CELLINI, Benvenuto

Enciclopedia Italiana (1931)

CELLINI, Benvenuto

Igino Benvenuto SUPINO
Mario CHINI

Nacque a Firenze il 3 novembre del 1500. Suo padre Giovanni, architetto e musico, musico volle fare il figlioletto; ma, recalcitrando questi, lo allogò presso un orefice e poi presso un altro. A sedici anni, per una rissa, fu confinato a Siena; tornato a Firenze, non seppe starvi tranquillo; e poco dopo si recò a Bologna, a Pisa e poi (1519) a Roma, col Tasso intagliatore: là, postosi a bottega, restò, finché, ai richiami del padre, tornò a Firenze (1521). Ma da Firenze nuove risse e ferimenti lo obbligarono a fuggire ancora a Roma, dove, tra volontarie o coatte scappate temporanee, ebbe domicilio dal 1523 al 1540.

A Roma lavorò per cospicui cittadini, prelati, cardinali e per il papa Clemente VII, cui rese buoni servigi anche nella difesa di Roma del 1527, quando forse dal suo archibugio uscì il colpo che uccise il Conestabile di Borbone. Nel 1529 Clemente VII che già gli aveva dato delicate e importanti commissioni, lo nominò maestro delle stampe della zecca pontificia. L'uccisione dell'assassino di suo fratello non gli procurò se non una "paventosa bravata" fattagli dal papa; ma poi un ferimento lo obbligò a fuggire a Napoli, donde, fatto sicuro, tornò per ammazzare quel Pompeo, gioielliere milanese, che da più tempo cercava di metterlo in mala vista del papa. Paolo III gli fece allora un salvacondotto, dichiarando "che uomini unici nella loro professione come Benvenuto non debbono essere obbligati alle leggi".

L'artista, che vedeva formarsi la sua vita quasi in ossequio a una legge provvidenziale, se ne era fatto un gran concetto e ne aiutava lo svolgimento, secondo il presupposto modello; onde eccessi, sconvenienze, litigi, che gli procurarono accuse calunniose e la prigionia in Castel Sant'Angelo, ove restò fino ai primi di dicembre del 1539 Avendo allora compreso che a Roma non avrebbe più potuto dimorare tranquillamente, si recò nel 1540 a Parigi, dove Francesco I gli assegnò una pensione e gli offerse, come dimora e officina, il castello detto Petit Nesle, ove si installò signorilmente. Smanioso di sempre maggiori successi, diede mano persino all'architettura civile e militare, e costruì, fra l'altro, la porta di Fontainebleau, ornata di statue e di bassorilievi.

Ma nemmeno a Parigi visse (e si comprende) senza dispute e contese. Ivi, egli ebbe ad urtarsi - per ragioni di concorrenza - col Primaticcio. Sdegnato degl'intrighi, non ricevendo né lavoro né denaro dal re, chiese di poter tornare in Italia, a Firenze; e, non ottenendone licenza, partì senz'altro, forse con l'intenzione di non abbandonar la Francia per sempre. Ma in Francia, dove pure aveva lasciato robe e lavoranti, non poté mai tornare. Cosi nell'agosto del 1545 cominciava per lui a Firenze un nuovo periodo della sua esistenza, che egli credeva dovesse essere il più felice. Infatti il duca Cosimo lo accolse bene. Fu il duca a ordinargli il suo capolavoro, il Perseo, nonché un proprio ritratto, e un Apollo, un Narciso, un Ganimede, un Nettuno di grandissime proporziom. Ma ben tosto si accesero dispute e gare fra lui e gli scultori Bandinelli e Ammannati, che riuscirono a danneggiarlo. Il Perseo, gli diede grandi onori, non ġrandi compensi. Il Granduca, dopo aveigli ridotto il prezzo richiesto, cominciò a lesinargli i mezzi né gli diede altre commissioni. Il C., amareggiato, cominciò a pensare alle cose dell'anima, prendendo nel 1558 gli Ordini minori. Ma si fece prosciogliere, due anni dopo, dagli obblighi inerenti da essi, per legittimare un'irregolare posizione domestica con la propria governante Piera de' Parigi. Sistemò anche i proprî figli naturali e adottò un ragazzo che gli diede non poche noie. Morì il 13 febbraio 1571 e fu sepolto nella chiesa dell'Annunziata.

