BERENGARIO I, duca-marchese del Friuli, re d'Italia, imperatore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BERENGARIO I, duca-marchese del Friuli, re d'Italia, imperatore

Girolamo Arnaldi

Nacque da Eberardo, conte-duca-marchese del Friuli, "vir nobilissimis Francorum natalibus oriundus" (Translatio s. Calixi Cisonium, a cura di O. Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XV, 1, Hannoverae 1887, p. 419, 39), uno dei più potenti rappresentanti dell'aristocrazia dell'Italia settentrionale, di origine transalpina, durante i regni di Lotario I e di Ludovico II, e da Gisella, figlia di Ludovico il Pio e della sua seconda moglie Giuditta, della casa sveva dei Guelfi, sorella del re della Francia occidentale, Carlo il Calvo. La data e il luogo di nascita di B. sono incerti: intorno all'850 la prima, tenuto conto delle presumibili date del matrimonio di Eberardo e Gisella (tra l'835 e l'840) e della nascita di Unroch (il secondo dei figli maschi nati da quelle nozze), e, d'altra parte, solo ad un uomo al di sotto dei trent'anni papa Giovanni VIII avrebbe ancora potuto, nell'aprile dell'878, ragionevolmente ricordare il fiore della sua bella gioventù (Iohannis VIII. papae registrum, a cura di E. Caspar, ibid., Epistolae, VII, 1, Berolini 1902, n. 69, p. 69, 38-39); tale soluzione s'accorda anche con la circostanza secondo cui, fra il 910 e il 915, B. poté contrarre un secondo matrimonio, rimasto però infecondo. Quanto al luogo, si deve pensare all'Italia settentrionale e forse proprio al Friuli, territorio su cui gli Unrochingi (da Unroch, padre, o nonno, di Eberardo) governavano da più di vent'anni, piuttosto che a una delle province transalpine, soprattutto Basso Reno e Svevia, con le quali gli stessi Unrochingi avevano persistenti legami sia patrimoniali sia sentimentali.

Nel testamento redatto da Eberardo e da Gisella nell'863-64 (Cartulaire de l'abbaye de Cysoing et de ses dépendences, a cura di I. de Coussernaker, Lille 1884, n. I, pp. 1-5) B. venne escluso dalle porzioni italiana e sveva del patrimonio familiare, toccate in blocco al fratello maggiore Unroch (il primo dei maschi, di nome Eberardo come il padre, era morto), ed ebbe invece assegnate corti che si trovavano in parte nel regno di Carlo il Calvo (nei pressi di Lilla) e in parte in quello di Lotario II (nella zona fra Liegi e Namur).

Anch'egli, dunque, come il padre, pareva inizialmente destinato ad acquistare la fisionornia di uno di quei communes fideles, che, nonostante la vicenda delle successive ripartizioni dell'impero di Carlo, rappresentavano, con la rete stessa dei loro interessi così estesi e dispersi, un residuo non trascurabile dell'infranta unità. Invece, a partire dal momento in cui, dopo la scomparsa di Unroch (verso l'874) regolarmente succeduto al padre nel governo della marca friulana, B., divenuto marchese del Friuli, emerse dall'oscurità nella quale, stando alle fonti di cui disponiamo, era trascorsa fino allora la sua, giovinezza, e poi ancora negli anni seguenti, fino all'887, si registra un suo orientamento costantemente favorevole alle pretese sull'Italia dei Carolingi della Francia orientale.

Resta così esclusa, anche per motivi di carattere esterno, la errata interpretazione di un passo oscuro dei Gesta Berengarii, dove qualcuno, per diradare le nebbie che circondano la giovinezza di B., aveva creduto di trovare documentata una sua lunga permanenza alla corte dello zio Carlo il Calvo (Gesta Berengarii, a cura di P. de Winterfeld, in Mon. Germ. Hist., Poetae Latini Medii Aevi, IV, 1, Berolini 1899, lib. I, vv. 21-23, p. 358); mentre invece è a Carlo il Grosso morente che l'autore dei Gesta attribuisce la profezia del destino regio e imperiale del suo eroe (ibid., lib. I, vv. 32-40, p. 359).

Un certo fondamento ha l'ipotesi che B., dopo la morte del padre, si fosse stabilito non lungi dalla madre, andata a vivere presso l'abbazia di Cysoing: così si spiegherebbe che egli, nell'868, a differenza di Unroch, abbia avuto assegnata, insieme coi fratelli Adalardo e Rodolfo, una porzione dei beni dotali di Gisella, dispersi per la "negligentia" di Eberardo, e da poco restituiti dal fratello Carlo, con qualcosa in più, in considerazione della sua vedovanza (Cartulaire de l'abbaye de Cysoing…, n. 3, p. 7). Già nel successivo documento di Gisella, che è dell'870 (ibid., n. 4, p. 8), B. non è più norninato. La sua venuta in Italia dovette perciò cadere fra l'868 e l'870.

La scarsità di documenti relativi all'Italia nord-orientale nel sec. IX non consente di arrivare a conclusioni precise circa l'estensione della marca friulana allorché B. ne assunse il governo, e ancora meno circa l'estensione della zona di diretta influenza che i suoi predecessori si erano assicurata di là dai confini della marca stessa. I punti relativamente chiari sono questi: la marca del Friuli nella seconda metà del sec. IX doveva essere assai più paragonabile al vecchio ducato longobardo, il primo istituito da Alboino in territorio italiano, che alla molto più estesa marca (o ducato, o contea) del Friuli del tempo dei Franchi, della quale facevano parte almeno la Carinzia e la Dalmazia, e forse anche l'Istria, e che, nell'828, in punizione della codardia di cui aveva dato prova contro i Bulgari il duca Baldrico, venne divisa in quattro "comitati ", uno dei quali, il Friuli propriamente detto, sarebbe toccato in sorte appunto ad Eberardo (intorno all'837). Questa più ridotta marca friulana aveva, come confini, ad ovest la Livenza e più a nord lo spartiacque fra il Piave e il Tagliamento, ad est il tratto fra Duino e Sistiana, a nord e a nord-est, rispettivamente, il bacino dell'alto Tagliamento e la valle dell'Isonzo.

Posti a presidio del tratto di arco alpino che lasciava aperti più valichi all'invasore (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Script. rerum Germ. in usum scholarum, Hannoverae 1878, lib. II, cap. 9, p. 91), ma per ciò stesso portati anche a trapassare facilmente dall'altra parte, i duchi-marchesi del Friuli, nel corso degli anni successivi all'828, dovettero certo riassumere una qualche funzione egemonica nei confronti delle popolazioni slave limitrofe, almeno fino a quando le dilaganti incursioni degli Ungari non imporranno loro di serrare le file e di ridursi del tutto sulla difensiva. Non sappiamo se, in questo settore di comune interesse, la politica degli Unrochingi fosse sempre coordinata con quella del ducato di Baviera o se, talvolta, non si svolgesse invece in concorrenza con essa.

In connessione certo con gli impegni derivanti dall'espletamento di una funzione di guardia armata verso oriente e con l'indubbio prestigio che gliene derivava (Andrea da Bergamo, Historia, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, pp. 226, 35-37), i duchi-marchesi del Friuli guardarono fin dall'inizio anche verso occidente: Erico, morto nel 799, aveva inglobato nei suoi domini la contea di Ceneda (oggi Vittorio Veneto); il testamento di Eberardo e di Gisella è datato "in comitatu Tarvisino in corte nostra Musiestro" - e per questo periodo non abbiamo notizia dell'esistenza di un altro conte di Treviso -; infine, negli Annales Fuldenses (a cura di F. Kurze, ibid., Script. rerum Germ. in usum schol., VII, Hannoverae 1891, Contin. Ratisbon., ad annum 896, p. 129) si racconta che, in occasione - come vedremo - della spartizione dei regno d'Italia fra Lamberto e B., quest'ultimo ebbe assegnata la parte fino all'Adda "quasi hereditario iure ": una testimonianza che, presa alla lettera, porterebbe ad allargare la zona d'influenza diretta degli Unrochingi prima dell'887 molto al di là di quello che risulta dall'insieme dei documenti di cui disponiamo (nell'ipotesi più favorevole: Ceneda, Treviso, Vicenza, Monselice); ma che, qualora si ponga invece l'accento sul "quasi ", ha pure il merito di richiamare indirettamente l'attenzione sugli strettissimi rapporti che gli Unrochingi ebbero sempre, certamente, con Brescia e dovettero avere anche con Verona, poiché non è possibile che la futura seconda capitale e residenza preferita di re Berengario non fosse già stata in qualche modo legata alle fortune della sua famiglia.

Alla morte di Ludovico II (agosto 875) B. dovette scegliere fra il candidato alla successione imperiale (e quindi al trono pavese) proposto da papa Giovanni VIII, che era Carlo il Calvo - fratello di sua madre -, e il candidato al trono pavese (e quindi alla successione imperiale), appoggiato dall'imperatrice vedova Engelberga, che era Ludovico il Germanico e, per lui, il suo primogenito Carlomanno, marchese di Carentania (fratutte le provincie della Francia la più legata al Friuli per via della contiguità territoriale e della comunanza di destino storico). La pronta decisione di B. a favore di Carlomanno è già di per sé una dimostrazione di come, nell'ambito dell'impero, fossero ormai prevalenti gli interessi e le solidarietà locali. I custodi dei limes Avaricus (o Pannonicus) tendevano naturalmente a militare nello stesso campo.

In un primo momento Ludovico mandò in avanscoperta dalla vicina Svevia il figlio minore Carlo (detto anche "Carlito ", ma più noto come Carlo il Grosso). E B. fu pronto ad accorrere in suo aiuto. Egli è anzi l'unico esponente del partito favorevole alla soluzione franco-orientale che Andrea da Bergamo ricordi esplicitamente a tale proposito, designandolo col solo nome, non seguito da intitolazioni di sorta ("Beringherio cum reliquis multitudo": Andrea da Bergamo, Historia, p. 230, 3), come si addice a un personaggio di primissimo piano, benché non fosse trascorso neppure un anno da quando era succeduto al fratello Unroch nel governo della marca friulana. Ma è probabile che Andrea scrivesse col senno di poi - di dopo l'887 -, perché, in quel settembre dell'875, accanto a B. e magari anche più in vista di lui, fra i fautori della soluzione "tedesca ", doveva esserci almeno Suppone II, conte di Parma e fratello dell'imperatrice Engelberga, il rappresentante più autorevole di una famiglia franco-salica, ricca e potente, che, nella perdurante vitalità delle sue molteplici ramificazioni, si presentava allora come la depositaria più accreditata della tradizione del regnum Italiae,quale era stato al tempo di Ludovico II.

Ai Supponidi B. era legato da un duplice vincolo di parentela: una sua zia paterna aveva sposato Suppone III, cugino di Engelberga, consiliarius e archiminister di Ludovico II; egli stesso, poco dopo la sua venuta in Italia (intorno, dunque, all'870-875), aveva sposato Bertilla, nata dal già ricordato Suppone II e da Berta, figlia di Vifredo I, conte di Piacenza. Una scelta matrimoniale che cospirava con le ragioni della geografia nello spingere B. fra le file dei fautori di Carlomanno, creando al tempo stesso una premessa indiretta della rivalità che, al momento decisivo della sua ascesa, lo avrebbe opposto ai marchesi di Spoleto: per ben tre volte, infatti, altrettanti membri della cospicua famiglia con cui si era imparentato - e, precisamente, Suppone I nell'822, Mauringo nell'824, Suppone 111 nell'871 - avevano governato su Spoleto, la città che, a partire dall'840 circa, era diventata il centro di irradiamento di un'altra famiglia transalpina immigrata in Italia: quella dei Guidoni.

Nonostante l'appoggio che dovette certamente venirgli da parte di tutto lo schieramento di forze cisalpine, che aveva il suo perno in questa alleanza familiare fra B. e i Supponidi, Carlo si diede per vinto in partenza. Infatti, giunto nei pressi di Milano e saputo che suo zio Carlo il Calvo lo aveva preceduto a Pavia, deviò rassegnato verso oriente, in direzione di Bergamo e di Brescia, territori nei quali gli armati che lo avevano accompagnato attraverso le Alpi e quelli che gli si erano aggregati in Italia diedero sfogo, con violenza e saccheggi a danno di enti monastici e di privati, alla delusione provata per l'insuccesso dell'impresa. Dopo di che "Karlito perrexit in Baioaria" (Andrea da Bergamo, Historia, p. 230, 8-9), sempre incalzato dall'esercito dello zio, che trovò modo di atteggiarsi a vindice delle popolazioni locali contro i "malefactores ".

Fra i monasteri che risultano danneggiati in tale occasione ci sorprende di trovar menzionato il bresciano "monasterium puellarum" di S. Salvatore, o S. Giulia (come è comunemente designato nelle fonti a partire dal secondo decennio del sec. X), donde, insieme con i vasi sacri, fu asportato il tesoro di Engelberga, che vi si trovava in deposito "ad ipsius precipue cenobii sustentationem" (Iohannis VIII, papae registrum,n. 41, pp. 41-42): sia i Supponidi sia gli Unrochingi avevano infatti molteplici legami con questo monastero. Limitatamente ai secondi, sappiamo - per esempio - che la zia patema di B., andata sposa a Suppone III, era stata allevata in S. Giulia; che sempre a S. Giulia Eberardo aveva affidato una figlia, di nome Gisella come la madre; che lì, infine, si trovava una figlia di Unroch, fratello e predecessore di R., della quale avremo ad occuparci più innanzi. Contraddizione, questa, fra gli orientamenti politici di chi pretendeva di esercitare il potere al livello regio (od imperiale) e i disordinati appetiti di coloro i quali quegli orientamenti sarebbero stati chiamati a far prevalere nelle cose, in cui trova espressione uno dei connotati più caratteristici dell'età del particolarismo.

è molto probabile che, nell'autunno dell'875, B. abbia appoggiato anche il successivo tentativo di Carlomanno, conclusosi pacificamente, senza che si arrivasse a un vero e proprio scontro, con una tregua fino al maggio dell'876 che il primogenito di Ludovico il Germanico e suo zio, Carlo il Calvo, negoziarono sulle rive del Brenta. Nel senso di una parte avuta in questo episodio da B. e, in genere, dai fautori cisalpini della soluzione franco-orientale, parla soprattutto il difficile percorso seguito da Carlomanno per aggirare l'ostacolo frapposto da Carlo il Calvo che lo aveva prevenuto alla chiusa dell'Adige: una deviazione che, per poter essere operata (si è pensato con buone ragioni alla Valsugana), richiese forse il consiglio e l'appoggio del marchese del Friuli.

