Beni culturali e ambientali

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Beni culturali e ambientali

Giovanna Mencarelli
Giorgio Gullini
Maria Guercio
Gabriella Nisticò
Carlo Federici
Giovanna Mencarelli
Vito Lattanzi
Maria Carla Cavagnis Sotgiu
Grazia Tuzi
Paola Barocchi
Miriam Fileti Mazza
Walter Santagata
Guido Guerzoni
Walter Santagata

(App. V, 1, p. 336)

Nuove strategie

di Giovanna Mencarelli

I b. c. hanno costituito in Italia un settore a lungo emarginato e sottovalutato nella politica e nelle scelte della pubblica amministrazione, nonostante l'istituzione (con d.l. 14 dic. 1974 nr. 657, convertito in l. 29 genn. 1975 nr. 5) del Ministero per i Beni culturali e ambientali, riorganizzato come Ministero per i Beni e le Attività culturali, a norma dell'art. 11 della l. 59 del 15 marzo 1997, con d. legisl. 20 ott. 1998 nr. 368. Oggetto di esperienze per l'occupazione giovanile (l. 285 del giugno 1977), che non hanno però presentato l'effetto dinamico atteso, soltanto a partire dagli anni Novanta i b. c. hanno registrato un sempre crescente interesse, che si è formalizzato in iniziative con intenti di rinnovamento e di imprenditorialità.

Al centro dei dibattiti e delle proposte politiche a livello nazionale e internazionale, i b. c. - anche attraverso le grandi mostre, il più delle volte veri motori di interesse e di consenso - sono stati offerti al pubblico, per renderlo consapevole del patrimonio storico nazionale e competente nella fruizione. I b. c. sono stati quindi riscoperti come settore attivo dell'economia nazionale, per l'accertata potenzialità di produrre utili e nuove professionalità, attraverso l'organizzazione, la promozione e la gestione mirate (v. oltre: Economia della cultura). Dopo anni di politica centralizzata e autofinanziata, lo Stato italiano ha dovuto riflettere sulle difficoltà di gestione - con appena lo 0,45% dell'intero bilancio nazionale - del cospicuo patrimonio, composto di circa 3500 musei, 2099 siti archeologici, 20.000 centri storici, 95.000 chiese, 40.000 rocche, 30.000 dimore storiche, 4000 giardini, 30.000 archivi, 3100 biblioteche; un complesso di beni, tra cui alcuni settori in crescita, è, a fine secolo, al centro di un rinnovato interesse scientifico: vanno ricordati i b. demoantropologici (v. museo, App. V, iii, p. 589), i b. demo-etno-antropologici (v. oltre), i b. archeoindustriali (v. archeologia industriale, App. V, i, p. 200) e i b. ambientali (v. ambiente e paesaggio, App. IV, i, p. 110; ambiente, App. V, i, p. 143 e in questa Appendice; paesaggio, in questa Appendice). Questi ultimi, gestiti da un settore del Ministero, che fa capo all'Ufficio centrale per i Beni ambientali e paesaggistici, costituiscono un patrimonio di notevole interesse pubblico, già tutelato ai sensi della l. 1497 del 29 giugno 1939 e 431 dell'8 agosto 1985. Si tratta, nel complesso, di b. c. che avevano già ottenuto un riconoscimento formale "come testimonianze materiali aventi valore di civiltà" nella Relazione Franceschini del 1964.

Tra i nuovi settori di ricerca, nei quali sono state avviate indagini sistematiche, riconosciute a norma di legge (l. 101 dell'8 marzo 1989, art. 17), si deve segnalare il settore dei b. c. ebraici. Con un censimento realizzato tra il 1984 e il 1987 dall'Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna, si è dato inizio a un processo di rivalutazione di un cospicuo patrimonio - a lungo sottovalutato e scarsamente studiato - costituito da edifici di culto, da musei, da quartieri urbani (ghetti) e da una congrua quantità di materiale librario e archivistico, di oggetti di culto, ancora esistenti, pur se la maggior parte risulta essere dispersa, venduta in antiquariato. Il risultato dell'iniziativa ha creato le premesse per la costruzione di un grande museo ebraico a gestione pubblica; pertanto, con l'istituzione del Jewish Culture Program (1991), l'Istituto Beni Culturali, insieme con il Comune, la Provincia e la Comunità ebraica di Bologna, ha stabilito di creare a Bologna un Museo Ebraico per la valorizzazione e la tutela dei b. c. ebraici presenti nella regione. L'iniziativa, portata a termine nel 1997, è valsa a mettere in luce anche altri piccoli musei comunitari, sparsi sul territorio nazionale, per lo più sconosciuti al grande pubblico, e a promuovere la creazione di itinerari culturali territoriali e di una rete di rapporti con le altre istituzioni analoghe, presenti in diverse nazioni.

Interventi pubblici e privati

Dopo interventi straordinari con finalità occupazionali - quali il FIO (Fondo Investimenti e Occupazione, 1982-89; legge finanziaria 1982), i Giacimenti Culturali (l. 41 del 28 febbr. 1986, in partic. art. 15) -, i provvedimenti legislativi nr. 160 del 20 maggio 1988 e nr. 84 del 19 apr. 1990, finalizzati all'attività di inventariazione e catalogazione, e diverse leggi speciali, tra le quali ricordiamo quella per Roma capitale della Repubblica (l. 15 dic. 1990 nr. 396), o per interventi di urgenza a opere singole (l. 29 luglio 1996 nr. 401, ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia) e a complessi urbani e ambientali (l. 30 marzo 1998 nr. 61), ulteriori interventi urgenti a favore delle zone terremotate delle regioni Marche e Umbria, si sono consolidate alcune strategie, tese da una parte ad accertare l'ammontare reale del patrimonio, dall'altra a stabilizzare rapporti con enti e istituzioni interessati al finanziamento di interventi di tutela e di conservazione. Pertanto si è giunti all'intesa tra il Ministero e la CEI, Conferenza Episcopale Italiana, per la tutela dei b. c. di interesse religioso, appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche (d.p.r. 26 sett. 1996 nr. 571; v. oltre: Beni culturali della Chiesa cattolica) e alla convenzione con la Confindustria (26 nov. 1996), che in forma del tutto innovativa, superando l'antitesi tra pubblico e privato, ha reso istituzionale e programmatica la sponsorizzazione, già da tempo sperimentata episodicamente (per es.: l'illuminazione di siti e opere d'arte offerta dall'Enel). Pertanto, all'interno di un piano triennale di interventi redatto dal Ministero, la Confindustria non solo ha dato la disponibilità di diverse imprese interessate alle proposte dello Stato, ma si è fatta anche promotrice di altre azioni mirate al recupero di b. culturali. A queste iniziative si sono poi aggiunte: la convenzione tra il Ministero e l'ABI, Associazione Bancaria Italiana (16 sett. 1997), seguita dal Manifesto Pubblico e Privato insieme per l'impresa culturale sottoscritto il 3 marzo 1998 da Abi, Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici), Confindustria, Assolombarda; e l'istituzione, da parte del Monopolio di Stato, dell'estrazione infrasettimanale del lotto (l. 23 dic. 1996 nr. 662, art. 3, comma 83, e l. 27 dic. 1997, nr. 449, art. 24, comma 30), operazione che ha determinato un forte incremento delle risorse economiche del Ministero (da 424 miliardi nel 1997 a 603 miliardi nel 1998). Il d. legisl. 4 dic. 1997 nr. 460 - atto conclusivo del progetto di riforma del non profit - ha introdotto un nuovo soggetto giuridico, le ONLUS - Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale (associazioni, comitati, fondazioni, società cooperative e altri enti di carattere privato), che, tra i settori d'intervento a esse attribuite, comprendono anche la salvaguardia, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico e storico e la promozione della cultura e dell'arte. Il d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112 sul decentramento amministrativo, emanato con l'intento di accelerare e snellire tutte le procedure anche nel settore dei b. c., ha peraltro ribadito il ruolo centrale dello Stato per quanto concerne la tutela, la conservazione, il restauro e il controllo.

Va ricordata anche l'attività di sensibilizzazione, non legata alla gestione di finanziamenti, condotta da associazioni quali Italia Nostra, il FAI (Fondo Ambiente Italiano), Napoli '99, Economia della Cultura - impegnata nella valutazione economica delle azioni imprenditoriali concernenti i b. c. nella più ampia accezione - e, a livello mondiale, dall'Unesco che, con la costituzione (1972) della Lista del patrimonio mondiale culturale e naturale, ha dato forte rilievo a diversi settori dei beni italiani, dall'arte rupestre della Valcamonica all'Ultima Cena di Leonardo, dal centro storico di Pienza ai Sassi di Matera, e numerosi altri.

Strategie e modelli gestionali

Già dagli anni Settanta strategie innovative globali per la gestione e per la fruizione dei b. c. sono state messe in atto nelle regioni dell'Emilia Romagna e dell'Umbria e poi della Lombardia, con l'istituzione di sistemi museali che, intesi anche in un'accezione territoriale e ambientale, hanno rappresentato modelli esemplari di imprenditoria culturale, gestiti, per lo più, da strutture cooperative. Nell'ambito dei b. c. privati, va ricordata l'azione di industrie e imprese, nonché di istituzioni culturali e fondazioni relativamente al patrimonio storico-industriale e di storia della cultura (v. oltre: Beni archivistici).

Il turismo culturale e i grandi eventi. - L'auspicata crescita del turismo culturale va creando diversi problemi di tutela e di salvaguardia del patrimonio, la soluzione dei quali deve essere individuata per ogni singolo caso; anche i grandi eventi, come il Giubileo del 2000 - per cui sono stati finanziati (l. 7 ag. 1997 nr. 270) ingenti interventi di restauro del patrimonio culturale soprattutto di Roma - richiedono la programmazione di attente strategie di tutela.

I furti e la circolazione delle opere d'arte. - Il problema dei furti di opere d'arte risulta arginato, ma non risolto definitivamente, nonostante la presenza dal 1969 del Nucleo speciale di tutela dell'Arma dei Carabinieri; è stata rafforzata con la l. 30 marzo 1998 nr. 88, che ha recepito le direttive comunitarie (nr. 7 del 15 luglio 1993), la normativa sulla circolazione temporanea dei b. c. e sulla restituzione delle opere illecitamente uscite dall'Unione Europea. Per quanto concerne l'attività di recupero dei b. c. trafugati dai Tedeschi prima e durante l'ultimo conflitto mondiale, è sempre in forza l'Ufficio per le Restituzioni, creato da R. Siviero (1946), di competenza dei Ministeri degli Affari esteri e per i Beni culturali e ambientali (ora per i Beni e le Attività culturali).

Strumenti di ricerca e di prevenzione. - Con il Progetto Finalizzato Beni Culturali 1996-2000 il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) ha intrapreso una ricerca scientifica globale finalizzata alla tutela, alla valorizzazione e alla fruizione di tutti i beni, compresi quelli scientifici (v. oltre); l'indagine, partendo dalla catalogazione, tratta tutti gli aspetti tipologici e individuali dei b. culturali. Con la pubblicazione della Carta del rischio (1997), il Ministero per i Beni culturali e ambientali, attraverso l'Istituto centrale per il restauro (ICR), ha inteso fornire alle istituzioni competenti uno strumento per una pronta e rigorosa politica di salvaguardia, per mezzo della quale operano contestualmente pubblico e privato. La Carta - già ideata da G. Urbani (1975), sperimentata con un progetto-pilota per l'Umbria e finanziata con 28 miliardi (1990) - consiste in un repertorio di 57.000 siti e monumenti di rilevanza storico-artistica da tutelare e da vincolare su tutto il territorio nazionale.

Musei (v. museo, App. V, iii, p. 589)

Il problema italiano dell'apertura prolungata al pubblico dei siti museali e del merchandising nei luoghi d'arte è stato superato dalla promulgazione di una legge apposita (nr. 4 del 14 genn. 1993); d'altro canto è iniziata anche l'operazione di adeguamento (d. legisl. 24 marzo 1997 nr. 139) delle strutture italiane a quelle europee e mondiali, tenuto conto del rapporto tra fruitore e luogo di produzione. Alcuni segnali di rinnovamento sono giunti dalla concessione di autonomia ai più importanti musei nazionali - tra i quali Brera a Milano e Capodimonte a Napoli - e ad aree archeologiche, come per es. Pompei; da interventi museografici e didattici, tra cui, a Roma, quello finalizzato all'attivazione del sistema della valle dei musei - costituito da Villa Giulia, dalla Galleria Borghese e dalla Galleria nazionale d'arte moderna - e dal potenziamento degli spazi espositivi per il patrimonio archeologico, con l'apertura al pubblico dei palazzi Massimo e Altemps.

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Economia dell'arte. Istituzioni e mercati dell'arte e della cultura, a cura di W. Santagata, Torino 1998.

Beni archeologici

di Giorgio Gullini

Quest'espressione designa quelle risorse - manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente - che da un lato ci permettono di recuperare il quadro culturale della società che le ha prodotte, e dall'altro consentono di comprendere in che misura e in quali aspetti essa ha concorso al nostro attuale modo di essere. Ciò significa contribuire a determinare una concreta risposta al bisogno di identità culturale che è esigenza primaria dello spirito umano.

Ma se manufatti di epoche a noi più vicine sono ancora immediatamente leggibili nella loro funzione e nel loro contenuto di comunicazione, per esplicito mantenimento di tutti i caratteri della volontà originaria e i collegamenti possibili con altri oggetti, altrettanto non avviene per quei manufatti e per quelle tracce che si sono accumulate sul terreno, attraverso i tempi, nei luoghi e intorno agli insediamenti umani, come scarti dell'attività e della vita di quegli insediamenti, volontariamente abbandonati o forzatamente lasciati per eventi violenti e drammatici, legati all'azione dell'uomo o della natura.

Quando parliamo di 'beni storico-artistici', 'beni architettonici', 'beni librari', 'beni archivistici' ecc., distinguiamo categorie materiali, di supporto fisico e di finalizzazione delle risorse; con l'espressione b. archeologici ci riferiamo, invece, a quelle testimonianze, manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, che, indipendentemente dalla materia, dall'essere mobili o costruite e dalla loro finalizzazione, provengono dall'abbandono di più remoti stanziamenti e che si sono accumulate, di solito, in quei livelli più superficiali del nostro pianeta che chiamiamo livelli antropizzati. Talvolta sono rimasti sempre in uso, ma al di fuori del loro contesto originario, sia perché recuperati per diverse finalizzazioni pratiche, sia per intenti semplicemente espositivi.

Si tratta dunque di oggetti che, nello stato attuale di conservazione e nella loro stessa forma concreta, richiedono, prima di tutto, un processo di conservazione e di interpretazione per divenire testimonianze pienamente utilizzabili ai fini della ricostruzione storica del contesto culturale cui vanno ricondotte e che rappresentano. La loro valutazione come 'scoperte', 'tesori' per il valore intrinseco della materia, o 'ruderi', più o meno romanticamente affascinanti, è fatto puramente emozionale e soggettivo, che può riguardare la psicologia, ma non offre certo contributi alle scienze storiche. Sono queste che, infatti, hanno bisogno di considerare quei rinvenimenti come testimonianze fondamentali per i loro processi di interpretazione e di ricostruzione, soprattutto quando, come avviene per un ampio arco del passato dell'uomo, dalla preistoria al Basso Medioevo, espliciti documenti scritti sono del tutto mancanti o gravemente insufficienti, o lacunosi, e, di conseguenza, nell'impossibilità di essere sottoposti a un confronto critico veramente efficace, sempre parziali nell'esposizione e nell'interpretazione dei fatti.

Conservazione significa assicurare, attraverso le procedure più opportune e sperimentate, il massimo ritardo possibile del processo di trasformazione della materia dell'oggetto, cioè del veicolo concreto attraverso cui si è realizzata la volontà di colui che l'ha prodotto e quindi ha affidato a esso il 'messaggio' della propria cultura. Non possiamo cullarci nell'illusione di arrestare la trasformazione, che è legge di natura; possiamo solo intervenire per ritardarla. Ciò potrebbe avvenire efficacemente se l'apporto delle scienze fisiche e naturali ci permettesse di conoscere esattamente i meccanismi di questa trasformazione e i processi contingenti di accelerazione di essa (soprattutto dovuti all'azione dell'uomo, come l'inquinamento dell'atmosfera), per poter applicare le più opportune procedure di intervento.

Con la certezza dell'inesorabilità della trasformazione della materia, l'obbligo della documentazione, la più completa possibile, del b. archeologico diventa essenziale e oggetto di particolari ricerche e attenzioni, ancora più cogenti di quelle che caratterizzano la deontologia della conservazione, cioè: possibilità di individuazione dell'intervento, sua compatibilità con tutte le caratteristiche di percettibilità dell'oggetto e, infine, piena reversibilità del trattamento. Gli sviluppi più avanzati delle scienze fisiche, e le tecnologie di acquisizione di immagini fotografiche e, soprattutto, elettroniche, ci permettono di ottenere una documentazione estremamente accurata e sicura. L'impiego della restituzione fotogrammetrica, analogica, analitica e, soprattutto, digitale ci porta a costituire delle banche dati sulla situazione morfologica e geometrica di ciò che viene ripreso. Queste possono essere interrogate, a qualunque distanza di tempo, riconducendoci, nell'immagine tridimensionale, a tutte le condizioni del momento della ripresa: fatto tanto più importante se gli oggetti di quest'ultima possono essersi, talora anche notevolmente, modificati nel tempo.

La documentazione diviene quindi oggi il momento preliminare della conservazione, ma anche l'intervento più importante per la prima fondamentale acquisizione conoscitiva del b. archeologico, sia esso mobile o manufatto costruito. Essa, infatti, costituisce anche lo strumento fondamentale per poter pervenire, nella maniera più opportuna e corretta, all'interpretazione dell'oggetto rinvenuto.

L'immagine, accurata e pienamente, quanto sicuramente, dimostrativa dello stato fisico e geometrico dell'oggetto, permette tutte le possibili elaborazioni per comprendere e integrare l'originaria potenzialità di comunicazione del manufatto, indispensabile per utilizzarne al meglio il valore di documento. Questo obiettivo deve necessariamente essere ottenibile, nelle fasi di ricerca e di sperimentazione, senza minimamente compromettere l'integrità di quanto ci è pervenuto.

I più avanzati programmi di elaborazione di immagini e di disegno assistito dal calcolatore (CAD) possono offrire ausili estremamente significativi al processo di interpretazione del manufatto. Il discorso diviene assai importante per i b. archeologici architettonici, i più difficili da comprendere nel loro aspetto e nella loro funzione originari e da illustrare al pubblico dei visitatori. La documentazione, il rilievo e le conseguenti elaborazioni di interpretazione costituiscono il modo ottimale della messa a disposizione del pubblico di quelli che sono gli edifici componenti degli impianti insediativi identificati attraverso lo 'studio sistematico del territorio' (v. archeologia, in questa Appendice).

I procedimenti ora indicati rimarrebbero inattuabili o inutili senza un'efficace e preventiva operazione di tutela che per i b. archeologici, rispetto alle altre risorse culturali e ambientali, richiede provvedimenti e anche impostazioni giuridiche di tipo specifico. Infatti la tutela si deve esercitare non solo sui documenti già chiaramente individuati, ma anche su quelle aree che argomenti di ricerca e, soprattutto, le metodologie di studio sistematico del territorio - che possono consentire prove evidenti conseguenti all'elaborazione e interpretazione di immagini e relativi controlli e verifiche al suolo - fanno ritenere vere e proprie 'riserve' di scoperte.

Si tratta ovviamente di una tutela preventiva che non può mirare a costituire - vincolate o espropriate che siano - vastissime aree sottratte, in maniera definitiva, alla normale e pianificata utilizzazione attuale. Questa si deve misurare con le preesistenti risorse culturali, scoperte o potenziali, in uno studio di compatibilità che è la premessa scientifica ed efficace di ogni corretta e funzionale tutela. Il fondamento di essa - a valle dell'impiego delle metodologie di studio sistematico del territorio e quindi della creazione di una cartografia informatizzata delle risorse culturali e ambientali di esso (v. archeologia, in questa Appendice) - deve essere il criterio dell'utilizzo, in primo luogo, di questa cartografia, per determinare la consistenza e la localizzazione delle condizioni per un corretto uso attuale del territorio, integrando eventualmente le prospezioni aeree, geofisiche e meccaniche, per individuare, in grande scala, i vincoli reali esistenti. Una volta poi accettato il progetto di intervento, occorre predisporre una serie di ricerche preliminari per un'acquisizione di tutte le preesistenze nella loro sequenza stratigrafica e, quindi, una conoscenza diretta degli accumuli di testimonianze di passati insediamenti umani che nella zona si sono susseguiti. Queste operazioni non significano il blocco dell'intervento attuale, ma l'impegno ad acquisire, attraverso una completa, assoluta ed efficiente documentazione di quanto viene messo in luce, tutte le testimonianze che l'attuazione del nuovo progetto potrebbe cancellare per sempre. Solo la forte potenzialità di comunicazione e di fruizione di eventuali rinvenimenti potrà comportare la modifica del progetto di intervento e un limitato utilizzo dell'area vincolata in base alle risultanze delle metodologie di studio sistematico del territorio.

Il discorso della tutela ci porta alla questione della valorizzazione dei b. archeologici, vale a dire della loro messa a disposizione del pubblico, non come oggetti da ammirare perché antichi o per un loro valore puramente estetico, ma soprattutto come documenti di una ricostruzione storica e come veicoli per entrare in contatto con altri uomini, vissuti in epoche lontane, che hanno concluso le loro esperienze, ma che in qualche misura hanno determinato il nostro attuale modo di essere e di comportarci, cioè la nostra cultura.

Proprio lo stato di conservazione, che molto spesso ha modificato, anche sensibilmente, l'aspetto originario del manufatto e in special modo tutto quanto contribuiva a completare la funzionalità e la percettibilità di esso, richiede che il progetto di presentazione al pubblico dei b. archeologici preveda in primo luogo tutti quei sussidi didattici che consentano al pubblico di ricondurre l'oggetto al suo contesto e di comprendere quest'ultimo nella maniera più completa, rendendosi anche conto di quanto il manufatto presentato contribuisca a illuminare e farci conoscere meglio quel contesto. Nel campo della museologia, le problematiche relative ai b. archeologici assumono particolare rilevanza e richiedono uno specifico impegno. Lo stato di conservazione di essi, molto spesso, per non dire quasi sempre, lontano dall'aspetto originario, richiede anzitutto di offrire la comprensione e la percettibilità di quest'ultimo da parte del pubblico, non come ricostruzione che può apparire frutto di una brillante fantasia, ma come processo logico di interpretazione e sviluppo di quanto da ciò che rimane può essere logicamente dimostrato.

È questa la prima fase della realizzazione di quel 'museo virtuale' che pensiamo sia il più proficuo incontro dell'informatica, nelle sue forme maggiormente oggi avanzate, con le scienze storiche e in particolare con la ricerca archeologica. Ci riferiamo alla creazione di un sistema informativo che permetta di presentare le possibili integrazioni del b. archeologico, ma che abbia anche caratteristiche interattive per instaurare un vero e proprio dialogo con il visitatore-fruitore, stimolo e fondamento della sua crescita culturale.

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Beni archivistici

di Maria Guercio

La legislazione specifica che regolamenta il settore archivistico e che si concentra nelle norme approvate nel 1963 ha mantenuto per oltre un trentennio quasi integro il suo impianto originario con il sostanziale consenso degli operatori che considerano ancora oggi quel provvedimento una base normativa coerente e razionale. Anche il profilo organizzativo delle istituzioni archivistiche si è mantenuto stabile nel tempo, pur se in questo caso proposte di riforma sono da anni oggetto di discussione, in sintonia con il più ampio dibattito che investe la riforma della pubblica amministrazione in tema di decentramento e autonomia, razionalizzazione e semplificazione delle procedure.

In una fase di transizione degli assetti istituzionali e amministrativi è senza dubbio significativo il fatto che il quadro normativo e organizzativo che caratterizza la gestione del patrimonio archivistico (v. beni culturali e ambientali: Beni archivistici, App. V, i, p. 341) sia rimasto nella sostanza immutato rispetto al d.p.r. 30 sett. 1963 nr. 1409, e alla riforma seguita all'istituzione nel 1975 del Ministero per i Beni culturali e ambientali. Eppure, anche questo specifico settore attraversa, negli ultimi anni del 20° secolo, una fase dinamica che si è accentuata alla luce del d. legisl. 20 ott. 1998, nr. 368, che definisce il nuovo Ministero per i Beni e le Attività culturali e che, a norma dell'art. 6, comma 4, istituisce l'Istituto centrale per gli archivi.

Le ragioni di questo dinamismo sono molteplici: norme che regolano l'accesso dei cittadini all'informazione e garantiscono più trasparenza all'azione amministrativa, innovazione tecnologica, trasformazione del ruolo degli apparati pubblici, maggiore sensibilità per la memoria storica e per il patrimonio documentario che ne assicura la continuità, presenza incisiva di nuovi attori che si affiancano al tradizionale lavoro di tutela delle istituzioni statali (enti locali, imprese, fondazioni, istituzioni culturali e associazioni). Alla radice di un fenomeno che non è limitato ai soli confini nazionali, ma investe l'intera comunità internazionale, sia pure in misura diversa, ci sono senza dubbio processi di maturazione culturale e di trasformazione dei bisogni delle società più sviluppate, ma anche l'incertezza di un mondo in continua trasformazione e la necessità di ancorare la conoscenza a fatti certi e a oggetti capaci di rappresentarli in modo attendibile nel tempo e nello spazio, i documenti d'archivio. Per comprendere, quindi, l'evoluzione in corso e valutarne le dimensioni e la qualità, sono indispensabili una riflessione teorica e storica sulla natura del documento come entità e come insieme e un'analisi delle conseguenze che la rivoluzione tecnologica in atto è destinata a produrre in questo campo.

