GIUDICI, Battista dei

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIUDICI, Battista dei

Diego Quaglioni

Figlio di Lorenzo, di cospicua e nobile famiglia intemelia, nacque a Finale, nel Marchesato ligure dei Del Carretto, tra il 1428 e il 1429 (il suo epitaffio, dettato prima del 15 apr. 1484, lo dice infatti scomparso all'età di cinquantacinque anni).

Giovanissimo abbracciò la vita religiosa, entrando presumibilmente tra il 1442 e il 1443, al compimento del quattordicesimo anno di età, nell'Ordine dei predicatori. Compì gli studi teologici presso il convento di S. Domenico a Bologna, ottenendo la promozione al suddiaconato "in ecclesia cathedrali apud altare sacristiae" il 19 giugno 1451, e quella al sacerdozio, sempre nella sacrestia della cattedrale bolognese, il 25 febbr. 1458. Il suo curriculum universitario è noto per un documento, pubblicato dal Piana, in cui si ricorda che "fr. Baptista de Finario" fu ricevuto come studente il 20 maggio 1458, divenendo magister studentium nel settembre del 1460, carica che gli fu rinnovata anche per l'anno seguente a causa di un impedimento del suo successore. Lector conventus già prima del 16 genn. 1460, baccelliere nel 1465, fu registrato nella matricola degli addottorati il 19 ott. 1468, quando divenne reggente dello Studio di S. Domenico per il triennio fino al 1470.

Ai primi anni della sua formazione teologica (1458-60) appartiene il Serapion, che è la sua sola opera impressa nel secolo XV (insieme con il Trialogus super Evangelio de duobus discipulis euntibus in Emmaus di Antonino Pierozzi da Firenze: Venezia, Johann Emerich, 26 apr. 1495, cfr. Gesamtkatalog der Wiegendrucke, 2203). Gli anni della sua reggenza nello Studio bolognese di S. Domenico furono invece impegnati nella partecipazione al dibattito interno all'Ordine, nel quale il G. occupò un'autorevole posizione come esponente dell'Osservanza. La vasta reputazione acquistata nell'Ordine dovette favorire, verso la fine del pontificato del veneziano Paolo II, la sua promozione a vescovo di Ventimiglia, avvenuta il 22 apr. 1471. Fu però l'elezione al papato di Sisto IV, il savonese Francesco Della Rovere, a innalzarne la posizione aprendogli la strada a incarichi presso la Curia romana. Il G. non dovette però trascurare del tutto la sua diocesi, se è vero che, come vuole il Rossi, "attese con diligenza a dare un regolare assetto al pagamento delle decime" (p. 187) e perseguì gli eretici di Sospello (la notizia è in Gioffredo).

La sua fama è però principalmente legata alla nomina a commissario apostolico nella causa degli ebrei di Trento (1475-78). L'incarico fu affidato al G. con un breve pontificio del 23 luglio 1475, a un mese dalle prime condanne ed esecuzioni degli ebrei trentini accusati del ratto e dell'uccisione in vilipendium Christianae fidei del fanciullo Simone. Questi, figlio di un povero conciatore tedesco, era scomparso alla vigilia della Pasqua dell'anno giubilare, ed era stato poi ritrovato cadavere, con numerosi segni di ferite, nel fossato che attraversava lo scantinato della casa del prestatore ebreo Samuele da Norimberga. A denunciare il ritrovamento del cadavere erano stati gli stessi ebrei, che furono rinchiusi in carcere in base alla diceria che li voleva colpevoli di omicidio rituale. L'inchiesta fu avviata in un clima fortemente viziato dalle dicerie popolari, vive nella comunità tedesca residente a Trento ma presto accolte e divulgate anche dai locali rappresentanti della cultura umanistica, fra i quali era anche il vescovo Johannes Hinderbach. Procedendo in base alla pubblica voce, agli indizi raccolti per mezzo di perizie e testimonianze e soprattutto in forza delle confessioni degli inquisiti, tutte ottenute per mezzo della tortura, il podestà di Trento decise la condanna a morte degli ebrei e la confisca di tutti i loro beni.

Il G. giunse a Trento ai primi del mese di settembre, trovandosi davanti all'ostilità del vescovo e del podestà, che vedevano revocata in dubbio la legalità del procedimento, e al fanatismo popolare, alimentato dalla circolazione di opuscoli a stampa che propagandavano il martirio del bambino Simone e incitavano alla repressione antigiudaica. Il commissario apostolico fu testimone impotente della nascita di un culto non autorizzato dalla S. Sede e, di fronte alle difficoltà frapposte alla sua inchiesta (non gli fu mai possibile neppure visitare in carcere le donne ebree, detenute con i loro bambini), sospettando della stessa autenticità delle scritture processuali, ottenute con grandi difficoltà e a distanza di molto tempo, decise di abbandonare Trento per rifugiarsi nella vicina Rovereto, cittadella della diocesi tridentina ma da un cinquantennio sotto il dominio di Venezia.

