Varchi, Benedetto

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

Varchi, Benedetto

Anna Siekiera

Vita e opere

Benedetto Varchi (Firenze 1503 - ivi 1565), dopo la laurea in utroque iure a Pisa e un breve esercizio di professione notarile, si dedicò alla poesia e agli studi umanistici. Di sentimenti repubblicani, aderì all’ambiente dei fuoriusciti fiorentini, stabilendosi nel 1537 a Padova, dove fece parte dell’Accademia degli Infiammati, e nel 1541 a Bologna. Nel 1543 accettò la chiamata a Firenze per entrare al servizio di Cosimo de’ Medici, dal quale ottenne l’incarico di stendere la Storia fiorentina. All’Accademia Fiorentina commentò ➔ Dante e ➔ Petrarca e tenne lezioni sulla grammatica e sulla poetica. Tradusse De beneficiis di Seneca e il boeziano De consolatione philosophiae. Nel 1555 e nel 1557 dette alle stampe le due parti dei Sonetti. La sua produzione letteraria (prosa filosofico-scientifica e storica, poesia, traduzioni) riflette la profonda conoscenza della letteratura volgare e degli autori greci e latini, ma rappresenta anche il frutto delle ricerche sui generi letterari (analisi della Poetica e dei canti danteschi) e sulla lingua d’uso come serbatoio della scrittura. In difesa di Annibal Caro, coinvolto in una polemica con Ludovico Castelvetro, Varchi scrisse l’Ercolano, uno dei più significativi trattati italiani sulla lingua (Marazzini 1993: 296; ➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell; ➔ storia della lingua italiana).

Le idee sulla lingua

Grazie alla netta distinzione fra il parlato e lo scritto, che era il risultato dell’applicazione allo studio della lingua di una rigorosa analisi condotta secondo i criteri scientifici d’ascendenza aristotelica, l’Ercolano anticipa alcuni fondamenti della moderna concezione del linguaggio. Uscito postumo nel 1570, in due edizioni diverse, fiorentina e veneziana (Varchi 1995: 166-235), il trattato dà una forma organica e sistematica all’annosa riflessione di Varchi intorno alle lingue e ai loro vari registri, iniziata nell’ambiente padovano e arricchita in seguito dalle ricerche sul volgare fiorentino moderno e antico.

I numerosi scritti composti prima dell’Ercolano e rimasti inediti per secoli dimostrano che il pensiero linguistico di Varchi era maturato già negli anni Quaranta (quando abbozzò una grammatica del toscano), in concomitanza con l’esegesi dell’Organon aristotelico affrontata nelle sue lezioni accademiche a Padova. Considerando la logica fondamento dell’agire umano e base di tutte le scienze, si sforza di rendere accessibili in italiano le opere greche e latine sull’argomento e, nei trattatelli sulla questione del metodo (Varchi 1841), egli indica nei procedimenti analitico e sintetico («compositivo e risolutivo») la metodologia adeguata per insegnare la grammatica, considerata «il principio di tutte le scienze in tutte le lingue» (Varchi 2007: 325), con caratteristico approccio per cui «un grammatico deve cominciare secondo l’ordine della Natura a trattare delle lettere, e non può far di meno, se bene ci sono manco note che le sillabe e l’orazioni» (Varchi 1841: 321-322).

In diverse occasioni, sia nelle lezioni accademiche dell’inverno 1551-1552 sia nelle risposte ad allievi e amici (Varchi 2007), Varchi trattò delle questioni grammaticali in modo generale (attraverso il confronto delle strutture del volgare con il greco e il latino) e mise sempre in primo piano l’«insegnare favellare correttamente». Distinguendo la dimensione sociale della lingua da quella letteraria, argomentò la priorità del parlato – «proprio de gl’animali ragionevoli, ciò è de gl’uomini» – rispetto allo scritto: «non essendo altro lo scrivere che un segno e una immagine delle parole, come le parole sono una immagine e un segno de’ concetti» (Varchi 2007: 248, 250); di conseguenza, «chi saperrà correttamente favellare, saperrà ancora correttamente scrivere» (ibid.: 250). Ogni grammatica prescrittiva di qualsiasi lingua si deve fondare, per Varchi, sulle regole che «si traggono senza fallo da gli scrittori, e gli scrittori le pigliano dall’uso di chi le favella» (ibid.: 251). Come il latino e il greco, anche il volgare (chiamato ora fiorentino ora toscano) aveva raggiunto il momento di eccellenza grazie al lavoro di selezione e alla creatività linguistica dei suoi autori (➔ questione della lingua). Il discrimine nella scelta del modello da seguire è, quindi, la capacità di «ritrarsi» «dall’usanza del volgo», dai «modi di favellare bassi e plebei» (ibid.: 252).