È, infatti, la natura stessa del documento archivistico, frutto dell'attività pratica, storicamente determinata, di un ente produttore (l'ente che produce, riceve o acquisisce i documenti) che lo rende permeabile ai cambiamenti e, allo stesso tempo, in una contraddizione più apparente che reale, lo tiene ancorato a una funzione universale di conservazione della memoria in quanto inalterabile manifestazione di volontà dell'autore che quel documento ha messo in vita.

L'innovazione tecnologica, che introduce radicali trasformazioni nei modi della comunicazione, nella formazione delle decisioni, nello sviluppo stesso della società civile, ha già dato vita a nuovi prodotti documentari, nuovi supporti, nuovi strumenti di gestione, accesso e conservazione degli archivi, sulla cui qualità la disciplina archivistica si interroga, ricerca e discute, mentre il legislatore non solo italiano tenta di stabilire regole certe con la difficoltà inevitabile di chi si muove su un terreno poco esplorato. È proprio su questo terreno, tuttavia, che il concetto di b. archivistico deve essere oggi indagato, sia per valutare la continuità dei principi, sia per saggiare l'efficacia degli strumenti consolidati di gestione e l'utilità della normativa di riferimento.

Punto di partenza resta sempre il concetto di documento archivistico, la cui duplice natura - giuridica e culturale - è alla base della specificità del settore: i b. archivistici sono parte del patrimonio culturale e in Italia, come in molti altri paesi, fanno capo al Ministero per i Beni culturali, non perché sia culturale la funzione originaria dell'oggetto archivistico, anzi, paradossalmente, proprio per il contrario, per il fatto cioè che i documenti d'archivio sono il prodotto di un'attività solo pratico-amministrativa. Il documento è, infatti, la rappresentazione fissata su un supporto di qualunque natura di un fatto o di un atto giuridicamente rilevante, redatto con l'osservanza di determinate forme che gli attribuiscono fede e forza di prova e conservato da una persona fisica e giuridica nell'esercizio della sua attività. L'archivio è il complesso dei documenti archivistici (ricevuti o creati) che l'ente produttore accumula nell'espletamento delle sue funzioni per finalità diverse: in quanto prove giuridicamente valide di un diritto, espressioni di interessi e relazioni, strumenti di supporto all'assunzione di decisioni. È tale funzione amministrativo-giuridica dell'archivio a costituire la ragione del suo ruolo come b. c., oggetto di ricerca e di studio, destinato alla conservazione permanente, una volta concluse le operazioni di selezione che consentono l'identificazione del nucleo documentario in grado di rispecchiare in modo imparziale e oggettivo le funzioni e le attività essenziali dell'ente produttore. L'archivista professionale conserva o elimina il materiale archivistico valutandone la capacità di testimoniare in modo funzionale l'operato dell'ente produttore.

In quanto sedimentazione documentaria di un'attività, cioè di una serie di atti concatenati e collegati per il raggiungimento di un obiettivo, l'insieme dei documenti che formano un archivio non può essere considerato come una somma di singole entità, ma un insieme organico, coordinato, interdipendente di documenti, accumulati nella sequenza naturale degli eventi e degli atti necessari per lo svolgimento di un compito, l'assunzione di una decisione, la definizione di un procedimento amministrativo ecc. L'archivio è, quindi, costituito non solo dai documenti, ma anche dall'insieme delle relazioni che li legano reciprocamente e li riconnettono alla struttura amministrativa che li ha generati. Tali relazioni originarie - che l'informatica oggi tende a sottovalutare preferendo sottolineare la molteplicità di legami virtuali da definire di volta in volta - sono in realtà essenziali per salvaguardare la natura e il significato di ogni documento e costituiscono un vincolo determinato e necessario che deriva dal fine comune e da un'unica origine, "dalle attività e dagli scopi dell'ente produttore dell'archivio" (Cencetti 1970, p. 40). È proprio quest'interdipendenza 'originaria' dei documenti che deve essere mantenuta per garantire una conservazione della memoria imparziale, e per questa principale ragione utile alla ricerca storica e scientifica. La 'neutralità' della fonte non è naturalmente assoluta, né ha niente a che vedere con la genuinità dei documenti, cioè con la verità storica di ciò che è in essi rappresentato. È, semplicemente, la conseguenza del fatto che i documenti sono prodotti e conservati non per la ricerca futura, ma perché sono indispensabili strumenti di lavoro dell'ente che li accumula in un certo ordine, esclusivamente al fine di rendere più efficiente lo svolgimento delle sue funzioni. Il rispetto di tale ordine 'originario' (del vincolo archivistico) è, perciò, essenziale all'ente per giustificare o ripercorrere le proprie decisioni, al ricercatore per ottenerne una lettura storicamente corretta, sia pure soltanto dal punto di vista della sequenza e dell'articolazione della documentazione prodotta.

Tanto rilevante è il mantenimento delle relazioni documentarie, quanto difficile è il compito di difenderne la conservazione nel tempo, rispetto ai continui rischi di dispersione, frammentazione, disordine. La complessità del problema cresce enormemente con l'introduzione dell'informatica nella fase della gestione e, ancor più, in quella della creazione dei documenti, poiché le tecnologie dell'informatica e della comunicazione sono per definizione lo strumento del cambiamento e dell'innovazione continua, devono il loro successo alla capacità di aggiornare l'informazione, di aumentare in modo esponenziale i modi e le forme del suo consumo. Il b. archivistico non muta la sua natura in presenza di nuovi supporti, ma rischia di perdere le sue qualità se non si rispettano le sue caratteristiche essenziali, ed è, infatti, a partire dalla definizione tradizionale di documento e di archivio e dall'identificazione degli elementi costitutivi di base che le ricerche di maggior spessore in materia di documenti elettronici si concentrano nell'elaborazione di standard tecnici e professionali. Anche in ambiente elettronico, quindi, rimangono validi i principi in precedenza richiamati, con alcuni necessari aggiornamenti.

Il documento elettronico è definito come un documento d'archivio la cui specificità consiste nell'essere formato e conservato in originale su supporto non cartaceo in forma digitale. Per completare il profilo di un documento elettronico sono, tuttavia, necessari nuovi elementi, tra cui il responsabile dell'indirizzo elettronico, il titolo o l'oggetto, la versione ecc., che la normativa sulla validità giuridica dei documenti elettronici, in fase di elaborazione a partire dal d. legisl. 12 febbr. 1993 nr. 39 (sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche), ha, sia pure parzialmente, individuato. La norma di riferimento è, comunque, l'art. 15, comma 2, della l. 15 marzo 1997 nr. 59, in base al quale gli atti, i dati e i documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici e telematici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, cui si deve aggiungere il regolamento applicativo, in fase di approvazione, approvato con d.p.r. 513 del 10 nov. 1997. La procedura regolamentare di maggiore rilevanza in questo campo consiste, tuttavia, nella normativa che definisce in modo integrato gli strumenti di gestione dell'archivio in formazione: il r.d. nr. 35 del 1900 ha svolto questa funzione significativa per quasi un secolo nel caso dei documenti tradizionali. Un nuovo analogo provvedimento di natura regolamentare, innovativo solo per le parti che lo richiedono, è in corso di elaborazione e approvazione. In entrambi i casi lo standard normativo individua i principi generali e gli strumenti concreti che consentono di costruire un sistema di gestione dell'archivio in formazione in grado di produrre documenti validi e attendibili, e di garantirne una conservazione integra e autentica. Il modo concreto in cui l'archivio si forma presso l'ente produttore è il risultato del sistema di gestione dei documenti, cioè del controllo generale e sistematico che ogni organizzazione esercita sulla propria documentazione e degli specifici strumenti di formazione e tenuta dei documenti utilizzati. Tale complesso di regole e di strumenti è l'espressione di una funzione originaria sviluppata in ogni comunità organizzata sin dai tempi più antichi con lo scopo di permettere innanzitutto all'autorità di governo lo svolgimento della propria attività con la maggiore efficienza possibile, formando documenti validi nell'ambito di un ordinamento giuridico dato, accumulati con regolarità e ordine, conservati in modo sicuro e autentico, recuperati con rapidità.

La proliferazione della produzione documentaria della seconda metà del sec. 20° - fenomeno che tutto il mondo conosce e che ha molteplici ragioni, a cominciare dalla moltiplicazione degli apparati, dall'aumento delle attività nel settore pubblico, dalla frammentazione delle competenze, dalla facilità della riproduzione, dall'insufficienza e, soprattutto, dall'inadeguato impiego di risorse umane e finanziarie dedicate - trova soluzione nello sviluppo di strumenti archivistici efficienti e aggiornati, integrati all'interno di un piano sistematico di gestione documentaria che preveda un uso accorto delle tecnologie, sia nella fase attiva (o corrente) di formazione e tenuta dei documenti che in quella semiattiva (o di deposito), allorché le carte, pur rimanendo in custodia all'ente che le ha prodotte, non hanno più una funzione rilevante nell'attività in corso di trattazione: registrazione e classificazione ne costituiscono gli elementi principali.

La registrazione dei documenti (protocollo) è lo strumento che identifica in modo univoco i documenti ricevuti e spediti e attribuisce loro una data certa. La classificazione è, invece, l'operazione necessaria a individuare tutti i documenti che costituiscono l'archivio (anche quelli interni) nelle loro relazioni reciproche, nel quadro di una partizione logica di categorie che rispecchiano le funzioni e le attività dell'ente produttore. È, quindi, allo stesso tempo, uno strumento di riferimento organizzativo e di ordinamento e ricerca dei documenti. Concretamente consiste nell'attribuzione a ciascun documento di un codice alfa-numerico che individua il posto (in termini di relazioni logiche più che fisiche) che il documento occupa nell'ambito della struttura del fondo archivistico di cui è parte (un fascicolo nel caso di documenti relativi a uno stesso affare o una serie nel caso di documenti della stessa forma giuridica, per es. verbali, circolari, bilanci ecc.).

Altri strumenti completano e rendono affidabile e sicuro il sistema di gestione, consentendo l'ordinata accumulazione delle carte e il loro facile reperimento nella fase attiva (repertorio dei fascicoli, rubrica o schedario, scadenzario, registro della movimentazione dei fascicoli, manuale di gestione, regolamento d'archivio) e semiattiva (elenchi di versamento per il trasferimento dei documenti, schedoni topografici per la gestione dei depositi, schede di richiamo per la movimentazione e piani di conservazione per la selezione e lo scarto).

Lo sviluppo tecnologico offre strumenti più efficienti rispetto alla gestione tradizionale, poiché rende possibile l'integrazione delle informazioni, elimina la ridondanza delle operazioni ripetitive e inutili, garantisce il recupero dei dati in tempi sempre più rapidi e con sempre maggiore precisione e facilità. I sistemi di gestione dei documenti, anche nel caso di supporti ancora tradizionali, sono perciò destinati a subire interventi di automazione, che mantengano, tuttavia, i criteri di organizzazione originali basati sulla conoscenza e sul rispetto della natura dei documenti.

La diffusione dell'informatica nel trattamento e nella comunicazione delle informazioni non può non incidere, naturalmente, anche nella fase della conservazione permanente dei documenti in quanto archivi storici. La fruizione di questo materiale, conservato in appositi istituti (gli archivi di Stato) e, comunque, secondo programmi archivistici specifici (per es. nel caso di enti pubblici o di privati cui la legge affida la custodia del materiale archivistico prodotto anche nella fase inattiva o storica), è oggetto da tempo di applicazioni innovative: si utilizzano supporti ottici per la loro distribuzione a un pubblico più largo o anche per la consultazione dei documenti a rischio di deterioramento a causa della fragilità del materiale cartaceo originale. Si rendono disponibili gli strumenti di ricerca e di consultazione su banche dati locali o distribuite in rete, consentendo l'accesso remoto agli inventari e accrescendo le possibilità di ricerca e di integrazione delle informazioni disponibili. Standard per la descrizione (ISAD-G e ISAAR-CPM) sono stati sviluppati dal Conseil international des archives/International Council on Archives (CIA/ICA) per rendere possibile la condivisione e lo scambio di descrizioni archivistiche. La sfida più impegnativa riguarda, tuttavia, la conservazione permanente dei nuovi prodotti digitali: la necessità di garantirne l'integrità nel tempo, nonostante il continuo bisogno di migrazione tecnologica, e la difficoltà di reperire risorse adeguate e personale capace.

bibliografia

La bibliografia disponibile è molto ampia. Si limitano le indicazioni alle opere di natura generale più recenti e ai saggi che affrontano i temi più attuali e innovativi del settore.

G. Cencetti, Scritti archivistici, Roma 1970.

P. Carucci, Le fonti archivistiche. Ordinamento e conservazione, Roma 1983.

P. Carucci, Il documento contemporaneo. Diplomatica e criteri di edizione, Roma 1987.

E. Lodolini, Organizzazione e legislazione archivistica italiana dall'Unità d'Italia alla costituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1989.

L'archivistica alle soglie del Duemila, a cura di O. Bucci, Roma 1992.

Gestione dei documenti e trasparenza amministrativa, a cura di O. Bucci, Macerata 1994.

L'eclisse delle memorie, a cura di T. Gregory, M. Morelli, Bari 1994.

E. Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, Milano 1995.

M. Guercio, Automazione e archivi storici, in Archivi e imprese, 1995, 11-12, pp. 120-43.

Gentium memoria archiva. Il tesoro degli archivi, Roma 1996.

Gli standard per la descrizione degli archivi europei. Esperienze e proposte, Roma 1996.

M. Guercio, Creazione, tenuta e conservazione dei documenti elettronici. Lo stato dell'arte, in Le carte preziose. Gli archivi delle banche nella realtà nazionale e locale, Roma 1997.

Archivi non statali

di Gabriella Nisticò

Il d.p.r. 1409 del 30 settembre 1963 regolamenta anche, attraverso le Soprintendenze archivistiche, la vigilanza sugli archivi non statali dichiarati 'di notevole interesse storico': archivi di enti pubblici, archivi ecclesiastici, di partiti politici, di famiglie e persone, di banche, imprese, sindacati, associazioni, case editrici e istituzioni culturali e altre realtà ancora.

Gli ultimi cinquant'anni si sono caratterizzati per la progressiva crescita di interesse per gli archivi non statali del 20° secolo. La storiografia del secondo dopoguerra, per comprendere le ragioni profonde di fenomeni che hanno duramente segnato il Novecento, ha utilizzato una documentazione in prevalenza esterna ai circuiti degli Archivi di Stato. Le fonti novecentesche 'private' hanno acquisito dignità storiografica a partire dagli studi sul movimento cattolico e operaio, sull'antifascismo e la resistenza, che furono avviati tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta. Intorno a consistenti nuclei documentari, afferenti a tali temi, si costituirono numerose istituzioni culturali che iniziarono a integrare e a valorizzare le preziose raccolte.

Nel 1949 nascevano a Milano l'INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), con la finalità di salvaguardare "il patrimonio documentario e ideale" della resistenza, e la Biblioteca Giangiacomo Feltrinelli (poi Fondazione nel 1974), dove vennero raccolte le carte di uomini politici della sinistra (A. Tasca, P. Secchia). Nel 1950 a Roma, intorno alle carte del dirigente comunista morto in carcere durante il fascismo, si costituì la Fondazione Antonio Gramsci (poi Istituto nel 1954, di nuovo Fondazione dal 1984), che arricchì via via i propri fondi con archivi della resistenza (Fondo Brigate Garibaldi, 1943-1945; dello stesso periodo le carte della Direzione Nord del PCI), e, accanto ad archivi personali di dirigenti del Partito comunista italiano (P. Togliatti, E. Sereni) e del movimento operaio e di protagonisti della cultura italiana, con gli archivi del PCI dal dopoguerra in poi. Intorno all'archivio del fondatore del Partito popolare, venne eretto a Roma nel 1951 l'Istituto Luigi Sturzo, che nel corso degli anni ha ampliato il patrimonio documentario con l'acquisizione di archivi di personalità del mondo cattolico (F. Meda, I. Secco Suardo, A. De Gasperi, M. Scelba, G. Gronchi) e dell'archivio della Democrazia cristiana.

La pluralità dei luoghi di conservazione e valorizzazione delle fonti si è affermata ufficialmente come principio di una nuova politica culturale nella Conferenza nazionale degli archivi, che dedicava nel luglio 1998 un'intera sessione al 'Policentrismo della conservazione', sottolineando l'importanza di una realtà ampiamente consolidata già dalla seconda metà degli anni Sessanta. Gli eventi politici e sociali degli anni Sessanta e Settanta avevano fatto emergere nuovi soggetti (in particolare i movimenti studenteschi e femministi) e avevano in un certo senso determinato mutamenti di indirizzo nell'interesse storiografico sull'età contemporanea. Le stesse organizzazioni sindacali si impegnarono notevolmente, sollecitate dal nuovo clima e dall'accresciuta importanza del loro ruolo, a porre le basi per la ricostruzione della loro storia.

Nel 1968 venne istituita a Roma la Biblioteca-Archivio della CGIL, che avviò il lavoro di reperimento delle fonti sindacali, disperse e frammentate, a partire dal 1944. La CGIL promosse quindi la nascita di una rete di archivi, biblioteche e centri di documentazione nelle regioni e province italiane, o anche legati ad alcune categorie nazionali come l'archivio della Federbraccianti. Dal 1979 si è sviluppata la politica di recupero delle fonti da parte della CISL e successivamente della UIL. Parte dell'archivio CISL (dal 1950 alla fine degli anni Sessanta) è conservato presso la Fondazione Giulio Pastore di Roma. Anche i 60 istituti regionali e locali della resistenza coordinati dall'INSMLI, insieme al reperimento delle fonti relative al fascismo e alla resistenza, iniziarono a raccogliere archivi sindacali e delle camere del lavoro.

Altri elementi che nello stesso periodo determinarono la fioritura di numerose istituzioni si possono individuare, per esempio, nella presenza dei partiti in campo culturale che sfociò nella creazione di nuovi istituti; oppure nella decisione di intellettuali e uomini politici, che avevano raccolto rilevante materiale documentario fin dagli anni precedenti il fascismo, di donarlo a istituti già esistenti o di promuovere direttamente la costituzione di fondazioni. L'interesse per la storia della cultura e dell'editoria ha dato luogo alla formazione di archivi storici di importanti istituti editoriali e case editrici che anche in Italia sono sorti tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, come già precedentemente in Inghilterra (archivi storici delle più importanti case editrici, per es. della Cambridge university press) e in Francia, dove è significativo il progetto dell'Institut mémoires de l'édition contemporaine (IMEC), istituto di concentrazione archivistica, creato nel 1988 per la salvaguardia degli archivi editoriali francesi (cui hanno aderito per es. Flammarion, Gallimard, Hachette ecc.). In Italia, un modello significativo di struttura archivistica di istituto editoriale con forte valenza 'culturale' è l'archivio storico, costituito nel 1986, dell'Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, che conserva, oltre ai carteggi e ai materiali editoriali di tutte le opere Treccani a iniziare dall'Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti (pubbl. 1929-37), anche l'archivio d'impresa e archivi personali di studiosi che ricoprirono cariche istituzionali o di direzione scientifica nelle opere enciclopediche (L. Federzoni, G. De Sanctis, I. Pizzetti ecc.). Come archivio storico di una casa editrice in senso stretto è da segnalare l'archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, costituita nel 1977. In campo letterario grande rilevanza ha acquisito negli stessi anni il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei, fondato da M. Corti presso l'università di Pavia, struttura di concentrazione di archivi di autori del Novecento (Montale, Calvino, Gadda ecc.) con rare incursioni nel secolo scorso (Foscolo, Leopardi ecc.).

Per l'interesse dei partiti in campo culturale si creò la rete degli istituti Gramsci in varie regioni italiane (Piemonte, Emilia Romagna ecc.) e la Fondazione di studi storici Filippo Turati di Firenze che conserva, oltre agli archivi di personalità del socialismo italiano (R. Lombardi, S. Pertini), i materiali della Direzione nazionale del PSI. Emblematico, rispetto alla decisione di intellettuali e uomini politici di fondare nuove istituzioni, è il caso di L. Basso che offrì il suo archivio, ricco di materiale relativo alla sua variegata attività, e la documentazione da lui raccolta concernente la Rivoluzione francese, la socialdemocrazia tedesca e russa e la i e ii Internazionale, oltre alla sua biblioteca, come nucleo documentario per dar vita nel 1969 all'Istituto per lo studio della società contemporanea (ISSOCO), trasformato nel 1974 in Fondazione Lelio e Lisli Basso-ISSOCO, la quale ha proseguito negli anni ad arricchire il patrimonio culturale con archivi del movimento cristiano-sociale, di personalità dell'anarchismo, dei movimenti degli anni Sessanta. Ma numerose sono le fondazioni intestate a intellettuali e uomini politici: dalla Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici di Roma (1947) e dall'Istituto italiano di studi storici fondato da B. Croce a Napoli nel 1946, alle più recenti Fondazioni Ugo La Malfa, Pietro Nenni, Giovanni Spadolini, Ugo Spirito di Roma, Ezio Franceschini di Firenze, Luigi Einaudi, Carlo Donat Cattin e al Centro studi Piero Gobetti di Torino, alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia. Iniziative di rilievo si presentano per gli archivi della scienza, in particolare del CNR, delle università di Roma "La Sapienza" e di Bologna, dell'Accademia delle scienze detta dei xl, dell'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze e della Domus Galilaeana di Pisa. Negli anni Ottanta l'incremento degli studi di storia dell'impresa determinò una nuova consapevolezza nell'imprenditoria italiana, che iniziò a sostenere la necessità di ordinare per valorizzarlo il materiale d'archivio prodotto nel tempo. Questa svolta portò anche alcuni archivi d'impresa (Ansaldo, Fiat) a essere un'avanguardia nei progetti di informatizzazione e digitalizzazione dei materiali. Come istituto preposto alla valorizzazione del materiale documentario e a dare impulso alla formazione di archivi di concentrazione territoriale si è costituito nel 1991 presso la Camera di commercio di Milano il Centro sulla storia dell'impresa e dell'innovazione, mentre un grande impegno nel riordinamento e nel censimento degli archivi delle camere di commercio è stato fatto dall'Unioncamere.

L'evoluzione tecnologica ha aperto scenari in cui le fonti orali e audiovisive si sono imposte all'interpretazione storiografica, che si muove ormai nella direzione di una storia globale, per la quale gli strumenti dello storico sono sempre più numerosi e le fonti non si limitano al documento scritto. In questo campo, in Italia si sono formate istituzioni con finalità specifiche, di cui è stato avanguardia l'Archivio cinematografico della Resistenza fondato a Torino nel 1966, seguito nel 1979 dall'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, e nei primi anni Novanta dalla formalizzazione come fonte di ricerca allargata degli archivi della RAI e dell'Istituto Luce. Naturalmente materiali di tal genere si ritrovano ormai anche negli archivi contemporanei a prevalenza cartacea.

fig.

Per invertire la tendenza alla dispersione - non contrastata dall'informatizzazione considerata a sé stante - alcune istituzioni hanno creato forme di coordinamento, associazioni e consorzi, come l'AICI (Associazione delle Istituzioni Culturali Italiane) e il Consorzio BAICR (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) - v. i siti in Internet - con finalità di salvaguardia e valorizzazione delle fonti documentarie e consolidamento della cultura delle fonti. Da queste forme di cooperazione nasce anche l'idea di sviluppare reti informatiche tra archivi affini per creare una comunicazione tra fonti conservate in luoghi diversi e integrare 'virtualmente' ciò che è fisicamente separato, consentendo che i vari frammenti di una memoria comune non siano avulsi dai luoghi che fanno parte del loro contesto storico. Tra i primi tentativi, insieme alla rete degli Istituti della Resistenza e alla rete Lilith per i centri di documentazione di storia delle donne, si colloca il progetto Archivi del Novecento della rete degli Istituti culturali (BAICR/AICI), avviato nel 1990 (v. fig.).

bibliografia

Le opere che seguono sono in prevalenza edite dall'Ufficio studi e pubblicazioni dell'Ufficio centrale beni archivistici (MBBCC).

Gli archivi per la storia contemporanea, Roma 1986.

Gli archivi e la memoria del presente, a cura degli Istituti della Resistenza, Roma 1992.

Le carte della memoria, Atti del seminario di Torino 1996, a cura di M. Morelli, M. Ricciardi, Roma-Bari 1997 (v. per gli archivi dei partiti L. Giuva, per gli archivi della scienza G. Paoloni, per il progetto Archivi del Novecento G. Nisticò).

Per gli archivi sindacali, cfr. Le fonti per la storia del movimento sindacale in Italia, Roma 1997.

Sugli archivi dei partiti politici, cfr.: Gli archivi dei partiti politici, Atti dei seminari di Roma e Perugia (1994), Roma 1996; Gli archivi storici dei partiti politici in Europa, Atti del seminario promosso nel 1996 dalla Fondazione Istituto Gramsci e dall'Archivio storico della Camera dei deputati, Roma 1999 (per l'Italia v. in partic. le relazioni di G. De Rosa e L. Giuva).