Convinto dell'innocenza degli ebrei di Trento e della colpevolezza di un tale Schweizer, e deciso a dare voce legale agli ebrei sopravvissuti, accolse le istanze dei loro difensori (tra i quali era il notissimo giurista padovano Antonio Capodilista) per la riapertura della causa, raccogliendo a Rovereto le prove testimoniali e portandole a Roma insieme con una copia autentica dei verbali del processo e un testimone dei fatti. Egli dovette però presto difendersi dalle accuse di parzialità e di filogiudaismo, che non gli furono risparmiate né dai giudici di Trento - che il commissario aveva colpito con le maggiori censure ecclesiastiche mentre si trovava a Rovereto -, né dalla folta cerchia di letterati vicini al vescovo di Trento, né dal vescovo stesso, che intrattenne con Roma rapporti strettissimi e produsse un lungo memoriale per difendersi e al contempo screditare l'operato del Giudici. Quegli scritti, insieme con gli atti processuali (che ci sono giunti nella copia autentica e in diverse altre copie e traduzioni tedesche, diffuse dallo stesso Hinderbach allo scopo di accreditare la legalità del processo e la giustezza della condanna), costituiscono una fonte preziosa per cogliere tutta l'atmosfera di uno scontro interno alla Cristianità, dal quale era destinata a uscire vittoriosa la linea della repressione e della persecuzione antiebraica.

Il commissario apostolico, rientrato a Roma, si trovò a dover combattere una sua personale battaglia per riscattarsi dall'accusa di aver agito incautamente e contro le istruzioni ricevute, e dovette difendersi dall'accusa di essere prezzolato dagli ebrei. A questo periodo appartengono infatti due scritti polemici, redatti dal G. in difesa di sé e del proprio operato e contro le congiunte accuse mosse dal bibliotecario di Sisto IV Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, e dallo stesso Hinderbach.

Si tratta, da una parte, di una memoria a confutazione delle accuse a lui rivolte dal vescovo di Trento, indirizzata ai cardinali della commissione sistina e nota come Apologia Iudaeorum, per la difesa che in essa il G. continua ad assumere degli ebrei trentini ingiustamente accusati e condannati per il ratto e l'omicidio del "puer Tridentinus"; dall'altra di una Invectiva contra Platinam, scritta anch'essa a difesa di sé e degli ebrei trentini e rivolta contro l'umanista, autore di una perduta operetta scritta ad accusa del commissario apostolico. La personalità del Platina vi è descritta con toni di particolare asprezza e sarcasmo, con frequenti richiami al mondo curiale e a episodi celebri come la cosiddetta congiura degli Accademici romani. I due scritti costituiscono dunque non solo una documentazione particolarmente importante della prima diffusione di atteggiamenti antiebraici nell'ambiente umanistico dell'ultimo quarto del Quattrocento, ma anche una viva rappresentazione del colorito universo della Roma papale e dell'ambiente intellettuale legato alla Curia romana durante il pontificato di Sisto IV.

Il processo di Trento ebbe negli anni successivi una larghissima risonanza e terribili effetti sui rapporti tra ebrei e cristiani in molte parti d'Italia e d'Europa. Mentre la richiesta di avviare la canonizzazione del supposto martire non ebbe per il momento alcun seguito, riuscì invece il tentativo di far riconoscere alla S. Sede la legalità del procedimento stesso. La commissione cardinalizia d'inchiesta, istituita dal papa Sisto IV, si avvalse infatti, per istruire il giudizio, della consulenza dell'uditore di Rota Giovan Francesco Pavini, già professore di diritto canonico nello Studio di Padova e vecchio amico del vescovo di Trento. Il Pavini confezionò, non senza l'intervento dello stesso Hinderbach, una duplice memoria giuridica, nella quale sostenne la nullità degli atti del commissario apostolico e la legalità del processo celebrato a Trento, difendendo in particolare il potere dei giudici di procedere al battesimo forzato dei bambini ebrei e, più in generale, sostenendo fino alle estreme conseguenze la condizione di "servitù perpetua" degli ebrei. La duplice relazione fu data alle stampe nel 1478, a conclusione dell'inchiesta, nella tipografia romana di Vitus Puecher (cfr. Indice generale degli incunaboli, 6987). Gli scritti del Pavini sono il risultato di una fusione di motivi risalenti sia alla propaganda antigiudaica del momento, sia a indirizzi dottrinali di matrice teologico-giuridica, diffusi nell'ambiente canonistico anche attraverso la letteratura antiusuraria (l'accusa del consumo rituale del sangue, infatti, dava corpo ed evidenza alla tradizionale accusa, rivolta agli ebrei, di essere avidi del "sangue" dei cristiani proprio perché esercitavano il tradizionale mestiere di prestatori su pegno, attività che una vasta e virulenta campagna di predicazione e di dottrina condannava come radicalmente contraria al dettato evangelico e al diritto canonico). Il pensiero del Pavini rappresenta dunque una viva reazione alla posizione tradizionalmente indulgente delle correnti giuridiche di ambito civilistico verso il mondo ebraico, e uno dei migliori documenti di quel clima ideologico che doveva rapidamente portare alla creazione dei ghetti ebraici, cioè alla clausura forzata degli ebrei nelle principali città d'Italia.

