PANCIATICHI, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PANCIATICHI, Bartolomeo

Giorgio Caravale

PANCIATICHI, Bartolomeo. – Nacque in Francia nel 1507 da una relazione extramatrimoniale del padre, Bartolomeo, legittimata il 29 marzo 1531 dal vescovo Alessandro Campeggi.

Appartenente a una stirpe di ricchi mercanti stabilitasi a Firenze, discendente dalla famiglia che a Pistoia guidava la fazione medicea, nobilitata da Leone X, Panciatichi risiedette a Lione fino al 1538, dove il padre dirigeva una delle maggiori banche della nazione fiorentina. Avendo prestato denaro a Luigi XII per la conquista del Milanese, Bartolomeo ottenne che il suo unico figlio venisse accolto come paggio alla corte di Francesco I.

Lione, la seconda città del Regno, era un centro di banche e di attività commerciali in stretto contatto con l’Italia, con i cantoni svizzeri e con il mondo germanico: molte erano le stamperie e fiorenti gli studi umanistici, che ben presto si aprirono alle idee della Riforma protestante. Nel 1532 vi si stabilì François Rabelais e due anni dopo étienne Dolet. Le idee luterane vi erano penetrate fin dal 1520, trovando un ambiente favorevole nel ceto mercantile curioso e colto.

In quel vivace ambiente culturale, il giovane Panciatichi costruì la sua formazione intellettuale. Si trattò di un’educazione rivolta più al latino e alla letteratura italiana che non ai traffici e ai commerci, compiuta tra Lione e Padova, dove frequentò lo Studio dal 1529 al 1531, come testimoniano da un lato le sue poesie latine e volgari, dall’altro la scelta di lasciare, dopo la morte del padre, la gestione dell’impresa familiare lionese ai parenti più stretti. Panciatichi aveva stretto amicizia con Jean de Vauzelles, poeta di modesta levatura ma stimato da Rabelais, da Dolet, da Ortensio Lando per la sua ampia cultura umanistica e i suoi trascorsi universitari italiani. Quell’amicizia fu decisiva nell’orientare le scelte religiose di Panciatichi.

Abate di Montrottier, fra il Beauregard e Trévoux, nominato da Margherita d’Angoulême, regina di Navarra e sorella di Francesco I, Vauzelles fu maestro delle suppliche, uomo di grande carità e filantropo: soccorse con generosità i poveri affamati accorsi a Lione nel 1531 e legò all’Ospedale una rendita annuale di 300 lire tornesi. Ma soprattutto fu coinvolto nel movimento spirituale dell’evangelismo francese, che conobbe in Lefèvre d’étaples, nel vescovo Guillaume Briçonnet e in Louis de Berquin i suoi più noti esponenti, tutti uniti da una comune devozione per la loro protettrice Margherita di Navarra.

Panciatichi fu l’intermediario di Jean de Vauzelles con Pietro Aretino, del quale l’abate di Montrottier tradusse in francese l’Umanità di Cristo, dedicandola a Margherita di Navarra, e la Passione di Cristo, entrambe apparse a Parigi nel 1539. Panciatichi si affrettò a inviare le prime copie a Venezia e l’Aretino rispose immediatamente manifestando la sua gratitudine per l’interessamento e inviando al contempo segnali di grande apprezzamento per la qualità della traduzione.

È verosimile che, proprio per mezzo di Vauzelles, Panciatichi abbia conosciuto Margherita di Navarra – grande ammiratrice di Dante e della cultura fiorentina – che dimorò a Lione nell’inverno del 1524-25, nel 1536 e nel 1538. Per molti anni Panciatichi fu il tramite tra la sorella del re e la corte medicea. In una lettera scritta da Poissy il 15 aprile 1549 e indirizzata a Cosimo I, Panciatichi raccontò di quando era andato a «visitare madama Margherita sorella del re da parte di Vostra Eccellentia […] Il che fu tanto grato a sua altezza per essere ella veramente un specchio di cortesia et d’honestà, che mi disse terria perpetua memoria di Vostra Eccellentia per far loro cosa grata quando ella n’havesse l’ocasione» (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 393, c. 229r). Come è facile dedurre dalla terminologia utilizzata in questa missiva, Panciatichi sicuramente conobbe l’opera poetica e religiosa di Margherita, tra cui il suo Miroir de l’âme pécheresse (1531), nel quale aveva espresso esplicitamente la sua adesione ai capisaldi del riformismo francese andando incontro alle censure della Sorbona.