Per gli archivi editoriali, cfr. le poligrafie curate da G. Tortorelli, Fonti e studi di storia dell'editoria, Bologna 1995, Gli archivi degli editori, Bologna 1998

Per le istituzioni culturali, cfr.: AICI, Gli istituti culturali tra passato e futuro, a cura di G. Monina, Soveria Mannelli (CZ) 1998; L. Zannino, Una 'disseminazione' da valorizzare, in Atti della Conferenza nazionale degli archivi (1-3 luglio 1998), Roma 1999.

Beni librari

di Carlo Federici

Per quel che riguarda i Beni librari in senso istituzionale, va segnalato il d. legisl. 20 ott. 1998 nr. 368 che istituisce il Ministero per i Beni e le Attività culturali, e inoltre si rinvia al contributo presente sotto il lemma beni culturali e ambientali dell'App. V, i, p. 342; v. anche le voci libro nel XXI vol. (p. 70) dell'Enciclopedia Italiana, in App. II (ii, p. 199) e in App. V (iii, p. 203) e, per l'evoluzione della 'forma libro', v. multimedialità in questa Appendice, in cui compaiono inoltre le voci biblioteca e mediateca. Per il restauro, v. oltre.

Restauro dei beni librari e archivistici

Fino a pochi anni fa, il restauro di b. librari e archivistici era inteso essenzialmente come restituzione di funzionalità al documento scritto sulla base dell'assioma che esso doveva essere letto e che tale finalità doveva essere raggiunta con il minore sforzo possibile. Il restauro consisteva pertanto nel rendere leggibile il testo, e il lavoro del restauratore puntava soprattutto a migliorare il contrasto tra testo e supporto (di qui gli sbiancamenti con ossidanti di carte magari solo leggermente imbrunite), giungendo fino alla sostituzione delle legature originali con rilegature funzionali alla lettura e alla riproduzione. La storia 'materiale' del documento scritto, la sua 'archeologia' non potevano che passare in secondo piano, poiché l'azione conservativa si rivolgeva univocamente alla componente testuale cui ogni altro aspetto veniva subordinato. Pergamene e carte venivano così mutilate della loro storia e trasformate in pure superfici di appoggio per gli inchiostri, anch'essi privi di qualsiasi materialità e considerati solo quali strumenti capaci di consentire la lettura di un testo la cui essenza (ma non ci sarebbe neppure bisogno di sottolinearlo) è affatto immateriale.

Ancora più grave è il discorso per quanto riguarda le legature, considerate alla stregua di sovraccoperte del tutto fungibili. Dalla distruzione si salvarono solo le coperte decorate che, in forza di una pretesa artisticità determinata essenzialmente dal mercato antiquario, vennero, almeno in parte, conservate. La complessità polimaterica della legatura - elemento portante della nota considerazione di W. Morris, per il quale il libro medievale è assimilabile a un'opera d'arte seconda solo a un edificio medievale perfettamente conservato - fu così trascurata subordinandone la storia alla funzione d'uso, vale a dire all'assemblaggio dei fascicoli e alla loro protezione tegumentaria.

In effetti uno dei problemi più rilevanti del restauro consiste nel suo concreto riconoscimento come momento nel quale l'oggetto assume compiutamente il ruolo di "testimonianza materiale avente valore di civiltà", definizione che sposta in secondo piano tutte le valenze d'uso che quello stesso oggetto ha avuto nel tempo. Basti pensare all'evoluzione funzionale di un manoscritto autografo di Francesco Petrarca nel momento in cui veniva vergato, qualche anno dopo la morte del poeta e ai giorni nostri: esso è passato da strumento di lavoro a caro ricordo, per diventare attualmente un bene culturale di primaria importanza.

È evidente che la riparazione di uno strumento di lavoro assume connotati affatto diversi dal restauro di un b. c., giacché l'obiettivo della prima consiste nella restituzione della perduta funzionalità, mentre il secondo punta a conservare tutte le informazioni potenzialmente deducibili, oggi e nel futuro, per mezzo dello studio analitico dell'oggetto. I gravi danni arrecati al patrimonio librario e documentario italiano dagli interventi di restauro realizzati nel recente passato si radicano essenzialmente in questo equivoco: che cioè fosse più importante restituire un'ipotetica funzionalità testuale che salvaguardarne il contenuto informativo globale, in particolare quello legato alle sue componenti materiali.

A parziale giustificazione di questo modo di operare, c'è la peculiarità dei libri e dei documenti la cui fruizione, a differenza degli altri b. c., vincola al contatto diretto e alla sollecitazione fisica degli originali. A rigore, ogni volta che un libro o un documento viene consultato, se ne pone a repentaglio l'incolumità fisica. Si parla qui di consultazione materiale, vale a dire di consultazione dell''oggetto-libro/documento', poiché la consultazione testuale potrebbe avvenire anche senza rischi per gli originali utilizzando una riproduzione (facsimile, microfilm, CD-ROM) del testo. Ovviamente quest'ipotesi confligge con la comune concezione del documento scritto come oggetto d'uso, ma si è già sottolineata l'eventualità che la sua funzione possa evolvere sino a condurlo allo status di b. culturale. Se è evidente che non tutti i libri (anzi solo una ridottissima aliquota di quelli che ogni giorno vengono stampati) assumono in concreto tale status, è altrettanto certo che le modalità di fruizione del libro-bene culturale dovrebbero essere subordinate al diverso ruolo che esso è chiamato a svolgere. Parimenti dev'essere intesa la sua conservazione e, di conseguenza, il restauro.

Il restauro, d'altronde, rappresenta solo un aspetto, l'ultimo e il più traumatico, dell'attività della conservazione di cui la prevenzione costituisce la fase primaria; infatti mentre la prevenzione non determina modificazioni dirette dell'oggetto, il restauro ne comporta il trattamento fisico e/o chimico alterandone, in modo quasi sempre irreversibile, la costituzione. Anche se la gran parte delle carte del restauro postula la totale reversibilità dell'intervento, si tratta di un assunto teorico, senza riscontri reali: in concreto qualsiasi azione restaurativa è reversibile solo in parte e per ciò stesso, nei fatti, irreversibile.

La conservazione si articola dunque in prevenzione e restauro: a sua volta la prevenzione può essere indiretta (l'applicazione di filtri antiultravioletti alle finestre di un edificio che contiene libri e documenti è, per es., un provvedimento di prevenzione indiretta visto che tutela l'oggetto da conservare senza coinvolgerlo fisicamente nell'operazione) o diretta (un contenitore di protezione, pur entrando in contatto con l'originale, non ne modifica la consistenza fisica e chimica).

Una prevenzione intelligente, anch'essa basata sulla storia tecnologica dei materiali che costituiscono libri e documenti, consente di realizzare un'accettabile previsione delle loro vicende conservative gettando le basi di una tutela dinamica capace di rallentare l'azione di degrado. Un esempio può venire dal livello di umidità relativa consigliata per i magazzini archivistici e librari: una solida consuetudine vuole che esso si consideri appropriato allorché sia compreso nei limiti del 45÷65%. Ebbene, ferma restando la sostanziale correttezza di questa opzione, essa dipende in realtà dal materiale che viene conservato nei magazzini. Se una raccolta di pergamene si tutela meglio a umidità medio-alte, l'unico modo per salvaguardare la carta contemporanea (segnatamente quella di giornale) e i supporti audiovisivi in genere è quello di assicurare la loro permanenza in ambienti nei quali l'umidità non superi il 40%.

Da queste considerazioni deriva l'attuale concezione del restauro di libri e documenti. Premesso che qualsiasi azione conservativa non può prescindere dalla conoscenza della storia tecnologica del b. c. oggetto dell'intervento e che quest'ultimo riceve proprio da tale conoscenza l'indirizzo metodologico che gli consente di operare nel pieno rispetto dell'originale, è necessario sottolineare che lo sviluppo della ricerca in questo settore è strettamente connesso con il restauro. Le discipline che si occupano dello studio del libro e del documento - dalla paleografia all'archivistica, dalla diplomatica alla codicologia, dalla storia dell'arte alla bibliologia per giungere sino alla filologia - sono portate a strumentalizzarne l'analisi materiale per finalità legate essenzialmente alla storia del testo, obiettivo che però può essere raggiunto assai più rapidamente impiegando metodiche tradizionali. Del resto l'archeologia del libro e del documento, per la sua sostanziale acerbità e per il suo esiguo radicamento, è destinata a soccombere in qualsiasi contesa di carattere euristico.

Per contro il restauro non può prescindere dalla conoscenza della storia delle componenti materiali sulle quali si realizza l'intervento, conoscenza su cui si basano, come già detto, le opzioni del restauro. Solo la capillare padronanza delle tecniche e dei materiali impiegati nella manifattura di una pergamena o di un foglio di carta consente di prevedere il loro comportamento alle sollecitazioni che inevitabilmente il restauro reca con sé. Sicché l'unico luogo nel quale non si può rinunciare a ricostruire la storia materiale di un b. c. è il laboratorio di restauro, così come solo il restauratore è la figura scientifica elettivamente vocata alla ricerca in questo settore. Il fatto che la costruzione di tale figura professionale sia a oggi ancora in fieri in Italia, evidenzia soltanto il ritardo col quale le strutture deputate alla formazione rispondono alle concrete esigenze della società civile: il restauratore di un futuro più prossimo di quanto in genere si ritenga, non potrà non coniugare all'abilità manuale della tradizione la conoscenza storica della classe di manufatti sui quali è chiamato a intervenire impiegando a questo scopo tutti gli strumenti che le scienze della natura pongono a sua disposizione.

Il restauro è stato definito dianzi come una modificazione dell'assetto chimico e/o fisico dell'oggetto, tale comunque da comportare (ancorché in maniera non sempre organoletticamente percettibile) l'alterazione di una parte della sua consistenza materiale. Più o meno scientemente il restauratore elimina informazioni storiche e ne introduce di nuove che, per definizione, tendono a confondersi con quelle originali innalzando il livello di 'rumore' e rendendo pertanto le prime sempre meno intelligibili.

Da ciò discendono tre fondamentali corollari del moderno restauro di libri e documenti. Il primo si basa sul fatto che esso è giustificabile solo allorché la salvaguardia delle informazioni storiche di cui l'oggetto è veicolo e testimone siano realmente e concretamente a rischio. Il secondo riguarda l'invasività dell'intervento, che dev'essere la minore possibile: è meglio limitare il restauro al solo consolidamento in attesa di tempi migliori, piuttosto che intervenire massivamente nell'illusione di stabilizzare in aeternum un'opera che, per la sua propria costituzione, tenderà comunque a degradarsi. Il terzo corollario investe la documentazione dell'intervento la cui importanza è appena il caso di sottolineare: solo essa infatti consente di verificare, nei tempi lunghi che sempre caratterizzano il restauro, la qualità dei materiali e delle tecniche impiegate. Di conseguenza tale documentazione non solo deve essere la più dettagliata possibile (segnatamente per quanto attiene alla composizione dei prodotti utilizzati nonché alle metodiche della loro applicazione), ma dovrebbe anche essere fisicamente legata all'oggetto stesso: l'esperienza di archivi di restauro più o meno remoti rispetto al luogo di conservazione dell'originale e la pratica impossibilità - per ragioni le più varie ancorché sempre cogenti - di avere facilmente e velocemente accesso ai dati in esso conservati, non lasciano alternative a questa scelta.

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Beni culturali della chiesa cattolica

di Giovanna Mencarelli

Il complesso patrimonio costituito da edifici religiosi - chiese, cattedrali, cappelle, oratori, abbazie, conventi ecc. - e i beni mobili di loro pertinenza, un tempo o ancora oggi in essi conservati - affreschi, dipinti, sculture, stucchi, pulpiti, cantorie, organi, leggii, oreficerie, argenterie, paramenti, vestimenti, fondi musicali, fondi librari, fondi documentari e oggetti di vario uso liturgico - testimoniano l'affermazione, il consolidamento e le mutazioni del culto e dei riti dall'età paleocristiana a oggi. In Italia i b. c. ecclesiastici, di proprietà della Chiesa, dello Stato e anche di privati, costituiscono una parte cospicua dei b. c. nazionali, ma non se ne conosce ancora l'esatto ammontare.

I beni accumulati nel corso dei secoli da diverse istituzioni ecclesiastiche quali diocesi, parrocchie, ordini religiosi, confraternite, opere pie e fondazioni, frutto della munificenza di potenti, di papi e della pietas popolare, subirono una forte dispersione in età napoleonica e successivamente nell'Ottocento, quando la normativa attuata nell'Italia postunitaria determinò la chiusura di edifici di culto e di conventi, trasferendone la proprietà ad altri soggetti. Molte opere andarono, in seguito, a costituire il patrimonio dei musei civici di nuova istituzione; ma un numero incalcolabile di esse alimentò un prospero mercato antiquario, che ha avuto tra i suoi destinatari, oltre ai privati, i più prestigiosi musei d'Europa. Numerosi edifici, in particolare i conventi, ebbero una diversa destinazione d'uso, che tuttora conservano: divenne caserma l'ex convento di Santo Spirito a Firenze, tribunale l'ex Collegio Apostolico dei Carmelitani di Palermo; altri furono trasformati in scuole, ospedali, carceri, uffici ecc. È opportuno ricordare che dei beni incamerati dallo Stato facevano parte anche delle proprietà immobiliari e terriere agricole. Le opere pie, con i relativi beni e molte chiese, vennero invece assunte dal demanio con la legge Crispi del 1890. Studi recenti hanno accertato che circa 3000 chiese italiane sono di proprietà statale o comunale; tra le più importanti almeno trenta si trovano a Roma: S. Ignazio, SS. Apostoli, Chiesa Nuova ecc.; le rimanenti sono di proprietà ecclesiastica, anche attraverso confraternite e congregazioni.

Dalla 'legislazione eversiva' al Fondo edifici del culto. Durante il Regno di Sardegna la Cassa ecclesiastica - istituita con l. 29 maggio 1855 nr. 878 e posta alle dipendenze del Ministero di grazia, giustizia e dei culti - aveva provveduto agli oneri del culto. Con la proclamazione del Regno d'Italia e l'unificazione nazionale, la Cassa venne sostituita con il Fondo per il culto.

Il Fondo per il culto - istituito con r. d. 7 luglio 1866 nr. 3036, il provvedimento che attuava la separazione tra Stato e Chiesa - era anch'esso dipendente dal Ministero di grazia, giustizia e dei culti, sul cui bilancio gravavano gli oneri dei beni passati al demanio e trasferiti sulla rendita pubblica in conseguenza della 'legislazione eversiva' (nr. 878 del 29 maggio 1855; nr. 3036 del 7 luglio 1866; nr. 3848 del 15 ag. 1867; nr. 1402 del 19 giugno 1873) e dell'integrazione dei redditi dei titolari dei benefici ecclesiastici conservati, vescovi e parroci. Con la l. del 1867 si definiva la finalità pubblica e si indicava la destinazione del patrimonio cultuale nel suo complesso; con la l. 30 giugno 1892 nr. 317 venne istituito il supplemento di congrua, che rimase in vita fino alla revisione del Concordato (1984).

I dissesti economici determinati dalla Prima guerra mondiale colpirono anche il Fondo che, ormai incapace di provvedere autonomamente ai ruoli istituzionali, ebbe un contributo annuo dal Ministero del Tesoro, attraverso successivi interventi normativi. Il Fondo subì una radicale trasformazione giuridica a seguito dei Patti lateranensi stipulati l'11 febbraio 1929 e ratificati dalla l. 27 maggio 1929 nr. 848. Divenuto parte di una Direzione generale del Ministero dell'Interno e integrato nel bilancio dello stesso, il Fondo venne amministrato da un prefetto e da due consigli d'amministrazione - ciascuno di dieci membri, di cui metà designati dalla Chiesa, ma tutti nominati con decreto del capo dello Stato - che, oltre al patrimonio dello stesso Fondo, dovevano gestire quello del Fondo speciale per la città di Roma e quello delle istituzioni ecclesiastiche soppresse, comprese le istituzioni dei territori ex austriaci.

Le modifiche al Concordato - siglate il 18 febbraio 1984 - portarono a nuovi mutamenti nella disciplina degli enti e del patrimonio ecclesiastico, tanto da determinare lo scioglimento del Fondo (l. 20 maggio 1985 nr. 206, resa esecutiva dalla l. 222, entrata in vigore il 3 giugno 1985) e da istituire il Fondo edifici di culto, organo strumentale con personalità giuridica propria, la cui amministrazione venne affidata al Ministero dell'Interno, che la gestisce attraverso la Direzione generale degli affari dei culti e, nelle province, tramite i prefetti. I redditi del Fondo vengono utilizzati per la tutela, la conservazione, il restauro e la valorizzazione degli edifici di culto a esso pertinenti.

Gli effetti della revisione del Concordato

Con la revisione del Concordato (l. 317 del 30 giugno 1992) e successivamente con la costituzione dell'Ente parrocchia (1994), si è aperto il problema di un'eventuale restituzione alla Chiesa di alcuni edifici (con i beni in essi contenuti) divenuti proprietà dello Stato. Questa eventualità ha suscitato un vivace dibattito tra gli storici dell'arte e le associazioni di rilevanza internazionale interessati alla tutela e alla conservazione, che si sono espressi sulla proposta con pareri contrastanti. Nel dibattito si è inserita anche la CEI (Conferenza Episcopale Italiana), che, in qualità di destinataria, manifestava la disponibilità, sotto il vincolo dell'inalienabilità, alla conservazione e alla manutenzione di questa porzione di patrimonio, stimata intorno all'1% del patrimonio complessivo nazionale: a tale scopo si mostrava favorevole a devolvere parte dell'8‰ proveniente dagli introiti fiscali. Il nodo da sciogliere era quello relativo ai Fondi per la conservazione, poiché, se fino ad allora lo Stato non aveva redatto un piano organico di tutela, tuttavia diversi miliardi erano già stati versati a questo patrimonio, con fondi speciali, tramite la legge per Roma capitale e in previsione del Giubileo del 2000.

La Chiesa cattolica, per la tutela dei propri beni, ha creato vari organismi, quali la Pontificia commissione centrale per l'arte sacra in Italia (1924-89), la Pontificia commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa (1988-93), sostituita nel 1993 dall'attuale Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa. Sono poi da ricordare altre istituzioni, quali la Pontificia commissione di archeologia sacra, la Direzione generale dei monumenti, musei e gallerie pontificie, la Pontificia insigne accademia di belle arti e lettere dei virtuosi al Pantheon, la Pontificia accademia romana di archeologia. A livello di Chiese locali, il Concilio ecumenico Vaticano ii ha favorito la costituzione di commissioni diocesane nel settore della liturgia, della musica sacra e dell'arte sacra. Vi sono poi numerose associazioni internazionali, nazionali e locali, che a vario titolo si interessano del settore dei beni culturali ecclesiastici.

L'inventario dei beni ecclesiastici, strumento per arginare vendite, spoliazioni e furti

La consistenza dei beni mobili e immobili, dal Medioevo all'età moderna, risulta essere attualmente l'80% dell'intero patrimonio nazionale. Un problema solo in parte affrontato è per questi beni quello della catalogazione e del censimento, unico strumento di controllo che può efficacemente arginare sottrazioni e vendite. A partire dagli inizi degli anni Settanta, con la creazione dell'Istituto centrale del catalogo del Ministero per i Beni culturali e ambientali, lo Stato si proponeva di attuare una catalogazione sistematica, che però, a causa di una costante penuria di fondi, a tutt'oggi ha riguardato solo il 15 e il 20% del totale supposto.

Esemplare resta la catalogazione a tappeto realizzata agli inizi degli anni Settanta in Emilia-Romagna, dalla Soprintendenza di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna: ben 47.000 schede furono redatte nelle diocesi di Bologna e Imola. La Chiesa cattolica, da parte sua, ha avviato nel 1987 l'inventario in forma sistematica su base diocesana, in attuazione degli Accordi concordatari del 1984. Le diocesi che hanno risposto all'iniziativa sono state 136 su 226, pari al 61% (il 72% delle parrocchie italiane), ma solo due o tre diocesi hanno completato l'inventario amministrativo: mancano dati sulle diocesi di Roma e Firenze, il Nord ha risposto al 92%, il Centro al 54%, il Sud al 47% e le Isole al 43%. Inventari completi dei beni immobili - chiese, biblioteche, archivi, musei - esistono solo per Aosta e Udine, dove determinante è stata la volontà di alcuni parroci; la catalogazione ha raggiunto il 98% a Bergamo, il 20% a Milano.

Nonostante il canone 1283 del Codice di diritto canonico prescriva ai parroci di redigere un accurato inventario dei beni affidati alla loro cura, la CEI è intervenuta con un finanziamento di 100 miliardi all'anno fino al 1999 (dai proventi dell'8‰) per favorire almeno una precatalogazione in ambito diocesano. Da ultimo un'indicazione sulle strategie per la catalogazione e la musealizzazione è venuta anche dal Progetto finalizzato beni culturali CNR 1996-2000, in cui i b. ecclesiastici hanno avuto spazio nel contesto del patrimonio culturale nazionale.

Musei ecclesiastici, musei diocesani, musei vicariali

Il nucleo più consistente è costituito da quelli diocesani; seguono poi i parrocchiali, i vicariali, i vescovili e gli arcivescovili, collegati a chiese, basiliche, abbazie, santuari, pievi, aree archeologiche, missioni. Tra i musei diocesani ricordiamo quelli di Cortona (istituito nel 1946) e di Montalcino (istituito nel 1998); degno di menzione è anche il museo di Bertinoro (Forlì), che ha assunto il ruolo di centro specializzato di raccolta e documentazione degli indumenti e dei paramenti sacri del territorio, ovviando al pericolo della dispersione di questi materiali. I musei vicariali, costituiti dai beni di diverse parrocchie contigue, appaiono, anche alla valutazione di alcuni esperti, i più funzionali e adeguati all'esigenza primaria di non sradicare, ma di mantenere nel territorio di pertinenza gli oggetti sacri: esempi se ne trovano in Toscana (Santo Stefano al Prato, Vicchio, Montespertoli ecc.). Ricordiamo anche che nei musei ecclesiastici sono conservate collezioni scientifiche, etnografiche e di cultura materiale, provenienti da collegi religiosi e da seminari dove erano usate a fini didattici, e da centri missionari.

I furti

I b. ecclesiastici risultano essere tra i più soggetti a depredazioni e furti; tra le cause di questo fenomeno si annovera lo spopolamento di alcune zone, la scarsa sorveglianza degli immobili e la mancanza di sistemi di sicurezza. Secondo i dati rilevati dal Comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio artistico, i furti compiuti nelle chiese sono secondi soltanto a quelli compiuti nelle abitazioni private. Negli ultimi 15 anni sono stati registrati circa 14.000 furti, che hanno portato al trafugamento di circa 15.000 oggetti mobili; ma l'azione di recupero è resa più ardua dalla mancanza di strumenti di riconoscimento: foto, inventari, schede di catalogo.

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Beni demo-etno-antropologici

di Vito Lattanzi

L'espressione beni demo-etno-antropologici è stata introdotta nel più generale panorama dei b. c. con l'istituzione del nuovo Ministero per i Beni e le Attività culturali (1998). L'espressione comprende una categoria di b. già inclusa nell'ordinamento italiano con la l. 1089 del 1° giugno 1939, che per la prima volta accoglieva, tra le 'cose' su cui lo Stato esercita la propria tutela, anche quelle "che presentano interesse etnografico". Il riferimento ai 'beni etnografici' riconosceva nella sostanza l'attività di due istituzioni museali dedite alla raccolta di tradizioni etniche e folkloriche: il Museo preistorico etnografico fondato da L. Pigorini a Roma nel 1875; il Museo di etnografia italiana creato da L. Loria nel 1906 e aperto a Roma nel 1956 con il nome di Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari. L'estensione della tutela alle 'cose' di interesse etnografico ratificava sul piano giuridico un valore già da tempo attribuito dalle scienze antropologiche ai prodotti materiali e immateriali delle culture 'altre' o tradizionali. Nell'opera di salvaguardia pubblica entravano di diritto le manifestazioni culturali dell'éthnos, vale a dire quei prodotti rispetto ai quali un gruppo sociale esprime un senso di appartenenza collettiva poiché vi riconosce le tracce 'identitarie' e simboliche del proprio vissuto antropologico: prodotti di artigianato e di uso domestico; costumi, ornamenti e decori; abitazioni, mobili e arredi; attrezzi da lavoro; mezzi di trasporto e di comunicazione; strumenti musicali; canzoni, danze e letteratura orale (poesie, fiabe, leggende, proverbi); dialetti e parlate; mitologie, cerimonie, riti e feste.