Lo scrittore. - Della propria vita avventurosa, inquieta, piena di errori e di tristezze, e pur sincera e bella, il C. lasciò un racconto, che cominciò a scrivere da sé, verso il 1558, e poi dettò a un giovanetto chiamato Michele di Goro Vestri, solo verso la fine ricominciando a scrivere di proprio pugno.

La prima stampa della eccezionalissima scrittura si deve al medico e filosofo Antonio Cocchi, che nel 1728, servendosi di non si sa bene qual codice, pubblicò l'opera, richiamando su di essa l'attenzione dei letterati e degli studiosi in generale. Veramente il Cocchi si era innamorato della Vita celliniana solo perché conteneva notizie abbondanti di artisti e di opere d'arte; ma al Baretti, che dell'edizione diede conto nella Frusta letteraria, la Vita piacque per il dettato appropriatissimo a rilevare la singolarissima figura dell'artista e per cotesta figura di uomo presto maturo, ma in cui era rimasto tanto del fanciullo, di individuo civilissimo e in cui viveva tanto di barbarico, di essere fuori della legge, e pur con tante pretese di ordine e di morale. Il Parini si entusiasmò per la vivacità della rappresentazione degli uomini e delle cose, anche se uomini e cose non ammirava, al contrario del Baretti e del Goethe, che rimasero sbalorditi dinnanzi all'energia del protagonista, al suo potente individualismo, ira individualismi non meno potenti. Oggi la Vita non si considera tanto un documento di storia e di psicologia (come è apparsa per lungo tempo agli studiosi di costumi e di anime, che ne hanno provato la sostanziale veridicità) quanto un documento di poesia vera, sbocciata dall'anima d'un artista, che la propria realtà pratica foggiò secondo le leggi d'una fantasia creatrice, che non perse vigore quando lo scrittore si diede a rappresentare quel Cellini che egli aveva plasmato.

Il C. cominciò la propria trasfigurazione, come si è detto, quando ancora non pensava a descriversi, e soltanto badava a vivere secondo una stilizzazione, che lo portò fuori del comune modo di essere. Così costruì la propria vita come un'opera d'arte, librata nell'ideal mondo dove vivono, libere da ogni legge che non sia quella della fantasia creatrice, le figure della poesia. E quando si mise a descriverla, non fece se non continuare l'intrapresa creazione, trasformandosi coscientemente nel Plutarco di sé stesso, per l'idea che ogni uomo che vale qualche cosa, deve sempre descriversi, e proporsi ad esempio. Ciò spiega come, compreso tutto quanto di sé, solamente di sé riempisse tutto il quadro.

L'opera, nella sua prepotente simpatia verso il protagonista, è spontanea, di una spontaneità meravigliosa, benché qualche volta sembri che il C. abbia avuto delle preoccupazioni riflesse. Se talvolta egli gonfiò le gote per parlare letterariamente, ciò fu in brevi momenti di debolezza fantastica o in altri momenti in cui, per eccesso fantastico, si preoccupava di dare alla sua storia espressione adeguata all'altezza di essa; ma cotesti momenti furono subito vinti o dalla ripresa della vitalità fantastica o dalla naturale intuizione dell'espressione necessaria. La parola usuale della vita era sufficiente alla narrazione di essa; e il C. lo capì perché egli sentì di aderire così in tutto e per tutto e sempre alla propria realtà storica, la quale nei particolari era stata tutta quotidianità fiorentina, e fiorentinità del Rinascimento, una cosa, cioè, così grande, che di per sé stessa lo soddisfaceva al massimo grado. A Firenze anche gli orafi potevano esser nobili, come egli sentì di essere e volle che lo si riconoscesse. Quanto alla sintassi, che le parole ordinava, il C. non si scostò mai dalle proprie ordinarie capacità o incapacità, dandole così tratti caratteristici spiccatissimi. In un seguito di proposizioni subordinate, appena allo scrittore si presenta un'idea che s'imponga, la subordinazione si trasforma in coordinazione; in un seguito di frasi organate in discorso indiretto, non appena spunta il pensiero o il fatto che più importa allo scrittore, il discorso indiretto si trasforma subito in discorso diretto. E così si crea, a forza di irregolarità d'ogni genere, di anacoluti e di iperbati violenti, quel particolare stile che è sfuggito ad ogni proposito di sistemazione. Accadde al C. quello che (per avvicinare due contrarî) accadde a Francesco Guicciardini. Con la mente protesa al loro intento, tutti e due gli scrittori formano, volta per volta, come l'idea, così l'espressione. E della formazione contemporanea, leggendo i loro libri, si ha non solo la sensazione, ma la documentazione. Soltanto, il giustapporsi delle proposizioni principali, il disporsi subordinatamente delle secondarie, l'incontrarsi nelle une e nelle altre dei complementi, finisce col creare, nel Guicciardini, un organismo logico perfettamente costruito, dove il pensiero vive e persuade e piace; mentre, nel C., il tumultuoso incalzarsi dei costrutti e lo stroncarsi dei periodi, che non trovano modo di esaurirsi in una proposizione finita, dànno origine a un disordine, dove la passione s'afferma, producendo opera di bellezza. E, come non si potrebbe frazionare uno dei lunghi periodi del Guicciardini, così non si potrebbero congiungere i disordinati elementi del discorso del C., senza rovinare un'opera di poesia, che in quella forma ha trovato l'espressione adeguata. Tanto è vero che lo stesso C., quando scrisse cose diverse dalla Vita, scrisse anche in altro modo. S'intende parlare dei Trattati, che di lui ci sono pervenuti, intorno alle arti di cui faceva professione, e che sono un Trattato sull'oreficeria e uno sulla Scultura; i quali, composti fra il 1565 e il 1567 furono stampati, con dedica al card. Bernardo dei Medici, nel 1568.