Alla fine del 1538 o ai primi del 1539 Panciatichi, che nel 1534 aveva sposato Lucrezia di Gismondo Pucci, si stabilì a Firenze, dove fu accolto con molta simpatia dagli ambienti letterari, desiderosi di uscire dall’isolamento culturale seguito alla fine della Repubblica e al costituirsi del Principato e felici dunque di avere un diretto canale di contatto con la cultura francese. Panciatichi fu uno dei primi membri dell’Accademia degli Umidi, dove fu accolto il 20 gennaio 1541. Il 31 dello stesso mese fu eletto riformatore degli Statuti dell’Accademia Fiorentina insieme con Cosimo Bartoli, Alessandro Del Caccia e Lorenzo Benivieni e, infine, console nel 1545. Secondo Anton Francesco Doni, il quale gli dedicò le sue Lettioni d’academici fiorentini sopra Dante, il suo consolato fu uno dei più felici. Non impiegò molto tempo per entrare nelle grazie del duca e degli uomini della sua cerchia. Di lì a pochi anni risulterà essere uno dei principali fideiussori del tipografo granducale Lorenzo Torrentino, garantendogli, all’inizio della sua attività (nel 1549), un prestito di duemila scudi.

Intorno alla metà degli anni Quaranta fu impiegato da Cosimo I per incarichi di fiducia: il 15 aprile 1546 scriveva da Bologna a Pier Francesco Riccio, che di Cosimo I era segretario, del suo ritorno a Firenze nonostante «una bestiale febbre» per soddisfare a una richiesta del duca; nel maggio del 1547 da Lione informava Riccio sulla prossima incoronazione di Enrico II. Fu poi inviato ufficialmente alla corte di Enrico II e di Caterina de’ Medici, in occasione della nascita del loro quarto figlio, per tentare di riallacciare i rapporti con la monarchia francese, resi difficili dal contrasto e dalle guerre con l’Impero.

I rapporti diplomatici tra Firenze e Parigi erano infatti sospesi sin dal luglio del 1547 a causa dello sgarbo subito da Giovan Battista Ricasoli, ambasciatore fiorentino, preceduto nel giorno dell’incoronazione di Enrico II dagli ambasciatori mantovano e ferrarese. Il 7 marzo 1549 Cosimo I diede precise istruzioni a Panciatichi di trattare la questione della precedenza con la regina e poi con il re, fidando sul proprio legame di parentela con Caterina. L’ambasciatore ricevette un’accoglienza cordiale, ma sulla questione delle precedenze incassò solo vaghe promesse.

Panciatichi non aveva mai smesso di tessere i suoi rapporti con il mondo francese, come testimonia la sua vivace corrispondenza con Renata di Francia, moglie di Ercole II d’Este, e le numerose lettere inviate a Cosimo I da Lione e da Poissy nelle quali rendeva conto degli spostamenti dei singoli membri della corte francese, nonché delle manovre diplomatiche del re e dei suoi principali collaboratori. In occasione dei suoi frequenti viaggi in Francia (Panciatichi era tornato a Lione nel 1539 e poi nel 1547) il banchiere-letterato continuò del resto a coltivare i suoi contatti diretti con esponenti del fronte riformato francese, riportando a Firenze notizie sulla diffusione delle idee protestanti, ma anche libri, come quelli che procurò nel 1540 all’amico Aonio Paleario, fra i quali è verosimile si trovasse anche l’Institution de la religion chrétienne di Giovanni Calvino. Paleario utilizzò tra l’altro l’intermediazione di Panciatichi per far recapitare alcune lettere all’editore lionese Sébastien Gryphe. Parlando con i suoi colleghi dell’Accademia Fiorentina non fece velo della sua aperta simpatia per il calvinismo, e ben presto iniziò a frequentare una conventicola fiorentina di «luterani».