Sicuramente documentabile è la assenza di B. (a differenza di Suppone Il, che è annoverato fra i presenti) dall'assemblea pavese del febbraio 876, nella quale fu giurata fedeltà al neo-eletto imperatore, reduce da Roma, e fu nominato "dux et missus Italiae" Bosone, conte di Vienne e fratello dell'imperatrice Richilde.

La morte di Ludovico il Germanico (agosto 876) rappresentò certo un duro colpo per i restanti oppositori italiani di Carlo il Calvo, al numero dei quali, già nel marzo seguente, sembra non appartenesse più Engelberga, che Giovanni VIII incitava a essere d'esempio, da questo punto di vista, a tutti gli altri irriducibili nemici di Carlo, che il papa non esitava a qualificare come suoi personali nemici (Iohannis VIII, papae registrum, n. 44, p. 43, 2). Che B. fosse ancora fra questi irriducibili si può arguire dalla assenza del patriarca di Aquileia, Valperto, e di tutti i suoi suffraganei (tranne i vescovi di Verona e di Como) dall'assemblea generale dei vescovi italiani che Giovanni VIII convocò a Ravenna nell'estate dell'877 per confermare solennemente l'incoronazione imperiale di Carlo il Calvo. Infatti, non essendo in corso in quel momento alcuna vertenza di carattere ecclesiastico fra Roma e Aquileia, la spiegazione più plausibile della mancata partecipazione al concilio ravennate di tutto un settore del clero italiano può essere proprio indicata nel perdurante atteggiamento di opposizione a Carlo del marchese del Friuli, sotto la cui giurisdizione temporale, o nella cui zona d'influenza, si trovavano tutti i vescovi dipendenti da Aquileia, ad eccezione del titolare della periferica diocesi di Corno, il quale non a caso si recò puntualmente a Ravenna. Quanto al vescovo di Verona, la sua presenza a Ravenna non sorprende, poiché conte e vescovo veronesi avevano preso parte anche alla dieta pavese del febbraio dell'876.

Ma, nel periodo intermedio fra l'assemblea pavese e quella ravennate, trovò posto un episodio che è stato anche interpretato come un tentativo di B. di accostarsi allo zio imperatore. All'anno 876, Incmaro riferisce che, dopo che Carlo il Calvo ebbe lasciata l'Italia, Bosone, "Berengarii, Everardi filii, factione filiam Hludowici imperatoris Hyrmengardem, quae apud eum morabatur, iniquo conludio in matrimonium sumpsit" (Annales Bertiniani, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Germ. in usum scholarum, V, Hannoverae 1883, p. 128). Tenendo presenti i rapporti che, di là dalla sempre mutevole contingenza politica, univano, da almeno una generazione, Unrochingi e Supponidi, è possibile risolvere subito, quasi con certezza, a favore di una permanenza di Ermengarda "presso Berengario" l'ambiguità di quell'" apud eum "; e non è nemmeno difficile intuire le ragioni che rendevano convenienti per Bosone queste nozze: il neo-eletto "dux et missus Italiae ", cognato dell'imperatore Carlo il Calvo, si assicurava infatti, nella persona dell'unica figlia superstite di Ludovico II e di Engelberga (in passato destinata a sposare il figlio primogenito di Basilio I), un pegno prezioso, in vista della legittimazione e del consolidamento della sua posizione in Italia, e dei possibili sviluppi di essa. Su quanto riguarda poi la natura della collaborazione prestata a Bosone da B. e, più in generale, la configurazione - diciamo così - del fatto commesso dai due nominati (ratto, con l'aggravante dell'uso di violenza, di raggiri, di minacce? oppure ratto consensuale?), il discorso ruota intorno all'interpretazione da dare a "factione" (per "iniziativa" di B., oppure - meno bene con l'aiuto della sua "fazione", oppure ancora - e forse meglio di tutto - per una sua "macchinazione") e a "iniquum colludium", gravando indirettamente sul quadro la testimonianza degli Annales Fuldenses ("qui [scilicet Boso] propria uxore veneno extincta filiam Ludovici imperatoris de Italia per vim rapuit": ad annum 878, p. 91),considerata da alcuni alla luce del veneficio di cui B. stesso si sarebbe un giorno reso colpevole a danno della propria moglie Bertilla. Ma, poiché la questione non può essere definita in sede di interpretazione letterale del testo di Incrnaro, è preferibile non attardarsi su questi dettagli di contorno e venire all'essenziale, cioè a dire, a considerare che parte possano avere avuto in questo episodio Engelberga e Carlo il Calvo, e - indipendentemente, o non, da questi intrighi dinastici - che cosa si artendesse B. dall'intervento di cui gli annali incrnariani gli fanno esplicitamente carico. Secondo alcuni studiosi, B. sarebbe stato lo strumento passivo di un disegno tramato da Engelberga e dal partito franco-orientale, che avrebbe dato i suoi frutti a distanza, nei giorni decisivi del settembre dell'877, quando Bosone abbandonò Carlo il Calvo; secondo altri, B. avrebbe offerto a Bosone la sua mediazione matrimoniale, aiutandolo poi nell'esecuzione materiale del progetto, per ingraziarsi, attraverso di lui, Carlo il Calvo, che, dopo la morte di Ludovico il Germanico, sembrava destinato a rimanere un dato permanente, con cui non si poteva dunque mancare di fare i conti, della situazione italiana. Ipotesi per ipotesi, si può piuttosto pensare che il "rapimento" di Ermengarda sia stato concertato da B. e da Bosone nell'estate-autunno dell'876, quando Carlo il Calvo era impegnato nei preparativi per l'invasione del regno franco-orientale, vacante per la morte del fratellastro, e vada visto come un tentativo di risolvere il problema italiano su basi locali - mediante una specie di condominio fra il luogotenente imperiale e il marchese del Friuli -, anticipando soluzioni che, dieci anni più tardi, sarebbero state all'ordine del giorno. Se poi davvero, come riferisce Reginone in un contesto cronologicamente incerto ed impreciso (Chronicon, a cura di F. Kurze, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Germ., Hannoverae 1890, p. 113), il matrimonio fu celebrato alla presenza dell'imperatore, con una solennità che molti giudicarono persino eccessiva, questo vorrebbe solo dire che Carlo il Calvo si ridusse rapidamente ad accettare il fatto compiuto.

Gli avvenimenti del settembre dell'877 e il capovolgimento della situazione che ne derivò (Carlo il Calvo di nuovo in Italia, accolto nel nord da Giovanni VIII, che aveva ripetutamente sollecitato il suo intervento contro Saraceni e Spoletini; improvvisa irruzione in Italia di Carlomanno; ritorno precipitoso in patria, e morte lungo il tragitto, di Carlo, che aveva aspettato invano l'arrivo dalla Francia dei "primores regni sui ", e si era visto abbandonato, per Carlomanno, da quelli dei suoi fautori cisalpini "in quorum fidelitatem maxime confidebat ": Annales Bertiniani, ad annuni 877, p. 136; Andrea da Bergamo, Historia, p. 230, 17-18) trovarono B. attestato sulle posizioni di due anni prima, con la sola differenza che ora la sua era la parte vincente. E la coerenza dimostrata nel frattempo gli valse, forse in parte, la considerazione di un avversario della statura di papa Giovanni VIII, il quale, quando, nella primavera dell'878, subì a Roma la violenza di Lamberto II di Spoleto, che proclamava di agire in nome di Carlomanno rientrato malconcio in Baviera verso la fine dell'anno precedente, si rivolse anche, fra gli altri grandi e grandissimi (Basilio I, arcivescovi di Ravenna e di Milano, patriarca di Aquileia, vescovo di Pavia, Engelberga), al marchese del Friuli, scrivendogli (Iohannis VIII. papae registrum, n. 74, pp. 69-71) una di quelle sue tipiche lettere nelle quali le richieste pressanti di aiuto si alternano ad aperte lusinghe per il destinatario e vaghe allusioni a progetti curiali che lo concernono ("nostreque ecclesie causas necessarias per vos perficere optamus": ibid., p. 70, 35).

Nel valutare le parole del papa, occorre, dunque, che si faccia anzitutto la tara dell'interessata adulazione, oltre a tenersi nel debito conto - a parziale rettifica dell'immagine di un Giovanni VIII, al quale, trovandosi in gravi difficoltà, venne subito naturale di rivolgersi anche a B. - l'accenno a una lettera del marchese del Friuli, che il papa afferma di aver ricevuto poco prima dalle mani di alcuni suoi fedeli venuti a Roma a far penitenza, un accenno che è però, a sua volta, controbilanciato dalla lusinghevole attestazione, secondo cui, anche prima di ricevere quella lettera, egli aveva spesso divisato di scrivergli. In sostanza, la richiesta che il papa rivolge ora a B., non tanto di informare Carlomanno dell'accaduto, nella speranza di un suo intervento presso Lamberto, quanto di richiamare, fermamente, all'ordine il marchese di Spoleto, implica una valutazione delle rispettive posizioni di due fra i maggiori aderenti italiani di Carlomanno che torna tutta a vantaggio di B.; mentre, accanto e più che il richiamo alla "regia prosapia" da cui discendeva (la madre Gisella), la menzione onorevolissima del padre Eberardo, il cui esempio B. mostrava già di saper seguire, e l'allusione confidenziale ed affettuosa alla sua età giovanile esprimono la disposizione della cancelleria papale a trattare la linea agnatizia degli Unrochingi alla stregua di una dinastia reale (cfr. anche Iohannis VIII. papae registrum. n. 175, p. 140, 30-31).

In un momento successivo, quando Giovanni VIII, reduce dal concilio di Troyes (agosto-settembre 878), cercherà di imporre una soluzione del problema italiano imperniata sul nome di quello stesso Bosone che B. aveva aiutato, due anni prima, a "rapire" Ermengarda, il marchese del Friuli, verso la fine dell'anno, riceverà dal papa un'altra lettera (Iohannis VIII. papae registrum, n. 122, p. 111), nella quale la venuta in Italia, insieme con lui, del genero di Engelberga era presentata nei termini più tranquillizzanti possibili (nient'altro che una scorta per il tragitto fino a Roma); mentre la comunicazione degli aspetti più audaci, e forse ancora in parte imprecisati, del piano papale era probabilmente rinviata a un incontro di persona a Pavia, il cui ordine del giorno era formulato in modo da lasciare aperte tutte le possibilità. Ma, nonostante l'insistenza del papa, B. non si presentò, tanto è vero che, poco tempo dopo, ricevette una nuova lettera, nella quale l'invito risulta ripetuto addirittura per la terza volta, con la minaccia di sanzioni canoniche se non veniva accolto (ibid. ,n. 109, pp. 101-102). Solo che, a differenza dell'altra, questa lettera non era indirizzata al solo B., bensì, insieme con lui, in forma di circolare, collettivamente a tutti gli "optimates" dell'ex regno longobardo, nell'intento che gli stessi destinatari ne favorissero la diffusione e il buon accoglimento.

Contemporaneamente, o quasi, a queste per B., dalla cancelleria papale venivano spedite tre lettere a Suppone II, dalle quali alcuni studiosi hannoricavatol'impressione che egli, e non B., fosse il più autorevole rappresentante dell'aristocrazia del regnum Italiae e il vero vicario di CarlomannoinItalia: nel luglio precedente, Giovanni VIII, che era a Troyes, incaricò Suppone, insieme con l'arcivescovo di Milano e col vescovo di Parma, di una missione di fiducia presso Carlomanno,dandogliaddirittura l'autorizzazione di leggere, prima di portarla a destinazione, una delle due lettere dirette a quest'ultimo, "ne forte aliqua dubietas animo vestro insedeat" (Iohannis VIII. papae registrum, n. 128, p. 114); in ottobre o novembre, mentre era ancora in territorio francese, Giovanni VIII invitò Suppone a venirgli incontro al Moncenisio, insieme con Engelberga, con i due prelati menzionati nella lettera precedente e con altri fedeli ed amici (ibid., n. 116, pp. 106 s.); verso la fine dell'anno Giovanni VIII indirizzò a Suppone una lettera di tenore analogo a quella spedita a B., e che la segue nel Registro (n. 122), ma con due varianti assai significative: un cenno alla mancata presentazione di Suppone all'appuntamento del Moncenisio, che è benevolmente interpretata come una manifestazione di fedeltà nei confronti del suo senior Carlomanno, e non di malvolere verso il papa; e una particolare sottolineatura del rinnovatoinvito a presentarsi al più presto: "ante alios venire satage, ut, quid cum aliis fecerimus, tecum familiariter antea terminare queamus" (ibid., n. 121, pp. 110-111).

Il proposito, che può anche apparire ozioso, di misurare il prestigio di cui godeva allora B. in confronto siadi Suppone II sia, in genere, degli altri "optimates regni Langobardorum ", acquista evidentemente un suo senso preciso in vista del particolare futuro che attendeva il marchese del Friuli, e del quale - senza anticipare i tempi - si vorrebbe cogliere fin d'ora qualche segno premonitore, pur nell'ovvia riserva che tali lettere riflettono la visione delle cose propria del papa e della cerchia dei suoi più immediati collaboratori, impegnati in una delicatissima operazione politico-diplomatica, il cui successo dipendeva in larga misura proprio dal risultato degli sforzi messi in opera per vincere le naturali perplessità degli optimates e guadagnarli alla causa di Bosone.

E', in primo luogo, chiaro che B. e Suppone II emergono nettamente dall'anonimato in cui si trovavano per ora tutti gli altri, con la sola eccezione di Lamberto II di Spoleto e, in parte, di Adalberto I di Toscana, i quali però risultano solo in funzione di "cattivi vicini ", per antonomasia, della Chiesa romana. La morte di Suppone, intorno all'882-883, eliminerà dunque dalla scena italiana quello che avrebbe potuto essere il più pericoloso concorrente di Berengario.