Il duca aveva lasciato in disparte il suo scultore, e il C. volle ricordargli con due trattati che maestro fosse colui, al quale aveva tolto l'incarico del Nettuno, e lesinava i mezzi per fare i bassorilievi del coro del Duomo. Ciò vuol dire che anche quei trattati erano animati dallo stesso spirito di esaltazione della propria persona, che anima la Vita; ma la materia teneva a freno lo scrittore. Come i trattatisti che lo avevan preceduto e che egli conosceva, il C. non volle insegnare a creare, ma soltanto come si fa ad eseguire. Così i suoi trattati parlano del legare le gemme, dell'intagliar l'oro e l'argento, del plasmar la creta, del modellar la cera, del fondere il bronzo, dello scolpire il marmo; e ne parlano nel modo pacato che si conviene alla materia, salvo quando affiora qualche ricordo piacevole o spiacevole, o quando lo scrittore si riscalda per amor della sua professione. Quella correzione del dettato, che il Varchi non giudicò possibile per la Vita, quando il C. gliela mandò a correggere, fu possibile per i Trattati che furono infatti pubblicati dopo una revisione di Gherardo Spini, segretario del cardinale dei Medici. Di su un manoscritto tratto dall'originale celliniano e dall'autore corretto, oggi nella Marciana di Venezia, quei due trattati furono pubblicati genuinamente soltanto nel 1857 da Carlo Milanesi insieme con scritti varî Della architettura, Sopra l'arte del disegno, e della preminenza della scultura sulla pittura, discorso quest'ultimo, nato da una richiesta di parere fattagli anni prima dal Varchi, e da un discorso tenuto da un prete Tarsia nel funerale di Michelangelo; ma le differenze non dicono molto, non dicono quanto avrebbero detto, se le correzioni fossero state fatte alla Vita.

Sullo stesso argomento della Preminenza della Scultura sulla Pittura il C. compose anche dei versi, pigliandosela, per il vecchio amor di litigio, col Lasca, col Borghini, col Tarsia, con altri. Ma questi versi ed altre poesie non valgono la sua prosa, nemmeno quella dei Trattati, perché per far dei versi egli si acconciò bellamente quella giornea di cui rimboccò senza complimenti le maniche nell'atto di scrivere la Vita. Se non che egli stesso, pur non tralasciando di trascrivere qualche suo saggio di versificazione nella Vita, ebbe il buon senso di dire che valeva in poesia quel che il Vasari in pittura, poco, cioè. E nessuno pensò mai di pubblicare i suoi versi, rimasti manoscritti, finché, in tempi recenti, li stampò il Mabellini, forse mosso dal desiderio di vedere e far vedere se era giusto il giudizio dell'Alfieri, che stimò grandi le possibilità poetiche del C., per il verso veramente Celliniano: "Ché molti io passo, e chi mi passa, arrivo". Nei versi del C., c'è però una manifestazione singolare: quella d'una religiosità, che non dovette esser molto profonda, ma che appare sincera, come quella delle anime, che, incapaci di valutare i veri valori etici e religiosi, li offendono spesso per semplicità, ma credono di sopravvalutarli coi loro atti stessi. Il C., in fondo, è un gran fanciullo, appassionato per la bellezza e per l'arte, sentita da lui come "una", e con tutti gli attributi della cosa divina per eccellenza. Egli, che ne era sacerdote, che ne era martire e santo, aveva persino, a sentirlo, un'aureola di luce intorno al capo, di cui poteva fare o non far mostra a piacere. Era cotesta una ricompensa datagli da Dio, per averlo il C. servito con le sue varie abilità. E questa sua fede, mentre fa sorridere, ci fa perdonare i suoi trascorsi e ci lascia l'animo sereno per goderne i capolavori che, dopo quello letterario della Vita, lo rendono insigne fra i maggiori artisti del Rinascimento.