I patrimoni culturali di interesse etnografico presentano una diffusione geografica e un'articolazione semantica complesse. Lo stesso termine etnografia, pur essendo circostanziato da una radice etimologica molto particolare, ha un significato ambivalente. Esso designa sia lo studio dei popoli extraeuropei e delle tradizioni folkloriche, sia i prodotti della vita sociale e culturale di individui e comunità. L'attributo etnografico, dunque, viene usato per qualificare un certo tipo di descrizione documentaria (rapportata negli ultimi decenni del 20° sec. anche a forme di retorica testuale) e per identificare più immediatamente il patrimonio antropologico di una determinata cultura. Quando si parla di patrimoni etnografici, inoltre, ci si riferisce a due omologhe categorie di b., ciascuna oggetto d'interesse di differenti specializzazioni del raggruppamento disciplinare che in Italia si dice demo-etno-antropologico: i b. etnologici (pertinenti l'etnologia propriamente detta, e le antropologie aventi per oggetto quelli che A.M. Cirese ha chiamato "dislivelli esterni di cultura"); i b. demologici (pertinenti la storia delle tradizioni popolari, il folklore, la demologia o l'etnologia europea, vale a dire i "dislivelli interni di cultura": Cirese 1971 e 1997). Questa distinzione non ha mai avuto un preciso riscontro nella denominazione delle istituzioni che custodiscono beni di natura etnografica: infatti, nel mondo si possono trovare, a seconda dei contesti e delle tradizioni scientifiche di ciascun paese, musei intitolati all'etnografia, al folklore, alle arti e tradizioni popolari, all'antropologia, o, più semplicemente, all'Uomo. Non si adatta inoltre a connotare pienamente le proprietà della competenza antropologica contemporanea, che ha un valore storico-comparativo ed ermeneutico-riflessivo a prescindere dai campi di interesse privilegiati dalla ricerca teorica ed empirica. Tuttavia, si tratta di una distinzione che individua chiaramente gli ambiti di riferimento che hanno fatto dell'alterità storica (il mondo rurale e popolare opposto al mondo urbano e 'culto') e dell'alterità geografica (il coloniale, il selvaggio, l'esotico, il primitivo) uno specifico oggetto di studio. Per di più, in base a tale distinzione tra b. etnologici e demologici, l'adozione dell'espressione coniata dalla tradizione accademica italiana consente anche nella gestione dei b. c. di circostanziare meglio la diversa natura delle realtà etnografiche che compongono la sfera antropologica.

A differenza dei b. artistici e archeologici, i quali guadagnavano un loro valore educativo già all'inizio dell'età moderna, le collezioni etnografiche sino alla fine del 18° sec. si confondevano con le raccolte religiose, artistiche e naturalistiche, non possedendo uno statuto che le qualificasse per il loro interesse culturale. Se il secolo dell'antropologia è stato l'Ottocento, il Settecento si può definire il secolo dell'etnologia, almeno per il sistematico interesse rivolto alle culture extraeuropee. Il pensiero illuminista gettò per primo le basi di quella sensibilità e l'Encyclopédie diede risalto alla 'cultura materiale', cioè a quegli oggetti e utensili d'uso quotidiano utili allo studio storico e culturale di usi, costumi e tecnologie.

Tra 18° e 19° sec. la storia del b. etnografico abbandonò il campo filosofico e cominciò a intrecciarsi, da un lato, con la storia delle scienze antropologiche e archeologiche, dall'altro, con quella delle istituzioni museali. Raccogliere ed esporre, per lo più a fianco di oggetti preistorici, i materiali provenienti dalle società cosiddette primitive, all'inizio dell'Ottocento era diventato un progetto comune a molti paesi europei. Del resto, geografi, archeologi e primi antropologi condividevano allora l'idea, del tutto tipica del paradigma evoluzionista in statu nascendi, che la storia del passato più remoto dell'Uomo potesse essere meglio compresa attraverso la comparazione dei resti archeologici con i dati provenienti dalle popolazioni di interesse etnologico. Questo orientamento, teso a ordinare i reperti per stadi tecnologici e culturali evolutivi, tra il 1819 e il 1869 ebbe, nella scuola scandinava e nei musei di Copenaghen di Ch.J. Thomsen e di J.J. Asmussen Worsaae, la sua prima importante applicazione museografica. Le teorie di Worsaae, tradotte in inglese nel 1840, furono raccolte dai membri della Ethnological Society, fondata a Londra nel 1843. H. Christy, tra i soci più attivi della società londinese, subito dopo l'Esposizione universale di Londra del 1851 si recò in visita alle collezioni scandinave e iniziò una raccolta di oggetti etnologici e preistorici che alla sua morte (1865) confluì nel British Museum; mentre il generale P. Rivers nel 1853 cominciò a collezionare materiali etnografici (soprattutto armi) con l'intenzione di contribuire allo studio comparativo dell'evoluzione umana (Cardarelli, Pulini 1986). Il materiale etnografico guadagnava in quegli anni un'attenzione talmente rilevante da preparare e determinare la nascita delle scienze antropologiche moderne, il cui sviluppo si verificherà alla fine del 19° sec. (Alle origini dell'antropologia, 1980; Objects and others, 1985).

Nella prima metà dell'Ottocento in Italia i luoghi di dibattito e di confronto della cultura evoluzionista erano due, ed entrambi nella Milano risorgimentale e liberale: il Museo di storia naturale (fondato nel 1838) e la rivista Il Politecnico diretta da C. Cattaneo. È in questo ambiente che etnologia e preistoria, nel più generale quadro delle scienze naturali ma sotto l'impulso dei viaggi e della sensibilità etnografica di naturalisti come G. Osculati e A. Raimondi, mossero i primi passi. È in questo clima che intorno al 1860 emerse la figura di B. Gastaldi, con il quale si addestrarono i padri fondatori della museografia antropologica e preistorico-etnografica italiana: P. Mantegazza, G.V. Giglioli, P. Stròbel e L. Pigorini (Laurencich Minelli 1994). Giglioli, professore di antropologia a Pisa dal 1860, fu il primo a progettare un Museo antropologico ed etnologico nazionale (1862). La sua prematura morte ne impedì la realizzazione. Il progetto venne però ereditato dal figlio Enrico Hillyer, protagonista tra il 1865 e il 1868 di un viaggio intorno al mondo nel corso del quale iniziò la sistematica raccolta di oggetti etnografici finiti più tardi al Museo Pigorini di Roma (Giglioli 1875 e 1901). Nell'intento di costituire un museo riuscirono Mantegazza e Pigorini. Il primo, ottenuta nel 1869 la cattedra di antropologia a Firenze, gli affiancò da subito il Museo di antropologia e di etnologia con l'obiettivo di rappresentare l'evoluzione delle varietà razziali e psichiche dell'umanità (Regalia 1901). Pigorini, invece, nel 1875 costituì attorno al nucleo di oggetti etnografici della collezione kircheriana un Museo nazionale di preistoria ed etnografia, con l'idea di documentare, oltre alle antichità preistoriche, anche "quello che producono i selvaggi e i barbari viventi". Pigorini aveva in mente come modello il museo preistorico etnografico di Copenaghen: a Thomsen e Worsaae era debitore della rilevanza assegnata dall'archeologia all'oggetto etnografico, traccia comparativa utile per ricostruire l'evoluzione dell'umanità (Pierucci 1984; Nobili 1990; Mangani 1994).

Nel corso dell'Ottocento l'aggettivo etnografico venne esteso alla dimensione culturale occidentale per designare anche i fatti e i prodotti relativi al mondo tradizionale europeo (Baldi 1988). L'interesse per il patrimonio demologico iniziò ad avere un riscontro concreto già nei primi decenni del 19° sec.: sia nella diffusione dei questionari napoleonici curati dall'Académie celtique per raccogliere notizie sulle condizioni di vita del mondo rurale dei ventiquattro Dipartimenti del Regno d'Italia (1808); sia nei provvedimenti dello Stato Pontificio che, nella sua politica di salvaguardia del patrimonio artistico, nel 1820 (editto Pacca) estendeva la tutela agli oggetti concernenti le arti e le tradizioni popolari. Il termine etnografico probabilmente fu introdotto per la prima volta in Italia nel 1826 dal geografo A. Balbi, che intendeva riferirsi alla classificazione dei popoli in base alla loro lingua (la parola etnografia era stata usata alla fine del Settecento proprio in questa accezione dallo storico B.G. Niebuhr). Questo significato linguistico-geografico conviveva all'inizio dell'Ottocento insieme all'accezione medico-biologica da cui sarebbe nata l'antropologia fisica. Il termine, infatti, veniva impiegato in questa duplice accezione nelle opere di autori quali G.D. Romagnosi, G. Vegezzi Ruscalla e G. Rosa. La prospettiva dominante era tuttavia quella del popolarismo romantico, che dai fratelli Grimm a Herder, da La Marmora a Tommaseo (e poi a Rubieri, Nigra e D'Ancona) aveva fatto della poesia, dei canti, delle musiche, della narrativa e delle arti popolari il proprio privilegiato oggetto di studio e di documentazione. Questo interesse per le origini, la storia e i caratteri dei popoli italiani, che della sfera popolare considerava solo le creazioni 'nobili' trascurando gli usi e i costumi legati alle condizioni materiali più miserabili, si connetteva all'esigenza risorgimentale di ritrovare nel popolo l'anima unitaria della nazione (Cirese 1971; L'uomo e gli uomini, 1991). Una prima traduzione sul piano scientifico e disciplinare dell'attenzione per il mondo popolare maturata in campo letterario, filologico e linguistico è rappresentata in Italia dalla pubblicazione di due annate (1893-1895) della Rivista delle tradizioni popolari italiane fondata da A. De Gubernatis, e dalla creazione per opera di G. Pitrè dell'Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (1882-1909) e della Bibliografia delle tradizioni popolari d'Italia (1894; Cocchiara 1947). La volontà di conoscere 'in positivo' la vita sociale e culturale degli strati più umili dell'Italia unita si sostituì alla visione romantica del mondo popolare solo nell'ultimo quarto dell'Ottocento. Un segno di questa inversione di tendenza, cui seguirà la raccolta più sistematica di oggetti della cultura popolare, è offerto dall'Inchiesta agraria sulle condizioni delle classi agricole avviata nel 1877 da S. Jacini per il governo Depretis, cui parteciparono anche antropologi come E. Morselli. Nel clima di generale entusiasmo per il progresso e la modernizzazione furono soprattutto le grandi esposizioni industriali ad alimentare mostre con oggetti appartenenti alla cultura folklorica. I paesi scandinavi anche in questo caso svolsero un ruolo pionieristico. La nascita dei musei della cultura popolare e di quelli che ricostruivano intere abitazioni e ambienti organizzati come scenari (più tardi si sarebbero chiamati musei all'aperto) avvenne infatti a Stoccolma per opera di A. Hazelius, al cui nome sono legati lo Skandinavisk-etnografisk Museum (poi Nordiska Museet) e lo Skansen, inaugurati nel 1872 e nel 1881 (Vibaek 1993). L'attenzione per le testimonianze 'materiali' della vita dei popoli si precisò anche in Italia proprio dagli anni Settanta dell'Ottocento. Mantegazza nel 1877 aveva parlato dell'importanza degli 'oggetti metamorfici' (quelli "che riuniscono elementi del mondo selvaggio e dei popoli civili") per lo studio delle culture, e nel 1889 aveva deciso di affiancare un Museo psicologico a quello antropologico fondato nel 1869. Pigorini nel 1881 aveva proposto di allargare l'esposizione del suo museo alle collezioni di oggetti demologici (Puccini 1985). Pitrè, infine, incaricato di ordinare ed eseguire per l'Esposizione nazionale italiana di Palermo una mostra etnografica, nel 1891 aveva gettato le basi di quel Museo etnografico siciliano che poi sarà intitolato al suo nome. Il catalogo della mostra palermitana è indicativo delle caratteristiche 'positive' e del valore culturale assegnato ai beni demo-etno-antropologici. Gli oggetti furono classificati in nove categorie: costumi; oggetti di uso domestico; oggetti relativi alla pastorizia, all'agricoltura e alla caccia; veicoli; alimenti; spettacoli e feste; amuleti, ex voto e oggetti di devozione; giocattoli e balocchi fanciulleschi; libri e libretti per il popolo (Pitrè 1911).

All'inizio del Novecento i tempi erano maturi perché prendesse corpo una raccolta nazionale (non solo regionale o locale) di materiali demologici, e si passò dall'interesse per i documenti letterari, demopsicologici o folklorici all'interesse per la cultura materiale propriamente detta, e cioè abiti, utensili, suppellettili, strumenti e manufatti tipici della vita delle culture tradizionali italiane. L'iniziativa su vasta scala venne intrapresa da L. Loria in collaborazione con A. Mochi, che era stato allievo e assistente di Mantegazza e aveva lavorato all'allestimento del Museo di antropologia di Firenze. Nel 1902 Mochi aveva segnalato l'opportunità e l'urgenza di intraprendere la raccolta degli oggetti prodotti dalle culture popolari, la cui importanza, pari a quella del canto o della poesia, era da salvaguardare in rapporto all'incipiente modernizzazione (Mochi 1902). Egli stesso aveva raccolto un certo numero di oggetti demologici, che rappresentano il nucleo attorno al quale nel 1906 si costituì a Firenze il Museo di etnografia italiana, "destinato ad accogliere e conservare riuniti tutti quanti i documenti etnografici, demopsicologici o folkloristici che dir si vogliano, qual si sia la loro natura e la forma sotto cui si presentano, dalle raccolte di novelle, leggende e proverbi, dai dizionari, grammatiche e testi dialettali, dalle trascrizioni di musica e canti, alle fotografie o altre immagini di scene e di costumi, ai modelli di case, barche, veicoli, ai mobili, agli strumenti agricoli ed industriali, alle ceramiche, agli utensili domestici, ai prodotti artistici, ecc., di quella parte delle popolazioni italiane non ancora profondamente modificate dalla civiltà moderna" (Loria, Mochi 1906). Il progetto ebbe modo di perfezionarsi negli anni seguenti grazie all'incarico ricevuto da Loria di curare una mostra etnografica per l'Esposizione internazionale che si sarebbe tenuta a Roma nel 1911 in occasione del cinquantenario dell'unità d'Italia. La raccolta di oggetti, programmata e realizzata su scala nazionale, diede vita a una vasta collezione etnografica che resterà fondativa per la futura composizione del patrimonio demologico italiano (Puccini 1985). Del grande museo etnografico, in nuce nella mostra romana, si discusse anche al primo congresso della Società di etnografia italiana tenuto in concomitanza con l'Esposizione del 1911 (Atti del primo congresso, 1912). Ma la struttura dovrà attendere diversi decenni per realizzarsi. Nascerà ufficialmente nel 1923, ma non troverà una sede idonea e definitiva fino al 1956, quando, con il nome di Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, aprirà i battenti a Roma in uno dei palazzi costruiti in previsione dell'Esposizione universale del 1942.

Il folklore ricevette un'attenzione del tutto particolare negli anni del fascismo, che ne fece un bene degno di essere conosciuto e salvaguardato in quanto gloria nazionale. L'Opera nazionale dopolavoro (OND, istituita nel 1925) nel 1930 inglobò il Comitato nazionale italiano per le arti popolari (CNIAP) e il folklore fu inserito nel programma educativo dell'Ente per i benefici che avrebbe potuto apportare all'educazione delle masse. Nel 1928 venne creata a Roma la Discoteca di Stato (v. oltre: Beni musicali), che ben presto, agli iniziali scopi di documentazione delle memorie patriottiche, unì nuove funzioni come la raccolta dei dialetti, dei canti popolari, delle manifestazioni tradizionali, degli oggetti relativi alle scienze fonetiche e glottologiche, del resto già individuate da Loria come fondamentali documenti di interesse etnografico. Anche nella Enciclopedia Italiana (1929-37) l'area del folklore, curata da R. Corso, raggiunse una sua autonomia dalle sezioni di etnologia e di storia delle religioni. Gli esiti di questa capillare politica di valorizzazione, che vide fiorire molte mostre etnografiche organizzate dai comitati provinciali per le arti popolari, lasciarono il segno. Nel 1936 furono pubblicate a cura del CNIAP le Norme generali per la raccolta degli oggetti e dei documenti di arte popolare, corredate di questionari, indicazioni e appunti per il rilevamento, la ricerca e la catalogazione. E nel 1939, ispirata da testi e da disposizioni di polizia, venne varata la Legge di tutela delle cose di interesse artistico e storico, che accolse tra le 'cose' da salvaguardare anche il patrimonio etnografico (Tozzi Fontana 1984). Nella l. 1° giugno 1939 nr. 1089 il b. etnografico è ancorato a categorie di tipo estetico e il problema principale degli studiosi (se ne discusse, per es., nel 1940 al iv Congresso nazionale di arti e tradizioni popolari) divenne superare l'associazione tra arte 'illustre' e arte 'popolare' per poter arrivare a una distinta opera di salvaguardia. A partire dal 1945, grazie all'opera di studiosi come R. Pettazzoni, E. De Martino e G. Cocchiara, la concezione artistico-letteraria del folklore viene abbandonata e la ricerca si orientò nel campo della cultura materiale: dalla vita sociale ai fenomeni cerimoniali e rituali, dalla musica alla danza, dalla quotidianità alla storia delle tradizioni popolari. Per le scienze etnoantropologiche italiane si trattava di una vera e propria svolta, che predispose gli studiosi al fertile confronto con gli sviluppi del pensiero antropologico straniero (Carpitella 1971-72). Questo quadro generale, in cui si inseriscono anche le prospettive aperte nel 1950 dalla pubblicazione degli scritti di A. Gramsci sul rapporto tra cultura egemonica e culture subalterne, non invertì tuttavia i principi consolidatisi nel pensiero giuridico e istituzionale. Politica dei patrimoni culturali e scienze demo-etno-antropologiche avrebbero da allora seguito strade diverse, per incontrarsi solo episodicamente senza però dare luogo a utili e compiute sintesi normative. Nonostante l'apertura a Roma del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, il progetto di Loria resterà per tutto il Novecento sostanzialmente incompiuto; il Museo preistorico etnografico L. Pigorini conserverà la sua identità di museo archeologico; la Discoteca di Stato, se si esclude la campagna di rilevamento folklorico condotta dal 1962 al 1970 e pubblicata nel Catalogo dell'archivio etnico-linguistico-musicale (Aelm), non darà continuità ai propri interventi in campo etnografico (Lattanzi 1990; Mariotti 1999).

L'introduzione negli anni Cinquanta del concetto di 'bene culturale' nel linguaggio giuridico internazionale deve molto alla diffusa affermazione del significato antropologico di cultura nelle scienze sociali e storiche. I membri della Commissione parlamentare italiana incaricata nel 1964 di studiare un assetto amministrativo per il patrimonio culturale nazionale dimostrarono, infatti, una totale aderenza ai valori antropologici impliciti nel nuovo concetto. Nell'indagine pubblicata nel 1967 si dava il giusto rilievo al patrimonio etnografico e si suggeriva di tradurre sul piano istituzionale le prospettive di ricerca delineate in questo specifico settore dagli studi scientifici (Petrucci Cottini 1994). Al bene materiale veniva associato il bene 'non materiale', inteso come documento della vita sociale e di produzione o di manifestazioni ludiche e cerimoniali; tra le 'cose' da tutelare trovavano un posto anche i beni cosiddetti volatili, e cioè: "canti, fiabe, feste e spettacoli, cerimonie e riti, le musiche, gli elementi cerimoniali e rituali, le feste, le immagini audiovisive, le testimonianze orali e le storie di vita che non sono né immobili né mobili perché per essere fruiti più volte devono essere ri-eseguiti o 'ri-fatti'" (Cirese 1991). Benché l'organizzazione del Ministero per i Beni culturali e ambientali non abbia recepito i suggerimenti degli studiosi in vista della sua istituzione (1974), e nella legislazione italiana la nozione di patrimonio etnografico sia rimasta a lungo generica e imprecisa, tuttavia l'attività di ricerca ha continuato a considerare il b. demo-etno-antropologico nella sua globalità, tenendo conto quindi anche di quei fatti e di quei momenti culturali la cui salvaguardia è raccomandata in sede internazionale (Recommandation sur la sauvegarde de la culture traditionnelle et populaire, 1989) e che fanno dell'etnografia un b. c. vivo, difficilmente congelabile in un'immutabile purezza bensì destinato a modificarsi nel tempo per opera dei suoi attori sociali (Cirese 1977; Ricerca e catalogazione della cultura popolare, 1978; Bravo 1979; Lombardi Satriani 1981; Grimaldi 1982; Bronzini 1985; Gli oggetti esemplari, 1989).

Giuridicamente il concetto di b. demo-etno-antropologico è stato associato a oggetti e a manufatti appartenenti all'arte popolare e alla cultura materiale. Gli studi sull'arte popolare e tribale hanno contribuito a precisare lo statuto istituzionale di questa particolare tipologia di beni in due sensi: da un lato, essi hanno promosso i prodotti artigianali delle culture etniche e folkloriche entro le categorie dell'estetica colta occidentale (nella quale quei prodotti non avevano spazio, si qualificavano come 'minori', si trovavano in opposizione o in antitesi); dall'altro, essi hanno permesso di riconoscere i limiti delle categorie concettuali della tradizione colta europea per definire un campo talmente diverso da richiedere l'impiego di prospettive più ampie e meno etnocentriche (Boas 1927; Toschi 1963; Arte e società primitive, 1975; Cirese 1977; Price 1989). Il nesso tra b. demo-etno-antropologici e cultura materiale si è invece costituito sulla linea di confine tra archeologia ed etnologia tracciata da A. Leroi-Gourhan, che assegnava un ruolo di primo piano alla tecnologia come traccia di identificazione dei modi adottati dalle diverse culture per rapportarsi alle materie (Leroi-Gourhan 1943-75; Bucaille, Pesez 1978; Šebesta 1991). Il nesso si è poi consolidato nella tradizione storiografica delle Annales di M. Bloch e di L. Febvre, per la quale il dato storico-sociale, i prodotti della vita economica delle culture mediterranee, dunque anche i dati etnografici, acquistavano il valore di fonti utili per la scrittura di un'altra storia, i cui protagonisti appartenevano alla vita delle classi subalterne e al folklore (Braudel 1967; La cultura materiale, 1976).

L'esperienza istituzionale ha però dimostrato ampiamente che le attività di tutela e di valorizzazione dei b. demo-etno-antropologici non possono prescindere dalla rappresentazione dei contesti da cui provengono i reperti conservati nei musei (Ricerca e catalogazione della cultura popolare, 1978; Negri Arnoldi 1981; Petrucci Cottini 1994). La cornice entro cui si inscrivono i b. demo-etno-antropologici è infatti molto più ampia dei confini tracciati dalla tecnologia o dall'estetica (Van Gennep 1937-58; Buttitta 1971; Clemente, Orrù 1982; Museum studies, 1989). Una volta ricondotti alla loro specifica condizione storica e sociale, tutti i prodotti delle culture folkloriche o 'primitive' godono di una relativa autonomia il cui campo semantico interessa tutti i settori delle attività umane: economiche, sociali, religiose, artistiche, culturali e politiche (Bogatyrëv, Jakobson 1929). Lo statuto dei b. che si qualificano come demo-etno-antropologici va pertanto rapportato, più in generale, all'orbita del concetto antropologico di cultura definito alla fine dell'Ottocento: "La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società" (Tylor 1871). La nozione tyloriana, rilanciata nel secondo dopoguerra come "man-made part of the environment" (Herskovits 1948), è servita da riferimento concettuale per la definizione di patrimonio culturale, nel senso antropologico di "testimonianza avente valore di civiltà".

