Medici, debitamente cancellati. A una problematica misticheggiante si riconduce la discussione dell'ode a Torquato Tasso, dove riconnette la pazzia del poeta ad un amore mal indirizzato. Decisamente più congeniale al D. la nota elegiaca; le meditazioni sui paesaggi e sulle stagioni, i ricordi dell'infanzia, il mondo degli affetti familiari hanno grande importanza nella sua poesia e in effetti l'orizzonte più ristretto della problematica personale risulta alla fine il più consonante con la sua ispirazione e il più adeguato al suo registro espressivo.

Del tutto diversa, riconducibile alla tradizione rusticale toscana, la tipologia dei componimenti contenuti nelle dieci carte del codice Magliabechiano, e cioè il Lamento nella morte del Goga, le ventiquattro Stanze di Meo di Valdelsa alla Tina da Campi e il Sonetto alla Tina da Campi che avea mandato un picchio e una pispola a Meo.La localizzazione dei due codici e la precisa caratterizzazione delle tematiche e delle tradizioni letterarie che sottendono risultano, per molti versi, emblematiche se non proprio di una doppia stagione culturale del D., almeno di una duplice dipendenza da modelli ed esperienze decisamente contrastanti: in un caso propriamente francesi e classicistici, nell'altro decisamente toscani e popolareggianti, con un'apertura significativa anche agli sviluppi più recenti della sperimentazione poetica (come nei due capitoli in terzine, il Lamento delle fanciulle in casa e, questo di evidente ascendenza bernesca, In lode della carbonata). "La Tina mia è più bella che sette / Nencie, e più vaga che cinquanta Beche" recitano i primi due versi della seconda ottava delle Stanze di Meo della Valdelsa alla Tina da Campi, a conferma e ulteriore esplicita riprova di un recupero cosciente della tradizione rusticale e di un confronto diretto con gli incunaboli più illustri di quel patrimonio poetico. Mentre, con il loro solo accostarsi alle prove francesi, testimoniano di una vena poetica non monocorde (si tenga presente che al D. va ascritto anche un impegno nella produzione delle "frottole" che ci è rimasto documentato solo da un frammento di quattro versi), le opere di ispirazione burlesca e popolareggiante autorizzano anche una lettura più complessa di quella sperimentazione metrica condotta coll'adozione della forma dell'ode. Lo sforzo poetico del D., anche a prescindere dai meriti di una mediazione franco-italiana altrettanto proficua sull'uno e sull'altro versante, ne risulta maggiormente articolata e guadagna in consapevolezza critica. E allora scelte e proposte stilistiche anche differenti non sono più sinonimi di superficialità d'ispirazione o di adeguamento piattamente automatico e passivo al modello dominante a Parigi come a Firenze, ma postulano decisamente una precisa opzione "di genere".

Più vicina alla stagione e alla sensibilità culturale parigina la Civitas veri sive morum, una meditazione poetica in esametri latini che svolge un itinerario morale sulla scorta dell'Etica Nicomachea. Suddivisa in trenta giorni e illustrata da altrettanti quadri allegorici, parte dalla canonica descrizione dei cinque sensi e, passando in rassegna i vizi e le virtù corrispondenti, percorre i vari gradi dell'elevazione del filosofo per concludersi coll'altrettanto canonica lode della sapienza. Dedicata a Enrico III e rimasta inedita, l'opera fu pubblicata a Parigi nel 1609 a cura di Alfonso Del Bene e con un commento latino di Teodoro Marcilio.