Intorno all'878, le due rispettive zone d'influenza di B. e di Suppone appaiono abbastanza equilibrate. Mentre, nell'aprile dell'878, trovandosi ancora a Roma (a sud), Giovanni VIII utilizza B. come tramite indiretto per Carlomanno (n. 74), in luglio, da Troyes (a ovest), preferisce far capo a Suppone (n. 128); in due diverse occasioni Suppone è associato all'arcivescovo di Milano e al vescovo di Parma (nn. 128 e 116); una certa gravitazione di Suppone intorno a centri piemontesi (Torino ed Asti), che ci è attestata da altri documenti, induce a pensare che, se solo avesse ritenuto opportuno di recarvisi, l'appuntamento al Moncenisio (nn. 116 e 121) non lo avrebbe allontanato troppo dalla zona in cui era più di casa: un insieme di indizi dai quali risulta che il preteso vicario imperiale di Carlomanno si muoveva prevalentemente nel settore centro-occidentale del'Italia padana (la cosiddetta "marca lombardo-emiliana"), senza interferire nella zona, un po' periferica, tradizionalmente riservata a Berengario. D'altra parte, in una delle lettere dirette a B. (n. 122), Giovanni VIII dice di avere avuto delle notizie rassicuranti sul suo atteggiamento dal proprio "consiliarius" Guido, conte di Camerino, fratello di quel Lamberto Il di Spoleto, che - secondo la richiesta formulata dal papa qualche mese prima - B. avrebbe avuto l'autorità di richiamare all'ordine (n. 74): come se, a tener testa ai Guidoni nell'Italia centrale, al posto di Suppone III, cugino dell'altro supponide, più volte ricordato, e del quale perdiamo le tracce in questo tomo di tempo, fosse subentrato Berengario.

Non risulta che B. abbia avuto parte attiva negli avvenimenti che, attraverso il fallimento dei progetti di Giovanni VIII per Bosone, la paralisi che colpì Carlomanno, rendendolo definitivamente incapace di regnare, e la morte di Ludovico il Balbo, portarono alla venuta in Italia di Carlo il Grosso, col beneplacito di Ludovico il Giovane, e al suo riconoscimento come re del regno cisalpino da parte di un'assemblea che si tenne a Ravenna, all'inizio dell'880, in presenza del papa. L'insuccesso di Bosone, che fu dovuto soprattutto all'ostilità degli "optimates regni Langobardorum ", in primis di B. e di Suppone II, provò che non c'era soluzione del problema italiano che potesse prescindere dal loro consenso. Inoltre, da quel momento in poi, ciascuno di essi diventava un possibile candidato alle corone del regno d'Italia e dell'impero. Superata di fatto la pregiudiziale contro i non Carolingi, fatta valere da Giovanni VIII solo qualche mese prima a danno di Lamberto di Spoleto (Iohannis VIII. papae registrum, n. 87, p. 82, 30-36), anche B. poteva sperare di riuscire, là dove Bosone aveva fallito (si noti che quest'ultimo, messe da parte le speranze italiane, si era nel frattempo fatto proclamare re di Provenza). Ma, se veniva meno il criterio della discendenza in. via maschile da Carlomagno, non era ancora venuto il momento in cui la partita si sarebbe decisa sul semplice piano della forza: in una lettera ad Ansperto, arcivescovo di Milano, Giovanni VIII ammoniva che non era il caso di pensare ad eleggere un re senza il suo consenso, "narn ipse, qui a nobis est ordinandus in imperium, a nobis primum atque potissimurn debet esse vocatus atque electus" (ibid., n. 163, p. 133, 33-34).

Due lettere del Registro di Giovanni VIII, entrambe dell'879, indirizzate l'una a B. (n. 175, pp. 140-141), l'altra al vescovo di Brescia, Antonio, e a B. (n. 241, p. 212), contengono, rispettivamente, un invito a mantenere la promessa di prestare aiuto al vescovo di Comacchio, Stefano, e la notizia dell'avvenuta scomunica del conte Liutfredo II, che aveva rapito una suora dal monastero piacentino di S. Sisto e depredato beni di proprietà di Engelberga. All'inizio di questa lettera, che è dell'ottobre, il papa afferma di avere avuto affidata da Carlomanno la "cura" del regnum Italiae: a prescindere dal valore di questa affermazione, è evidente che Giovanni VIII annoverava Antonio e B. fra i residui fedeli di Carlomanno. La parentela di B. con Liutfredo (una sorella di questi aveva sposato Unroch, il defunto fratello di B.) e la presenza di una figlia di Liutfredo nel monastero di S. Giulia basterebbero di per sé a giustificare in questo caso l'accoppiamento dei due destinatari, se non sapessimo degli stretti rapporti che univano da tempo gli Unrochingi all'ambiente bresciano.

Dopo la rinuncia di Carlomanno, B. spostò coerentemente la sua devozione sul nuovo re d'Italia, al quale del resto era stato già accanto durante la sua sfortunata spedizione italiana del settembre dell'875. La presenza del marchese del Friuli a un placito tenuto da Carlo il Grosso a Siena, nel marzo dell'881 (Iplaciti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, I, Roma 1955, in Fonti per la storia d'Italia, XCII, n. 92, p. 333, 3), sta ad indicare che egli deve averlo accompagnato a Roma quando vi fu incoronato imperatore (febbraio 881). E la missione di fiducia che Carlo gli affidò nell'estate dell'883 consente di valutare appieno il prestigio di cui B. godeva presso il nuovo sovrano, a preferenza ormai di tutti gli altri optimates dell'ex regno longobardo, in circostanze che, altre volte, avevano visto l'impiego dei Supponidi: nel giugno dell'883, dopo che, a Nonantola, Guido III di Spoleto e Camerino (che era successo nel ducato di Spoleto al fratello Lamberto II, dopo una breve parentesi di governo di Guido II, figlio di Lamberto) fu spogliato dall'imperatore, che agiva di concerto con. papa Marino I, di quello che agli occhi di un cronista contemporaneo pareva già un regno ("regnum Witonis": Annales Fuldenses, ad annum 883, p. 110), B. fu incaricato di rendere esecutiva la sentenza; un compito che, visti i favorevoli inizi dell'impresa, egli sarebbe stato forse in grado di espletare fino in fondo, se un'epidemia non si fosse abbattuta sulla spedizione friulana, mettendo provvisoriamente fuori combattimento lo stesso marchese, che fu costretto a tornare indietro. Lo scontro frontale con Guido era dunque rimandato ad un'altra occasione.

Gli anni che seguirono immediatamente la spedizione spoletina sembrano essere stati, per B., anni di raccoglimento, se non addirittura di convalescenza. In questo periodo, forte anche dell'entratura che aveva presso l'imperatore, egli dovette rafforzare ulteriormente la sua posizione nell'Italia nord-orientale: in tale senso parla un diploma del vescovo di Belluno, Aimo, sottoscritto fra gli altri anche dal patriarca Valperto di Aquileia, dal quale risulta che i canonici del capitolo bellunese, in giorni determinati, erano tenuti a pregare per le anime di Carlo il Grosso e di B., in compenso dell'azione che quest'ultimo aveva svolta per consentire il recupero di una porzione del patrimonio della Chiesa bellunese, ottenendo poi un privilegio di conferma del possesso dei beni da parte dell'imperatore (Hirsch, Die Erhebung, pp. 185-187).

Il nuovo orientamento della politica papale, che con Stefano V cercava nel vicino marchese di Spoleto, Guido, un protettore contro i Saraceni, più a portata di mano dell'imperatore tedesco, interessava di riflesso anche lo sfortunato comandante della spedizione antispoletina dell'estate dell'883, il cui improvviso ritomo sulla scena politica dell'Italia settentrionale ebbe luogo in condizioni che contrastano vivacemente con quelle in cui si era svolta l'impresa di tre anni prima. All'anno 886, gli Annales Fuldenses (Contin. Ratisbon., p.114) raccontano che, essendo sorta una discordia fra B. e Liutvardo, arcicancelliere imperiale e vescovo di Vercelli, il marchese del Friuli "mittens Vercellinam urbem expoliare ibique veniens multis rebus episcopi abreptis, prout voluit, reversus est ". La causa di questa "discordia" fu probabilmente il ratto della figlia di Unroch, fratello e predecessore di B., dal monastero bresciano di S. Giulia dove era rinchiusa, organizzato da Liutvardo e narrato dagli Annales Fuldenses, ma non nella Continuatio Ratisbonensis, bensì nella sezione di essi di cui fu autore Meginardo (ad annum 887, pp. 105 s.), e perciò del tutto indipendentemente dal racconto della spedizione punitiva condotta da B. contro Vercelli. Se, in questo caso, l'accostamento delle due notizie è, come sembra, legittimo, la spedizione contro la sede di quell'indegno presule volle certo essere anzitutto una rabbiosa vendetta privata, ma assunse anche l'aspetto di una riparazione dell'oltraggio subito da S. Giulia, il monastero così caro agli Unrochingi. Il punto però davvero importante è che questa volta B. non solo non fu l'esecutore materiale di una sentenza di condanna regolarmente pronunciata dall'imperatore, ma procedette di sua iniziativa contro l'uomo che Carlo il Grosso aveva colmato di onori e di fiducia, innalzandolo, nonostante le sue modeste origini familiari, "supra omnes, qui erant in regno suo" (ibid., p.105). L'atto di sottornissione che B., perturbatore della pace pubblica, dovette ancora rendere a Carlo il Grosso nel corso di una dieta che ebbe luogo a Waiblingen (presso Stoccarda), nel maggio dell'887, precedette di poco la caduta dell'onnipotente cancelliere, maturata in ambiente svevo senza che il marchese del Friuli vi abbia probabilmente avuto parte alcuna. Di lì a poco Carlo il Grosso sarebbe stato deposto, e la morte lo avrebbe colto nel gennaio 888. Il passo, già citato, dei Gesta Berengarii,secondo il quale l'imperatore, poco prima di morire, avrebbe designato B. come suo erede sia nel regnum Langobardorum sia nell'impero, raccoglie forse una tradizione sorta in polemica con la leggenda della visione attribuita a Carlo il Grosso, durante la quale Ludovico II gli avrebbe trasmesso l'ingiunzione di scegliere come successore nell'impero il figlio di sua figlia Ermentarda, cioè a dire Ludovico di Provenza (Visio Karoli, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, X, Hannoverae 1852, p. 458, 5556), e non ha altro fondamento storico che quel soggiomo oltr'Alpe del marchese del Friuli, nelle circostanze che si sono viste, anche se resta una prova del prestigio da cui, ancora nei primi decenni del sec. X, era circondata la tradizione carolingia almeno nell'Italia berengariana.

"Post cuius mortem (scilicet, Karoli) regna, que eius ditioni paruerant, veluti legitimo destituta herede, in partes a sua compage resolvuntur et iam non naturalem dominum prestolantur, set unumquodque de suis visceribus regem sibi creari disponit" (Reginone, Chronicon, p. 129). Riferito all'Italia, il momento di storia europea descritto sinteticamente dal cronista può essere specificato nei termini seguenti: in una data compresa fra la fine del dicembre dell'887 e l'inizio del febbraio dell'anno successivo B. fu eletto e incoronato re a Pavia.

L'incertezza in cui ci aggiriamo circa la data dell'avvento di B. è connessa con le difformità esistenti fra le indicazioni relative al computo dell'anno di regno nei suoi diplomi e nei documenti privati del tempo, e che si sono volute ingegnosamente ricondurre ai due diversi criteri che sarebbero stati usati nel determinare il giorno in cui tale regno ebbe propriamente inizio: l'uno attento al momento dell'elezione, l'altro a quello dell'incoronazione, che sarebbe seguita solo dopo un certo indugio, dovuto soprattutto all'attesa della morte di Carlo il Grosso. Forse inconsapevolmente, lo stesso Reginone, che pure vedeva in Arnolfò, figlio illegittimo di Carlomanno e successore di Carlo sul trono della Francia orientale, il "signore naturale" dei sudditi di tutti gli altri regni carolingi, dava infatti un adeguato rilievo al momento della definitiva scomparsa del sovrano (" post cuius mortem… "), che, sola, ebbe la virtù di sciogliere quell'insieme di unioni personali in cui si era incarnata, per l'ultima volta, l'idea unitaria carolingia. B., insomma, che, rispetto agli altri aspiranti reguli (Annales Fuldenses, ad annum 888, p. 116), sarebbe stato il primo a farsi avanti subito dopo il colpo di stato di Arnolfò, grazie anche alla possibilità che aveva di essere rapidamente informato di ciò che succedeva in Baviera, avrebbe poi segnato il passo per circa un mese, un po' perché sarebbero insorte delle resistenze da parte dei grandi laici ed ecclesiastici, un po' perché egli stesso si sarebbe sentito tuttora legato dalla fidelitas giurata a Carlo, col risultato di farsi forse sopravanzare almeno dal conte Rodolfo, della casa sveva dei Guelfi, che, verso la metà di gennaio, nell'abbazia di SaintMaurice, nel Vallese, fu proclamato re della Borgogna transgiurana (o Alta Borgogna). Ma questa non è che una delle spiegazioni possibili, che presenta solamente il vantaggio di essere fondata su elementi di diversa natura.

Nel gennaio dell'888, se si vuole prestar fede alla isolata e tardiva testimonianza di Liutprando (Antapodosis, a cura di J. Becker, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Germ. in usum scholarum, XLI, Hannoverae-Lipsiae 1915, lib. I, cap. 14, p. 17), dovettero anche svolgersi - ulteriore possibile spiegazione di quel supposto indugio - le trattative fra B. e Guido di Spoleto, che però, in nessun caso. poterono avere per oggetto l'amichevole ripartizione fra i due delle provincie di lingua romanza dell'ex impero carolingio, favoleggiata dal vescovo di Cremona (" … scilicet ut Wido quam Romanam dicunt Franciam, Berengarius optineret Italiam "), ma, semmai, più modestamente, il transito di Guido e dei suoi, che erano diretti in Francia, attraverso l'Italia transappenninica, nonché la salvaguardia, in assenza di Guido, dei diritti, cui egli non intendeva certo di rinunciare, sul ducato spoletano. A confutazione della notizia, riferita dallo stesso Liutprando, di una preesistente, salda amicizia che avrebbe unito i contraenti del patto suddetto, si cita, ovviamente, l'episodio dell'883, che non poteva non avere lasciato un segno in entrambi; ma va anche ricordato il fatto che, in una lettera diretta a B. nell'878, Giovanni VIII gli diceva di avere ricevuto notizie rassicuranti sul suo conto proprio da Guido. Inoltre, non è forse un caso che, fra le personalità del regno franco occidentale che sostennero Folcone di Reims nella sua politica di opposizione contro Eudi, conte di Parigi, e, quindi, molto probabilmente, in un momento precedente, anche nel tentativo, fallito, di lanciare, in concorrenza con quella di Eudi, la candidatura del suo congiunto Guido di Spoleto, una posizione di primo piano la occupasse l'abate di Saint-Bertin (Saint-Omer) e di Saint-Vaast (Arras), che era Rodolfo, fratello di Berengario.