Il b. demo-etno-antropologico fa dunque parte di una realtà mutevole e dinamica, profondamente condizionata dagli attori sociali e dal loro rapporto con le contingenze storiche. Esso ha a che fare anche con fenomeni come i revivalismi ideologici (gli etnicismi, il folk-revival) e con tutte le valorizzazioni e le 'invenzioni' di tradizioni locali o regionali alimentate dai processi di costruzione o di riaffermazione d'identità (Lanternari 1992). Tali fenomeni sono spesso determinati dal turismo, un settore, quest'ultimo, fondamentale per comprendere i problemi di valutazione, promozione, gestione e trasformazione del moderno concetto di patrimonio (Urry 1990; Simonicca 1997). Il rapporto tra etnografia e patrimoni è stato prevalentemente considerato dal punto di vista delle collezioni museali, tanto che il museo etnografico è stato a lungo concepito come un prolungamento del terreno della ricerca etnologica (Lévi-Strauss 1958). Ma nella seconda metà del Novecento l'idea stessa di museo si è trasformata aprendosi a una concezione dinamica delle culture e dei paesaggi in cui l'istituzione si inscrive. Il mutamento di prospettiva è stato determinato dall'affermarsi di una 'nuova museologia', per la quale la rilevanza dei patrimoni prescinde dall'esistenza delle tradizionali forme di museo, vale a dire quelle fondate su un edificio, su una collezione e su un suo ristretto pubblico (Vergo 1989; Vagues, 1992-94; Clemente, 1997). Il patrimonio etnografico è infatti qualcosa di più che un inerte insieme di oggetti; è piuttosto un 'paesaggio' complesso, in cui le cose hanno avuto o hanno ancora un rapporto diretto sia con l'ambiente fisico sia con la società umana, e sono il risultato di una cumulazione di sensi antropologicamente determinati (Turri 1974; El patrimonio etnológico, 1993). In questa nuova prospettiva il b. demo-etno-antropologico non si dà mai senza un contesto di riferimento: un territorio, un ambiente domestico, una dimensione sociale, uno spazio legato alla produzione economica o alla cerimonialità, uno scenario ecologico, uno spazio simbolico, un museo. Il contesto è il luogo antropologico in cui interagiscono identità, relazioni e storie; dove l'oggetto non è dato ma inscritto in processi di connotazione e di valorizzazione che implicano la partecipazione di diversi protagonisti, ognuno responsabile del destino dell'oggetto stesso: spazzatura o tesoro, relitto o documento, utensile od opera. Le comunità umane, del resto, fanno e disfanno, creano e distruggono, usano e disperdono tradizioni, oggetti e simboli, poiché vivono la propria storia e i relativi processi di sviluppo. La messa in valore di ogni dato culturale ha dunque sempre un suo punto di vista. Nel caso del b. demo-etno-antropologico il pluralismo è la regola: c'è l'artigiano e l'antiquario, il contadino e il notabile, il religioso e il laico, il presidente della pro loco e il direttore di museo, l'antropologo e il nativo. Ognuno chiede la parola per definire l'identità o lo statuto di autenticità di un oggetto, di una tradizione, di un patrimonio. I b. etnografici hanno dunque una natura che investe direttamente il rapporto sia con i produttori che con i fruitori. Tutto ha una referenzialità sociale e simbolica fatta di relazioni complesse che hanno bisogno di essere interpretate senza costringere la realtà antropologica entro categorie monolitiche (Lattanzi 1999). L'etnografia postmoderna, a partire dalla fine degli anni Sessanta del 20° sec., ha problematizzato i modi della ricerca e i criteri della rappresentazione antropologica proprio a partire da questo nuovo scenario (Interpretative social science, 1979). Il significato del termine etnografico ha pertanto mutato i suoi parametri di riferimento: non più l'oggetto ma il contesto; non più la descrizione obiettiva ma l'esperienza 'auto-implicata' dell'osservatore; non più la produzione di dati ma la restituzione di testi e di scritture. L'espressione è stata privata dei valori 'forti' a essa assegnati dall'antropologia classica poiché l'etnografo rivolge il proprio sguardo a luoghi in cui egli è familiare ed estraneo al tempo stesso: i luoghi di immigrazione, le città multiculturali, gli spazi del sincretismo e delle interferenze transculturali. Se l'antropologo non è più l'osservatore neutrale di un particolare oggetto di studio ma un soggetto tra altri soggetti, allora l'etnografia non è che un tipo di scrittura con un suo punto di vista e un suo stile e il dato etnografico una parte di quelle 'forme di vita' che l'antropologo, nella dimensione dialogica del lavoro di campo, tenta di ricostruire interpretandone il senso (Geertz 1973; Marcus, Fischer 1986; Writing culture, 1986; Padiglione 1998). Questo orientamento teorico e metodologico ha investito anche i musei etnografici, luoghi elettivi di archiviazione e di rappresentazione dell'alterità (Exhibiting cultures, 1991; Antropologia museale, 1994; Nobili 1996). "In base a quali criteri - si domanda l'antropologia postmoderna - vengono ritagliati, posti in salvo e valutati i mondi etnografici e i loro artefatti significativi?" (Clifford 1988; trad. it. 1993). Il modo occidentale di collezionare arte e cultura, che nell'Ottocento assumeva la configurazione di 'museo-monumento' consacrato alle vestigia culturali e al genio artistico di un popolo o di una nazione, è stato messo in questione, problematizzato in rapporto alle mutazioni geopolitiche di fine secolo. L'esperienza novecentesca del moderno, profondamente segnata dagli eventi e dall'opera delle avanguardie storiche, ha scardinato ogni idea elitaria di cultura e ogni forma di rappresentazione culturale di tipo etnocentrico. L'alterità (folklorica ed esotica) è stata integrata in un unico sistema antropologico ed estetico, e anche i nativi hanno varcato la soglia dei musei che custodiscono i loro oggetti tradizionali trasformati in 'opere' ("Primitivism" in 20th century art, 1984; Ames 1986; Museums and communities, 1992; Nobili 1994). Di fronte allo sguardo di questo nuovo pubblico e alla mutata realtà del fenomeno museale lo statuto dell'oggetto etnografico è diventato totalmente problematico (Guidieri 1989) e oggi deriva la sua ragion d'essere - come era già stato anticipato da A. Malraux (1951) - dalle differenze specifiche tra la propria oggettualità e la propria immagine multiforme e virtuale, definita dalle metamorfosi imposte dalle dinamiche pluriculturali (Objects prétextes, objects manipulés, 1984). La nozione globale di patrimonio, in cui si inscrive lo statuto dei b. demo-etno-antropologici, richiede dunque che l'antropologo dispieghi, nel suo laboratorio di ricerca (le culture e la loro storia), più d'una strategia interpretativa, in modo da cogliere i diversi processi di significazione storica, sociale e simbolica dell'oggetto culturale e della sua patrimonializzazione.

bibliografia

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Beni musicali

di Maria Carla Cavagnis Sotgiu, Grazia Tuzi

È oggi ampiamente riconosciuto che la musica costituisce un b. c., e l'espressione beni musicali è ormai frequentemente utilizzata dagli studiosi e dagli operatori musicali; malgrado ciò una compiuta definizione, come pure una legislazione organica in materia rimangono tuttora problematiche. Tale carenza è particolarmente grave se si pensa che il nostro paese conserva la maggior parte del patrimonio musicale mondiale (in specie per quanto riguarda manoscritti, stampe, strumenti musicali). Una situazione analoga di carenza legislativa si riscontra negli altri paesi europei, dove, infatti, non esiste una legislazione apposita per la tutela dei b. musicali; i beni e le istituzioni culturali che si riferiscono alla musica sono tutelati dalle norme degli specifici ambiti di appartenenza (biblioteche, archivi, musei ecc.). Alla ricchezza del patrimonio italiano non corrisponde perciò un'adeguata tutela e valorizzazione, nonostante l'accresciuto interesse manifestato negli ultimi anni dalle istituzioni, e concretizzatosi in diversi interventi di catalogazione, conservazione e restauro.

Sul piano giuridico, la l. 1° giugno 1939 nr. 1089 sulla salvaguardia del patrimonio storico-artistico nazionale, tuttora vigente, prevede una definizione generale dei beni sottoposti a tutela (e cioè "le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico"): tra le 'cose' (non ancora 'beni') soggette a tutela (e cioè "i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio"), possono dunque essere incluse gran parte delle fonti di interesse musicale, cioè libri e documenti in genere, sempre che siano valutabili come rare e di pregio. I b. musicali non comparivano in termini espliciti neppure nelle proposte della cosiddetta Commissione Franceschini ("Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio", istituita con l. 6 apr. 1964 nr. 310), la quale, introducendo per la prima volta il concetto di 'bene culturale', dichiarava tuttavia: "Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i Beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà" (Dichiarazione i - Patrimonio culturale della Nazione). Tale affermazione, pur nella generalità dell'enunciato (che implicava una preventiva determinazione dei concetti di 'civiltà' e 'cultura'), ampliava notevolmente l'ambito dei beni soggetti a tutela; inoltre aveva il merito di sollevare la questione delle biblioteche musicali italiane e in particolare di quelle dei Conservatori di musica, di quelle generali con fondi musicali, delle biblioteche e degli archivi ecclesiastici e privati. A partire dagli esiti della Commissione Franceschini, la categoria di b. c. è stata gradualmente ampliata, sino a comprendere beni come quelli audiovisivi, non presenti nella legge del 1939.

L'istituzione nel 1975 del Ministero per i Beni culturali e ambientali non modificava in modo significativo la situazione relativa alla tutela del patrimonio musicale. Il trasferimento della Discoteca di Stato dalla Presidenza del Consiglio all'Ufficio centrale per i Beni librari del Ministero per i Beni culturali e ambientali, avvenuto contestualmente alla creazione del nuovo ministero, fu tuttavia segno dell'importanza attribuita a tale istituto (deputato alla raccolta e alla conservazione delle voci storiche, del patrimonio linguistico, teatrale e musicale colto e popolare) e, indirettamente, testimoniò una rinnovata attenzione per i b. musicali. Un ulteriore segnale in questa direzione si ebbe con l'inclusione nel disegno di l. nr. 1974 del 1984 (Camera dei deputati) dei b. audiovisivi tra quelli soggetti a tutela in quanto "manifestazioni significative della creatività e della conoscenza".

A partire dalla fine degli anni Settanta, diversi convegni e iniziative hanno tentato di aprire un dibattito sul tema dei b. musicali e di individuare le specificità del patrimonio musicale italiano (tra gli altri, il congresso Il patrimonio musicale in Italia: tutela e ricerca, Giulianova Lido, 18-20 maggio 1989; il convegno Il patrimonio bibliografico musicale: problemi e ipotesi di soluzione, 12-13 giugno 1978, Biblioteca nazionale centrale di Roma; i seminari sugli archivi dei b. musicali e sugli strumenti musicali, organizzati dall'associazione Italia Nostra, Roma 1994 e 1997). Nel 1986, nell'ambito della legge finanziaria (l. 28 febbr. 1986), che stanziava fondi per la valorizzazione dei giacimenti culturali, sono stati approvati e realizzati progetti per la catalogazione e il recupero di documenti musicali, in particolare partiture e manoscritti.

È proprio in questi settori che l'espressione beni musicali ha cominciato a essere utilizzata correntemente, senza però che si giungesse a darne una precisa definizione. La nuova attenzione che negli ultimi decenni la storiografia musicale ha rivolto a fonti come i documenti d'archivio o le testimonianze di tradizione orale, ha influito in modo determinante sull'ampliamento del concetto di patrimonio musicale. Nel 1987 P. Petrobelli proponeva una prima elencazione, relativa alle "fonti primarie di informazione sull'arte musicale", che comprendeva "i manoscritti e le stampe che ci hanno tramandato la redazione scritta del patrimonio musicale, le collezioni di dischi e di nastri, che ne hanno tramandato la forma orale, le collezioni di strumenti musicali, e in particolare quegli strumenti che occupano un posto privilegiato nella tradizione musicale del nostro paese, e cioè [...] tutti gli oggetti che possiamo definire come beni culturali musicali" (Petrobelli 1987, p. 3).

Una più estesa inventariazione dei b. di interesse musicale può comprendere: manoscritti e libri a stampa, periodici e libretti d'opera, partiture e spartiti, documenti d'archivio (autografi, carteggi, contratti, e più in generale tutti i documenti prodotti da personalità o da istituzioni), documentazione iconografica, documenti sonori e audiovisivi, strumenti musicali, software di attinenza musicale; tali beni possono essere conservati in biblioteche, archivi, istituti o fare parte di collezioni pubbliche o private. A tali beni oggetti possono essere aggiunti i beni luogo, ossia gli edifici, le sale, gli spazi costruiti o adibiti a ospitare eventi musicali.

Se però si considera il bene anche in quanto documentazione dell'evento musicale, tale elenco è suscettibile di ulteriori ampliamenti perché l'evento stesso è somma di singoli episodi e microeventi, come le fasi della preparazione e i documenti riguardanti la storia del susseguirsi delle invenzioni, che testimoniano direttamente o indirettamente l'evento in sé, nella sua preparazione e nei suoi esiti. Si assiste così alla costituzione di un patrimonio eterogeneo, non riconducibile semplicemente all'evento in quanto prodotto finale né alla sommatoria delle fasi 'documentarie', dal momento che la composizione e la forma del 'bene' riflettono il modo in cui esso è stato vissuto, sia sotto l'aspetto artistico sia sotto l'aspetto sociale. Il b. musicale sarebbe quindi non solo una cosa o un prodotto immediatamente decifrabile, bensì un corpus ricco di molteplici ed eterogenee funzioni espressive, di addizioni spazio-temporali, di supporti tecnici e materiali. In questa accezione più ampia, con l'espressione beni musicali si dovrebbe intendere tutto ciò che riguarda il suono e la sua rappresentazione e, ancora più in generale, l'attività musicale.

A questo proposito già da tempo si è riconosciuta la necessità di ampliare l'area del patrimonio culturale protetta dalla legge, rivolgendo nuova attenzione alle 'attività' culturali. Quelle musicali sono state sinora di competenza del soppresso Ministero del Turismo e spettacolo (ora Dipartimento per lo spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei ministri). Il disegno di legge del 21 giugno 1997 sulle attività musicali ha mostrato di recepire la necessità di una tutela della musica come bene culturale. La musica vi è infatti definita "mezzo di espressione artistica e di promozione culturale [...] in tutti i suoi generi e manifestazioni aspetto fondamentale della cultura nazionale, ed è bene culturale di insostituibile valore sociale e formativo della persona umana" (art.1). Lo Stato, le Regioni e gli enti locali sono dunque tenuti a tutelare "le diverse tradizioni ed esperienze", ad assicurare "la conservazione del patrimonio storico della musica", a garantire e promuovere "la sperimentazione e la ricerca, senza distinzioni di generi ed anche con riferimenti ad aree culturali particolari" (art.2). Nonostante gli indubbi meriti di tale disegno di legge, il primo ad aver sottolineato il valore delle attività musicali in quanto patrimonio culturale della nazione, permane il problema della separazione di competenze tra b. musicali-cose e b. musicali-attività. Tale problema potrebbe trovare una soluzione nella nuova organizzazione del Ministero per i Beni culturali, che prevede la creazione di uno specifico dipartimento per lo spettacolo e quindi anche per le attività musicali.

La gestione dei b. musicali, siano essi cose o attività, è infatti tuttora frammentata tra diverse istituzioni, che fanno capo a diversi ministeri, a regioni ed enti locali, a enti pubblici e privati. La tutela dei documenti musicali (partiture, manoscritti ecc.) in quanto materiali librari è affidata alle Regioni, mentre la gestione delle collezioni e dei servizi, e quindi la fruizione e valorizzazione di questo straordinario patrimonio, è affidata a una molteplicità di istituti. Particolarmente grave è il problema delle biblioteche di conservatorio che, pur conservando un patrimonio considerevole di libri e manoscritti musicali, fanno riferimento, in quanto biblioteche di istituti di istruzione, al Ministero della Pubblica istruzione, a esclusione di quella del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma. Per gli archivi sonori, l'unico sottoposto a tutela è quello della Discoteca di Stato, mentre gli altri archivi fanno capo a fondazioni, enti morali, collezioni private. Un nuovo disegno legge sul deposito legale prevede anche per le emittenti radio-televisive l'obbligo di documentare e tutelare i loro archivi, considerati patrimonio culturale.

Numerose biblioteche, archivi, musei, istituti di cultura, centri di documentazione pubblici e privati rappresentano 'luoghi della memoria musicale', la cui funzione non dovrebbe essere soltanto quella di conservare dei 'beni', ma anche e soprattutto di promuovere la ricerca e di diffondere la conoscenza di questo immenso patrimonio. Dalla separazione tra archivi e biblioteche nascono numerose difficoltà a ricostruire un patrimonio 'documentario' che storicamente si è sedimentato in luoghi diversi, ma ha una forte omogeneità strutturale e culturale.

Una particolare rilevanza, inoltre, nella documentazione della cultura musicale hanno assunto gli archivi sonori e audiovisivi. Lo sviluppo di attrezzature tecniche di registrazione e riproduzione del suono ha, infatti, rivoluzionato il concetto di conservazione dei b. musicali, e la registrazione sonora di un documento ha reso possibile la conservazione del suono in modo oggettivo permettendone la perfetta riproducibilità nel tempo. La costituzione dell'archivio sonoro nasce principalmente dall'esigenza di utilizzare la documentazione sonora per studi musicologici e linguistici, al fine di stabilire quali siano le manifestazioni musicali dei popoli.

Ricordiamo di seguito alcuni dei principali organismi deputati alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio musicale.

Biblioteche

A partire dagli anni Ottanta, numerose biblioteche sono state coinvolte in progetti di inventariazione e catalogazione automatizzata dei loro fondi musicali, i cui risultati sono confluiti nel Servizio bibliotecario nazionale (SBN). In occasione di questa schedatura, è emerso un patrimonio sino ad allora inesplorato, contenente testimonianze musicali di notevole interesse su aspetti marginali o poco conosciuti della produzione musicale italiana. Da qualche anno è disponibile un'anagrafe delle biblioteche italiane che censisce sia le biblioteche musicali sia i fondi musicali posseduti da biblioteche di carattere generale. L'anagrafe, creata dall'ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico), è consultabile tramite la rete Internet.

Di particolare rilievo sono le collezioni delle biblioteche musicali statali (Sezione musicale della Biblioteca palatina di Parma; Biblioteca del Conservatorio di S. Cecilia di Roma); testimonianze spesso importanti sono conservate presso le biblioteche annesse ai conservatori di musica (tra le altre, quella del Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli, del Civico museo bibliografico musicale di Bologna, del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano). Da segnalare sono pure le biblioteche universitarie specialistiche (tra le altre, quella del Dipartimento di studi demoetnoantropologici e discipline musicali dell'Università "La Sapienza" di Roma; della Scuola di paleografia e filologia musicale di Cremona); le biblioteche statali che contengono una sezione musicale (tra le altre, la Biblioteca nazionale centrale di Firenze, titolare del deposito legale, la Biblioteca nazionale marciana di Venezia, la Biblioteca nazionale universitaria di Torino); le biblioteche statali con fondi musicali (tra le altre, la Biblioteca nazionale di Napoli, la Biblioteca estense di Modena, la Biblioteca nazionale centrale di Roma); le biblioteche annesse ai monumenti nazionali (Montecassino, Cava dei Tirreni, Montevergine). Vanno inoltre segnalate numerose biblioteche di enti locali, di istituzioni pubbliche e private, di scuole di musica. Di notevolissimo interesse inoltre i fondi musicali conservati presso la Biblioteca Vaticana di Roma, e presso numerose istituzioni ecclesiastiche e cappelle musicali.

Archivi

Oltre alla rete degli Archivi di Stato e degli Archivi storici comunali, diversi dei quali contengono documentazione scritta di interesse musicale, vanno citati i numerosi archivi audiovisivi e multimediali, di ambito teatrale e musicale (alcuni dei quali affiancati da biblioteche specialistiche).

Tra gli archivi di ambito teatrale e musicale, si segnalano l'Archivio di Casa Ricordi a Milano, l'Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale di Venezia, l'Istituto di ricerca del teatro musicale a Roma. Assai rilevanti gli archivi di alcuni teatri storici e di istituzioni musicali, tra cui l'archivio del Teatro la Fenice a Venezia, la biblioteca del Museo teatrale della Scala a Milano, del Teatro dell'Opera a Roma, dell'Accademia filarmonica romana, dell'Accademia nazionale di S. Cecilia. Notevolissimo il patrimonio di registrazioni conservate presso gli archivi RAI, nonché quello della Discoteca di Stato di Roma, fondata nel 1928, che rappresenta l'Archivio nazionale della documentazione sonora. L'istituzione della Discoteca di Stato ha rappresentato certamente un primo riconoscimento dell'importanza della registrazione sonora per la conservazione e la documentazione delle culture musicali, sebbene l'attenzione degli organi di governo si sia rivelata ancora insufficiente a sanare il ritardo rispetto ad analoghe istituzioni europee (v. discoteca di stato, App. II).

Oltre al cospicuo patrimonio di musica tradizionale conservato presso la Discoteca di Stato, di notevole rilevanza, con oltre 7000 documenti sonori, è quello degli Archivi di etnomusicologia dell'Accademia nazionale di S. Cecilia di Roma, già Centro nazionale di studi di musica popolare fondato nel 1948 sotto gli auspici della stessa Accademia e della RAI con lo scopo di preservare e diffondere la musica popolare italiana, nonché di promuoverne lo studio e la raccolta. Altri importanti archivi che conservano testimonianze di musica tradizionale sono l'Istituto Ernesto De Martino di Milano e l'Archivio etnofonico di Palermo. In questi ultimi anni Regioni ed enti locali hanno mostrato un forte interesse per la costituzione di archivi sonori e audiovisivi (tra le altre Regione Lombardia, Regione Lazio, Regione Toscana), nel quadro di una più ampia politica volta al recupero delle radici culturali attraverso una politica di ricerca, promozione e conservazione della musica.

Ai fini della tutela dei b. etnico-musicali, un ruolo di rilievo spetta agli archivi audiovisivi e lo sviluppo della stessa etnomusicologia è stato strettamente legato alla costituzione di tali archivi. Sin dagli anni Settanta, gli etnomusicologi italiani rivendicavano ai documenti sonori e audiovisivi lo statuto di b. culturali. Come sosteneva D. Carpitella (1978), la protezione del patrimonio etnico-musicale di tradizione orale necessita di una promozione organica e rigorosa, attraverso una raccolta scientifica e sistematica della musica folklorica, che è senza dubbio un b. c., specificatamente per quanto riguarda gli 'originali', che per la loro specifica natura comunicativa non possono che essere documentati attraverso una registrazione: è il nastro che contiene l'originale - non concepito come supporto magnetico ma come contenitore di testimonianze - che diventa un 'bene culturale' spesso unico e irripetibile.

Musei e collezioni

Tra questi, vanno ricordati il già citato Museo teatrale della Scala di Milano e dell'Opera di Roma, il Museo Belliniano di Catania, la Raccolta teatrale del Burcardo di Roma. Importanti collezioni di strumenti musicali sono conservate a Roma presso il Museo nazionale degli strumenti musicali (che contiene la famosa collezione Gorga, composta di circa 3000 strumenti) e presso il Museo nazionale di arti e tradizioni popolari, che conserva circa 200 strumenti tradizionali (raccolti per la gran parte tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento), nonché un importante archivio audiovisivo e una biblioteca specializzata. Gli strumenti musicali, in quanto b. c., hanno un valore estetico e uno funzionale. È infatti importante "valutare lo strumento musicale non soltanto come oggetto in sé, bensì come oggetto per fare e trasmettere musica" (Carpitella, in Museo nazionale, 1991, p. 5).

Istituti e fondazioni musicali, centri di documentazione e ricerca

Di notevole rilevanza la Fondazione Rossini di Pesaro, la Fondazione Donizetti, l'Istituto di Studi verdiani di Parma, la Fondazione C. Monteverdi di Cremona, l'Accademia musicale chigiana, la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, L'Istituto Bibliografico Musicale (IBIMUS). Tra i centri, sono infine da ricordare il Centro italiano documentazione musicale, l'Associazione dell'URFM (Ufficio Ricerca Fondi Musicali), cui si aggiunge un cospicuo numero di raccolte e collezioni private di documenti sonori e audiovisivi, di libri e manoscritti, di strumenti.

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Beni scientifici

di Giovanna Mencarelli

Per la definizione del campo di interessi e per i musei scientifici, v. museo: Museografia scientifica, App. V, iii, p. 594; Musei delle scienze, App. V, iii, p. 596; scienza, centri della, in questa Appendice. Si fa qui riferimento alla legislazione vigente.

La diffusione della cultura scientifica e la legislazione italiana

Con la l. 28 marzo 1991 nr. 113, che ha istituito, in analogia con la Settimana dei beni culturali, la Settimana della cultura scientifica italiana - su proposta di A. Ruberti, allora ministro dell'Università e della Ricerca scientifica, e con la collaborazione dei Ministeri della Pubblica istruzione e per i Beni culturali - si è preso atto dell'interesse crescente per i problemi della cultura scientifica. Pertanto si è cercato, attraverso strumenti normativi e finanziari, di coinvolgere il pubblico nell'esplorazione degli spazi e della storia del sapere tecnico-scientifico, di sostenere e organizzare le forze e le potenzialità presenti sul territorio. Nella prospettiva di una crescente integrazione europea, nel 1993 Ruberti, come deputato al Parlamento europeo e vice-presidente della Commissione delle comunità europee, ha istituito la Settimana europea per la cultura scientifica, nella convinzione che fosse necessario impegnarsi non solo in un progetto di formazione e informazione, ma anche nel superamento di alcuni ritardi che, nel settore specifico, si sono registrati nel nostro paese rispetto ad altri paesi europei.

Le opportunità offerte dalla legge del 1991 hanno avuto un'accoglienza favorevole e una risposta immediata: molteplici eventi, sia pure di breve durata, hanno fatto registrare la mobilitazione di diverse istituzioni pubbliche (i Ministeri per l'Agricoltura, l'Ambiente, l'Industria, la Difesa ecc., laboratori universitari, scuole e centri di ricerca come CNR, ENEA, INFN) e private, tutte interessate e disposte ad aprirsi al grande pubblico e a mostrare i propri percorsi e strumenti di ricerca. Nello stesso tempo la Settimana europea ha ricevuto il patrocinio del Ministero degli Affari esteri e della Presidenza del Consiglio dei ministri, che con il Comitato interministeriale per l'immagine Italia hanno proclamato il 1991 'Anno dell'Italia scientifica e tecnologica'.

Il successo dell'iniziativa, superiore alle aspettative, ha richiesto una riflessione sulla portata del fenomeno, sulle ipotesi da formulare per un rilancio del problema: è stata necessaria una verifica della 'vocazione' scientifica di tutti i partecipanti e della validità delle azioni progettuali intraprese, soprattutto nella prospettiva primaria di attivare poli scientifici stabili. Le Settimane, che si sono rivolte in prima istanza ai giovani in età scolare, ma anche all'ampio ambito dell'educazione permanente, si sono rivelate un indiscutibile strumento di informazione. Pertanto, fatta una prima sommaria verifica dell'entità del patrimonio scientifico esistente e a lungo negletto, si è preso atto della necessità immediata di attivare un programma per il censimento, la tutela e la conservazione di tale patrimonio. Lo strumento per risolvere questi problemi si è definito con l'Accordo di programma relativo alla collaborazione per la programmazione e la ricerca tra il Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica (MURST) e il Ministero per i Beni culturali e ambientali, siglato il 29 gennaio 1992; a quest'azione è seguita l'istituzione di una Commissione nazionale per la ricerca scientifica e tecnologica per i Beni culturali che, insieme con il CNR, ha promosso un programma d'intervento straordinario nel settore, con l'intento di definire le modalità di collaborazione per l'attuazione di iniziative congiunte.