Varchi giudica come naturali in una lingua viva i cambiamenti del fiorentino parlato contemporaneo rispetto alla lingua dei tempi di Dante, Petrarca e ➔ Boccaccio. Così, muovendo da presupposti diversi da ➔ Pietro Bembo, interpreta in maniera non rigidamente classicista le sue idee; riconosce all’autore delle Prose della volgar lingua la ‘rifondazione’ della grandezza della lingua toscana, posta sulle regole grammaticali che questi aveva ricavato dagli scrittori del Trecento.

L’impegno per rilanciare il primato linguistico e letterario di Firenze, auspicato dal potere mediceo e annunciato come programma del consolato varchiano (1545), trovava un solido appoggio nel bembismo, che indicava la strada per restaurare l’antico prestigio. Alla campagna a favore dello studio grammaticale necessario a quei «nati e allevati in Firenze» che «falsamente si persuadono» della sufficienza della lingua natìa (Varchi 2008: 295; Marazzini 1993: 268), Varchi aggiunge il proprio contributo all’edizione fiorentina delle Prose (1549).

Il confronto con l’opera di Bembo culmina nell’Ercolano, dove in dieci «quesiti» viene esposta la teoria fondata sul presupposto del carattere orale della comunicazione linguistica (Marazzini 1993: 271-273). Con questo criterio Varchi classifica le lingue, quindi anche i volgari italiani, in «articolate», cioè dotate di espressione scritta, o «inarticolate»; in vive o morte; in quelle comprensibili o non per i fiorentini. Dimostrando l’esistenza delle lingue a prescindere dalla scrittura, rivisita l’affermazione bembesca («non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittori») per collocarla nel contesto stilistico di prestigio letterario:

[Bembo chiama] veramente lingua quella che noi chiamiamo lingua nobile [e] le lingue nobili si chiamano quelle le quali […] hanno […] tali scrittori che andando per le mani e per le bocche degli huomini le rendono illustri e chiare (Varchi 1995: 658, 646)

Varchi ridiscute anche la questione dell’uso linguistico di Firenze, affermando, in contrasto con Bembo, che il fiorentino parlato di uomini raffinati dalle letture e dalla vita civile rappresenta quel «favellare correttamente», da sempre indicato come obiettivo del grammatico e registro di riferimento degli scrittori, ben distinto dal parlare costellato di solecismi e barbarismi del «popolazzo» (Varchi 1995: 794; 2007: 323). Infine, poiché nelle lezioni aveva riletto il poema di Dante attraverso Aristotele e Lucrezio, mostrando il suo carattere filosofico e la continuità con le opere degli antichi, nell’Ercolano oppone alle critiche di Bembo sulla Commedia l’appropriatezza del realismo linguistico dantesco al genere «heroico» di tradizione classica (Andreoni 2004).

Le idee di Varchi, oltre a suscitare reazioni polemiche dopo la pubblicazione del trattato (Castelvetro, Ridolfo Castravilla, Girolamo Muzio), incisero sui successivi sviluppi dell’attività linguistica e letteraria a Firenze: da una parte, orientarono la rivisitazione del classicismo bembesco di ➔ Lionardo Salviati, dall’altra si ritrovano nell’approccio nient’affatto pedantesco alla lingua degli accademici Alterati.

La lingua di Varchi

La descrizione della lingua di Varchi si basa sull’esame di testimoni autografi: quarantasette lettere (1535-1542) a Piero Vettori e Carlo di Ruberto Strozzi, provenienti da fondi diversi (cfr. Varchi 2008); capitoli della Storia fiorentina; Sonetti; testi riprodotti in Siekiera 2009: 352-357.

La grafia degli scritti presenta in prosa abbreviazioni convenzionali e un’intera gamma di segni paragrafematici in tutti i tipi di scritti: ➔ virgola anche dinanzi a che (congiunzione e pronome) ed e / et; accenti segnati di norma sulla preposizione à e sulla è (di essere), più di rado su altre forme verbali (andrà, lodò). Conservate alcune grafie etimologiche: h all’inizio di parola e, talvolta, all’interno (huomo, hiersera, Hermolao, alhora, rihabbia, ma sempre Rettorica); -ti-, preponderante nella prosa (ambitione, gratia; invece, a giuditio si affiancano giudizio, giudicio, e a ufficio, ufizij); -tti- in lettioni, attioni (ma costanti azzioni, elezzioni in Varchi, Storia fiorentina). Predomina la scrizione -enza, -anza di fronte agli isolati scienzia e scientie, elegantia. In prosa, tra le scrizioni di scempie e doppie, è da notare -z- per le affricate alveolari sorde e sonore (mezo e avezare, pezo, gentileza di fronte a qualche occorrenza di gravezze).