L'artista. - Come alla fama dello scrittore giovò non poco l'esser egli artista, così alla rinomanza dell'artista ben provvide lo scrittore con l'esaltazione d'ogni sua opera. Non è possibile seguirlo nell'entusiasmo con cui parla dei suoi lavori: nessuno, a sentir lui, lo sorpassa nel modellare una medaglia, nel comporre un gioiello, nello scolpire in marmo, nel fondere in bronzo. Non si può tuttavia credergli sulla parola né passargli per buoni tutti gli elogi che sui suoi lavori mette in bocca a pontefici, a sovrani, ad artisti, sebbene non sia dubbio che per le qualità di cui era dotato egli riuscisse ad accaparrarsi il favore delle corti e dei più autorevoli personaggi del tempo suo, che lo ebbero in considerazione appunto per la sua "bravuria". L'ambizione, lodevole del resto, che lo spingeva a fare, lo portò a voler emergere non soltanto come orefice ma soprattutto come scultore. Con la moglie di Cosimo I, che voleva da lui lavori d'oreficeria, sì schermiva dicendo che tutta Italia sapeva che egli era buon orefice, ma che l'Italia non aveva mai veduto opere di sua mano di scultura, e quindi, se lo lasciasse lavorare, smentirebbe coloro che per schernirlo lo chiamavano "scultore nuovo", ai quali sperava col Perseo mostrare "d'essere scultore vecchio". E a conferma di ciò si richiama all'autorità di Michelangelo. Il quale, dopo aver ammirato il busto di Bindo Altoviti sarebbe uscito in queste parole: "Benvenuto mio, io vi ho conosciuto tanti anni per il maggior orefice che mai ci sia stato notizia, e ora vi conoscerò per scultore simile". Il grandissimo artista torna in ballo un'altra volta per ammirare la medaglia d'oro eseguita da Benvenuto per il senese Gerolamo Maretti, e dice che "se quest'opera fosse grande o di marmo o di bronzo, condotta con quel disegno, la farebbe stupire il mondo". Parole che a detta del C. lo invogliarono a dedicarsi a "cose grandi". Ma egli interpretò troppo alla lettera il giudizio michelangiolesco e credette di divenire grandioso facendo più grandi le sue figure. Nella sua opera maggiore si dimostrò egualmente orefice che porta a proporzioni maggiori le sue figure senza riuscire a mettere in essa la grandiosità e il carattere, che non stanno nelle proporzioni ma nel sentimento plastico e nella potente espressione.

La Ninfa di Fontainebleau, che è il primo tentativo dell'orefice che vuol divenire scultore, dimostra quanto egli fosse esperto nelle piccole cose, come riuscisse a rendere l'insieme del gruppo con alto senso decorativo. Curati con particolare vivacità gli animali che circondano la ninfa, originale il partito di rompere l'arco della lunetta con le corna del cervo che s'innalzano al centro: ma la figura è troppo aggraziata, esageratamente lunga, modellata un po' superficialmente e senza flessuosa mollezza; insomma l'insieme conferma la difficoltà che egli ebbe nel dare ad essa così grandi proporzioni.