Gli effetti della legge sulla diffusione della cultura scientifica

L'applicazione della legge del 1991, nei suoi primi sei anni di vita, oltre a dare risalto alle richieste dell'utenza, ha consentito di attuare il potenziamento di istituzioni già esistenti nel territorio nazionale, quali l'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, e il Museo nazionale della scienza e della tecnica "Leonardo da Vinci" di Milano; ha dato la possibilità di avanzamento a progetti già elaborati, quali la Città della scienza della Fondazione IDIS (Istituto per la diffusione e la valorizzazione della cultura scientifica) di Napoli, il Laboratorio dell'immaginario scientifico di Trieste e il Museo della scienza e dell'informazione scientifica (MUSIS) di Roma; ha reso possibile sperimentare reti telematiche e simulazioni propedeutiche a un sistema nazionale di collegamenti tra musei, centri di ricerca e scuole. Per adeguare l'Italia al livello dei paesi europei e statunitensi - all'avanguardia da decenni nella creazione e nell'attività di strutture stabili, finalizzate alla didattica e all'utilizzo delle tecnologie più avanzate, anche attraverso processi interattivi - è stato necessario uno studio attento sulle strategie e sui mezzi più efficaci per giungere alla creazione e al potenziamento di istituzioni permanenti, adeguate alla diffusione della cultura, alla valorizzazione e alla tutela dei beni tecnico-scientifici, organicamente integrate in un sistema nazionale.

Da questo studio è scaturita una proposta di revisione della legge del 1991, che è stata presentata al Parlamento il 20 giugno 1996 e che si propone di raggiungere l'obiettivo primario, valutati gli esiti del Piano triennale di ricerca 1994-96.

Con tale intervento ci si propone di accrescere il finanziamento per la cultura scientifica dai 10 miliardi annui a 35 miliardi; di individuare un nucleo di istituzioni che, per la rilevanza del patrimonio posseduto, per le consolidate e riconosciute competenze ed esperienze, possano costituire i poli centrali del Sistema nazionale; di privilegiare il finanziamento dei poli centrali, superando la fase del sostegno 'a pioggia'; di promuovere la sistematizzazione delle testimonianze storiche della scienza e della tecnica esistenti nel territorio nazionale, compresi i materiali archivistici, librari e documentari; di favorire le attività di formazione e aggiornamento professionale - anche in collaborazione con università e centri di ricerca italiani e stranieri - del personale da impiegare per la gestione di musei e centri di documentazione della scienza e della tecnica esistenti e da istituire; di promuovere l'informazione e la divulgazione scientifica e storico-scientifica, anche attraverso esposizioni, convegni, pubblicazioni e mezzi multimediali; di sostenere la divulgazione e l'insegnamento della cultura tecnico-scientifica nelle scuole attraverso la creazione e il potenziamento dei laboratori scientifici, e attraverso gli strumenti multimediali e interattivi anche con i settori della ricerca e della produzione. La proposta di legge pone l'accento sulla costituzione di un 'sistema nazionale di musei scientifici e storico-scientifici'; sul potenziamento - anche con l'intervento degli enti locali, come in Umbria e in Emilia-Romagna - dei musei civici di storia naturale, degli orti botanici e dei musei scientifici di interesse locale, numerosi sul territorio nazionale. Tutte le iniziative vengono intraprese in accordo con il Ministero per i Beni culturali.

Il programma di valorizzazione dei b. c. scientifici si estende anche ai parchi scientifici e tecnologici (v. parchi tecnologici, App. V; scienza, centri della, in questa Appendice), che hanno avuto dagli anni Ottanta in Europa e nel mondo un ulteriore incremento per la necessità di incentivare l'applicazione della ricerca allo sviluppo produttivo industriale e, quindi, di riconvertire e riutilizzare aree industriali dismesse (v. anche archeologia industriale, App. V). In Italia, una programmazione organica è stata avviata nel 1992 (l. nr. 46 del 17 febbr. 1992) e ha portato alla formazione di numerose realtà. L'Associazione dei parchi scientifici e tecnologici italiani (APSTI) si era costituita nel 1991.

Strategie e finalità nel progetto CNR

Con il Progetto finalizzato beni culturali 1996-2000 del CNR - delibera CIPE 28 giugno 1995, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 4 sett. 1995, finanziato complessivamente con uno stanziamento di 115 miliardi di lire - le strategie per la diffusione della cultura scientifica, sostenute già dalla legislazione vigente e rafforzate dalla partecipazione dei Ministeri per i Beni culturali, dei Lavori pubblici, della Pubblica istruzione, dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, e inoltre delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli Enti ecclesiastici, sono divenute operative in tutti i settori del patrimonio culturale. I b. c. scientifici trovano spazio nei sottoprogetti sulla museologia e sulla museografia, in relazione agli impianti espositivi, ai modelli gestionali, alla catalogazione (con la definizione di una scheda informatizzata), alla conservazione e al restauro (con la stesura della carta del restauro), ai laboratori e agli archivi della scienza dell'Italia postunitaria. In particolare, attraverso l'Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica (ISRDS), che partecipa al Progetto finalizzato Beni culturali, il CNR opera con attività di studio e ricerca nei settori della politica scientifica e tecnologica, dell'innovazione tecnologica e della valorizzazione delle risorse umane per la scienza e la tecnologia. La ricerca complessiva si propone la stesura della mappa conoscitiva informatizzata e la progettazione di un Centro nazionale di documentazione.

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Beni culturali e informatica

di Paola Barocchi

Vent'anni di esperienza internazionale offrono la possibilità di delineare in prospettiva storica il complesso rapporto tra b. c. e informatica, ricco di varianti tecniche e programmatiche.

Durante la ricostruzione che seguì la Prima guerra mondiale, il riallestimento dei musei ripropose in Italia l'irrisolto problema di una catalogazione nazionale del patrimonio artistico, già ritenuta necessaria e urgente nel difficile concretarsi dell'unità amministrativa. L'incarico ministeriale del 1861 a G. B. Cavalcaselle e a G. Morelli di realizzare, a modello nazionale, il catalogo delle Marche e dell'Umbria raccomandava l'attenzione "a gli oggetti d'arte qualunque siano (anche intagli di legno, libri, corali) esistenti nelle chiese e case, e lavori di terracotta, cesellature e simili". Il compito fu assolto in maniera selettiva da parte dei due conoscitori di pittura; e la parziale inadempienza rispecchiava la situazione culturale italiana, del tutto impreparata al programma di una conservazione nazionale.

Le successive sollecitazioni di P. Villari e di A. Venturi riuscirono ad assicurare una scuola adeguata al patrimonio artistico italiano grazie anche al corso di perfezionamento istituito (1896) nell'università di Roma; ma la catalogazione nazionale, nella sua onerosa entità, rimase accidentale e marginale. Non la favoriva il prevalente orientamento crociano degli storici dell'arte italiana, che privilegiava schedature interpretative e attributive anche quando, negli anni Settanta, l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione del nuovo Ministero per i Beni culturali e ambientali risollevò il problema formalizzando una precisa scheda di rilevamento, nella quale i dati oggettivi (locazione, provenienza, datazione, autore, materia, conservazione, documentazione fotografica) erano ben distinti da quelli soggettivi (descrizione, interpretazione e fortuna storico-critica).

L'iniziativa dell'UNESCO (ott. 1976) di promuovere a Barcellona un incontro di esperti sui metodi di inventariazione dei b. c. favorì un confronto tra iniziative parallele, incoraggiando l'informatizzazione in una visione internazionale. Ne diede ampia testimonianza un primo convegno tenuto a Pisa nel 1978 (First international conference on automatic processing of art history data and documents, i cui Atti vennero pubblicati a Pisa nel 1978), nel quale Francia, Italia, Germania, Canada e persino il Senegal cercarono di rispondere, con programmi relativi ai diversi patrimoni nazionali, alle nuove proposte. Si trattava ancora di modelli operativi, di esemplificazioni realizzate con sistemi diversi (la Francia, per es., usava ancora MISTRAL, che consentiva parzialmente l'uso del linguaggio normale; l'Italia proponeva STAIRS e GRIPHOS), con tutte le difficoltà di una gestione di terminali in rapporto con centri informatici. Si individuavano tuttavia scelte significative nell'alternativa tra quantità di dati e qualità analitica. Il possibile successo della prima (apprezzata soprattutto dall'orientamento politico francese) si contrapponeva alla seconda, ovviamente legata a motivazioni culturali.

Il settore italiano, rappresentato dall'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, ribadì, tramite il suo direttore O. Ferrari, attento alla recente rivalutazione del territorio, la propria aspirazione a un catalogo globale "la cui logica deve rifiutarsi a qualsiasi discriminazione di carattere selettivo" e la cui realizzazione deve essere legata ai diversi livelli di competenze degli organismi operativi (soprintendenze, regioni ecc.). L'entità stessa dell'impresa suggeriva una registrazione elettronica con una struttura talmente flessibile da restare "aperta ... alla più larga gamma di possibili modelli di organizzazione dell'informazione". L'ambizioso programma, fondato sui valori del territorio (legati a istanze sociali, ma anche ai successi dell'Informale) e sulla funzionalità delle Regioni di recente istituzione, era destinato a varie revisioni in rapporto agli orientamenti istituzionali.

Notevoli per concretezza e operatività, tra le proposte pisane del 1978, quelle di istituzioni italiane e straniere che misero in luce la possibilità di una gamma assai vasta di applicazioni. G. Accardo e M. Cordaro dell'Istituto centrale del restauro illustrarono i loro criteri di memorizzazione dei dati riguardanti lo stato di conservazione di alcune classi di beni e, in occasione di un Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria, predisposero "modelli di schede conservative riguardanti dipinti murali, mosaici, stucchi, manufatti metallici e lapidei, dipinti su supporto mobile" atti a determinare tutti gli aspetti caratterizzanti "i materiali costitutivi e le tecniche di esecuzione dei manufatti" in rapporto alla situazione ambientale di conservazione e all'effettivo stato di deterioramento di ogni opera nel suo complesso. J.W. Franklin dell'International Building Record propose un progetto affine per gli edifici: l'analisi delle presenze architettoniche in una data area finalizzata alla creazione di nuovi inventari dei monumenti può favorire lo studio di piani urbanistici e la revisione di delimitazioni convenzionali negative. Per la pittura F. Bisogni, in rappresentanza dello Harvard University Center for Italian Renaissance Studies della villa 'I Tatti' e dell'Università di Siena, presentò le elaborazioni sulla scuola senese del Duecento e su quella riminese del Trecento quali modelli di un catalogo dell'arte italiana fondato sull'analisi iconografica e inteso come un efficiente strumento di ricerca legato al tradizionale concetto di scuola, piuttosto che a centri biografici. Il catalogo, elaborato con il sistema STAIRS, consentiva l'agevole reperimento di notizie tecniche relative a opere smembrate o alterate e il rapido accesso a una completa bibliografia, analizzata in modo da favorire un confronto immediato tra diverse posizioni critiche; le referenze fotografiche, analizzate con rigore storico, fornivano datazioni che andavano a integrare l'informazione bibliografica.

Per l'archeologia, M. Eisner di Darmstadt si occupò della descrizione di oggetti materiali complessi, come i templi, attraverso trascrizioni strutturali fatte di segni e di termini specifici, mentre E. Arias insieme a G. Orsolini Ronzitti propose l'analisi elettronica dei dati emergenti e ricorrenti sui vasi greci che portavano a fondate riflessioni sulle scelte figurali e a nuove considerazioni economiche e sociali. Per l'elaborazione elettronica dei documenti M.P. Rinaldi Mariani segnalò agli storici dell'arte le serie documentarie più significative dell'Archivio centrale dello Stato (per es. quella relativa alla famosa Mostra della rivoluzione fascista, 1932), mentre per la serie Antichità e belle arti propose il relativo inventario e i necessari indici onomastici e toponomastici, lasciando le indicizzazioni specifiche agli esperti. I. Cloulas degli Archivi francesi propose un'elaborazione di documenti relativi al patrimonio artistico francese a partire dal periodo rivoluzionario. Insieme con un inventario dei fondi documentari più importanti, tali da garantire una proficua ricerca sui beni provenienti da immigrati e da proprietà ecclesiastiche, sugli acquisti dei Salons e sulle commissioni di Stato, egli presentò vari modelli di norme atti a porre in luce i caratteri dell'opera d'arte e le sue vicende storiche.

A questi progetti archivistici si affiancò quello di costituire presso la Scuola normale superiore di Pisa un archivio del collezionismo mediceo, attuabile per nuclei relativi alle varie iniziative granducali; tra queste, la collezione del Cardinal Leopoldo appariva la più interessante, per la straordinaria qualità di collezionista del principe e per l'eccezionale documentazione disponibile. Un progetto elaborato dal CNUCE in collaborazione con 'I Tatti' e con l'Università di Siena, che consentiva numerose referenze semplici e incrociate, offriva indicazioni preziose di mercato, di provenienza, di valutazione. L'opportunità di tali ricerche venne confermata dalla proposta di J. Thuillier del Collège de France di memorizzare i cataloghi di vendita dal 1600 in poi, un primo censimento dei quali, sia pure approssimativo, compariva nel repertorio di F. Lugt.

Nuove prospettive operative si presentarono anche per gli archivi fotografici. Th. Ohlgren della Purdue University di Indiana, rilevando l'opportunità di unificare i sistemi di classificazione dei vari istituti in modo da conseguire una consultazione unitaria, enunciò i criteri con cui erano stati redatti il catalogo e l'indice dei microfilm e delle diapositive dei manoscritti miniati e dei primi libri a stampa della Biblioteca Bodleiana di Oxford. G. Delisle, degli archivi canadesi, espose il programma per arricchire il loro catalogo iconografico con immagini e con un'indicazione di norme, attenta soprattutto ai ritratti e al costume. Per l'Italia O. Ferrari, insieme ad A. Cicinelli e a S. Vasco Rocca, illustrò i nuovi metodi della catalogazione elettronica del grande fondo appartenente al già Gabinetto fotografico nazionale, poi assorbito dall'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione. Data l'insufficienza dei vecchi cataloghi cartacei, dovuta anche alle continue accessioni, fu impiantata una nuova schedatura, che prevedeva, tra l'altro, di porre in evidenza anche la cronologia delle varie campagne fotografiche.

La varietà dei programmi presentati a Pisa, sia pure in forma sperimentale, avviò un colloquio internazionale che fu successivamente agevolato dall'immensa fortuna del personal computer. La possibilità di ricerca in autonomia favorì un uso sempre più esteso dell'informatizzazione applicata a campi diversi. I grandi programmi nazionali perdevano così l'iniziale ruolo primario e la loro formalizzazione analitica veniva spesso superata da progetti più modesti e mirati.

Il Census promosso nel 1984 dalla Scuola normale superiore di Pisa e dal J. Paul Getty Trust di Los Angeles fu un invito a tutte le istituzioni italiane e straniere a riferire su progetti e realizzazioni. Si iniziò così un'esplorazione in fieri che mirava a offrire, in un'accessibile strutturazione di dati, riferimenti precisi in progressione nel tempo. La risposta fu immediata e confermò la persistenza e l'incremento dei cataloghi nazionali (Austria, Italia, Germania Est e Ovest, Inghilterra, Romania), e soprattutto il proliferare di programmi specifici legati a singole istituzioni, quali:

cataloghi di musei: National Gallery di Washington; National Museum of American Art di Washington; Museum of London; Smithsonian Institution Libraries di Washington; Museo Poldi Pezzoli di Milano; Magyar Nemzeti Múzeum di Budapest;

cataloghi di architettura: International Center of Medieval Art, the Cloisters, New York; College of Art and Sciences, Department of Art, Cleveland State University; University of Warwick; Országos, Müemléki Felügyelöség di Budapest; Center of Medieval and Early Renaissance Studies, New York; British Architectural Library di Londra;

cataloghi di pittura: Corpus dell'arte senese, università di Siena; dipinti degli Uffizi; depositi del Museo Stibbert di Firenze; pittura americana anteriore al 1914, Smithsonian Institution di Washington; Accademia Carrara di Bergamo; dipinti di Constable, Rend College di Portland;

cataloghi di manoscritti: Department of the History of Art, Cornell University, Ithaca; Institut de recherche et d'histoire des textes, CNRS, Paris; Bibliothèque universitaire, Sainte-Geneviève, Paris;

cataloghi di stampe e disegni: Département des estampes et de la photographie, Bibliothèque nationale, Paris; American Antiquarian Society, Worcester; corpus di disegni di architettura militare nelle collezioni italiane, CNUCE, Pisa; disegni del Rinascimento, Bovenden, Göttingen; stampe ottocentesche, Biblioteca nazionale Braidense, Milano; The Fry Collection, Yale Medical Library, New Haven; Catalogue of architectural drawings in European and North America collections, Architectural Drawings Advisory Group;

cataloghi di monete e medaglie: Monete della Repubblica fiorentina, Museo nazionale del Bargello, Firenze; Computerized register of museum collections, Royal coin cabinet, National museum of monetary history, Stockholm; Catalogue of the coin finds from Aventicum, Bern;

cataloghi di ceramica: attica a figure nere e rosse, Istituto di Archeologia, Università di Pisa; Athenian figure-decorated vases, Beazley archive, Ashmolean Museum, Oxford; A method for pottery classification, Università di Salerno;

cataloghi vari: araldica e armi: Museo Stibbert, Firenze; sigilli: Museo nazionale del Bargello, Firenze; vetrate: Department of Art, University of Massachusetts, Amherst;

lessici: tecnici, Accademia della Crusca; Thesaurus mediae et recentioris Latinitatis, Lessico intellettuale europeo, Centro di studi del CNR, Roma;

archivi storici sul collezionismo: Collezionismo mediceo, Scuola normale superiore di Pisa; Arcade, Base de données sur l'histoire de l'art, Archives nationales, Paris; The pre-1877 art exhibition catalogue index, Smithsonian Institution, Washington; The provenance index, The J. Paul Getty Trust, Santa Monica; CATART, Banque de données relatives aux catalogues d'art, Collège de France, Paris;

archivi iconografici: Iconclass, Prentenkabinet/Kunsthistorish Instituut, Leiden; Objektdokumentation in den Kulturwissenschaften, Gesellschaft für Information und Dokumentation, Frankfurt; Système descriptif des représentations, analyse de l'image pour l'informatique, Institut de recherche et d'histoire des textes, CNRS, Orléans; Clio, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Krems; Iconographical index of Hebrew illuminated manuscripts, Index of Jewish art, Israel Academy of Sciences and Humanities, Jerusalem; Index to iconographic subjects in Anglo-Saxon manuscripts, Purdue University, West Lafayette; Iconographic index of Old Testament subjects in the visual collections, Fine Arts Library, Fogg Art Museum, Harvard University, Cambridge; Lexicon iconographicum mythologiae classicae, U.S. Center LIMC, Rutgers University, New Brunswick;

archivi fotografici: dipinti e disegni dei Musei e Gallerie di Roma, Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, Roma; The slide and photograph archives, National Museum of American Art, Smithsonian Institution, Washington; Witt library computer index, Courtauld Institute of Art, London; Belgica, CRISPAL, Bruxelles;

bibliografie: Répertoire d'art et d'archéologie, Paris; A computerized index of Roman guidebooks and their contents, School of Fine Arts, University of Southern California, Los Angeles; Index to Festschriften in Art History, 1960-1975, Glenn G. Bartle Library, State University of New York; French romanesque sculpture, Emory University, Atlanta; RILA, The Paul Getty Trust, Art Institute,Williamstown;

biografie: Artist authority data base project, Smithsonian Institution, Washington; Lexicon der zeitgenössischen Schweizer Künstler, Schweizerisches Institut für Kunstwissenschaft, Zürich; Artists and population censusses in nineteenth century Britain, Department of History of Art, University College, London.

L'ampia problematica del rapporto tra informatica e b. c. messa in evidenza dal Census fu adeguatamente discussa nei Proceedings del ii Convegno internazionale del 1984, ancora promosso dalla Scuola normale superiore di Pisa e dal J. Paul Getty Trust di Los Angeles, e i cui Atti furono pubblicati a Pisa nel 1984.

Per i lessici apparve evidente il superamento dei dizionari tradizionali in favore di un dizionario elettronico, basato su archivi impostati su specifici binari di ricerca (G. Nencioni). Si apriva così la strada per valorizzare l'"importanza della lingua quale interprete di una esperienza specifica e integrale", quanto mai preziosa per identificare la grande varietà dei lessici tecnici. Limitando il vincolo della lemmatizzazione e concedendo un più libero campo alle testimonianze, risultava possibile una lessicografia storica, direttamente documentata sulle fonti, "non solo semasiologica ma anche onomasiologica", cioè interessata non solo alla storia semantica delle parole, ma al loro rapporto con le cose, cioè alla denominazione degli oggetti.

Tutti diversi gli scopi dei thesauri (Svenonius), particolarmente difficili nei confronti del linguaggio usato dagli storici dell'arte, ma indispensabili per realizzare standard funzionali (Marello, Petersen, De Reynies) garanti di risultati univoci e coerenti. Nel progresso di una lessicografia tecnica storica sarebbe auspicabile pensare a gerarchie linguistiche più ricche di alternative. La strumentazione informatica sembrava così avvalorare da un lato le varie potenzialità di archivi di dati, dall'altro poteva suggerire modi diversi di formalizzazione e innovare in qualche modo l'uso degli strumenti più tradizionali, quali le biografie, le bibliografie, i documenti e le fonti. J. Thuillier propose una banca biografica storico-artistica internazionale, ben strutturata, capace di rispondere alle esigenze più diverse (nazionali, regionali ecc.); la sua dinamica avrebbe potuto superare la staticità dei dizionari tradizionali (dall'Orlandi al Thieme-Becker) e offrire una referenza di informazioni sempre più larga e in certo senso autoincentivante.

Più arduo il problema della bibliografia corrente. La pari ma diversa autorevolezza del Répertoire d'art et d'archéologie e dell'International repertory of the literature of art (RILA) poteva rischiare, con l'automazione, di perdere i propri connotati e di proporre una vitanda duplicazione di ricerche bibliografiche. W. Sauerländer espose tutte le soluzioni quantitative e qualitative, che possono oggi essere in parte adottate privilegiando la consultazione informatica in rete e quindi la velocità dell'informazione. Occorreva comunque distinguere tra l'utilità della formalizzazione, l'oggettività dei dati e la loro fruizione.

Caratteri salienti della memorizzazione delle fonti e dei documenti apparivano la specificità dell'assunto e, d'altra parte, la sua molteplice significatività. Esemplare apparve il progetto Arcade degli archivi di Francia, che si propose l'inventario automatico di una serie di documenti che potessero attestare la committenza, le acquisizioni e le donazioni di opere d'arte da parte dello Stato francese nel corso dell'Ottocento e del Novecento. La storia della creazione artistica e quella della politica statale hanno potuto così riacquistare in Francia uno stretto rapporto mediante la valorizzazione razionale di significativi atti amministrativi.

La laboriosa unità amministrativa italiana, soprattutto nell'ottimistica fase iniziale, non facilitò indagini di questo tipo. Fondi documentari locali in tutto o in parte assorbiti dall'Archivio centrale dello Stato di Roma, imponendo ricerche su nuclei paralleli sradicati dalla loro sede originaria, chiedevano all'analisi elettronica di individuare primariamente le strutture originarie per poi procedere a un razionale recupero dei dati. Difficoltà che non esistono quando si programmi di ricostruire la storia di istituzioni periferiche partendo dagli annessi inventari. Il possibile confronto tra documenti e oggetti non deve tuttavia privilegiare questi ultimi, perché è proprio il divario tra la realtà di oggi e le informazioni del passato che può dare la misura delle vicende storiche. In tal senso apparvero orientate le ricerche sul Duomo di Lucca, i progetti di memorizzazione elettronica dei documenti relativi alle armerie medicea e lorenese e al medagliere mediceo e lorenese del Bargello. A vari livelli la ricerca elettronica applicata ai documenti presentava prospettive multiple non solo nei risultati concreti, ma soprattutto nelle implicazioni lessicali, museografiche ed economiche, che potevano essere valorizzate all'interno di programmi diversi, purché opportunamente calibrati.

Passando alle fonti storico-artistiche, particolarmente promettenti apparvero le proposte di informatizzare guide, cataloghi di vendita e di esposizione, in cui il carattere informativo è preponderante. Le bibliografie relative, realizzate nell'università di California, nella Kress Foundation con il progetto Scipio (al quale collaboravano anche l'Art Institute of Chicago, il Metropolitan Museum of Art, il Cleveland Museum of Art), l'indice di cataloghi e di mostre anteriori al 1877 della Smithsonian Institution, nonché il Provenance index del Getty (1983, tra i cui programmi particolari si ricorda un indice dei cataloghi delle vendite di pitture avvenute in Inghilterra nell'Ottocento) e infine l'indice di CATART, diretto da J. Thuillier, intendevano offrire strumenti nuovi per delineare la fortuna internazionale delle opere d'arte e recuperare il rapporto storico d'interdipendenza tra oggetti e istituzioni. Ne scaturiva da una parte la fortuna dell'opera d'arte nella gestione pubblica e privata e dall'altra la fortuna del contenitore museale nella struttura dei suoi contenuti. In questo modo gli orizzonti tradizionali, legati per lo più all'univoco rapporto opera-artista, si ampliavano e acquistavano i valori di continuità da cui dipende la nostra responsabilità. L'opera dello storico si legava profondamente alle strutture culturali senza i miti e gli squilibri che spesso derivano da una velleitaria programmazione esterna.

L'esigenza di 'integrare' ogni tipo di informazione (lessicale, biografica, archivistica, bibliografica, iconografica, economica) poteva ormai trovare corrispondenza in iniziative internazionali diverse e specifiche. I cataloghi generali, attardati in dimensioni nazionalistiche e politiche, non rispondevano adeguatamente alle nuove esigenze, che trovavano riscontro nelle innumerevoli proposte di progetti 'speciali', circoscritti e mirati. Cataloghi di ogni genere (armi, sigilli, stoffe, porcellane, vetrate), i lessici storici più svariati (oreficeria, vetreria, tessili) dimostravano la tendenza a nuove sperimentazioni in campo specialistico, i cui risultati apparivano comunque modificabili secondo lo 'stato dell'arte' (Settis) e degli strumenti disponibili.