In campo fonetico si notano: per i dittonghi dopo consonante + r la contrapposizione di tipo prego (prevalente in prosa ed esclusivo nei versi) a truovo, univocamente attestato; fisso il dittongo dopo la palatale (figliuolo, giuoco); danari accanto a denari. Si alternano le forme piene (comperar, offerono, doverrei) alle sincopate (s’adoprò, morrà). Non mancano casi di prostesi (➔ epentesi) dopo consonante (per iscusato, non iscrivo). I legami con l’oralità si hanno nei seguenti tratti: conguaglio fonologico in enclisi (io nollo so), apocopi (tornerem qui, mel dette), riduzione dei dittonghi discendenti (de’ boschi). Non tantissimi, nel complesso, i tratti del fiorentino vivo (vicitare; pagoneggiarsi; cavagli; costanti chiunche e dovunche; femminili plurali della II classe in -e: le pelle, le golpe), significativamente concentrati nella morfologia verbale: alta frequenza di harò, haremo; pressoché esclusivo il tipo fusse; casi del dileguo di -v- (havea, parea); futuri e condizionali analogici (trovarrete, pregarrei); congiuntivo vadia; forme in -ino della terza persona plurale del congiuntivo presente (voglino) e imperfetto (guardassino, fussino). Al condizionale, alla terza persona singolare, sono numerose forme in -ia; si bilanciano, al plurale della terza persona, le forme in -ebbono e in -ebbero. Spicca -emo nella prima persona plurale dell’indicativo presente (havemo, semo). Molti i participi passati accorciati della I classe (assetto, cerco, compro). Conforme all’opzione bembesca, in tutti i tipi di scritti, la prima persona dell’imperfetto in -a (io voleva). Nei costrutti sono costanti la giustapposizione («in casa messer Francesco») e l’accordo del participio con il complemento oggetto posposto («Ho spesi più di 20 scudi»); è frequente l’omissione di che («mi disse gli trovassi») nelle lettere.

Notevole la varietà stilistica che corrisponde ai tipi di opere («altramente scrivono gli storici […] altramente i filosofi»; Varchi 1841: 326-327): alla prosa della Storia fiorentina, con periodi ampi e costruzioni prolettiche, ricche di inversioni e parallelismi («si come à ventura era stato tutto, e à caso, cosi à caso, e à ventura si governava»; Varchi, Storia fiorentina, c. 1r) si oppone il periodo lineare della scrittura scientifica (Siekiera 2007), imperniata sui costrutti nominali e brachilogici, modellati sul latino, ma anche sul parlato (quanto a per la messa in rilievo). La costruzione della prosa filosofica e tecnica in volgare, destinata a un largo pubblico, si estende alla formazione del lessico concettuale: Varchi seleziona la terminologia di poeti trecenteschi e di scritti scientifici medievali (radezza), raccoglie i vocaboli di arti e mestieri (riverberi), ricorre ai neologismi, adattando dal greco (analogo, amfibologia), servendosi della rideterminazione semantica e impiegando i deverbali (l’astratto, il concreto, l’ambiente).

Fonti

Varchi, Benedetto, Sonetti, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Filze Rinuccini 13.65, cc. 195-242.

Varchi, Benedetto, Storia fiorentina, primi sette libri, con la dedica a Cosimo I, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.I.176.

Varchi, Benedetto (1841), Lezioni sul Dante e Prose varie di Benedetto Varchi: la maggior parte inedite tratte ora in luce dagli originali della Biblioteca Rinucciana, a cura e opera di G. Aiazzi & L. Arbib, Firenze, Società editrice delle storie del Nardi e del Varchi, 2 voll.

Varchi, Benedetto (1995), L’Hercolano, ed. critica a cura di A. Sorella, presentazione di P. Trovato, Pescara, Libreria dell’Università, 2 voll.

Varchi, Benedetto (2007), Scritti grammaticali, a cura di A. Sorella, trascrizione e note di A. Civitareale, Pescara, Libreria dell’Università.

Varchi, Benedetto (2008), Lettere (1535-1565), a cura di V. Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.

Studi

Andreoni, Annalisa (2004), Alla ricerca di una poetica post-bembiana: il Dante “lucreziano” di Benedetto Varchi, «Nuova rivista di letteratura italiana», 7, pp. 179-231.

Marazzini, Claudio (1993), Le teorie, in Storia della Lingua Italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 231- 329.

Siekiera, Anna (2007), Aspetti linguistici e stilistici della prosa scientifica di Benedetto Varchi, «Studi linguistici italiani», 33, pp. 3-50.

Siekiera, Anna (2009), Benedetto Varchi, in Autografi del letterati italiani. Il Cinquecento. I, a cura di M. Motolese, P. Procaccioli & E. Russo; consulenza paleografica di A. Ciaralli, Roma, Salerno Editrice, pp. 337-357.

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