All'immagine, letterariamente efficace, ma inattendibile, dei regni che traggono fuori dalle loro viscere i sovrani chiamati a governarli (Reginone), la storiografia più recente ha sostituito, almeno per quanto riguarda l'Italia, il cliché di una ininterrotta continuità fra prima e dopo l'888: ben lungi dall'essere stati tratti fuori dalle viscere di una nazione italiana in via di formazione, i Berengari e i Guidi sono i discendenti di quelle medesime famiglie di origine transalpina che avevano costruito le loro fortune in Italia all'ombra dei sovrani carolingi e che, al tempo stesso, avevano sempre conservato, e continuavano a conservare, stretti legami con i paesi di provenienza. B. e Guido di Spoleto, avversari irriducibili nella lotta per il trono pavese, erano, per esempio, i figli di due dei titolari di feudi italiani, rispettivamente Eberardo del Friuli e Guido I di Spoleto, protagonisti (" in prima scara sunt missi ") della spedizione nell'Italia meridionale, ordinata da Lotario I nell'847 (Capitularia regum Francorum, a cura di A. Boretius e V. Krause, in Mon. Germ. Hist., Legum sectio II, II, Hannoverae 1890-1897, n. 201, p. 67, ll. 30-32); e quanto si è detto o congetturato dei rapporti di Folcone di Reims con Guido e dell'abate Rodolfò con B. dimostra. come, secondo ogni evidenza, i legami del ramo italiano con i membri della famiglia rimasti al di là delle Alpi non fossero affatto venuti meno col tempo.

Ma il distacco che venne a poco a poco a crearsi fra il quadro ambientale in cui aveva operato Eberardo e quello in cui adesso operava B. si misura assai bene se si guarda, fra l'altro, ai rapporti che Eberardo intrattenne con molte figure di primo piano della vita culturale del suo tempo, da Rabano Mauro a Incmaro di Reims, da Sedulio Scoto, che gli dedicò alcuni componimenti poetici, ad Anastasio Bibliotecario, che nell'848 cercò rifugio presso di lui: un quadro di respiro decisamente carolingio, di fronte al quale il fatto che B. troverà un non indotto versificatore (forse il chierico veronese Giovannii, cancelliere regio dal 908 al 922, vescovo di Cremona dal 915) disposto a celebrarne le gesta può essere certo interpretato come il segno di una perdurante tradizione di mecenatismo presso. i marchesi del Friuli, ma, considerato più da vicino nella forma che ha concretamente assunto, rispecchia soprattutto la preoccupazione di legare B. agli orizzonti della porzione di ex impero carolingio sulla quale era stato chiamato a regnare (" … glomerantur in unum/Ausonii proceres ac talia nuncia regi/ire iubent: Hec terra satis terraeque coloni/ fluminaque antiquos subterlabentia muros/nota tibi. Nec te revocet fera Gallia, dgno/quin potiare solo, trux aut Gerniania ": Gesta Berengarii, lib. I, vv. 49-54, p. 360), contrapponendo i suoi eletti sudditi italiani alle "barbarae gentes" del regno transalpino di Arnolfo (ibid., glossa al v. 147 del lib. III, p. 389). Il poeta dei Gesta, che scrive dopo l'incoronazione imperiale di B. (915), riflette però la maturazione di un processo che, intorno all'888, era ancora agli inizi.

A questo punto si pone piuttosto il problema dei rapporti in cui venne a trovarsi fin dal principio il "regno, italico indipendente" nei confronti della tradizione del regnum gentis Langobardorum di prima del 774. I dati di cui disponiamo sono contraddittori: da un lato, Pavia che, per la prima volta dopo di allora (adesso possiamo dirlo con certezza), vede proclamato un re fra le sue mura; dall'altro, il ricorso al rituale franco dell'incoronazione (ibid., lib. I, v. 59, p. 360), nello svolgimento del quale l'arcivescovo Anselmo di Milano non ebbe, però, la parte preponderante che gli viene congetturalmente assegnata sulla base del precedente, ora venuto meno, dell'876, e, soprattutto, l'adozione da parte della cancelleria del nuovo sovrano di formule di superscriptio quanto mai anodine: "Berengarius rex ", "Berengarius divina favente clementia rex ", "Berengarius gratia Dei rex ", e via di questo passo. E se la questione dell'asserita continuità fra la lancia regia longobarda, il regius contus di Paolo Diacono, e la lancea sancta,appartenuta forse a B., che il conte Sansone, uno dei congiurati anti-berengariani del 921 porterà in dono a Rodolfo Il di Borgogna: nell'atto stesso - parrebbe - in cui lo invitava a venire in Italia per impossessarsi dei regno, e che poi, a sua volta, Rodolfo avrebbe donato ad Enrico I di Sassonia, è tuttora sospesa (ma prevalgono i pareri in senso contrario); è invece certo che la raffigurazione di B. con lancia e scudo, che troviamo sui sigilli, non è da mettersi in rapporto con la tradizione longobarda, ma ripete piuttosto moduli carolingi di origine addirittura tardo-antica.

Era il fatto stesso dell'avvento di un re chiamato a regnare da Pavia sulla sola Italia - "non alias raptim cupidus pervadere terras", dirà con compiacimento il poeta dei Gesta (lib. I, v. 60, p. 360) - che, come era già stato in parte ai tempi di Ludovico Il, poteva indurre, indipendentemente dalle intenzioni dei designato, a rievocare i fantasmi del passato longobardo o che, se si preferisce, offriva un terreno propizio al primo germogliare di un sentimento di appartenenza nazionale cisalpina ed italica. Ma, in una situazione incerta dal punto di vista giuridico (fin dove arrivavano i diritti di Arnolfo?), con Ludovico di Provenza, figlio di Bosone e di Ermengarda, e Carlo il Semplice, figlio postumo di Ludovico il Balbo, che, benché fanciulli, potevano vantare la prerogativa di essere gli unici discendenti diretti, rispettivamente, di Ludovico II e di Carlo il Calvo, la discendenza per via materna da Ludovico il Pio restava un prezioso punto di forza per B.: e, appunto, i diplomi usciti dalla sua cancelleria non perderanno occasione per ribadirlo (I diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1903, in Fonti per la storia d'Italia, XXXV, n. 4, p. 26, 12-13 e 20; n. 105, p. 272, 2-3 e passim), trovando un'eco amplificativa nei Gesta (lib. I, vv. 16-21, p. 258) e perfino un riflesso negli Annales Fuldenses (Contin. Ratisbon., ad annos 883 e 886, pp. 110 e 114). L'ipotesi che il ricordo di Gisella, tenuto desto da B., venisse a fornire una specie di legittimazione al nascente "regno italico indipendente ", ha inoltre un ulteriore, del tutto autonomo sviluppo nell'opinione, prospettata di recente, secondo cui la famosa "corona ferrea" sarebbe in realtà una corona femminile, appartenuta dapprima a Gisella e poi donata alla Chiesa di Monza da suo figlio B., insieme con una croce, con la quale la corona ha alcuni tratti in comune, e che una ben fondata tradizione attribuisce da sempre alla munificenza di questo sovrano.

I primi atti di B. re furono un diploma per Bobbio, il monastero di cui era stato abate Liutvardo vescovo di Vercelli, e che ora, forse a garanzia contro il ripetersi degli inconvenienti che avevano accompagnato l'abbaziato dell'arcicancelliere di Carlo il Grosso, si vedeva concesso fra l'altro il diritto d'inquisizione e una ampia immunità (I diplomi di Berengario, n. 1, pp. 3-8); un diploma per il monastero friulano di S. Maria di Sesto, che dimostra come, anche nella nuova posizione in cui era venuto a trovarsi, B. non trascurasse la base effettiva dei suo potere che era tuttora nell'Italia nord-orientale (ibid., n. 2, pp. 8-9); il rinnovo (7 maggio 888) degli accordi bilaterali che, fin dal tempo di Lotario (840), regolavano i rapporti fra Venezia e il regnum Italiae (ibid., n. 3, pp. 13-25; a p. 15, l. 8, la parola "Italicis" è certamente da espungersi: sarebbe stata, altrimenti, la prima menzione collettiva degli abitanti del regno cisalpino): nella redazione berengariana non è nuova la clausola relativa alla alleanza difensiva italo-veneta contro gli Slavi, che però doveva destare degli echi particolari nel figlio di Eberardo, mentre invece sono nuove le clausole relative al pagamento di un dazio ad valorem del 2,50 % sulle merci in arrivo da Venezia nei porti del regno (ma c'è anche chi ha sostenuto che si tratta di un'interpolazione successiva) e all'obbligo, per il ducato veneziano, di versare annualmente al fisco regio venticinque libbre di denari pavesi - un tributo che doveva essere soltanto la contropartita dei diritti d'uso di cui i Veneziani avevano goduto da sempre sulla terraferma veneto-friulana, e che ora, forse perché B., per ragioni di vicinato, era in grado di valutarne meglio l'estensione e la portata, venivano trasformati da gratuiti in onerosi -; e, infine, in una direzione tradizionale, un diploma di conferma dei beni dell'ex imperatrice Engelberga, costituenti l'enorme dote che Ludovico Il aveva destinata alla moglie (ibid., n. 4, pp. 25-27).

La pace berengariana (Gesta Berengarii, lib. 1, v. 70, p. 361) aveva però i mesi contati. Guido di Spoleto, benché avesse ottenuto di farsi proclamare re a Langres, non riuscì a prevalere contro Eudi, che poteva vantare ben altri titoli dei suoi (il 15 giugno, a Montfaucon nelle Argonne, riportava una grande vittoria sui Normanni), e Folcone di Reims si era affrettato a prenderne atto, ripiegando prontamente su altre soluzioni. A Guido non restava dunque altro da fare che ritornare in Italia, per tentare contro B. quello che non gli era riuscito in Francia. Se il momento dei rientro fu rimandato di qualche mese (fino all'autunno), ciò fu dovuto soprattutto alla necessità di reclutare sul posto degli aderenti che lo sostenessero nella nuova impresa. Tanto è vero che la sua venuta a capo di una folta schiera di seguaci potrà essere rappresentata dall'autore dei Gesta,forse interprete retrospettivo di uno stato d'animo realmente diffuso nell'Italia padana, come un'invasione di "Galli" (Gesta Berengarii, lib. I, vv. 115-116, p. 363, e lib. III, v. 10, p. 384)

Le milizie di B. e di Guido si scontrarono una prima volta nelle vicinanze di Brescia, probabilmente nella pianura a sud della città. Circa l'esito della battaglia, e la priorità o meno di essa nei confronti dell'altro fatto d'arme che, sempre con B. e Guido come protagonisti, ebbe invece luogo presso la Trebbia, le fonti forniscono dati nettamente contrastanti. Distaccandosi nella sostanza da Liutprando (Antapodosis, lib. I, capp. 18-19, pp. 18-19: prima Trebbia poi Brescia; B. due volte sconfitto), e prendendo piuttosto come base il racconto di Erchemperto (Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, cap. 82, p. 264), la versione dei fatti oggi comunemente accettata vede B. procedere da Verona verso occidente, non appena Guido ebbe attraversato le Alpi, e attestarsi in una località non lontana da Brescia, deciso a contrastare il passo ai sopravvenienti (Liutprando), obiettivo che, in effetti, riuscì a conseguire, restando, se non proprio vincitore, almeno padrone del campo dopo lo scontro (Erchemperto). Dopo una tregua durata fino all'Epifania dell'889 i due eserciti tornarono ad affrontarsi presso la Trebbia: entrambe le parti subirono ingenti perdite (B. stesso fu ferito, non si sa bene se da Alberico, futuro marchese di Camerino e Spoleto, o da Ildebrando, conte di Lucca: Gesta Berengarii, lib. II, glossa al v. 27, p. 372, e vv. 253-255, p. 382), ma il vincitore fu Guido. In seguito all'esito di questa seconda battaglia, Guido venne proclamato (non incoronato come B.) re d'Italia a Pavia (il 16 febbraio?), e B. dovette ridursi di là da una linea che correva presumibilmente lungo l'Oglio, l'Adda e il Po - in modo da lasciare Bergamo a Guido e Cremona a B. -, e che, senza essere il frutto di una vera e propria spartizione concordata, corrispondeva press'a poco - come è stato osservato - al confine fissato ai primi del sec. VII da re Agilulfo, allorché, conquistata Cremona, ne divise il territorio fra Bergamo e Brescia. Da Cremona, il 19 ag. 889, è datato il primo dei diplomi di B. successivi alla sconfitta della Trebbia (I diplomi di Berengario, n. 5, pp. 28-29).

Il saggio di poesia catalogica fornitoci dall'autore dei Gesta,con riferimento - come sembra più probabile - ai combattenti della Trebbia, rappresenta la risposta più esauriente che le fonti contemporanee offrano consapevolmente alla curiosità di chi cerchi di cogliere la reale consistenza delle forze in campo durante il "civile bellum" (Liutprando, Antapodosis,lib. 1, cap. 17, p. 18), che aveva per posta la corona d'Italia. Accompagnati ciascuno da un numero più o meno grande di armati, che il testo in molti casi precisa (ma sono cifre puramente esclamative), vengono passati in rassegna prima i fedeli di Guido (Gesta Berengarii, lib. II, vv. 13 ss., pp. 372 ss.), e poi quelli di B. (ibid., lib. II, vv. 73 ss., pp. 374 ss.). Sono, nella stragrande maggioranza - come è stato mostrato di recente in modo sistematico -, membri dei rami di casate transalpine trapiantatisi in Italia, in varie ondate successive, a partire dal 774,e poi giù giù, fino alla vigilia di quella battaglia, quando, a rinforzare le schiere di B. contro i Franchi "romanzi" importati per l'occasione da Guido, erano venuti Leutho e Bernardo con un folto seguito di cavalieri. Ma, se gli ultimi arrivati - in primis Anscario, il futuro marchese d'Ivrea - facevano spicco nel campo di Guido, dall'altra parte, ai posti d'onore, subito dopo Valfredo, conte di Verona, troviamo i "tria fulmina belli Supponide ", Adelgiso, Vifredo e Bosone (ibid., lib. II, vv. 77-83 pp. 374 s.), fratelli della moglie di B., Bertilla, e nipoti di Engelberga, per i quali l'ostilità con i Guidoni in Italia era un retaggio familiare, e che, con la loro stessa presenza a lato di B. contro Guido, contribuivano a far sì che questa guerra combattuta fra stranieri in territorio italiano potesse apparire una vera e propria guerra civile.

