Bashar al-Assad: il destino di un dittatore

Atlante Geopolitico 2015 (2015)

di Eugenio Dacrema

Bashar al-Assad è un uomo fortunato. Lo è perché, dopo essere rimasto a lungo soltanto un secondogenito in ombra, si è visto regalare la presidenza da un incidente stradale che ha tolto di mezzo Basil al-Assad, suo fratello maggiore e delfino del padre. Ma lo è soprattutto perché, in qualche modo, ogni volta che commette enormi errori di calcolo nella sua gestione del potere, emerge immediatamente un salvifico intreccio d’interessi internazionali che lo toglie dai guai. Era successo già nel 2005. Lo spettacolare omicidio di Rafik Hariri, primo ministro libanese anti-siriano saltato in aria nel centro di Beirut, non aveva portato a quella svolta politica favorevole a Damasco e ai suoi alleati locali (Hezbollah) in cui probabilmente speravano gli autori dell’attentato. Era esplosa, invece, l’indignazione della popolazione locale e della comunità internazionale portando alla cacciata delle truppe di Damasco dal paese dei cedri. L’attentato contro Hariri, di cui, anche se forse non era direttamente responsabile, il regime siriano non poteva non essere a conoscenza, si era rivelato un clamoroso autogol per Assad e sembrava aver relegato la Siria al ruolo di paria sulla scena internazionale. Lo scacco alla classe dirigente del regime era stato grande, e il rischio di delegittimazione interna era concreto. Ma entro un paio d’anni un inaspettato salvagente venne lanciato al giovane dittatore, quando la Francia del presidente Nicolas Sarkozy, che da tempo cercava un ventre molle nel Mediterraneo da cui partire per costruirsi un ruolo di protagonista nella regione, decise che sdoganare Assad le avrebbe permesso di guadagnare a buon mercato un alleato strategico nel cuore del Medio Oriente. La Francia fece da apripista, e uno dopo l’altro gli altri stati europei tornarono a considerare Assad un interlocutore autorevole: nel marzo 2010, l’Italia lo nominò addirittura cavaliere di gran croce, decorato di gran cordone dell’ordine al merito della Repubblica italiana (onorificenza ritirata in gran fretta dal presidente Giorgio Napolitano nell’ottobre 2012 su sollecitazione di 22 senatori). Difficile dire se Assad avesse compreso di aver fatto un grande errore di calcolo che solo per caso si era risolto a suo favore. Di sicuro questa vicenda non l’ha reso più scaltro politicamente. Qualche anno dopo, nel 2011, quando le prime proteste spuntarono anche in Siria dopo aver travolto Tunisia, Libia e Egitto, il dittatore di Damasco fece ancora una volta un errore. Era il 30 marzo 2011 e c’erano appena state le prime manifestazioni nel corso delle quali era stata chiesta rispettosamente qualche riforma e la fine dello stato di emergenza. Bashar al-Assad apparve di fronte al parlamento siriano. Chi osservava e conosceva bene la Siria era convinto che avrebbe concesso qualche riforma cosmetica per accontentare un paese che in fondo aveva ancora fede nella sua volontà di riformare nel lungo termine il regime. Il discorso fu invece una farsa. I manifestanti furono definiti terroristi, nessuna riforma fu annunciata e la protesta venne liquidata come eterodiretta e criminale. La spirale che s’innescò in seguito si racconta da sé. Nuove manifestazioni, nuovi scontri, morti e feriti in un vortice inarrestabile, fino alla vera e propria guerra civile. Chiunque abbia seguito questi quattro anni di tragedia siriana sa che quella data ha cambiato tutto. Il dittatore aveva avuto una chance, ma non era stato in grado di vederla e di agguantarla. A fine 2014, quasi quattro anni dopo, un paese semidistrutto, 250.000 morti e oltre 3 milioni di rifugiati, sembra che la sua fortuna e il suo cinismo stiano di nuovo salvando Bashar dal suo autoprocurato destino. Nell’agosto 2013 un insensato quanto brutale attacco chimico aveva portato l’America sul punto di sferrare un attacco che poteva risultare decisivo contro Damasco. Solo il capolavoro diplomatico di Vladimir Putin – insieme all’Iran il più importante alleato di Assad – che aveva portato all’accordo per la distruzione delle armi chimiche di Assad aveva evitato il peggio. A un anno di distanza sono nuovamente i bombardieri americani che potrebbero risultare determinanti per i destini del regime, anche se questa volta in senso diametralmente opposto. L’offensiva sferrata dall’America e dai suoi alleati contro le postazioni dello Stato islamico – formazione nata in Iraq a metà degli anni Duemila e diffusasi in Siria durante il conflitto anche grazie alla cinica strategia del regime siriano che per lungo tempo ha evitato di bombardarne le postazioni in modo da poterla utilizzare come strumento politico contro l’Occidente – sta infatti giocando a favore del regime che in più di una occasione ha potuto approfittare dei raid americani per riappropriarsi di territori perduti da anni e per disimpegnare forze preziose e concentrarle contro le zone controllate da quel che resta dell’opposizione laica. Ma è soprattutto dal punto di vista dell’immagine che la nuova campagna anti-Is potrebbe risollevare le sorti del regime di Assad. Essa ha infatti permesso al dittatore di Damasco di mettere in ombra almeno in parte il recente passato di repressione e violenza e di apparire nuovamente di fronte al mondo come il difensore dei principi di laicità contro la barbarie dell’estremismo religioso. Non sono pochi, infatti, gli osservatori occidentali che, non senza qualche ragione, dichiarano l’impossibilità di poter portare a termine con successo l’offensiva contro le forze dell’autoproclamato califfato senza la coordinazione con il regime di Damasco e le sue forze armate. Un riconoscimento di fatto finora rifiutato dall’amministrazione Obama, ma che potrebbe arrivare quanto prima se le forze curde e degli altri alleati locali dovessero dimostrarsi insufficienti a contrastare l’offensiva del nuovo califfo. Anche se implicitamente, ciò porterebbe Assad a diventare un alleato strategico di quell’Occidente che negli ultimi quattro anni ha tentato in più modi di sancire la sua fine e lo trasformerebbe in un prezioso baluardo della ‘civiltà’ contro la barbarie. Non male, per uno dei dittatori più sanguinari del Medio Oriente

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