Ma Firenze non era Lione. Di qui le prime accuse di eresia. Fu il marchigiano don Pietro Manelfi, il grande pentito del Cinquecento, a fare per la prima volta il nome di «Bartolomeo Panzatico» come «luterano» e possessore di «libri eretici» di fronte all’inquisitore bolognese fra Leandro Alberti, il 17 ottobre 1551 (Ginzburg, 1970, p. 39). Non trascorsero neppure due mesi da quella denuncia che a Firenze, in dicembre, gli inquisitori, contestualmente all’arresto di Ludovico Domenichi e forse su delazione di questi, scoprirono, il 6 dicembre 1551, una conventicola di 35 persone («et erano mescolati artigiani e nobili di ricchezze»), i quali «sprezzavano l’ordine della santa romana Chiesa e ogni rito santo e solo dicevano basta credere a Dio, tra’ quali era un Bartolomeo Panciatichi, ricco di trentamila scudi». Tra questi, quindici finirono alle Stinche «e gli altri più grassi stavano in prigione con gran paura et erano esaminati» (Caponetto, 1979, pp. 236 s.). È probabile tuttavia che l’arresto di Panciatichi sia avvenuto successivamente alla data della scoperta della conventicola, come suggerisce una lettera del 13 dicembre di Riccio al duca «con un piego del Panciatico a messer Lorenzo Pagni, che saranno nuove di Francia», e gli avvisi lionesi che lo stesso Panciatichi spedì al duca il 24 dicembre (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 406, cc. 544v, 695rv).

Tuttavia, sin dal 9 gennaio 1552 Cosimo I era intervenuto presso i «commissari sopra l’inquisizione» per difendere il suo protetto. Con un esplicito riferimento agli interessi fiorentini, commerciali e non solo, di cui Panciatichi era rappresentante ufficiale in Francia, il duca scrisse loro che dal momento che «questa inquisitione li potrebbe molto nuocere et pregiudicare nelli suoi negotii di Francia, ne’ quali quando la si intendesse tale imputatione sua, potrebbe causarsi la rovina sua», per questo motivo «quando non habbiate trovato in lui alcuno elemento di momento o che non habbiate inditio contra di lui che stringa ci sarà grato che voi supprimiate questa inquisitione a fine che senza causa o colpa sua non habbi ad apportargli danno et preiuditio nelle bande de Francia et altrove, dove lui come sapete da faccende mercantili d’assai importantia» (ibid., 196, c. 60v). Il messaggio giunse forte e chiaro. Firenze ebbe il suo autodafé con la processione degli eretici per la città con la torcia in mano e l’abitello giallo con la croce rossa. Ma Cosimo evitò ai «nobili di ricchezze», e a Panciatichi per primo, l’umiliazione della processione. Il 12 febbraio tre donne, tra cui la moglie di Panciatichi, «le quali erano nella medesima pazzia che i mariti», furono esaminate e condotte nella chiesa di S. Simone e, «presente il popolo, si ribenedissero». Panciatichi intanto doveva muoversi piuttosto liberamente se il 5 e il 18 febbraio trasmetteva notizie e avvisi di Francia a Cosimo, allora a Pisa, senza alcun cenno alle sue traversie inquisitoriali.