Tra il primo e il secondo scontro con Guido B. aveva trovato il tempo di recarsi a Trento incontro ad Arnolfo, che, ormai deciso a far valere i suoi diritti di successore di Carlo il Grosso, si affacciava minacciosamente dalla Baviera in Italia. Da parte loro, Eudi, re di Francia, e Rodolfo, re di Borgogna, avevano già riconosciuto la sua alta sovranità. Secondo il racconto degli Annales Fuldenses (Contin. Ratisbon., ad annum 888, p. 117), B. esplorò dapprima il terreno, poi, ottenute evidentemente le assicurazioni richieste, si presentò ad Arnolfo e fu da questi "clementer susceptus" (accolto come vassallo), ottenendo di conservare il regno di cui già in precedenza si era assicurato il possesso, ad esclusione delle corti di Navum e Sagum, di incerta identificazione, ma situate quasi certamente in Trentino. A questo particolare momento, probabilmente, più che al febbraio-marzo dell'894, risalgono le monete pavesi e milanesi recanti al dritto la leggenda: "Arnulfus pius rex" e al rovescio la leggenda: "Berengarius rex" (Corpus Nummorum Italicorum, IV, Roma1913, p. 473 e tav. XXXIX, 21; V, ibid. 1914, p. 34 e tav. II, 8). Ed è del 12 maggio 889 il diploma con cui Arnolfo, ad istanza di Ermengarda, confermava ad Engelberga il possesso dei suoi beni "in regno Italico consistentes".

In attesa, dunque, che a B., re d'Italia, gli elettori pavesi (soprattutto degli ecclesiastici) contrapponessero, nella persona di Guido, un secondo re d'Italia, con il pretesto che gli sconfitti della Trebbia "ut fumus evanuerunt ", lasciandoli "tamquam oves non habentes pastorem" (capitoli relativi all'elezione di Guido, in Capitularia regum Francorum, in Mon. Germ. Hist., Leffum sectio II, II, n. 222, pp. 104-106), Arnolfo approfittava della situazione d'incertezza per imporre a B. il riconoscimento di un suo "dominio eminente" sull'Italia. Il fondamento delle pretese di Arnolfo e la forma in cui vennero provvisoriamente soddisfatte (ciò che noi, con un termine dei feudisti posteriori, abbiamo chiamato "dominio eminente ") sono state oggetto di attente disamine delle quali sarà data notizia nella bibliografia. Ma, a questo punto, preme piuttosto di arrischiare uno sguardo d'insieme sul "regno italico indipendente" allo scadere del suo primo anno di vita.

Da un lato, il modo in cui avvenne l'elezione di Guido costituisce una prima verifica della nota generalizzazione in cui Liutprando ha creduto di poter individuare la costante dei settantacinque anni circa di storia italiana che vanno dall'888 al 962 (Antapodosis, lib. I, cap. 37, p. 27); dall'altro, l'ambiguità, suscettibile di pericolosi sviluppi, del rapporto in cui B. venne a trovarsi nei confronti di Arnolfo, è già una indicazione del modo in cui l'intera esperienza del "regno italico indipendente" avrebbe avuto termine, con la conseguenza che, a partire dal 961-962 o, se si preferisce, dal 1014 (morte di Arduino d'Ivrea), gli incunaboli di una nazione italiana non avranno più come punto di riferimento ideale il regnum Italiae, che si era praticamente annullato nell'impero.

Ma, se non proprio all'inizio dell'889, certamente tre anni dopo, il regno franco occidentale, che pure avrebbe avuto in futuro una sorte tanto diversa, si trovava nelle stesse identiche condizioni delregno italico. Il tentativo di Guido era fallito, ma Folcone ed altri grandi non avevano per questo abbandonato il loro atteggiamento di ostilità nei confronti di Eudi, e, in un primo momento, avevano sollecitato la venuta di Arnolfo (giugno 888), mentre poi si erano dati da fare per preparare il terreno a Carlo il Semplice, che, benché non avesse ancora compiuti i quindici anni prescritti, fu consacrato re di Francia a Reims, nel gennaio dell'893; e se Arnolfo, nell'888, non si era risolto a intervenire direttamente, nell'agosto di quello stesso anno "accolse" a Worms Eudi, che veniva a cercare la sua protezione, e, nel giugno dell'894, sempre a Worms, ebbe occasione di fare altrettanto con Carlo il Semplice. Anche qui, dunque, due sovrani l'un contro l'altro armati, ed entrambi (non uno solo dei due, come in Italia) in una situazione di dipendenza nei confronti dei re di Germania.

Lasciando per il momento da parte la questione degli sviluppi che questo rapporto potè avere in Italia, in connessione soprattutto con le iniziative della politica papale, e non avrebbe comunque potuto avere in Francia, un confronto fra le coppie Eudi-Carlo il Semplice e B.-Guido riesce di per sé istruttivo. In Francia, si trovavano di fronte un nipote di Carlo il Calvo, rappresentante accreditato dei legittimismo dinastico carolingio, e il difensore di Parigi contro i Normanni nell'885-886, tipico esponente di una di quelle dinastie locali alle quali i tempi difficili offrivano un campo illimitato di possibilità di affermazione.

In Italia, dove Ludovico II era morto senza lasciare eredi maschi e dove, soprattutto nel nord della penisola, non si erano ancora presentate delle minacce alla sicurezza e agli averi degli abitanti della portata di quelle che, con un'intensità crescente a partire dal quarto decennio del sec. IX, avevano sconvolto la vita del regno franco occidentale, né B. né Guido avevano dalla loro il prestigio della legittimità dinastica, che per ora non poteva essere altro che di marca carolingia, e, d'altra parte, non potevano nemmeno dirsi il frutto di una di quelle spietate selezioni di capacità di governo che si operano naturalmente, quando, all'interno di una comunità, diventano prevalenti le ragioni elementari della sopravvivenza fisica e della conservazione dei beni materiali ad essa necessari.

In Francia, la contesa fra i due sovrani si svolgeva - e avrebbe continuato a svolgersi - in uno spazio circoscritto, la "Francia" propriamente detta, mentre tutt'intorno andavano sorgendo e consolidandosi degli organismi politici autonomi, dotati cioè di dinastie ereditarie e capaci di attuare una propria politica nei confronti del mondo esterno: i principati territoriali (Bretagna, Aquitania, Borgogna, ecc.); e, una volta che la lotta dinastica si fu conclusa con la vittoria del robertingio Ugo Capeto, quel nucleo centrale apparirà come l'estremo ridotto del potere monarchico in Francia, ma anche, ben presto, la adeguata base territoriale di una sua possibile ripresa. In Italia, invece, gli equivalenti dei principati territoriali, cioè a dire i ducatimarchesati di origine longobardo-franca (Friuli, Spoleto, Toscana), altrettanto periferici di quelli, data la funzione iniziale di marche di frontiera, risultano già regolarmente costituiti, nella tarda età carolingia ("regnum Witonis"!), in connessione con le lotte per la successione di Ludovico II, mentre nel cuore dell'Italia padana, dell'Italia del regno, intorno a Milano e a Pavia - quest'ultima, l'unica capitale stabile dell'occidente altomedievale -, la morte di Suppone II e la conseguente dissoluzione della cosiddetta marca lombardo-emiliana vennero a creare, un lustro prima dell'888, una specie di vuoto di potenza, nel quale si inserirono prima i marchesi dei Friuli e di Spoleto e, in un secondo momento (dopo l'intermezzo provenzale-borgognone), i marchesi dell'altrettanto periferica marca d'Ivrea, istituita da Guido a guardia delle Alpi occidentali. Laddove, insomma, la storia politico-sociale non sembra fornire per ora delle spiegazioni più soddisfacenti della moralistica generalizzazione di Liutprando, la geo-politica e la storia comparata consentono almeno di intravvedere le ragioni della sconcertante inconsistenza che, fino dai travagliati inizi berengariani e guideschi, caratterizzò la breve stagione del "regno italico indipendente".

Sulla base di tre diplomi datati da Verona nell'890 (il primo dei quali è a favore di Unroch, "consanguineus" di B., non perché fratello di Bertilla, ma perché figlio di una sorella di suo padre e di Suppone III), che si riferiscono a territori a sud del Po (comitati di Parma e di Reggio Ernilia), è forse possibile ipotizzare una certa ripresa di B. nell'estate-autunno di tale anno (I diplomi di Berengario, n. 8, pp. 33-35; n. 9., pp. 35-37; n. 10, pp. 37-39). Ma dal 3 nov. 890 (data del diploma n. 10) al 9 nov. 893 (ibid., n. 11, pp. 39-41: a favore del monastero veronese di S. Zeno) perdiamo del tutto le tracce di B., mentre Guido, il 20 giugno 891, con un diploma datato da Pavia., regolava i rapporti con i Veneziani, e il 22 novembre dello stesso anno datava un diploma da Legnago, località compresa nella parte di regno che, in teoria, avrebbe dovuto essere rimasta sotto il controllo dell'ex marchese dei Friuli, o - come potremmo invece dire - dell'ex re d'Italia, se è vero che, nel testamento dettato il 5 luglio 892 dal vescovo di Parma Vibodo, si torna a parlare di "Marchia Berengarii ", in contrapposizione a "Regnum Italiae" (I. Affò, Storia di Parma, I, Parma 1792, p. 312): una testimonianza che porta ad escludere la presenza nella vita italiana del tempo di un "principio diarchico ". E, proprio al termine di tale triennio di oscuramento delle fortune di B., papa Formoso riprenderà lo spericolato gioco diplomatico, tendente a contrapporre a Guido (incoronato imperatore da Stefano V il 21 febbr. 891) e a suo figlio Lamberto (che Formoso stesso aveva associato al padre nell'impero il 30 apr. dell'892) un rivale che fosse in grado di affrontare le turbolente forze locali romano-spoletine, la cui azione, forse non direttamente ispirata da Guido e Lamberto, ma certo da loro non ostacolata, minacciava ancora una volta, corre ai tempi di Giovanni VIII, la pace di Roma e dintorni. Sulla carta, questo invocato liberatore avrebbe potuto essere anche B.: ma lo sconfitto della Trebbia, neo-vassallo del re di Germania, non poteva evidentemente vantare i titoli di prestigio sufficienti per tenere testa a un Guido che, divenuto imperatore, aveva fatto incidere sul suo sigillo il motto: "Renovatio regni Francorum ". Molto meglio, dunque, che il vassallo friulano di Arnolfo, era Arnolfo stesso. Nell'autunno dell'893, legati di Formoso, accompagnati da "primores Italici regni ", si recarono a Ratisbona da Arnolfo, per rinnovargli direttamente l'invito (Annales Fuldenses, Contin. Ratisbon., ad annum 893, p. 122). Ma poiché Liutprando (Antapodosis, lib. I, cap. 20, p. 19), sebbene in un contesto non privo di imprecisioni, attribuisce a B. l'iniziativa dell'appello ad Arnolfo, e l'autore dei Gesta (lib. III, vv. 1-44, pp. 383-385) presenta la spedizione di Sventiboldo come rivolta unicamente a sostenere B. contro la marea montante dei "Galli" di Guido, è probabile che i grandi del regno d'Italia di cui parlano gli Annales Fuldenses non fossero altro che i membri di un'ambasceria che l'ex marchese del Friuli accompagnò a quella del papa. In ogni modo, questa prima spedizione si concluse con un nulla di fatto, anche perché mancò il vantaggio delle sorpresa iniziale. Sventiboldo prese perciò la via del ritorno, e B. si unì a lui, diretto da Arnolfo.

Nei primi giorni dell'894 Arnolfo in persona attraversò le Alpi: "cui Berengarius… clipeum portat" (Liutprando, Antapodosis, lib. I, cap. 22, p. 20). Accolto dai Veronesi, il re di Germania si diresse verso Bergamo, che gli oppose una strenua resistenza, conclusasi con l'espugnazione della città e l'impiccagione del conte Ambrogio; subito dopo, le maggiori città dell'Italia padana, fra cui Milano e Pavia, gli si sottomisero di loro spontanea volontà. L'11 marzo, a Piacenza, Arnolfo datava il primo diploma con l'indicazione dell'anno di regno in Italia.

Si concludeva così la vicenda che aveva avuto inizio a Trento, nel dicembre dell'888: B. non era riuscito ad evitare che Arnolfo svolgesse fino alle estreme conseguenze le premesse implicite nell'omaggio che allora era andato a prestargli. è, difficile dire se l'esito finale discendesse direttamente dal troppo accentuato squilibrio esistente fra le forze di chi quell'omaggio aveva ricevuto e di chi lo aveva prestato (tanto più che quest'ultimo era costretto a combattere su due fronti), o se non riflettesse piuttosto il peso anche psicologico della tradizione che gravava sulle spalle nel neo-eletto re d'Italia, il quale, dal lontano autunno dell'875 al novembre dell'887, aveva costantemente appoggiato le pretese sull'Italia dei Carolingi della Francia orientale e si era poi trovato, da un momento all'altro, dinanzi a un compito che era forse più grande di lui. L'alternativa suesposta non esaurisce però le possibili spiegazioni: il quadro sarebbe infatti gravemente lacunoso se non si tenessero presenti gli obiettivi e le necessità della politica papale. Se B. non riuscì nell'intento di condizionare Arnolfo, ciò fu dovuto anche alla forza che il richiamo di Roma e della corona imperiale esercitava su di lui. E, dal momento che un invito in tal senso gli veniva insistentemente rivolto e il prescelto mostrava di essere consenziente, tornava ad essere vero quello che Giovanni VIII aveva scritto ad Ansperto: "nam ipse, qui a nobis est ordinandus in imperium ", con quel che segue (Iohannis VIII. papae registrum, n. 163, p. 133, ll. 33-34). In quest'ordine di idee, il regnum Italiae era ancora soltanto l'anticamera di Roma. Liutprando di Cremona, che mette in conto al solo B. l'iniziativa del primo e del secondo invito ad intervenire in Italia rivolto ad Arnolfo, non poteva certo mancare, scrivendo intorno al 958-960, di stabilire mentalmente delle analogie fra la coppia B.-Arnolfo e la coppia Berengario d'Ivrea-Ottone I. Il modo in cui si concluse la prima fase del regno di B. è infatti una specie di prefigurazione del destino dei regno italico indipendente, quale si sarebbe definitivamente consumato sessantotto anni più tardi.