Un saggio anche più eloquente del pericolo in cui s'incorre volendo riportare in grande quello che non è nato per essere tale, ce l'offre lo stesso Perseo nei suoi diversi svolgimenti. Il Museo Nazionale di Firenze conserva il primo bozzetto in cera e la traduzione di questo in bronzo; sotto il grande arco della Loggia dei Lanzi si erge la statua nella sua traduzione definitiva. Agile e vivo e pronto alla mossa e nell'atteggiamento, il bozzetto in cera è un vero gioiello per eleganza, spontaneità e naturalezza. La bella improvvisazione, che è documento prezioso dello spirito di Benvenuto, già si raffredda nel piccolo bronzo. Perché non si è attenuto al primo modello? Egli intese che quella sua prima idea non avrebbe dato al soggetto sviluppato in grandi proporzioni la solennità ch'ei voleva presentasse; intuì le difficoltà di mantenere lo slancio impresso nella figurina, e attenuò nel piccolo bronzo la vivacità della prima concezione. Tali deficienze si accentuano nell'opera definitiva: il corpo non conserva più l'agilità giovanile, le gambe si accorciano e s'ingrossano, la figura diventa fredda e accademica. Ma se lo scultore non seppe mantenere quanto aveva promesso, l'orefice trionfò nella base in cui appare il suo gusto raffinato; ma anche qui l'esagerata eleganza, la superficie troppo frastagliata, la sovrabbondanza degli ornamenti nuocciono, oltre che alla solidità del basamento, all'equilibrio dell'opera, perché l'occhio non ha riposo e la soverchia importanza che l'artista ha dato al sostegno nuoce all'effetto dell'insieme.

Il Cristo in marmo che ora si trova al monastero dell'Escuriale è lungo, esile, con la testa male attaccata sul torso: ci vuole buona volontà per riconoscervi col Vasari "la più rara e bella scultura che si possa vedere"!

I lavori di oreficeria occupano gran parte della attività del C., ma pur troppo ben pochi sono giunti fino a noi, e molti di quelli che gli sono attribuiti non gli appartengono. È stato detto a suo merito, che egli creò un nuovo genere d'arte, che egli fu il vero restauratore dell'oreficeria, che cacciò di seggio la maniera gotica per riporvi lo stile classico antico. Ma parlare, pur nell'oreficeria, d'arte gotica a Firenze nel primo quarto del sec. XVI vuol dire dimenticare che orafi furono il Ghiberti e il Donatello, il Verrocchio e il Pollaiuolo e che da botteghe di orafi uscirono il Botticelli, il Gozzoli, il Ghirlandaio, Lorenzo di Credi, Andrea del Sarto e tanti altri. Le forme dell'arte si erano già andate modificando con il riacceso amore per l'antichità classica, né invero il C. stesso, pur esaltando esageratamente le opere proprie, ci dice mai di aver recato nulla di nuovo nello stile, ché anzi dalle sue stesse descrizioni, specie nell'introduzione al suo Trattato d'oreficeria, appare che egli seguiva le orme da altri tracciate, portandovi la grazia, la raffinatezza e l'abilità tutta propria dell'uomo di gusto. E poiché nessun saggio sicuro rimane dell'arte sua, sembra ardito affermare che "con la novità e con la originalità delle invenzioni Benvenuto vincesse coloro che gli erano stati innanzi e non fosse vinto dai venuti dopo"!

Benvenuto andato giovane a Roma si pose a lavorare coi maestri milanesi e si vide attorno uno stuolo d'orefici e incisori lombardi che gli contendevano il primato nell'arte. Ne ammazzò uno per gelosia e ne tartassò altri nella Vita, costretto però suo malgrado a confessare la loro abilità e la stima che essi godevano. Chi legga con attenzione la Vita non tarda ad accorgersi che egli ha in uggia grandissima gli orefici milanesi i quali si può dire che avessero allora a Roma il primato. Non deve egli stesso confessare che dal Caradosso "buon maestro, pur lavorando in altro modo, avesse imparato a ben fare"? E non deve riconoscere che a Parigi erano molti lavoranti i quali, come volontieri imparavano da lui, ancora a lui giovava imparare qualche cosa da loro?

L'arte dell'oreficeria, coi gusti cambiati e con le nuove tendenze, aveva mutato carattere: si era impreziosita diventando una piccola scultura: putti e mascherette decoravano vasi e bacili, putti e mascherette s'incastravano con pietre preziose nei gioielli femminili. Il C. non si può dire seguisse pedissequamente la nuova corrente, anzi egli ricorda sempre nei suoi lavori che la decorazione era "all'antica"; onde, pur mancando elementi sicuri per definire la maniera di lui, è lecito concludere che nell'oreficeria egli dovette rappresentare il felice innesto nella tradizionale maniera toscana delle forme più ricche ed esuberanti dell'arte lombarda e d'oltremonte. Conferma questi caratteri la saliera oggi a Vienna, che è una piccola scultura nella quale le figure abilmente modellate dànno però un senso di fatica per il loro instabile atteggiamento; finissima invece la decorazione della base, gustosi i particolari condotti con quel senso decorativo che gli era proprio.