Ancora il 6 aprile 1552, però, Panciatichi scriveva al duca chiedendogli di liberarlo «dalli lacci et artigli della malignità» affinché «con honore, il quale è la vera vita dell’huomo da bene del quale fo professione, possa sempre servire honoratamente vostra Eccellenza» (ibid., 408, c. 63rv). I dettagli della vicenda, e in particolare la bramosia degli inquisitori desiderosi di mettere le mani su alcune «possessioni nel Bolognese», glieli avrebbe fatti riferire da Lucantonio Ridolfi, console della nazione fiorentina di Lione nel 1549, al quale aveva evidentemente chiesto di svolgere il ruolo di intermediario. Il duca non perse tempo. Il 9 aprile annunciava a Panciatichi di aver scritto «a’ commissari sopra la inquisitione conforme al desiderio vostro perché venghino alla espeditione del processo con tal determinatione che l’honor vostro non resti macchiato né aperta la via ad altri di potervi nuocere». Cosimo I si mostrava pienamente fiducioso che la vicenda si sarebbe presto conclusa: «Crediamo non ne mancheranno, poiché lo possono anco fare con giustitia constando loro per le buone opere dell’innocentia vostra et non essendo la colpa legittimamente provata» (ibid., 197, c. 58rv).

L’azione messa in opera dal duca raggiunse il risultato sperato e presto Panciatichi fu scagionato da ogni accusa e libero da ogni attenzione inquisitoriale grazie a «una sorta di assoluzione extragiudiziale» (Firpo, 1997, p. 371). I guai di Panciatichi non terminarono però con la riconquistata libertà. Nell’arco della seconda metà degli anni Cinquanta furono numerose le lettere da lui inviate a Cosimo I per ricevere aiuto di fronte alla massa di creditori che si affacciò in quegli anni alla sua porta e sono del resto documentati i numerosi prestiti che in quel tempo ottenne dal duca stesso (per esempio, ibid., 448, c. 543r; 466, c. 354r; Soprassindaci, 3, n. 36).

Nel frattempo, quando ancora si trovava sotto giudizio inquisitoriale, Panciatichi era stato fatto eleggere, il 24 febbraio 1552, consigliere dell’Accademia. Non appena risolti i suoi problemi giudiziari, ricominciò così la sua carriera politica: nel 1567 fu nominato senatore, non senza disappunto degli ambienti clericali memori dei suoi ambigui trascorsi religiosi. L’anno successivo fu inviato commissario a Pisa e nel 1578 lo fu a Pistoia. Le simpatie per il calvinismo e gli ugonotti dovevano essere un ricordo ormai lontano, tuttavia egli non aveva abbandonato il gusto per la lettura della Sacra Scrittura. Il 20 marzo 1576 dedicò alla duchessa Eleonora alcune canzoni di imitazione petrarchesca dove ricorreva il motivo della miseria umana e della fiducia del perdono divino (Sette canzoni spirituali a imitazione de’ sette Salmi, detti penitenziali, del real profeta David, manoscritte a Firenze, Biblioteca nazionale, Magl. VII, 263).

La settima di tali canzoni in particolare si chiudeva con una preghiera, rivelatrice di una sedimentazione di pensieri e sentimenti tipici della Riforma: «Se tua Pietà non fosse, chi potrebbe / Vantarsi d’esser giusto, / E di vertuti aver già colmo il seno. / Ma perché non t’increbbe / Far il giusto d’ingiusto / Con la grazia al tuo Lume sereno / Vengo d’umiltà pieno / E perché indegno, degno tu mi renda, / E del fuoco m’accenda / La tua pietà, sì che di morte il gielo / Si strugga e voli ardendo l’Alma in cielo».

Panciatichi morì a Pistoia nel 1582.

Agnolo Bronzino eseguì nei primi anni Quaranta due celebri ritratti di Panciatichi e Lucrezia, esposti oggi nella Galleria degli Uffizi di Firenze, «tanto naturali, che paiono vivi veramente, e che non manchi loro se non lo spirito», come li definì Giorgio Vasari (Opere, II, Milano 1829, p. 641). La bionda moglie Lucrezia, «nobil figlia del silenzio» che sembra uscire luminosa da una nicchia di tenebre, poggia delicatamente la mano su un libro d’ore che si apre tradizionalmente con il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, «In principio erat Verbum…» e continua con la narrazione della passione di Cristo; nel dipinto, esso compare aperto nella parte delle Laudes, dove si legge il finale del salmo 149, Laudate Dominum de coelis…, mentre sulla destra si legge chiaramente l’inno a Maria: «O gloriosa Domina / Excelsa supra sidera / Qui te creavit provide / Lactasti sacro ubere. / Quod Eva tristis abstulit / Tu reddis almo germine».

Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca Marucelliana, B.III.52, c. 2r; Annali I, c. 75r; Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 1172, ins. 4, c. 9; 1175, ins. 4, c. 170; 347, c. 652r; 350, c. 153r; 357, c. 289r; 358, cc. 565r, 599r, 611r; 363, cc. 97r, 434r; 364, cc. 175r, 182r-183r, 339r; 366, c. 322r; 367, c. 117r; 368, c. 260r; 370, c. 335r; 371, cc. 161r, 367r-368r; 377, c. 174r; 378, cc. 392r-393v; 379, c. 320r; 392, cc. 206r, 217r; 393, cc. 157r-158r, 229r, 260r, 343r-344r, 414r-415r, 576r-577r; 394, cc. 242r e 441r; 394A, cc. 799r, 843r, 1051r; 395, cc. 89r, 533r, 659r-660r, 718r; 396, cc. 256r, 258r, 279r, 372r, 472r; 397, cc. 98r, 175r; 397A, c. 913r; 398, c. 560r; 400, cc. 293r-294r; 404, c. 24r; 404A, c. 667r; 406, c. 695r; 407, cc. 352r, 490r; 410, cc. 3r-4v; 448, c. 378r, 543r, 565r; 466, c. 354r; 467, c. 315r; 473, cc. 213r-215r; 478, c. 102r; 487, c. 510r; A. Paleario, Epistolae, libro II, n. XV; S. Salvini, Fasti consolari dell’Accademia fiorentina, Firenze 1717, p. 59; L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Panciatichi, Firenze 1858, pp. 68-71; B. Fontana, Renata di Francia duchessa di Ferrara: sui documenti dell’Archivio estense, del mediceo, del Gonzaga e dell’Archivio secreto Vaticano, II, Roma 1893, p. XXXIII; H.A.S. de Charpin-Feugerolles, Les florentins à Lyon, Lyon 1893, p. 155; E. Picot, Les Italiens en France, Bordeaux 1902, pp. 84 s.; Id., Les Français Italianisants au XVIe siècle, I, Paris 1906, pp. 117-159; E. Palandri, Les négociations politiques et religieuses entre la Toscane et la France à l’epoque de Cosme Ier et Catherine de Médicis 1544-1580, Paris 1908, pp. 62-64, 206-210; L. Becherucci, I manieristi toscani, Bergamo 1944, p. 44; A. Emiliani, Il Bronzino, Busto Arsizio 1960, tavv. 22, 25; Tutte le opere di Pietro Aretino. Lettere. Il primo e secondo libro, a cura di F. Flora, Milano 1960, nn. 103, 159, pp. 559 s., 644 s.; B. Maracchi Biagiarelli, Il privilegio di stampatore ducale nella Firenze medicea, in Archivio storico italiano, CXXIII (1965), p. 310; Lettere scritte a Pietro Aretino, Bologna 1968 (ristampa anastatica, Venezia 1551), II, pp. XLVII s., 91-93; C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze 1970, p. 39; R. Gascon, Grand commerce et vie urbaine au XVIe siècle: Lyon et ses marchands, Paris 1971, pp. 124, 220, 229, 363; S. Caponetto, Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante in Toscana, Torino 1979, pp. 88-94; F. Piavan, Gli studi padovani di B. P., in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, XX (1987), pp. 119-122; G. Bertoli, Luterani e anabattisti processati a Firenze nel 1552, inArchivio storico italiano, CLIV (1996), I, pp. 59-122; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a S. Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino 1997, pp. 358-363, 369-371; E. Garavelli, Lodovico Domenichi e i ‘Nicodemiana’ di Calvino. Storia di un libro perduto e ritrovato, Manziana 2004, pp. 49, 52, 56 s., 177; E. Belligni, Renata di Francia (1510-1575). Un’eresia di corte, Torino 2011, pp. 287, 324.

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