La stanchezza dell'esercito, provato dalla campagna invernale, e forse anche la difficoltà di attraversare gli Appennini, presidiati da Adalberto II di Toscana, che si era schierato contro Arnolfo, indussero quest'ultimo a soprassedere per ora dal passo ulteriore che lo avrebbe portato fino a Roma. Il ritorno oltralpe avvenne, come attestano gli Annales Fuldenses, per una via insolita: cioè attraverso Ivrea (dove il marchese Anscario, fedele a Guido, gli oppose una valida resistenza, con l'appoggio anche di rinforzi inviatigli da Rodolfo di Borgogna) e la valle d'Aosta. Liutprando, che - come l'autore dei Gesta - fatutt'uno della prima e della seconda spedizione di Arnolfo in Italia, spiega la faticosa digressione attraverso Ivrea e il San Bernardo con l'impossibilità, in cui Arnolfo si sarebbe trovato, di passare per Verona: se questa notizia è esatta e si riferisce alla primavera dell'894, si potrebbe far risalire a questo momento la defezione di B. dal suo senior.

La morte di Guido, nel novembre dell'894, rialzò inaspettatamente le sorti di B., che riprendeva subito postesso della capitale ed il 2 dicembre ci si presenta a Milano, con accanto il "comes militiae" Ermenulfo., restaurato - si direbbe - nel pieno esercizio delle sue funzioni regie (I diplomi di Berengario, n. 13, pp. 46-48). Ma Lamberto, con l'appoggio della madre Ageltrude, ristabilì ben presto la situazione a suo favore e B. fu costretto una volta di più a ritirarsi nella marca veneto-friulana, o regno dell'Italia-Austria, secondo una designazione moderna, che ricalca la terminologia in uso nella Francia merovingica.

Nel corso dell'estate-autunno dell'895 lettere ed ambasciatori inviati da papa Formoso, che in quel momento paventava soprattutto le ingerenze dei Guidoni nell'Italia meridionale, portarono ad Arnolfo nuove pressanti sollecitazioni perché si decidesse a scendere fino a Roma. In ottobre il re di Germania si mise in cammino per la sua seconda ed ultima spedizione italiana, i cui momenti salienti sarebbero stati l'espugnazione a mano armata di Roma, l'incoronazione imperiale (22 febbr. 896) e l'improvvisa malattia con conseguente precipitoso ritorno in patria (maggio) "per vallem Tridentinarn" (Annales Fuldenses, Cont. Ratisbon., ad annum 896, p. 129). Quanto a B., procedendo a ritroso nel tempo, lo ritroviamo da ultimo alle prese con Valfredo, marchese del Friuli, che, combattendo fino all'estremo delle forze, cercò di conservare Verona nella fedeltà al neo-imperatore. Ma il 30 aprile B. era già certamente in possesso della città (I diplomi di Berengario,n. 14, pp. 48-49: è da notare che, a partire da questo diploma, il vescovo di Verona, Adalardo, non compare più come arcicancelliere, carica che ricopriva dal marzo dell'888); e, poiché Arnolfo il 27 dello stesso mese era nei pressi di Lodi e qualche giorno dopo a Milano, è da escludersi.che abbia imboccato la vallis Tridentina a monte di Verona e da ritenersi, invece, che abbia raggiunto il Brennero attraverso la Val Camonica e il passo del Tonale. Da parte sua, il figlio di Arnolfo, Ratoldo, che il padre, partendo, aveva lasciato a Milano "ad fidem Italice gentis ", rientrò in patria - sempre secondo gli Annales Fuldenses - "per lacum Cumensem ".

I dubbi cominciano soltanto quando passiamo a stabilire le circostanze nelle quali Valfredo, conte di Verona dall'876 circa, l'" heros Athesinus" e "precipuus… amicorum Berengarii" al tempo della contesa con Guido (Gesta Berengarii,lib. II, vv. 73-77 e glossa al v. 73, p. 374), menzionato come "summus consiliarius" e marchese (del Friuli? al posto di B. diventato re?) in diplomi dell'888, 889 e 890 (n. 4, p. 26, 4; n. 6, p. 29, 3-4; n. 8, p. 34, 8), venne a trovarsi nel campo opposto a quello in cui militava il suo signore ed amico di pochi anni prima; e, soprattutto, le circostanze in cui B. stesso assunse una posizione così apertamente ostile nei confronti di Arnolfo. Le due questioni sono strettamente collegate fra loro: all'anno 895, Ermanno il Contratto racconta che Arnolfo., appena arrivato in Italia, fu raggiunto da B. che, atterrito, gli restituì, facendo atto di resa, il "regnum Italiae" che aveva invaso; Arnolfo lo accolse come vassallo (" suscepit ", ma divise fra Valfredo e Maginfredo (conte di Milano e conte palatino di Guido, passato dalla parte di Arnolfo nell'894) l'Italia traspadana (Ermanno di Reichenau, Chronicon, a cura di G. H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, V, Hannoverae 1844, p. 110, ll. 49-51). è probabile che il confine fra i due settori corresse lungo il corso dell'Adda. Accogliendo alla lettera la tarda testimonianza di Ermanno (morto nel 1054), bisogna ammettere che B., ostile ad Arnolfo nel momento in cui questi venne per la seconda volta in Italia (sia che la sua aperta ribellione risalisse addirittura alla primavera dell'894, sia che il sovrano tedesco, il quale dal marzo dell'894 aveva preso a considerarsi a tutti gli effetti re d'Italia, avesse interpretato come atti indiretti di ostilità i movimenti di B. all'indomani della morte di Guido), sia stato costretto a sottomettersi e ad accettare la nuova salomonica sistemazione delle cose italiane, che escludeva entrambi i reguli cisalpini da ogni esercizio del potere. Salvo, in una seconda fase, rompere di nuovo - e questa volta definitivamente - con Arnolfo, che, nonostante la resistenza opposta dal fedele Valfredo, ebbe tagliata la strada della ritirata da B., tornato padrone di Verona con le armi in pugno.

Gli Annales Fuldenses (Contin. Ratisbon. ad annum 896, p. 127) fanno cadere la defezione di B. da Arnolfo ("…Perngarium… nepotem eius a fidelitate sua defecisse…") durante la difficile marcia di avvicinamento a Roma, e la presentano come un ulteriore elemento di sconforto per il re e per l'esercito. Poiché, sempre negli stessi annali (che a questo punto però presentano una lacuna), la defezione di B. si sarebbe materialmente concretata in un suo ritorno "in Italiam" e in maneggi tendenti a portare sulle sue stesse posizioni il marchese Adalberto II di Toscana, è opinione comune che B. abbia lasciato l'oste regia nel tratto successivo alla sosta a Luni, e dunque in territorio toscano (vedi anche Gesta Berengarii, lib. III, vv. 125-127, p. 388, e Liutprando, Antapodosis,lib.I, cap. 34, p. 26).

Rimasti padroni del campo, B. e Lamberto (quest'ultimo rientrato dalla Francia dove nel frattempo aveva trovato rifugio), ancora nell'896, raggiunsero un accordo fondato sulla spartizione del regno secondo una linea di demarcazione che, con ogni probabilità, era la stessa che Arnolfo aveva stabilito fra le "marche" di Valfredo e di Maginfredo. Le trattative ebbero luogo nei pressi di Pavia (Gesta Berengarii, lib. III, vv. 235-238, p. 392).

Con riferimento a B., gli Annales Fuldenses (Contin. Ratisbon., ad annum 896, p. 129) annotano che "regnum Italicum… usque ad flumen Adduam… contra Lantbertum in participationem recepit ". Rispetto alla situazione di dopo la battaglia della Trebbia, il confine risultava adesso spostato verso occidente, ragione per cui Bergamo rimase compresa nella zona berengariana; ma non è affatto sicuro che questo nuovo spostamento comportasse l'automatico abbandono di quella prudente e singolare pratica di datazione in cui, qualche mese prima dell'accordo fra B. e Lamberto, troviamo riflesso l'attendismo di alcuni bergamaschi contemporanei: "facta hanc comutatio post obitum bone memorie domni Caroli (scilicet, III) imperatoris, condam Ludovici regis filius, anno nono, mense aprelis" (Codex diplomaticus Langobardiae, n. 367, col. 609).

Ma l'accordo, maturato nell'euforia per l'improvviso allontanamento di Arnolfo non era destinato a durare (per i maneggi di Lamberto, si affretta a soggiungere l'autore dei Gesta,lib. III, vv. 245-247, p. 392, che mai come in questo momento è un testimone sospetto). In realtà, era la logica stessa delle rispettive posizioni a spingere in tale direzione. Da un lato, Lamberto, al quale il papato restauratore di Giovanni IX, passando sopra ogni precedente riserva, era costretto a fare tutto il credito, di cui vent'anni prima era stato ritenuto degno solamente Carlo il Calvo, e che poi, via via, con sempre minore entusiasmo, per un pronto adattarsi di Roma alle mutevoli circostanze, era stato rinnovato agli ultimi, e sempre meno solvibili, successori di Carlomagno (nel corso di un sinodo che ebbe luogo a Ravenna nella primavera dell'898, alla presenza di Giovanni IX e di Lamberto, mentre riceveva conferma la consacrazione imperiale di quest'ultimo, veniva annullata l'altra consacrazione impartita da papa Formoso, "illa vero barbarica Arnulfi, quae per surreptionem extorta est ": I. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XVIII, Venetiis 1772, col. 224, ma "Arnulfi" è solo una sicura congettura per il "Berengarii" del testo); dall'altra parte, B., che, nonostante la corona regia, tendeva per forza di cose a diventare il portabandiera di quei poteri locali contro i quali sarebbe stata rivolta l'alleanza conservatrice stipulata a Ravenna fra il papa e Lamberto (nel febbraio dell'898, sfruttando evidentemente i consensi che gli derivavano dall'evolversi di una situazione che egli stava subendo più che provocando, B. poté spingersi addirittura fino a Milano, dove, "in monasterio Sancti Ambrosii ", spedì un diploma che presenta come interveniente l'arcivescovo milanese Landolfo: I diplomi di Berengario, n. 19, pp. 58-60).

Non sappiamo se, nell' orma dei rapporti stabiliti con Adalberto di Toscana nell'inverno dell'896, B. abbia in qualche modo appoggiato il colpo di mano che Adalberto stesso e Ildebrando, conte di Lucca, tentarono contro Pavia nella tarda estate o all'inizio dell'autunno dell'898. è, certo, comunque, che a Pavia B. fu pronto ad insediarsi, non appena un evento inatteso, nella cui preparazione né B. né altri ebbero parte, cioè a dire la morte fortuita di Lamberto a Marengo (15 ott. 898), gli ebbe aperta la strada (ibid., n. 20, pp. 60-62: 6 nov. 898). Il marchese Adalberto e gli altri prigionieri catturati da Lamberto durante il fallito colpo di mano di qualche mese prima furono subito liberati (Liutprando, Antapodosis, lib. I, cap. 43, p. 31). Il marchese d'Ivrea, Anscario, il fedelissimo di Guido e di Lamberto, non tardò a comparire come interveniente in un diploma di B. (I diplomi di Berengario,n. 23, p. 70, 7): a questo stesso momento risalgono forse le nozze fra Gisella, figlia di B., e Adalberto, figlio di Anscario (Liutprando, Antapodosis, lib. III, cap. 33, p. 52), se nel 918 il loro figlio Berengario (il futuro re Berengario II) può presiedere un placito come "comes et missus discurrens" nel contado di Milano (I placiti del "Regnum Italiae ", n. 129, pp. 484-487). E, ancora prima della fine dell'anno (1° dicembre), la generosa e ampia conferma dei beni della imperatrice Ageltrude è un atto di clemenza in cui si esprimeva la sicurezza del vincitore (I diplomi di Berengario, n. 22, pp. 65-68): "Promitto ego Berengarius rex tibi Ageltrude relicta quondam Vuidoni imperatoris, quia ab hac ora et deinceps amicus tibi sum…" (ibid., p. 68: da una "notitia" in carattere librario del sec. IX, unita in seguito con cucitura al diploma). Lamberto morì senza lasciare eredi; anche suo cugino (?) Guido IV, il reggente della marca di Spoleto, era probabilmente già morto. La lunga ostilità fra Unrochingi e Guidoni si concludeva così con la vittoria dei primi anche se nessuno avrebbe potuto dire che B. se la fosse guadagnata con le sue proprie mani. Mentre invece, per una singolare tragica coincidenza che, sulla soglia dei cinquant'anni di età, costituisce il nodo centrale della carriera pubblica e della vicenda umana di B., ciò accadeva proprio nell'immediata vigilia di un mutamento radicale della situazione, che avrebbe visto abbattersi improvvisamente sul regnum Italiae quelle tali prove che fino allora gli erano state risparmiate. Se infatti le guerre combattute nell'Italia padana fra l'875 e l'898, ad eccezione forse dell'espugnazione di Bergamo nell'894, ebbero tutte il carattere di "affari signorili" o di manovre coi quadri, le "guerre" che si sarebbero combattute contro gli invasori Ungari, sarebbero state di natura tale da coinvolgere l'intera popolazione delle città e delle campagne, cosicché al sovrano non si sarebbe più chiesto soltanto che fornisse, coll'indicazione degli anni di regno, un punto di riferimento, necessario ma fungibile, per la datazione dei documenti, bensì, soprattutto, che allontanasse, con l'efficacia di un potere concretamente esercitato, la gravissima minaccia incombente sulla vita e sugli averi dei sudditi. A meno di un anno dalla morte di Lamberto, pochi mesi prima della definitiva scomparsa di Arnolfo (8 dic. 899), quando ormai anche il papa cominciava a poggiare lo sguardo su di lui promovendolo improvvisamente a "figlio prediletto" (lettera di Giovanni IX inviata nel maggio 899 al clero e al popolo di Langres, in Migne, Patr. Lat.,CXXXI, col. 30: anche Anscario d'Ivrea è però ivi menzionato dal papa come "dilectus filius noster"): sopraggiungeva, insomma, per B. l'ora della verità.