Opere: Rime di Bartolommeo Del Bene ora per la prima volta pubblicate, Livorno 1799 [ma 1816], edizione approntata da Gaetano Poggiali, ma licenziata dal figlio Domenico (comprendente diciotto odi, i componimenti rusticali e quelli berneschi); C. Couderc, Les poesies d'un fiorentin à la cour de France au XVIe siècle (B. D.), in Giorn. stor. della lett. ital., XVII (1891), pp. 1-45, alle pp. 33-44 pubblica sette odi del D.; G. Carducci-S. Ferrari, Odi XXVIII di Bartolomeo Del Bene gentiluomo fiorentino, (nozze Albicini-Binelli), Bologna 1900; N. Tarchiani, Un idillio rusticale e altre rime valdelsane di Bartolommeo Del Bene, Castelfiorentino 1903, alle pp. 56-76 pubblica due componimenti rusticali e sei odi. La frottola antimedicea fu pubblicata a cura di C. Arlìa in Il Borghini, VI (1880), 17, p. 271. Indicazioni di odi pubblicate singolarmente in Carducci-Ferrari, cit., pp. 93-98. Dal cit. codice 7 di Le Mans sono stati tratti i testi editi da L. A. Colliard in Il tema alpestre in due odi inedite d'un poeta italo-francese del Cinquecento: Barthélemy d'Elbène (Valico del Moncenisio e Valle d'Aosta), in Segusium, XIII-XIV (1978), 13-14, pp. 38-89; Id., Philippe Desportes in un'ode inedita del suo amico italo-francese Barthélemy d'Elbène (Bartolomeo del Bene), in Mélanges à la mémoire de Franco Simone. France et Italie dans la culture européenne, I, Moyen Age et Renaissance, Genève 1980, pp. 459-79; Id., Une autre ode inédite adressée à Philippe Desportes par son ami Barthélemy d'Elbène, in Studi francesi, XXIII (1979), 69, pp. 481-88.

Fonti e Bibl.: Parigi, Bibl. nationale, N. Acq. Fr. 1201, f. 84; P.O. 988, Del Bene, 9, 10; Négociations diplom. de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini-A. Desjardins, IV, Paris 1872, pp. 480, 510; Lettres de Catherine de Médicis, a cura di H. de La Ferrière, I, Paris 1880, pp. 367, 620; III, ibid. 1887, pp. 67, 119; VIII, ibid. 1901, pp. 204, 209, 442; IX, ibid. 1905, p. 329; X, ibid. 1909, p. 513; Catalogue des actes de François Ier, II, Paris 1888, p. 449; VI, ibid. 1894, p. 329; VII, ibid. 1896, p. 227; Recueil d'actes notariés relatifs à l'histoire de Paris… au XVIe siècle, a cura di E. Campardon, II (1532-1555), Paris 1923, p. 103. L'elegia di P. de Ronsard in Oeuvres complètes, a cura di G. Cohen, II, Paris 1950, pp. 650-651; J. Vauquelin de la Fresnaye, Art poétique, Caen 1612, I, pp. 691-692; Tristan l'Hermite, La Toscane françoise, Paris 1663, pp. 273, 295;Firenze, Bibl. naz., Mss. Magl. IX, 66: A. G. Cinelli, La Toscana letterata ovvero storia degli scrittori fiorentini, cc. 4-5; G. M. Crescimbeni, Storia della volgar poesia, Venezia 1730, IV, 2, p. 91; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 78 s.; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Milano 1741, II, p. 264; G. M. Mazzuchelli, Gli scritt. d'Italia, Brescia 1760, II, 2, pp. 803 s.; F. Flamini, Le rime di Odetto de la Noue e l'italianismo al tempo di Enrico III, in Id., Studi di storia letter. italiana e straniera, Livorno 1894, pp. 341 s.; F. Pintor, Delle liriche di Bernardo Tasso, in Ann. della R. Scuola normale superiore di Pisa, classe di filosofia e filologia, XIV (1900), pp. 172 s., n. 4; R. Peyre, Une princesse de la Renaissance, Marguerite de France, Paris 1902, passim; E.Picot, Les Italiens en France au XVIe siècle, Bordeaux 1901-18, pp. 88-96; F. Neri, Il Chiabrera e la Pléiade francese, Torino 1920, pp. 17-28, 122; P. de Nolhac, Ronsard et l'Humanisme, Paris 1921, passim.

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