Il C. orefice, in mezzo all'esuberante produzione de' maestri fiamminghi e tedeschi chiamati in Italia dai Medici a lavorare a Firenze, rimane fedele per sentimento e per educazione alle forme dell'arte nostra e segue l'indirizzo ad essa impresso dai maestri del periodo antecedente: non novatore, non precursore, dunque, ma geniale esecutore di opere, purtroppo perdute.

Anche nel far medaglie, che per la tecnica si avvicinano ai lavori d'oreficeria, il C. si vantò di eccellere sui suoi contemporanei; ma per verità non troppo favorevole riesce il paragone se alle sue si contrappongono le medaglie del Pastorino, del Grechetto o del Trezzo. Tuttavia i rovesci di quelle di Clemente VII documentano lo stile michelangiolesco di Benvenuto, come dimostra la storia di Andromeda nella base del Perseo.

V. tavv. CXCVII-CC.

Edizioni: La vita di B. C. scritta da lui medesimo, a cura di A. Cocchi, Colonia (ma Napoli) 1728; La vita nuovanente riscontrata sul Codice laurenziano, a cura di G. Guasti, Firenze 1890; La vita, testo critico con introduzione e note storiche, a cura di O. Bacci, Firenze 1900; Due trattati, uno intorno alle otto principali arti dell'oreficeria, l'altro in materia dell'arte della scultura, in Firenze 1568; I trattati, secondo l'originale dettatura del Codice Marciano, per cura di C. Milanesi; I discorsi e i ricordi intorno all'arte, le lettere e suppliche, le poesie, Firenze 1857; Le rime di B. C., pubblicate e annotate a cura di A. Mabellini, Torino 1891.

Bibl.: Per il C. esiste una ricchissima bibliografia dovuta a Sidney A. I. Churchil, e pubblicata nella Bibliofilia dell'Olschki, IX (1907-08), e un'altra, migliore della prima per quel che riguarda la sistemazione del materiale bibliografico, nell'articolo di M. H. Bernath e G. F. Hill, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, VI, Lipsia 1912, p. 276. Qualche cosa ha aggiunto, per gli scritti comparsi posteriormente, fino al 1923, l'Urbini, in un Breviario bibliografico premesso agli Scritti di B. C. scelti a illustrazione della sua vita e della sua arte (Milano 1923). A cotesti sussidî si aggiunga: G. Baretti, Frusta letteraria, Rovereto, nn. IV, VIII; O. Bacci, Il C. prosatore, in Rassegna nazionale, 16 ottobre 1896; K. Vossler, B. C.'s Stil inseiner "Vita", Halle 1899; B. Croce, sullo studio del Vossler, in Atti della R. Accademia Pontaniana, Napoli, XXXIX; R. Cortissoz, B. C. artist and writer, New York 1906; T. Parodi, La "Vita" del C., in Poesia e letteratura, Bari 1916; C. Tullio, Saggio critico sullo stile nella "Vita" di B. C., Roma 1906; E. Carrara, Per un sonetto di B. C., in Giorn. storico d. lett. ital., LXXXVIII (1926), p. 37.

Non bisogna dimenticare, per la fortuna del C. autobiografo, che esistono traduzioni della Vita in tutte le principali lingue d'Europa.

Sul C. artista v., oltre il citato articolo nel Thieme-Becker, E. Plon, B. C. Rech. sur sa vie et son oeuvre, Parigi 1883; E. Molinier, B. C. (Les artistes célèbres), Parigi 1894; I. B. Supino, L'arte di B. C. ecc., Firenze 1901; V. Torelli, Della vita e delle opere di B. C., Firenze 1903; P. de Bouchaud, B. C., Parigi 1903; M. Darvai, B. C., Budapest 1907; H. Focillon, B. C., Parigi 1911; Th. Harlor, B. C., Parigi 1924; J. v. Schlosser, Das Salzfass des B. C., in Präludien, Berlino 1927, pp. 340-56.

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Conestabile di borbone

Antichità classica

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