In teoria, l'improvvisa minaccia, per il punto dell'orizzonte dal quale proveniva, non trovava B. del tutto impreparato a fronteggiarla. Gli Ungari avrebbero imparato ben presto come era agevole percorrere a ritroso, dal Danubio alla confluenza del Vipacco con l'Isonzo, nei pressi di Gradisca, quel prolungamento dell'antica via Postumia (nei secoli a venire "strata Hungarorum"), che rappresentava uno dei tanti comodi ingressi che questo settore di arco alpino lasciava aperti all'invasore. Ma la marca di Erico e di Eberardo, la marca friulana che, dall'874 circa, costituiva la base del potere di B., era sorta appunto con la funzione di presidiare quel mai guarnito confine orientale. Anche se, nell'887-88, non fosse diventato re d'Italia, il marchese del Friuli non avrebbe dunque potuto sottrarsi alla terribile prova dell'estate dell'899: è però probabile che, al livello di un semplice potere locale, egli sarebbe stato meglio in grado di superarla, se non forse per la sostanza dei risultati praticamente conseguibili, per quanto almeno concerneva la tutela del suo prestigio personale di capo.

Secondo la testimonianza del solo Liutprando (Antapodosis, lib. II, cap. 7, pp. 41-42), che però in questo caso concorderebbe con ciò che sappiamo delle abitudini degli Ungari, già nell'898 una assai folta schiera di questi si sarebbe spinta fino al Brenta e di lì, invece di procedere, avrebbe distaccato degli esploratori. Nel marzo o, più probabilmente, nell'agosto dell'anno seguente, essi tornarono in un numero assai maggiore e, attraverso Aquileia e Verona, raggiunsero Pavia, senza incontrare resistenza. Sempre secondo Liutprando, B., che fino a quel momento non conosceva gli invasori nemmeno per nome, si affrettò allora a raccogliere un grande esercito, che non fu reclutato solo nell'Italia settentrionale, ma anche nei ducati nell'Italia centrale (ibid., lib. II, cap. 8, p. 42; "Itali" sono gli abitanti della pianura del Po). Spaventati dall'entità delle forze messe in campo dall'avversario, gli Ungari decisero di ritirarsi; ciò che fecero, incalzati da B., che li costrinse a riattraversare l'Adda in grande fretta e disordine.

L'accenno di Liutprando ai Tusci, Volsci (?), Camertini e Spoletini ha fatto pensare a una presenza di B. nell'Italia centrale, nella primavera-estate dell'899, e a un suo rientro al nord, con un esercito prevalentemente tosco-spoletino, lungo la via che, attraverso gli Appennini, metteva capo a Parma e poi a Piacenza: l'attraversamento del Po in prossimità di quest'ultima città avrebbe indotto gli Ungari a ritornare sui loro passi, per scongiurare la minaccia di un accerchiamento. Ma né le fonti narrative (Liutprando), né i diplomi né i placiti, quelli almeno che si sono conservati, danno alcun sostegno positivo a tale tesi. Di un interessamento per l'Italia transappenninica, nuovo in B. - ma che è tutt'altra cosa della sua presenza fisica in quelle regioni -, consente di parlare il diploma per la Chiesa di Firenze, datato il 25 aprile da Pavia (I diplomi di Berengario, n. 28, pp. 83-85; ma vedine una migliore edizione, a cura di R. Piattoli, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo, L [1935], pp. 63-67). A riprova di una vera e propria presenza a Roma, nel maggio, del re d'Italia, potrebbe essere citato., semmai, l'accenno contenuto nella lettera di Giovanni IX. Ma il punto davvero importante è, a nostro avviso, un altro. Mentre, sulla scorta del racconto di Liutprando, B., almeno in questa prima fase, dà l'impressione di essere abbastanza in grado di controllare la situazione italiana nel suo complesso, sorprende invece che, proprio in un'occasione come questa, risulti inesistente quel collegamento politico-militare fra Pavia e Cividale (o Verona), di cui i precedenti del re d'Italia avrebbero indotto a postulare l'esistenza. Nell'899 gli Ungari colgono di sorpresa B., nonostante la puntata ammonitrice dell'anno precedente, e possono spingersi, devastando e razziando, fin sotto le mura di Pavia, "nullis resistentibus". Come se, dopo la morte di Valfredo, la marca del Friuli si fosse dissolta.

Il rifiuto opposto da B. a un compromesso offerto dagli Ungari subito dopo il passaggio dell'Adda (via libera per la ritirata in cambio della restituzione del bottino) spiace al vescovo di Cremona, che, in genere, rimprovera al re d'Italia una eccessiva, empia fiducia nelle forze di cui disponeva (Liutprando, Antapodosis, lib. II, capp. 10-11, pp. 42-43): ma questa nota di biasimo sa troppo di moralismo, perché se ne possa trarre un elemento caratterizzante della psicologia del sovrano. Segue uno scontro nei pressi di Verona, che vede impegnata, e sconfitta, la sola avanguardia degli inseguitori, finché il grosso non sopraggiunse a ristabilire la situazione. Una volta che gli eserciti furono accampati l'uno di fronte all'altro sulle rive del Brenta, i "pagani" rinnovarono le offerte di pace, aumentando il prezzo che si dicevano disposti a pagare (consegna di prigionieri, armi, cavalli, solenne promessa di non rimettere mai più piede in Italia, con adeguata garanzia di ostaggi). Ma B. rifiuta ancora, e l'assalto che gli Ungari, combattendo con la forza della disperazione, portano al di là del fiume (24 sett. 899), mette lo scompiglio nel campo dei "christiani" in disarmo. A questo punto, la "discordia" latente nell'esercito reclutato da B. diventa manifesta, e in molti degli assaliti il pensiero dominante è ormai l'auspicata morte dei compagno d'armi inviso. Comincia allora il rapido disordinato riflusso verso occidente, con I regnicoli che fuggono e gli Ungari che li incalzano. Senza che una forza organizzata li ostacoli ormai nei loro movimenti, questi ultimi "omnia… regni loca saeviendo percurrunt ". A partire da questo momento, nessuno potrà più dirsi al sicuro, se non "munitissimis… in locis (ibid., lib. II, capp. 11-15, pp. 43-45).

Secondo Liutprando, quindi, che scrive all'incirca sessant'anni dopo i fatti, si sarebbe evitato, dopo di allora, per quanto possibile, di affrontare gli Ungari in campo aperto: in questo senso si regolò per il primo B., il quale, durante l'anno circa che sarebbe ancora durata la permanenza degli Ungari in Italia, preferi starsene rinchiuso fra le mura di Pavia (I diplomidi Berengario, n. 30, pp. 88-92: Pavia, 11 marzo 900; n. 31, pp. 93-95: Pavia, 24 maggio 900; n. 32, pp. 96-98: Pavia, 7 giugno 900). La battaglia navale, affrontata e vinta dal doge Pietro Tribuno contro gli Ungari, che minacciavano Rialto e Malamocco "cum pelliciis navibus" (29 giugno 900), rientra, infatti, piuttosto nel novero delle controffensive circoscritte e limitate, che erano alla portata dei soli poteri locali; ma i portavoce di questi non avrebbero mancato, in seguito, di sottolineare ad arte le differenze di comportamento fra il doge, per esempio, ed il re: "Petrus dux navali exercitu… predictos Ungros de Italia recedere fecit cum onini preda quam ceperant" (Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di G. Monticolo, I, Roma 1890, in Fonti per la storia d'Italia, IX, pp. 130-131).

La "discordia", esplosa - secondo Liutprando - fra le file dell'esercito di B., mentre la battaglia del Brenta era in pieno svolgimento, rappresentò la pronta reazione dei vecchi protagonisti della lotta fra Unrochingi e Guidoni, posti di fronte al nuovo stimolo esterno e all'insperata occasione di sommovimenti interni che esso forniva. E, naturalmente, quelle prime, vistose manifestazioni di irrequietezza avrebbero avuto ben presto il loro adeguato sviluppo. Non più tardi dell'estate del 900 un gruppo di "grandi" italiani, alla cui testa troviamo i marchesi Adalberto e Berta di Toscana, ma dietro al quale stava certamente anche papa Benedetto IV riuscì infatti a concretare in una iniziativa precisa il diffuso malcontento contro il sovrano sconfitto e, perquanto era dato di vedere, rassegnato alla sconfitta, e avviò così trattative con Ludovico re di Provenza, il figlio non ancora venticinquenne di Bosone e di Ermengarda, fresco sposo (o sposo promesso) di una figlia del basileus Leone VI, offrendogli il regno d'Italia e la corona imperiale (la Visio Karoli, se non redatta addirittura in questo momento, venne rispolverata per l'occasione). Ludovico accettò l'invito e, senza colpo ferire, fu eletto re a Pavia, il 5 (?) ott. 900, e incoronato imperatore a Roma, il 22 (?) febbr. 901. Il primo diploma di B., dopo quello datato il 7 giugno 900 da Pavia, è a favore della Chiesa di Aquileia e porta la data: Trieste, 10 nov. 900 (n. 33, pp. 98-100). Ancora una volta B. era stato costretto a cercare rifugio nella marca friulana.

Un inventario molto lacunoso dei guasti operati dagli Ungari durante l'anno e passa, in cui percorsero "omnia… regni loca saeviendo ", possiamo costruirlo retrospettivamente sulla base dei diplomi di B. degli anni successivi: "providentes eiusdem ecclesiae (scilicet, Regiensis) necessitates vel depredationes atque incendia, quae a ferocissima gente Hungrorum passa est" (I diplomi di Berengario, n. 42, p. 123, ll. 13-15); "ut ei (scilicet, Anselmo comiti Veronensi) terras et predium in Rovescello prope et longe una cum capella, que in honore beati Zenonis ante irruptionem Paganorum in eodem loco constructa erat, concedere dignaremur" (ibid.,n. 72, p. 195, ll. 8-13); "quia olim peccatis exigentibus sancta Pataviensis ecclesia incendio flammata nec non et depredatione Paganorum frustrata est omnibus instrumentis cartarum concessionibus atque preceptis nostrorum antecessorum" (ibid., n. 82, p. 221, ll. 3-6), ecc. E poiché, nella maggior parte dei casi, non si trattava soltanto di rinnovare la documentazione perduta del possesso di beni tuttora esistenti, ma di reintegrare al tempo stesso possessi andati distrutti o dispersi, B. accentuò col nuovo secolo quella disposizione alla prodigalità, che già in precedenza lo aveva distinto dai Guidoni, i quali si erano in complesso rivelati migliori custodi del fisco regio. Le provvidenze adottate da B. a favore dei danneggiati non rispecchiano però, come è naturale, l'ordine in cui i danni stessi erano stati arrecati: e lo sforzo di ricostruire con sufficiente esattezza - sulla base delle indicazioni offerte dai diplomi e dalle altre fonti scritte, nonché dei toponimi, che, numerosi, attestano la sedimentazione del terrore dei contemporanei - le tappe del rovinoso percorso degli Ungari, prima e dopo la giornata del Brenta, e di distinguere le tracce lasciate da quella prima e più disastrosa spedizione dalle tracce delle spedizioni che si susseguirono negli anni successivi, non ha sempre portato a risultati definitivi, proprio perché, a un certo punto, viene a mancare il filo conduttore degli spostamenti di un esercito regio che contrastasse il passo all'invasore.

A conclusione dei suo racconto della battaglia del Brenta, Liutprando scriverà che, da allora in poi, ci si ridusse ad attendere la venuta degli Ungari al riparo di "munitissimi loci" (cfr. anche Antapodosis, lib. II, cap. 5, p. 39 e cap. 43, p. 57). Anche qui il cronista mette in evidenza, con la solita prospettiva cronologica leggermente deformata, un aspetto essenziale della storia di questo periodo, che costituì la contropartita della rinuncia a combattere in campo aperto. Il regnum Italiae, con le sue numerose città circondate da antiche cinte di mura, offriva un terreno naturalmente predisposto all'adozione di una simile tattica difensiva, che per altro non fu caratteristica della sola Italia. Ma, anche dove le mura esistevano già, si ponevano problemi di manutenzione e di riattamento. Inoltre, il solo reticolo delle città murate non era abbastanza fitto per offrire un pronto rifugio, in caso di allarme improvviso, ai lavoratori dei campi: occorse perciò integrarlo con la creazione di "munitissimi loci" nuovi, i castelli. Strutturalmente incapace di provvedere direttamente all'esecuzione di quest'insieme imponente di opere, che erano, a loro volta, il surrogato della non più praticata difesa attiva, la corona si limitava a intervenire fornendo, caso per caso, il consenso a che, in deroga ai diritti del fisco, città, enti ecclesiastici, privati cittadini eseguissero le opere che erano ritenute localmente necessarie.

Così, per esempio, il 7 dic. 898, alla vigilia della tempesta, B., ripercorrendo le linee di un analogo diploma emanato da Lamberto il 30 settembre, elargiva alla Chiesa di Modena la conferma di una serie di diritti, fra i quali, oltre all'esazione di censi spettanti al fisco, acquista particolare rilievo l'autorizzazione a "fossata cavare, …portas erigere, et super unum miliarium in circuitu eciesiae civitatis circumquaque firmare ad salvandam et muniendam ipsam sanctam eclesiam" (I diplomi di Berengario, n. 24, pp. 72-74); mentre il 14 giugno 904, quando era ancora dolorosamente vivo il ricordo di ciò che era accaduto nel frattempo, e poteva ancora ripetersi da un momento all'altro, B. confermava alla stessa Chiesa un castello presso la città Nova, costruito dal vescovo Goffredo e da lui donato alla Chiesa (ibid.,n. 46, pp. 132-134); e il 23 dello stesso mese, essendo stato informato del fatto che le mura di Bergamo, che erano state distrutte in occasione di una "hostilis quaedam inpugnatio" (si intenda: Arnolfo nell'894), non erano state ancora ricostruite, e la città si trovava quindi esposta senza difesa alla minaccia sempre incombente degli Ungari, B. concedeva al vescovo, ai cittadini e ai rifugiati di Bergamo il permesso di ricostruire torri e mura e, nell'atto stesso di confermare il possesso di tutti i beni della Chiesa bergamasca, aggiungeva ad essi, ad eguale titolo, "districta… ipsius civitatis omnia quae ad rei publice pertinent potestatem" (ibid., n. 47, pp. 134-139).