La potenzialità dello scanner (lettore ottico), e la possibilità di abbreviare il passaggio tra documento scritto, immagine e memorizzazione furono un ulteriore stimolo a incrementare progetti informatici relativi ai campi già citati (cataloghi, inventari, lessici, bibliografie, archivi testuali, documentari e visivi ) considerati strettamente legati alla gestione delle varie istituzioni. Tutto ciò è documentato a livello internazionale nel Report del 1988 della Scuola normale superiore di Pisa e del Getty art history information program, che aggiorna e integra le informazioni del 1984.

Nel processo graduale di fusione tra informatica e cultura figurativa in Italia s'inserì la legge del 28 febbr. 1986 sui giacimenti culturali, che prevedeva un finanziamento complessivo, per il 1986 e 1987, di seicento miliardi "da destinarsi alla realizzazione di iniziative volte alla valorizzazione dei beni culturali, anche collegate al loro recupero attraverso l'utilizzazione delle tecnologie più avanzate e alla creazione di occupazione aggiuntiva di giovani disoccupati". L'iniziativa aprì le porte alla speculazione, favorendo il proliferare di progetti improvvisati e non rispondenti alle reali esigenze per la creazione di strutture stabili. L'informatica fu per lo più usata in modo effimero, a vantaggio di effetti più vistosi che utili, compromettendo (tranne rare eccezioni) l'indispensabile e talora difficile dialogo tra esperienze diverse.

La creazione delle facoltà dei Beni culturali (a Viterbo nel 1990, a Bologna nel 1996, a Lecce nel 1997; un corso di laurea era stato istituito a Udine nel 1978) non ha dato ancora i risultati ipotizzati: previste in parallelo alle facoltà di Lettere, ma con una prevalente attenzione alle discipline scientifiche (come proposto dall'archeologo G. Gullini) necessarie alla gestione del patrimonio storico-artistico, hanno accolto l'informatica come mera tecnica e non come strumento ausiliario di varie discipline, indispensabile a superare la scissione tra uso passivo e programmazione consapevole.

Negli anni Novanta, la diffusione di personal computer, scanner e soprattutto nuove tecnologie interattive, cioè sistemi multimediali rappresentanti la realtà virtuale, e tecnologie di connessione in rete telematica di larga scala (tipo Internet), non solo hanno favorito l'accettazione funzionale di nuove potenzialità, ma hanno proposto nuove dimensioni di gestione per archivi, biblioteche, musei non più vincolate all'interno di ogni istituzione, ma capaci di colloquiare con l'esterno.

Numerose riviste specifiche (Quaderni di informatica e beni culturali, 1980; Biblioteche oggi, 1983; Archivi e computer, 1991; Scienze umane e nuove tecnologie, 1994), frequenti convegni (Strumenti informatici nelle discipline umanistiche, il problema dell'integrazione, Accademia dei Lincei, Roma 1991; Scienze della comunicazione e tecnologia delle informazioni, Siena 1992; Gli archivi dalla carta alle reti, Firenze 1996; I formati della memoria, Firenze 1996; Le carte della memoria: archivi e nuove tecnologie, Torino 1996) hanno illustrato tale problematica, che si fa sempre più estesa. I grandi progetti stranieri sulla biblioteca virtuale (per es. quelli della statunitense National Science Foundation, Digital libraries projects, 1994-1998) che coinvolgono università (Carnegie Mellon University; University of Michigan; University of California, Santa Barbara; Stanford University; University of Illinois) e consistenti finanziamenti nazionali (a favore del tedesco DBY-OSI II, dell'inglese Electronic library program e del belga VIRLIB) dimostrano progressive attuazioni i cui risultati, già disponibili in rete, impongono partecipazione. Ciò vale anche per i musei: The virtual library of museums fornisce un elenco aggiornato di musei del mondo dotati di servizi di presentazione e informazione e attesta l'impressionante relazione con oltre mille collezioni in prevalenza di arte contemporanea e di scienze (Musei: Galluzzi 1997).

Di fronte a tali e tante iniziative l'Italia appare per lo più recettiva. Un immenso patrimonio culturale sembra consentirle solo aggiornamenti lenti, anche per il difficile rapporto tra pubblico e privato, tra conservazione e scuola. Solo per il 20% le biblioteche italiane risultano automatizzate e solo 30 compaiono in Internet (Biblioteche: Innocenti 1997). La Biblioteca nazionale di Firenze è dal 1985 prototipo del Servizio bibliotecario nazionale, dal 1989 ha introdotto UOL (Utenti on line) e dal 1992 ha dato avvio alla rete SBN coordinata dall'Istituto centrale per il catalogo unico. Per gli Archivi i programmi sembrano ancora più ardui e si procede a un'informatizzazione della fruizione per affrontare successivamente i problemi di particolari fondi storici e di quelli correnti e quindi gli standard necessari per attivarsi in ambito europeo (Archivi: Cotta, Klein, Vitali 1997). I musei, data la natura visiva delle loro raccolte, hanno maggiormente utilizzato le possibili risorse della telematica; ne danno prova due casi eccezionali: gli Uffizi e il Museo di storia della scienza di Firenze. Tenendo conto delle più significative esperienze straniere (dalle notizie dei programmi World art treasures o Web museum alle ipotesi virtuali di Expo ticket office, realizzate in collaborazione con la Library of Congress, o di Leonardo da Vinci, Museum di Santa Monica in California) si è ritenuto opportuno realizzare due diversi programmi trasmissibili in rete, che potessero allinearsi con quelli dei maggiori musei europei quali il Musée d'Orsay di Parigi, l'Antikensammlung di Berlino, l'Ashmolean Museum di Oxford, il Museum of Cycladic and Ancient Greek Art di Atene, il Museon di Dan Haag (L'Aia), il Museo Arqueológico Nacional di Madrid, tutti in rapporto con la rete RAMA RACE (Remote Access to Museum Archives), che si configura in tal modo come un virtuale museo globale europeo (Musei: Galluzzi 1997).

La larga gamma di intenti e di risultati maturati nell'arco di circa venti anni trova un fondamentale punto di incontro: tutti concordano sull'esigenza di addetti ai lavori adeguati ai nuovi strumenti, che consentano la conoscenza, la verifica e l'attuazione di tante possibilità. Uso, ricerca, didattica impongono una più stretta integrazione tra esperienza culturale e storica e conoscenza di fruizione strumentale, in modo da facilitare una fattiva e produttiva attività ampiamente sperimentata in iniziative legate a precisi programmi di ricerca. L'Accademia della Crusca, per es., il Centro di ricerche informatiche per i beni culturali della Scuola normale superiore di Pisa, il Centro Palladio di Vicenza collaborano per la realizzazione di archivi testuali, documentari e visivi strettamente legati a esperienze specifiche (lessico tecnico, lessico visivo, collezionismo), grazie alle quali è possibile ottenere nuovi prodotti editoriali (CD-ROM con programmi di frequenze e concordanze) che offrono nuovi mezzi di insegnamento e di ricerca. In casi come questi le esperienze del passato e quelle informatiche del presente riescono a convivere in uno stimolante continuo aggiornamento.

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Valutazione economica dei beni culturali

di Walter Santagata

Dove finisca l'elenco dei b. c. e cominci quello degli altri beni è l'incognita di ogni tentativo di stima del valore economico del patrimonio storico e artistico nazionale. La mancanza di un censimento generale e di un catalogo esaustivo non è solo riconducibile alla vastità del compito, ma anche all'indeterminatezza oggettiva delle definizioni e delle scelte pratiche. Si prenda, per es., la produzione di arte visiva contemporanea o di nuove opere di architettura: nessuno è in grado di giudicare con certezza quali vadano inserite nel computo dei b. c. e quali no; nessuno conosce il tasso di errore che una futura analisi retrospettiva potrebbe rivelare. Queste semplici considerazioni sono sufficienti a mettere in luce i limiti e i ritardi di qualsiasi progetto di valutazione globale del patrimonio culturale. Le valutazioni ufficiali italiane appaiono scarsamente attendibili e fortemente sottostimate. Agli inizi degli anni Novanta, il Conto generale del patrimonio dello Stato stimava in poco più di 20.000 miliardi di lire il valore degli immobili (culturali e non) di proprietà statale. Va aggiunto che anche le valutazioni non ufficiali - un milione di miliardi di lire a prezzi del 1990 - richiedevano altrettante cautele interpretative (Causi 1994).

Se la strada della valutazione macroeconomica appare irta di difficoltà, l'obiettivo di determinare il valore di un singolo acclarato b. c. è più realistico e ricco di insegnamenti metodologici. Si immagini, per es., di dover valutare due beni particolari: un quadro di G. Morandi e la cattedrale di S. Petronio di Bologna. Per quanto riguarda il quadro, e in generale i beni artistici, collezionistici e storici scambiati sul mercato e oggetto di appropriazione privata, il problema della valutazione è naturalmente risolto dal sistema dei prezzi e dal riconoscimento della sovranità del consumatore. Sul mercato, infatti, ciascuno è libero di valutare un quadro o un palazzo secondo le sue preferenze e in base al suo livello di reddito: la valutazione economica, coerente con le leggi della domanda e dell'offerta, è direttamente rivelata dalle scelte dei consumatori e dei venditori. Il mercato, cioè, è il meccanismo più efficace per determinare, grazie ai prezzi di equilibrio, il valore di scambio di un bene privato.

Definire, invece, il valore economico della cattedrale di S. Petronio richiede una metodologia complessa che deve avvalersi di un sistema informativo più costoso e sofisticato, necessario a colmare il deficit di valutazione dovuto alla mancanza di un mercato, di un prezzo e, in ultima istanza, di un valore di scambio. La cattedrale è, cioè, un bene pubblico collettivo il cui valore, è collegato a diverse circostanze. Deriva innanzitutto dai benefici, in termini economici, che ne ricavano i fedeli, utenti e praticanti del tempio di culto: il cosiddetto valore d'uso; deriva poi dagli effetti economici positivi che la cattedrale genera a favore, per es., dell'industria turistica e del commercio locale; e ancora, dai benefici individuali goduti da tutti coloro i quali, pur non essendo classificabili come utenti, ritengono che la sua mera esistenza e conservazione rappresenti un valore culturale per la città e per le generazioni future: il cosiddetto valore di non-uso.

Il quadro di Morandi e la cattedrale di Bologna appartengono entrambi al patrimonio storico-artistico nazionale indipendentemente dal carattere privato o pubblico della loro proprietà, ma sono due esempi che dimostrano l'eterogeneità dei b. c. sotto il profilo tecnico della loro valutazione economica. Solo i beni e servizi culturali pubblici, senza mercato e non commerciabili, richiedono tecniche di valutazione speciali e a essi faremo riferimento nel seguito della trattazione.

La natura economica dei beni culturali

La presenza dello Stato nell'attività di tutela, promozione e conservazione dei b. c. è rivelatrice della loro particolare natura economica. Sin dai primi studi di scienza delle finanze di fine Ottocento è noto, infatti, che il mercato non è in grado di regolare in modo efficiente la produzione e il consumo di alcune categorie di beni, cui i b. c. appartengono. Si tratta dei beni pubblici, dei beni che producono esternalità positive e dei beni soggetti a congestione. Li definiremo nell'ordine.

In quanto beni pubblici, i b. c. sono caratterizzati da 'non rivalità nel consumo' e 'impossibilità di esclusione'. La non rivalità riguarda la natura del bene e consiste nel fatto che il suo consumo da parte di un individuo non ne riduce la disponibilità per tutti gli altri consumatori. La fontana di Trevi possiede, per es., questa caratteristica. Tutti la possono contemplare e possono trarre piacere dalla sua vista. Al contrario, una mela è un bene privato, che rende rivali due o più possibili consumatori. La non escludibilità, al contrario, è un problema di misura e di costi; indica che è così oneroso impedire il consumo di un bene a un individuo, da rendere praticamente non realistica la possibilità di escluderlo dal suo godimento. Tra gli esempi di b. c. non rivali e non escludibili si possono citare i monumenti storici, le chiese, le facciate dei palazzi, il panorama, le opere d'arte, i quadri e le sculture esposte al pubblico nelle sale di un museo a ingresso gratuito, nelle piazze o in luoghi di libero accesso.

I b. c., inoltre, sono beni che generano non solo un flusso di benefici e utilità a favore di chi li usa e consuma direttamente, ma anche a vantaggio della società nel suo insieme. Gli economisti chiamano questo fenomeno 'effetto esterno' o 'esternalità'. Un'esternalità è definita come l'effetto positivo (o negativo) di un'azione, che non trova una compensazione di mercato e manca, quindi, di una esplicita valutazione economica. I b. c. producono molti benefici esterni che sfuggono alla valutazione dei mercati. Per es., il Museo d'arte contemporanea Guggenheim di Bilbao, progettato dall'architetto F.O. Gehry, è stato costruito per ospitare le collezioni ed essere visitato dal pubblico degli appassionati, ma ne trarranno benefici economici in molti: dai passanti occasionali, piacevolmente sedotti dalla bellezza del complesso, agli operatori alberghieri e del commercio, che potranno sfruttare l'inaspettato aumento di flussi turistici. In generale le esternalità sono di diverso tipo e possono riguardare il benessere sociale (l'aumento del livello di istruzione ed educazione connesso a un maggiore consumo di b. c. rafforza il senso di appartenenza alla comunità e accresce la qualità delle relazioni sociali); il valore della rendita urbana (la densità di b. c. valorizza le aree e gli immobili); la produzione industriale (la cultura artistica qualifica il design del made in Italy, favorendo la competitività internazionale dei nostri prodotti); l'industria turistico-alberghiera e il commercio locale (teatri, piazze e monumenti storici attraggono pubblico e creano effetti benefici per i ristoranti e i negozi). In certi casi le esternalità derivanti dalla presenza di un b. c. possono essere negative: si pensi alle reazioni in tal senso dei cittadini scandalizzati e irritati da certe forme di arte o architettura contemporanee. Tuttavia, gli effetti positivi sono assolutamente prevalenti.

Vi è, infine, la categoria dei beni pubblici soggetti a congestione: si tratta di beni non rivali, ma solo entro una ben definita capacità produttiva. Al di là di essa il servizio fornito si deteriora e l'affollamento ne riduce anche drasticamente la qualità. È, però, possibile razionarli, escludendoli dal consumo a costi relativamente contenuti. Ne sono un esempio significativo i musei, i palazzi, le chiese, i siti archeologici, i centri storici, i teatri, i parchi e i giardini. Questi beni, pur essendo non rivali e pubblici, addossano agli utenti costi di congestione quando si supera la soglia limite della loro capacità ricettiva. La qualità della visita a un museo dipende, infatti, anche dall'afflusso del pubblico e, quando si fa la coda di fronte a un'opera famosa, o la si contempla in un ambiente affollato, si sopportano disagi traducibili in costi di attesa e di disturbo.

Data la natura speciale dei b. c. non è possibile determinarne il valore economico con la semplice osservazione dei comportamenti di mercato. Il sistema dei prezzi non è applicabile a beni indivisibili, quali sono molti b. c., la cui non rivalità e impossibilità di esclusione rende impraticabile far pagare un biglietto. Inoltre, un visitatore in più nella piazza della Signoria di Firenze non solo non riduce il consumo globale di quel bene, ma non fa nemmeno aumentare i costi per l'accresciuta utenza. È normale, allora, che il pagamento del servizio avvenga non tramite la fissazione di un prezzo, ma con il pagamento di un contributo fiscale obbligatorio. Chi produce b. c. non può, cioè, farsi pagare per i benefici arrecati ai consumatori e quindi non può soddisfare una domanda pur esistente. Nel caso di benefici esterni è come se una parte della domanda non venisse presa in considerazione da chi produce i beni culturali. Insomma, la disponibilità a pagare per i beni privati, ossia la valutazione monetaria dei benefici e vantaggi individuali derivanti dal consumo e dal possesso, è rivelata dal sistema dei prezzi; ma i prezzi dei beni pubblici culturali e dei loro effetti esterni positivi non si conoscono. Infine, per i beni pubblici culturali soggetti a congestione le difficoltà e i fallimenti del mercato sono meno intensi. Questo spiega, per es., l'esistenza al riguardo di una pluralità di formule organizzative e proprietarie: imprese private, settore pubblico e organizzazioni senza scopo di lucro (non-profit) sono realtà in questo caso compresenti.

Alla ricerca di un metodo di valutazione non di mercato

Il valore di mercato di un bene dipende dal valore presente nel flusso di servizi che il bene in questione eroga nel tempo. In altre parole, dai benefici (o benessere) che i consumatori ne ricavano. Tuttavia i b. c. hanno anche un valore che è in qualche modo indipendente dal loro uso e, quindi, dai servizi resi all'utente. Si distinguono in questo senso tre tipi di valore: il valore di opzione (option value), il valore di esistenza (existence value) e il valore di dono (bequest value). Il loro insieme viene chiamato 'valore di preservazione' (preservation value). Il valore o domanda di opzione è il prezzo che un individuo è disposto a pagare oggi per consumare o meno un bene domani. Per es., la disponibilità attuale di qualcuno a pagare affinché si istituisca e svolga la sua attività un museo d'arte contemporanea può essere collegata al desiderio di garantirsi la possibilità di visitare il museo in futuro. Il valore di esistenza (Krutila 1967) è il prezzo che si è disposti a pagare per la mera esistenza di un bene, indipendentemente dal suo uso. È, in questo senso, un valore di non-uso. Vi è poi il bequest value (Walsh, Loomis, Gillman 1984), ossia il valore attribuibile al beneficio che la conservazione del b. c. potrà arrecare alle generazioni future.

I valori di preservazione concorrono a definire la valutazione sociale di un b. c. e derivano dalla irreversibilità della sua produzione. Se un monumento non viene costantemente sottoposto a restauri e manutenzione può irreversibilmente deteriorarsi nel tempo e compromettere la possibilità di erogare in futuro un flusso di servizi. Si racconta che quando W. Baumol, uno dei fondatori della moderna economia della cultura, chiese ai giardinieri della reggia di Versailles il segreto della perfezione dei loro giardini, gli fu risposto: "È facile. Basta innaffiarli tutti i giorni per trecento anni!".

Nell'insieme i valori di opzione e di esistenza si riferiscono a un consumo futuro incerto e la classica soluzione di mercato sarebbe la stipula di un contratto di assicurazione pagato con premi annui. Ma siccome gli individui sono male informati sui loro bisogni futuri, e questi variano da persona a persona, non sarebbe equo far pagare un premio eguale per tutti. Di nuovo, come per i benefici esterni, siamo indotti alla ricerca di un metodo che consenta di conoscere la valutazione individuale di un b. c. e che non si basi sull'osservazione dei comportamenti di mercato.

In un'indagine pionieristica tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta Throsby e Withers (1983) cercarono di stimare il valore delle esternalità e la domanda dei b. c. in Australia. Interrogarono un campione di popolazione e i risultati non solo confermarono l'esistenza di esternalità positive, ma anche che i cittadini australiani erano disposti a pagare per i b. c. nazionali di più di quanto lo Stato non erogasse attraverso la spesa pubblica.

Una tassonomia dei criteri di valutazione economica

Le metodologie proposte per la valutazione economica dei b. c. sono molte e analoghe a quelle applicate ai beni pubblici. È utile distinguere i metodi in base a due criteri. Il primo serve a individuare i metodi che ricavano la valutazione economica individuale direttamente dalle dichiarazioni degli intervistati rispetto a quelli che la deducono indirettamente dai loro comportamenti. Abbiamo, quindi, metodi diretti e indiretti. Il secondo criterio ordina le situazioni rispettivamente in reali e ipotetiche. Le scelte di mercato, le scelte di voto, quelle di viaggio sono il frutto di comportamenti osservabili. I contesti ipotetici, invece, sono quelli in cui si stima quanto si sarebbe disposti a pagare se un progetto fosse approvato o se un b. c. venisse offerto. L'ipoteticità riguarda, dunque, la preferenza per un bene non ancora prodotto, la cui offerta è incerta, essendo subordinata al comportamento degli altri, e il cui finanziamento effettivo è rinviato a una successiva decisione. L'ipoteticità è, dunque, legata alla mancanza di contestualità tra la formulazione delle preferenze e l'assunzione dell'onere economico per la loro soddisfazione. Dalla combinazione dei due criteri emergono quattro possibili tipologie (Mitchell, Carson 1989; Santagata 1992): i metodi diretti in ambienti ipotetici, tra cui la contingent valuation; i metodi indiretti in ambienti reali, tra cui il metodo dei 'costi di viaggio' e quello dei 'prezzi edonici'; i metodi diretti in ambienti reali, tra cui i referendum e i mercati simulati in esperimenti economici; e i metodi indiretti in ambienti ipotetici, che costituiscono di fatto una categoria residuale. Esamineremo, ora, le tecniche, più importanti.

Le principali metodologie in teoria e in pratica

In tema di valutazione economica dei b. c. le metodologie più diffuse sono la contingent valuation, il metodo dei costi di viaggio e quello dei prezzi edonici. Come si noterà dai rilievi critici relativi a ogni metodo, la contingent valuation si va affermando come la tecnica più affidabile, ma anche più efficace, essendo in grado di rivelare sia il valore d'uso che il valore di non-uso di un determinato bene.

La contingent valuation. - Il contingent valuation method (CVM) è un metodo che può essere usato per stimare direttamente le preferenze per un bene culturale. Impiega indagini campionarie e la pratica dell'intervista per cogliere quale sarebbe la valutazione economica o disponibilità a pagare in moneta relativa a specifici aumenti o miglioramenti di qualità di un bene culturale. Il CVM aggira il problema dell'assenza dei mercati creandone uno ipotetico in cui sia possibile acquistare il bene e dedurre la disponibilità a pagare: di qui il nome di contingent valuation method. Le preferenze sono "contingent upon the hypothetical market".

Lo schema generale di attuazione prevede diverse fasi. Innanzitutto si comunicano all'intervistato informazioni dettagliate sul bene che deve essere apprezzato. Poi, si predispone uno scenario ipotetico che simula un mercato plausibile in cui il bene sia disponibile per l'intervistato. Lo scenario offre informazioni sul livello base di fornitura del bene, sui suoi possibili sostituti, sui costi e sul metodo di finanziamento. Per stimare una curva di domanda si chiede, inoltre, la disponibilità a pagare per differenti livelli di fornitura. Infine, si domanda all'intervistato di dichiarare la propria valutazione economica dei benefici o la propria disponibilità a pagare. Le principali tecniche usate per raccogliere la disponibilità a pagare sono la domanda diretta, il bidding game, che simula le scelte di un consumatore che partecipa a un'asta e la procedura detta 'prendere o lasciare'. Quest'ultimo metodo, in base al quale l'intervistato è posto di fronte all'alternativa di pagare un certo prezzo per un b. c. o rinunciarvi, simula ciò che accade effettivamente sul mercato o in una consultazione referendaria. Questo sistema ha l'indubbio vantaggio di non obbligare l'intervistato a dichiarare senza alcun riferimento la propria disponibilità a pagare, ma più semplicemente gli permette di valutare un prezzo dato.

Sulla base delle dichiarazioni si stimano i benefici individuali medi e questi vengono generalizzati ed estesi a tutta la popolazione. In questo modo si è stimato il valore economico del Royal Theater di Copenhagen (Hansen 1997) e di un sistema di beni monumentali in Italia, che comprende il Castello di Venaria Reale, la Certosa di Chiusa Pesio e il Sacro Monte di Varallo (Maggi 1994). Un'indagine preliminare di valutazione del sistema di chiese, monumenti e palazzi storici del Decumano maggiore di Napoli, ha rivelato che la disponibilità individuale media a pagare degli utenti, quindi il loro valore d'uso, era positiva e pari a circa 10.000 lire del 1995. Si noti al riguardo che il servizio era offerto gratuitamente e che il costo complessivo per l'operatore pubblico era di circa un miliardo di lire l'anno, ossia circa mille lire per residente. Per quanto molto attraente per la semplicità di concezione e la flessibilità di impiego, il CVM è oggetto di critica sia per quanto riguarda l'ipotizzata sincerità degli intervistati, sia per l'ipoteticità dell'ambiente che simula il mercato per il bene culturale. Si è notato, inoltre, che chi risponde è spesso indebitamente influenzato dal valore positivo che la società attribuisce ai b. c. e che, non essendoci un vincolo di bilancio effettivo, l'intervistato tende a non distinguere tra beni simili, ma diversi per dimensione e quindi per valutazione economica. Quest'ultimo difetto, detto embedding effect, si riscontra quando, per es., si dichiara la medesima valutazione e disponibilità a pagare sia per l'esistenza di un singolo monumento - la colonna Traiana di Roma -, sia per l'esistenza e conservazione di tutti i monumenti storici di un'area - la Roma imperiale - che include il primo monumento. Il vasto ricorso a questa tecnica, riconosciuta e accettata ormai, per es., anche dalla giurisprudenza di common law, ha portato recentemente alla standardizzazione delle procedure e a un maggiore controllo sulle sue più evidenti anomalie.