La bolla pontificia di conferma della sentenza trentina fu emanata il 20 giugno 1478. In essa però, contrariamente all'attesa esplicita del vescovo Hinderbach, si affermava soltanto che i processi di Trento si erano svolti nell'osservanza della procedura e nel rispetto della legalità, mentre si evitava di riconoscere come provato il martirio del bambino Simone, il cui culto fu autorizzato in ambito locale solo da Sisto V, nel 1588, in pieno clima controriformistico (esso fu abrogato ufficialmente solo nel 1965, dopo il concilio Vaticano II).

Il G., cessato il clamore della controversia, tornò a occupare un posto di qualche rilievo nella Curia romana, ma fu prudentemente allontanato, prima a Benevento e poi, nel 1480, inviato in una lunga e faticosa missione nella diocesi di Castres, nella Francia meridionale, com'è testimoniato dalla Elegia (conservata nel manoscritto A.D.XI.44 della Biblioteca Braidense di Milano) studiata dal Dionisotti.

La sfortunata vicenda tridentina, nella quale emerge in tutta la sua grandezza la personalità del G., nutrita a un tempo di "vivo interesse per la cultura umanistica e fedeltà operosa alla tradizione teologica domenicana" (Dionisotti, p. 276 n. 1), così come ai principî equitativi della migliore tradizione giuridica medievale, ne oscurò i meriti politici e dottrinali. Non gli fu forse facile riguadagnarsi la fiducia di Sisto IV: in questo senso va interpretata probabilmente la composizione dei due libri De canonizatione b. Bonaventurae olim cardinalis ex Ord. min. ad Xistum IV (1479). Cessato il clamore della controversia tridentina, troviamo il G. impegnato a officiare in S. Maria Maggiore, nell'aprile del 1482, la commemorazione funebre del suo denigratore Bartolomeo Sacchi; nel settembre e nel novembre dello stesso anno le cronache lo ricordano predicare solennemente, in S. Pietro e in S. Maria del Popolo, alle esequie del condottiero Roberto Malatesta e dell'arcivescovo di Salerno, Guglielmo Rocca, alla presenza di "papa Sisto con dieci cardinali" (Pontani). A questo periodo risale anche l'opera maggiormente indicativa del complesso rapporto che il G. intrattenne con l'umanesimo, cioè quell'Apologia traductionis antiquae libri Ethicorum Aristotelis, contro Leonardo Bruni, scritto che destò l'interesse del Grabmann.

Traslato, a quel che pare, all'archidiocesi di Amalfi il 26 apr. 1482, fu ritraslato alla sede intemelia meno di due anni dopo, il 2 febbr. 1484, e contemporaneamente promosso arcivescovo di Patrasso. La sua salute, sempre cagionevole, come si legge nell'Apologia, nell'Invectiva contra Platinam e soprattutto nell'Elegia, doveva essere già compromessa. Il G. morì a Roma prima del 15 apr. 1484 e fu sepolto in S. Maria sopra Minerva.

Opere: Notizie sui manoscritti delle principali opere in Battista de' Giudici, Apologia Iudaeorum - Invectiva contra Platinam. Propaganda antiebraica e polemiche di Curia durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484), a cura di D. Quaglioni, Roma 1987, in part. pp. 38-44. La sua produzione letteraria comprende testi di natura prevalentemente omiletica; sermoni e orazioni di vario genere si conservano nei seguenti manoscritti: Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. soppr. J.I.38; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Lat. 10664; Rimini, Civica biblioteca Gambalunga, 4 B.1.43; Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, K.VI.71 (cfr. anche P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 19 s., 24, 273, 356; II, pp. 89, 117, 157, 321, 335, 346, 386, 568, 582; per le edizioni, cfr. T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis praedicatorum Medii Aevi, I, Romae 1970, pp. 139-141).

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