Il metodo dei costi di viaggio. - È una tecnica molto popolare tra gli economisti dell'ambiente per misurare il valore culturale o ricreativo dei servizi offerti da beni pubblici chiaramente localizzati sul territorio, come i parchi naturali, i fiumi, i luoghi panoramici, i palazzi, i castelli, i musei e le grandi mostre d'arte. Si fonda sull'ipotesi che il consumatore razionale si aspetti di ricevere un beneficio almeno pari al costo sostenuto per la visita e sulla constatazione che le visite diventano tanto più rare quanto più l'utente risieda in località remote. Il valore del servizio del bene è costituito, quindi, dalla somma dei benefici di cui godono gli utenti. Si associa, cioè, la valutazione economica individuale ai costi di viaggio sopportati per recarsi sul luogo in cui il bene è localizzato (Maggi 1994).

La tecnica dei costi di viaggio comporta il conteggio del numero di visite effettuato da un campione di famiglie o individui alla località prescelta, per es. un museo o un monumento storico, la cui caratteristica pubblica culturale si vuole apprezzare. Per mezzo di interviste si raccolgono informazioni sulla distanza tra il luogo di residenza e il bene visitato e sulle spese di viaggio sostenute. La domanda per il b. c. è funzione della distanza. I costi di trasporto per chilometro e la curva di domanda consentono di stimare una misura della valutazione economica del consumatore-utente. In termini aggregati, uno studio sulla valutazione economica del servizio culturale reso dal Museo d'arte contemporanea del Castello di Rivoli, presso Torino, ha rivelato un beneficio annuo pari a circa 1,6 miliardi di lire del 1992 (Corradino 1993), ossia un valore patrimoniale attuale di 32 miliardi (ipotizzando un tasso di interesse del 5% e un flusso di benefici perpetuo). Data la fase ancora pionieristica di applicazione di questa tecnica, può essere interessante confrontare i risultati ottenuti con quelli ricavati dall'impiego di altre metodologie. Si è così notata una certa instabilità di esiti: per es., la valutazione economica individuale media degli utenti del Castello di Venaria Reale era di circa L. 16.000, in base al metodo dei costi di trasporto e di circa L. 10.000, in base alla contingent valuation (Maggi 1994).

I problemi di questa tecnica di misurazione sono molti. In primo luogo è difficile isolare il beneficio derivante dal bene pubblico culturale, data la grande varietà di motivazioni che sono alla base della decisione di intraprendere un viaggio di piacere. In secondo luogo non è chiaro come gli individui valutino il tempo impiegato per il viaggio - ossia quale sia il costo opportunità del loro tempo libero - e quali componenti siano considerate un costo, essendo possibile che il viaggio in sé costituisca una piacevole esperienza. In terzo luogo va rilevato che questo metodo non è in grado di misurare i valori di preservazione.

I prezzi edonici. - Il metodo dei prezzi edonici, ideato per risolvere problemi di stima della variazione di qualità di beni di consumo privato, può trovare applicazione anche nell'ambito dell'economia dei beni culturali. È un metodo di misurazione indiretto delle preferenze individuali che si basa sulla stima del valore degli attributi o caratteristiche non di mercato di un bene. Questi attributi sono fonte di utilità per il consumatore. Di qui l'ipotesi edonistica e il nome con cui la metodologia viene chiamata: il metodo dei prezzi edonici. L'idea è che osservando il comportamento degli attori economici su certi mercati (quello tipico è il mercato immobiliare) sia possibile stimare l'apprezzamento individuale per un bene pubblico localizzato spazialmente: la qualità dell'aria, la qualità dell'acqua, le infrastrutture sociali, il livello del rumore o un bene culturale. In pratica si tratta di rilevare il prezzo di due unità immobiliari identiche in tutto, tranne che per la loro localizzazione o meno in un'area esposta ai benefici generati dalla presenza del bene: un monumento, una piazza storica, una fontana, un teatro ecc. A parità di ogni altra condizione, la differenza di prezzo viene interpretata come il valore che il mercato immobiliare attribuisce al bene culturale in questione.

La bontà della valutazione economica è inversamente proporzionale alle imperfezioni del mercato immobiliare. Per es., dovrebbero essere virtualmente disponibili, e in grande quantità, tutti i tipi di appartamenti. Sarebbe necessario che le famiglie fossero in grado di percepire con chiarezza le differenze nelle condizioni ambientali; che i costi di transazione e di trasloco fossero nulli e che il vettore dei prezzi reagisse istantaneamente a variazioni di domanda e offerta. Un altro limite del metodo riguarda le sue possibilità di impiego a fini di decisioni di politica economica. Le informazioni richieste, sul valore delle abitazioni, per es., rendono inevitabile il ricorso a stime ex post, ossia dopo che la casa è stata costruita e venduta. Il decisore politico non può, cioè, disporre di una valutazione ex ante, in funzione della scelta di un particolare progetto, se non per analogia. Il vantaggio più allettante riguarda l'eliminazione sia del problema delle risposte non sincere, sia dell'ipoteticità del contesto.

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Economia della cultura

di Guido Guerzoni, Walter Santagata

Lo sviluppo delle arti e della cultura: l'emergere di una risorsa economica

La questione del rapporto tra economia e cultura, sin dall'avvento delle prime democrazie ottocentesche, si era venuta a porre in termini del tutto nuovi, come testimoniano gli interventi di esponenti politici di numerose formazioni statuali del 19° sec., costretti a individuare rapidamente soluzioni tecniche e artifizi retorici capaci di colmare le lacune lasciate dal tracollo delle istituzioni (l'accademismo regio, il mecenatismo aristocratico, la committenza ecclesiastica, solo per citarne alcune) che per secoli avevano, spesso splendidamente, adempiuto ai loro doveri, senza mostrare eccessive preoccupazioni per gli aspetti finanziari delle proprie intraprese culturali. Scomparsi l'orgoglio dinastico, gli obblighi del rango e il gusto del coinvolgimento personale, la cultura diveniva materia per dibattiti fiscali e anonime interrogazioni parlamentari, che inevitabilmente ne esigevano il sacrificio di fronte alla necessità di soddisfare primariamente i bisogni delle masse popolari. Si affermava così una nuova retorica: la cultura di Stato meritava l'assegnazione di risorse quale strumento educativo deputato all'istruzione e all'elevazione morale delle classi meno abbienti; parallelamente, veniva intrapresa una strisciante campagna demolitoria degli antichi valori, complici l'apoteosi dei fermenti avanguardistici, l'irriguardoso e antistorico trattamento tributato all'accademismo, lo scherno riservato ai passatisti.

Negli anni Sessanta del 20° sec., sulla spinta di altre rivoluzioni, il dibattito sulla dimensione economica della cultura si riapriva in termini diversi; prima delle pressioni contestatarie, giungevano a bersaglio gli strali scagliati da alcuni economisti anglosassoni, fermamente intenzionati a dimostrare l'iniquità dei meccanismi di prelievo e trasferimento dei fondi pubblici destinati al sostegno delle iniziative culturali. Occorreva dunque reimpostare i termini della relazione tra cultura ed economia e da tale necessità prese avvio un processo di ridefinizione dello statuto economico delle attività culturali legato all'azione di due decisivi vettori di cambiamento. Il primo elemento di innovazione fu il lento, ma progressivo slittamento e allargamento di significato del concetto di bene culturale. Dall'originale ed esclusivo criterio estetico della tutela delle 'cose di interesse artistico' e delle 'bellezze naturali', si è giunti a estendere il riconoscimento dello status di b. c. a quasi tutto ciò che è testimonianza materiale di una civiltà. Così, alle tradizionali funzioni di tutela e conservazione dei patrimoni storici e artistici si sono affiancati negli anni Ottanta vari programmi di valorizzazione economica, alla ricerca di positive ricadute sull'occupazione, sull'industria turistica, sulla formazione di capitale umano e più in generale sul benessere collettivo. Il secondo fattore di mutamento è invece rappresentato dal riposizionamento dell'intervento pubblico, avvenuto in seguito alla scoperta del cosiddetto morbo di Baumol, patologia degenerativa responsabile dell'inarrestabile aumento dei costi nelle performing arts (Baumol, Bowen 1966), e all'assimilazione dei b. c. ai beni pubblici (v. sopra: Valutazione economica). La presenza dello Stato, quale erogatore di sussidi nel campo dello spettacolo dal vivo, organizzatore culturale o gestore museale, deve sì rispondere a criteri di efficienza gestionale, ma risulta anche giustificata dall'insostenibilità dello sviluppo del settore sulle sole basi private e di mercato. Nel contesto attuale la natura economica delle attività e dei b. c. è, così, ben definita, sia nei suoi punti di debolezza, sia rispetto alla sua capacità di produrre ricchezza materiale. La parola passa dunque all'interazione tra mercati e azione pubblica.

I mercati della cultura. Il quadro d'insieme

L'Italia è il privilegiato custode del più ricco e variegato patrimonio artistico del mondo. Vi sono 85.000 chiese costruite da almeno cinquant'anni (limite richiesto perché un bene venga considerato degno di tutela), tra cui 223 cattedrali; 1293 comuni ospitano almeno un palazzo, castello o monumento di interesse storico; le biblioteche conservano 35.000 incunaboli e circa 300.000 cinquecentine; inoltre sono stati censiti 3437 musei, in maggioranza d'arte, e circa 2000 siti archeologici. Circa il 70% dei musei è di proprietà pubblica, il 13% appartiene alla Chiesa cattolica e il 16% ai privati. Si stima che gli addetti siano oltre 70.000. Per quanto concerne gli afflussi, i soli musei statali sono visitati ogni anno da più di 20 milioni di persone, ma se si considera la domanda di fruizione culturale nella sua totalità, includendo anche palazzi, chiese, monumenti, aree archeologiche e parchi - come quello della Reggia di Caserta - si raggiunge la ragguardevole cifra di oltre 50 milioni di visitatori annui. Un fenomeno culturale di tali dimensioni richiede un eccezionale contributo finanziario, che non trova adeguate risposte pubbliche: l'Italia, nonostante i progressi degli anni Novanta, stanzia per la cultura meno dell'1% del bilancio statale. Anche le altre forme espressive vantano tradizioni di innegabile ricchezza e prestigio: istituzioni quali il Teatro alla Scala, la Fenice di Venezia e il Piccolo Teatro di Milano godono di una reputazione mondiale. Nel 1990 circa 25 milioni di spettatori hanno assistito a più di centomila rappresentazioni di prosa, lirica, balletto e di musica classica, con un giro di affari di poco inferiore ai 500 miliardi.

Giudicati dal punto di vista della creazione del reddito, le arti visive e il settore dello spettacolo dal vivo hanno invece un'importanza minore, benché in Italia siano attivi 3500 antiquari, 3000 gallerie d'arte moderna e contemporanea, una cinquantina di case d'asta e 3500 laboratori di restauro. Il comparto dell'arte figurativa classica, moderna e contemporanea è nel complesso modesto: all'inizio degli anni Novanta il suo giro di affari era valutato in circa 5500 miliardi di lire, contro i 20.000 degli Stati Uniti e i 30.000 dell'Europa, anche se bisogna tener conto del valore delle transazioni illegali o irregolari, che gli analisti più accreditati reputano superiore a un quarto di quelle legali.

Analizzando invece la struttura della domanda, si rileva come negli ultimi decenni vi sia stata una certa riduzione della spesa privata, accompagnata però da una considerevole variazione nella sua composizione. Nel 1970 due voci staccavano nettamente tutte le altre: il settore cinematografico assorbiva quasi il 40% delle spese e gli acquisti di quadri e grafica oltre il 20%. Vent'anni dopo, la forma della distribuzione indica una maggiore omogeneità: la spesa per il cinema si è enormemente ridotta, perché i consumi si sono spostati dal grande al piccolo schermo. Ora, per un numero abbastanza vasto di consumi culturali si dispone di informazioni di lungo periodo sulla loro evoluzione.

Per quel che riguarda i servizi, cioè le possibilità di cultura che si offrivano in vari campi, negli anni Cinquanta il dominio del cinema era incontrastato, mentre il teatro in particolare, e in minor misura la lirica e la musica, perdevano spettatori. Il periodo che va dal 1960 al 1980 vede il grande declino del cinema e l'ascesa irresistibile della televisione: gli spettatori cinematografici scendono dagli 819 milioni del 1955 ai 240 del 1980. Ugualmente le altre forme di spettacolo e la stessa affluenza ai musei vivono in questo periodo una stagione di crescita, provocata dall'aumento del benessere collettivo e dalla maggiore offerta di servizi culturali. Gli anni Ottanta e Novanta presentano invece una stasi: il lungo boom economico dal 1982 al 1989 non si riflette in un'accresciuta domanda di prodotti culturali da parte del pubblico, e tutti gli indicatori - tranne quello del cinema, che continua nella sua drammatica caduta, con qualche segnale incoraggiante verso la fine degli anni Novanta - mostrano un sostanziale equilibrio.

Diversa, e per certi versi in controtendenza, è l'evoluzione della domanda di beni: al quadro di una sostanziale stabilità negli anni Settanta (negli stessi anni i servizi mostravano chiari segni di dinamismo), fa seguito una crescita netta nell'ultimo scorcio degli anni Ottanta, durante i quali la domanda di servizi entra in una fase calante. Nel complesso è comunque da segnalare un generale fenomeno di sostituzione, nella domanda del pubblico, dei servizi e delle manifestazioni più tradizionali con beni dalle modalità di consumo più economiche, domestiche e time saving (Rapporto sull'economia delle arti, 1992).

Sviluppi recenti e prospettive tematiche dell'economia della cultura

I beni e i mercati dell'arte e delle attività culturali sono stati analizzati in studi pionieristici e fondamentali di storici dell'arte (M. Baxandal, A. Hauser, F. Haskell, E. Castelnuovo), sociologi (J. Ruskin, K. Teige) e del critico letterario e filosofo W. Benjamin. La fondazione della moderna cultural economics viene fatta risalire alla monumentale ricerca di W.J. Baumol e W.G. Bowen (1966) sul mercato dello spettacolo dal vivo (performing arts) negli Stati Uniti (The economics of the arts, 1976; Throsby 1994). Per quanto l'economia della cultura si estenda a molti mercati, compresi quelli a vocazione tecnologica come il cinema, la fiction televisiva, l'editoria, la produzione di video e CD-ROM e la fotografia, dagli anni Settanta la ricerca si è concentrata principalmente su tre ambiti: il mondo dello spettacolo teatrale, lirico e concertistico; quello delle arti visive (plastiche e figurative); il patrimonio culturale e il sistema dei musei. Per ciascuno di essi accenneremo ai contributi tematici più significativi (Economia dell'arte, 1998).

Economia dello spettacolo

L'economia dello spettacolo si occupa precipuamente dello studio dei mercati e delle organizzazioni operanti nell'ambito delle arti rappresentate: enti lirici e teatri, orchestre e compagnie teatrali, gruppi musicali, di danza, balletto ecc. Ora, la più rilevante caratteristica distintiva di tali organizzazioni è l'accentuata rigidità delle funzioni di produzione: anche tra due secoli una composizione seicentesca dovrà essere eseguita negli stessi tempi e dal medesimo numero di strumentisti impegnati nell'esecuzione originaria, e analoghe considerazioni possono valere per una commedia settecentesca o un'opera lirica ottocentesca; la dominante e quasi anacronistica presenza del fattore umano limita le possibilità di sostituirlo con elementi alternativi di natura tecnologica, nonostante tali vincoli interessino la fase produttiva più di quella distributiva e fruitiva. Tale rigidità è reputata da molti la principale responsabile della frequente dipendenza dai sussidi erogati da agenti esterni, indipendentemente dalla branca di appartenenza e dalla loro natura pubblica, privata o mista. Numerose tesi sono state avanzate a sostegno della necessità di contribuzioni da parte di terzi: dalle teorie sui beni meritori a quelle sulle esternalità, dalla letteratura sui fallimenti del mercato a quella sull'intrinseca rigidità dei processi produttivi.

Altre caratteristiche distintive sono la contestualità tra produzione e consumo e la congiunzione dei processi produttivi, sommatoria di prestazioni fornite da una pluralità di distinte unità organizzative, caratterizzantesi ciascuna per la presenza di considerevoli abilità specifiche e per l'elevato livello di interdipendenza reciproca. Infatti, eccezion fatta per isolate prestazioni di solisti, le altre produzioni si connotano per la prevalente dimensione del lavoro di gruppo, capace di misurarsi con successo con processi non passibili di sviluppo seriale. Ma unicità ed estemporaneità trasformano tali organizzazioni in virtuali monopoliste e tale fenomeno spiega sia il coinvolgimento di profili professionali estremamente specializzati sia la difficoltosa standardizzazione e misurazione delle risorse immesse nei processi produttivi e dei risultati da queste conseguiti. Ciò ha determinato la mancata predisposizione di strumenti di controllo atti a favorire la piena comprensione delle prassi decisionali, giustificando gli sforzi degli economisti impegnati nella definizione di indici di redditività degli investimenti, funzioni di costo, parametri di valutazione della performance organizzativa e così via. Identici i rilievi per la problematica misurazione e previsione dei risultati: è emerso che il legame che unisce produttori e consumatori è sovente di tipo fiduciario, correlato alla reputazione delle organizzazioni; ma al di là di questa osservazione rimangono ancora insoluti quesiti altamente significativi, soprattutto per i decisori di estrazione pubblica. Tuttavia, dalle analisi sin qui condotte sono emersi risultati degni di nota, frutto dell'applicazione delle nuove tecniche d'indagine sulla disponibilità a pagare: la domanda effettiva e potenziale si dichiara spesso disposta a sostenere costi decisamente superiori a quelli correnti pur di poter assistere agli spettacoli, segno incontrovertibile della vitalità di tali richieste (Throsby, Withers 1979). Tali segnali spiegano anche l'apparizione di forme alternative di offerta, affermatesi in seguito alle ultime rivoluzioni tecnologiche. Lo sviluppo della TV via cavo, la proliferazione dei canali artistici tematici, l'accresciuta disponibilità di trasmissioni satellitari hanno moltiplicato le opzioni fruitive, modificando profondamente i confini settoriali e offrendo alle organizzazioni nuove fonti reddituali, come testimonia l'ampio dibattito sui diritti d'autore e connessi.

Economia dell'arte

Il mercato della pittura presenta rimarchevoli anomalie rispetto ai mercati tradizionali. Un'opera d'arte, infatti, incorpora elementi simbolici e culturali tali da non ammettere una sua assimilazione alle merci tout court. Gli scambi possono realizzarsi in mercati primari (quelli in cui l'artista offre le proprie opere) e in mercati secondari (quelli nei quali le opere d'arte, ormai separate dai loro creatori, circolano tra mercanti e collezionisti), ma anche in ambiti non di mercato, come la comunità artistica e il settore pubblico. L'interesse dell'analisi economica si è rivolto soprattutto verso tre questioni: la definizione dei diritti di proprietà sulle opere d'arte; il comportamento 'razionale' dei collezionisti e il processo di formazione dei prezzi delle opere d'arte (Santagata 1998).

Le istituzioni rappresentano l'insieme delle regole che disciplinano un mercato e la loro presenza ed efficacia è decisiva per lo sviluppo degli scambi, la stabilità dei commerci e la creazione di un adeguato sistema di incentivi materiali a favore degli artisti. Ora, dalla seconda metà dell'Ottocento, lo scambio e l'intermediazione delle opere d'arte si fonda sul sistema delle gallerie e delle case d'asta, che vendono dipinti e sculture, cedendo l'insieme dei diritti di proprietà. In particolare non viene riconosciuto ai pittori un diritto di partecipazione alla valorizzazione futura delle loro opere, come invece avviene nel campo della composizione musicale, della produzione cinematografica e letteraria. Il mancato riconoscimento di un diritto di autore è solo parzialmente compensato dal cosiddetto 'diritto di seguito' (un diritto patrimoniale sull'incremento di valore dei quadri) che, sotto il profilo economico, è considerato inefficiente per gli alti costi di transazione e l'incapacità di tutelare gli artisti giovani o non ancora pervenuti al successo (Rottemberg 1975; Santagata 1995).

I mercati sono tanto più efficienti quanto più i consumatori si comportano in modo razionale; tuttavia la razionalità economica dei collezionisti è stata confutata dagli studi sul rendimento delle opere d'arte (Baumol 1986; Guerzoni 1995). Risulterebbe, infatti, che dal Settecento a oggi il tasso di rendimento di un investimento in dipinti è stato pressoché nullo o comunque inferiore a quello di impieghi alternativi di carattere finanziario, come i titoli pubblici. Un agente razionale avrebbe, dunque, scelto di investire in obbligazioni o in oro e non in quadri. Si dovrebbe concludere che i collezionisti cadano sistematicamente in errore. Di fronte a questa impasse si sottolinea ancora una volta l'imperfezione dei mercati e l'importanza della componente simbolica ed emotiva che connota l'acquisto e il possesso di opere d'arte.

La formazione dei prezzi e il loro ruolo di segnali che guidano efficientemente le scelte produttive e di consumo di artisti e collezionisti è stata anch'essa oggetto di numerosi studi. Da un lato si è fatto riferimento ad analisi edoniche che provano a spiegare la fissazione del prezzo di un quadro in base alle sue caratteristiche fisiche (dimensione e materiali impiegati) ed estetiche (stile, scuole, contenuti), ai prezzi di beni possibili sostituti nel consumo (come le opere teatrali e le esposizioni museali) e alla notorietà dell'artista (Frey e Pommerehene 1989). Dall'altro lato si sono dovute sottolineare le anomalie con cui il sistema dei prezzi tenta di segnalare la qualità di un bene artistico e/o collezionistico. Non sempre, infatti, a un prezzo elevato corrisponde una qualità elevata, e spesso, invece, un prezzo basso non premia un'opera destinata a rivelarsi un capolavoro. I beni d'arte sono, dunque, beni 'a qualità nascosta' e il contributo dell'economia della cultura si è orientato allo studio dei mezzi che consentono di ridurre l'incertezza del consumatore. L'attenzione si è, così, spostata sulla domanda di notorietà, sugli effetti di imitazione e sulla costruzione di indicatori standard di qualità impliciti nei palmarès e nelle classifiche dei migliori artisti (Moulin 1992; Rouget, Sagot-Duvauroux 1996).

Economia dei beni culturali

Lo sviluppo del settore, ravvisabile sia nella crescita numerica delle organizzazioni sia nell'incremento fatto segnare dalla domanda e dall'offerta di beni e servizi di natura artistica e culturale, conferma la propensione delle società postindustriali a destinare crescenti quote di redditi a consumi che esulano dalla consueta sfera dei bisogni primari. Tuttavia, questo irreversibile processo ha drammaticamente modificato la missione di molte organizzazioni, costrette a misurarsi con richieste aliene alla propria storia e alla propria tradizione: oggi il grande pubblico, i mass media e molti rappresentanti politici esigono dai musei, dalle biblioteche, dai giardini botanici, dagli archivi e dai siti archeologici non tanto istruzione, educazione, riflessione, quanto piuttosto intrattenimento, passatempo, divertimento. Non che sia impossibile istruire divertendo (rimane anzi un irrinunciabile dovere pedagogico), ma appare eccessiva l'enfasi tributata ai soli tratti ludici dell'esperienza fruitiva (The economics of art museums, 1991).

In realtà, saranno forse le nuove tecnologie a garantire un ritorno ai valori primari: CD-ROM, Internet e Intranet, reti dedicate e canali tematici possono esaltare o rivelare il valore economico di risorse fino a pochi anni fa considerate scarsamente produttive (basti pensare alle opportunità che si presentano ai musei, alle biblioteche e agli archivi italiani per quanto concerne i diritti di riproduzione di immagini digitalizzate), e chiamano le organizzazioni a mobilitare con maggiore dinamismo i patrimoni giacenti: mai come oggi i tanto vituperati magazzini possono divenire risorse critiche. Infatti, la gestione strategica dei prodotti derivati e dei servizi complementari permette di conseguire risultati economici eclatanti e di destinare maggiori risorse alle funzioni primarie (ricerca, restauro, conoscenza e valorizzazione dell'esistente): i ricavi della cessione dei diritti connessi e i proventi di ben congegnate politiche di valorizzazione costituiscono in molti casi le voci più rilevanti degli utili operativi.

bibliografia

W.J. Baumol, W.G. Bowen, Performing arts. The economic dilemma, New York 1966.

S. Rottemberg, The remuneration of artists, in Frontier of economics, ed. G. Tullock, London 1975.

The economics of the arts, ed. M. Blaug, London 1976.

C.D. Throsby, G.A. Withers, The economics of the performing arts, London 1979.

W.J. Baumol, Unnatural value or art investment as floating crap game, in American economic review, 1986, pp. 10-14.

B.S. Frey, W.W. Pommerehene, Muses and markets. Explorations in the economics of the arts, Oxford 1989.

The economics of art museums, ed. M. Feldstein, Chicago 1991.

Rapporto sull'economia delle arti e dello spettacolo in Italia, a cura di G. Brosio, W. Santagata, Torino 1992.

R. Moulin, L'artiste, l'institution et le marché, Paris 1992.

D. Throsby, The production and consumption of the arts: a view of cultural economics, in Journal of economic literature, 1994, pp. 1-29.

G. Guerzoni, Reflections on historical series of art prices: Reitlinger's data revisited, in Journal of cultural economics, 1995, pp. 251-60.

W. Santagata, Institutional anomalies in the contemporary art market, in Journal of cultural economics, 1995, pp. 187-97.

B. Rouget, D. Sagot-Duvauroux, Économie des arts plastiques. Une analyse de la médiation culturelle, Paris 1996. 

Economia dell'arte, a cura di W. Santagata, Torino 1998.

W. Santagata, Simbolo e merce. Una introduzione alle istituzioni e ai mercati della pittura contemporanea, Bologna 1998.

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