Ma le città, che occorreva mettere in grado di provvedere da sé alla propria difesa, erano solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante, di un problema che interessava l'intero territorio del regno. Così, per esempio, il 24 ag. 906, B. autorizzava il diacono veronese Audeberto a costruire un castello a Nogara, sul Tartaro, permettendogli anche - poiché, evidentemente, la vita, nonostante i pericoli corsi e da correre, continuava - di creare un mercato, intorno e dentro a detto castello, e di tenere per sé i cespiti, di natura pubblica, ricavabili dalla gestione di esso (ibid., n. 65, pp. 176-178); e il 25 marzo 912, come se fosse ormai diventato impossibile tener dietro alle varie richieste con provvedimenti specifici, il vescovo di Padova si vedeva concesso da B. il diritto di costruire castelli "infra suum episcopatum ubicumque" (ibid., n. 82, pp. 220-222). In molti casi, per un tipico gonfiamento del formulario cancelleresco, si tendeva anche a precisare, come in un vero e proprio capitolato, le caratteristiche dell'erigendo edificio (" castellum… cum oninibus instrumentis que ad idem castellum necessaria noscuntur, videlicet merulos, fossata, bertiscas atque spizatas ": ibid., n. 94, p. 249, ll. 6-9); ma un indizio preciso dello sconvolgimento che questo diffuso fenomeno arrecò al paesaggio, in senso lato, delle nostre carnpagne, lo ricaviamo soprattutto dai diplomi nei quali, in rapporto con la costruzione di qualcuno di questi castelli, si autorizzava il destinatario ad apportare modifiche al tracciato di vie pubbliche (ibid., n. 96, pp. 253-254, e n. 110, pp. 281-282). Se concessioni del genere di quelle fatte da B. ai vescovi di Modena e di Bergamo si inserivano naturalmente nel processo che vedeva attribuiti sempre maggiori poteri ai vescovi all'interno delle città, secondo una tendenza che era già evidente in piena età carolingia, le concessioni di estese immunità, che andavano normalmente connesse al diritto di incastellamento, avviavano la trasformazione di quelli che, in origine, erano solo dei luoghi di rifugio in altrettanti centri politico-amministrativi di nuovi distretti territoriali, facendo precipitare per un altro verso la crisi delle giurisdizioni comitali, la cui integrità veniva così minata sia nel centro cittadino sia alla periferia. Di questa continua erosione dei diritti della corona e dell'impalcatura amministrativa del regno, ancor più - se possibile - che dell'inattività militare dopo la sconfitta del settembre 899, sisuole far colpa a B., nell'atto stesso che, a partire da questa stessa inunagine negativa, si ottiene la immagine positiva degli inizi della nuova Italia delle autonorme cittadine e - punto sul quale ha richiamato l'attenzione l'indagine più recente - delle circoscrizioni feudali minori. Ma questo procedimento è alquanto semplicistico e di là da ogni meccanica, artificiosa contrapposizione di vecchio e di nuovo ed estendendo il discorso dal piano delle strutture a quello più comprensivo della storia etico-politica, si vorrebbe per così dire che i Gesta Berengarii e il canto delle scolte modenesi fossero finalmente riguardati come due testimonianze complementari, e non escludentesi a vicenda, di un unico momento di storia italiana.

Su questo sfondo continuava a svolgersi intanto, con tempi sempre più stretti, l'alterna vicenda delle fortune di Berengario. Nella primavera-estate del 902 la prima fase del regno italiano di Ludovico di Provenza aveva avuto termine, dopo ventidue mesi circa, con la stessa sorprendente rapidità con la quale era incominciata: il 17 luglio B. era di nuovo a Pavia (I diplomi di Berengario, n. 35, pp. 102-104), mentre Ludovico, abbandonato il paese, si impegnava con un giuramento a non ritentare la prova. E, per tre anni, a partire da questo momento, B. poté regnare indisturbato. Ma il 4 giugno 905 a Pavia risulta esserci nuovamente Ludovico e, questa volta, a differenza di ciò che era accaduto in altre occasioni, anche Verona, con alla testa il suo vescovo Adalardo, abbandonò B., che, dopo essersi spinto, dal Veneto dove si trovava, fino a Corteolona (ibid., n. 55, pp. 155-158: 17 giugno), forse anche perché sofferente di febbre quartana, fu costretto a ripiegare verso settentrione, addirittura - come vorrebbe Reginone (Chronicon, ad annum 905, p. 150), ma non sembra che egli ne abbia avuto materialmente il tempo - fino in Baviera. Si sparse la notizia che fosse morto (Gesta Berengarii, lib. IV, vv. 38-39, p. 396). In realtà, puntando sulla scarsa preveggenza del suo rivale, che si era installato a Verona con il solo presidio di una scorta insufficiente, e mettendo a frutto le aderenze che non potevano non essergli rimaste all'interno di una città che in passato gli era stata così a lungo fedele, nonché, forse, antichi e mai dismessi legami transalpini (Annales Alamannici, a cura di G. H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, I, Hannoverae 1826, ad annum 902, p. 54), B. stava preparando una pronta riscossa, che ebbe luogo già il 21 luglio o, al più tardi, il 1° agosto, in una forma che non avrebbe mancato di colpire la fantasia dei contemporanei (Gesta Berengarii, lib. IV, vv. 32-69, pp. 396-397; Liutprando, Antapodosis, lib. II, capp. 39-41, pp. 55-56): entrato nottetempo in città, B. raggiunse attraverso il Ponte Pietra (il "pons marmoreus" dell'iconografia rateriana) la riva sinistra dell'Adige, dove, all'alba, Ludovico, colto di sorpresa, fu tratto fuori dal nascondiglio, in cui aveva cercato scampo (in quella stessa chiesa di S. Pietro che sarà fatale anche a B.), ed accecato, poiché questa era la pena riservata agli spergiuri. Una serie compatta di sette diplorni a favore di Veronesi, datati da Torri e da Peschiera (lago di Garda) fra il 31 luglio e il 2 agosto, aggiunge indirettamente verosomiglianza al racconto di Liutprando (Idiplomi di Berengario, pp. 158-172).

Le frequenti oscillazioni che si riscontrano nella datazione dei documenti toscani di questo periodo (anni di regno di B., anni di regno di Ludovico, anno dell'incarnazione) consentono di registrare con sufficiente approssimazione i successivi mutamenti di fronte di Adalberto di Toscana, che le fonti narrative sono concordi nel presentare come l'ago della bilancia italiana. Più incerti sono invece gli spostamenti da un campo all'altro del genero di B., Adalberto d'Ivrea. E l'omonimia fra i due, per la possibilità di confusione che ne discende, interviene a rendere controversa l'interpretazione di due passi, rispettivamente, di Liutprando (Antapodosis, lib. II, cap. 35, pp. 53-54) e dei Gesta Berengarii (lib. IV, vv. 76-79, p. 397), che accennano entrambi al passaggio di un Adalberto dalla fedeltà di Ludovico alla fedeltà di B., nei momenti finali delle due spedizioni dei sovrano provenzale. Né si può asserire con certezza che nuove incursioni degli Ungari, nel 901 e nel 904, abbiano in parte determinato, come reazione all'atteggiamento passivo tenuto dal sovrano prevalente in ciascuno dei due momenti, la prima cacciata di Ludovico e il suo ritorno di tre anni dopo. Per quanto si riferisce poi all'incursione del 904, che B. avrebbe scongiurata, ma solo scegliendo la strada poco onorevole e, al tempo stesso, molto onerosa, di venire a patti con l'invasore, non è nemmeno certo che abbia avuto veramente luogo (il "nunc maxime sevorum Ungrorum incursione et ingenti comitum suorumque ministrorum, oppressione turbatur" del diploma del 23 giugno 904 per Bergamo parrebbe alludere, piuttosto che a una minaccia in atto, a una persistente situazione di pericolo). è sicuro però che, a partire da questo momento, per circa quindici anni (fino al 919), gli Ungari non tornarono più in Italia e, poiché, sia Liutprando (Antapodosis, lib. II, cap. 42, p. 56) sia Giovanni Diacono (Cronaca venezìana, pp.130-131) accennano a trattative condotte con essi da B., acquista consistenza l'ipotesi di una tregua comperata dal re d'Italia. Il patriarca Federico di Aquileia avrebbe interposto i suoi buoni uffici (vedi i due versi del suo epitaffìo riportati dal Paschini, Le vicende politiche e religiose, p. 72). Da parte sua, il passo di Liutprando (" verum quia Berengarius firmiter suos milites habere non poterat, amicos sibi Hungarios non mediocriter fecerat ") sta ad indicare che gli Ungari, se potevano costituire la causa indiretta dell'abbandono di un sovrano da parte dei suoi fedeli, potevano anche servire a rimpiazzare i fedeli venuti meno.

Dopo il fallimento della seconda spedizione di Ludovico III, B. ebbe tre lustri di relativa tranquillità: di fronte ai tre arcicancellieri (Liutardo, Vitale, Garibaldo) che si susseguono nel solo triennio 900-902, la lunga durata della carica di Ardingo, vescovo di Brescia e fratello della regina Bertilla, che appare menzionato come arcicancelliere dal 5 febbr. 903 al 25 marzo 922 (I diplomidi Berengario, n. 39, p. 115, 9-10., e n. 137, p. 354, 6-7), è di per sé indice di una certa stabilità.

Neutralizzati gli Ungari mediante la tregua negoziata con essi, sicuro il confine settentrionale per l'impossibilità di intervenire in Italia in cui si trovarono Ludovico il Fanciullo prima e Corrado di Franconia poi, le difficoltà potevano ancora nascere da parte del solo confine occidentale; e non tanto da un ritorno offensivo dell'imperatore, che la cecità aveva ridotto all'impotenza, quanto dall'insorgere in quell'ambiente di nuovi pretendenti, suscitati dall'influenza che vi conservavano i marchesi di Toscana. Uno strascico della parentesi italiana di Ludovìco, più che un preludio di ciò che sarebbe accaduto nel 926, fu, in realtà, il tentativo di impadronirsi del regno d'Italia che ebbe per protagonista Ugo, conte di Vienne, "Berengarii… regis tempore" (Liutprando, Antapodosis, lib. III, cap. 12, p. 79), più precisamente, come sembra ormai assodato, nel 907. Ma Ugo, che era figlio di primo letto della marchesa Berta di Toscana e fungeva da reggente del regno di Provenza in luogo di Ludovico praticamente esautorato, fu subito messo in fuga da B., benché - sempre secondo Liutprando - si fosse mosso con un seguito adeguato.

Fra la fine del 905 (dopo la conclusione, cioè, della spedizione di Ludovico di Provenza) e il giugno 911 (morte di papa Sergio III) si aprì per B. la prospettiva, che finora gli era stata del tutto preclusa, della corona imperiale. In assenza di annali italiani contemporanei (i Gesta Berengarii sono un poema epico; Liutprando scrive più tardi e la sua Antapodosis non ha certo un impianto annalistico), con gli annali transalpini che hanno ormai definitivamente ristretto il loro orizzonte geografico al solo regno in cui venivano redatti: sette lettere non datate delle otto, che contiene il cosiddetto rotolo opistografo di Antonio Pio di Savoia (S. Loewenfeld, Acht Briefe aus der Zeit König Berengars gedrucht und erlaütert, in Ceriani-Porro, Il rotolo opistografo del principe Antonio Pio di Savoia, in Neues Archiv, IX[1883], pp. 515-539), offrono dei vari momenti di quella complessa vicenda diplomatica una testimonianza diretta e circostanziata. Al centro delle trattative che avrebbero dovuto portare all'incoronazione imperiale di B. risulta esser stato l'arcivescovo Giovanni di Ravenna, il futuro papa Giovanni X, che è l'autore di sei delle sette lettere (la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, l'ottava) e che non sembra agisse di propria iniziativa, ma, che almeno in una determinata fase, funse certo da tramite fra B. e papa Sergio III, autore della settima lettera.

In questa lettera, diretta a Giovanni vescovo di Pola, il papa lo assicura che B. non riceverà la corona imperiale se prima non avrà provveduto ad allontanare dalla sua carica il conte Alboino, marchese d'Istria, che aveva usurpato beni di proprietà delle Chiese romana e ravennate siti appunto in quella diocesi. In questo momento, che va probabilmente posto in una data assai vicina alla morte del papa, le trattative per l'incoronazione romana dovevano essere dunque arrivate a buon fine, tanto è vero che, nella lettera che Giovanni di Ravenna spedì al suo confratello in accompagnamento a quella del papa (lettera ottava), l'andata a Roma di B. è prospettata come cosa del tutto certa e vicina, e non più subordinata a condizioni di sorta (" sapiatis certissime quia Berengarius rex Romani uadit et nos cum illo ": Loewenfeld, p. 539). Solo la morte di Sergio III - si arguisce a questo punto - può avere mandato all'aria il progetto.

Ma, in circostanze che tutto il contesto della lettera quarta induce a ritenere diverse - e quindi, molto probabilmente, qualche anno prima (906-907?) -, B. già una volta era stato sul punto di partire per Roma (ibid., p. 528): è Giovanni di Ravenna che informava di ciò Berta di Toscana, alla fine di una lettera che incominciava con un'allusione a passati dissapori fra di loro, ed era in gran parte dedicata ai movimenti, in territorio ravennate, di due messi del marchese Alberico di Spoleto, che volevano assicurarsi "partem de terra ista ", apparivano per questo in contrasto con un rappresentante dei marchesi di Toscana, ed erano andati ad abboccarsi ad Argenta con il conte Didone - un fedele di B., che, secondo quanto apprendiamo dalla seconda lettera, aveva occupato, asserendo di agire in nome della regina Bertilla, alcuni beni della Chiesa ravennate, a Saltopiano (presso San Giovanni in Persiceto) -: non appena i due messi di Alberico fossero stati di ritorno, Giovanni avrebbe scritto di nuovo a Berta, onde informarla di ciò che sarebbe riuscito a sapere. Nel momento in cui fu scritta la quarta lettera, le posizioni erano dunque le seguenti: Giovanni si stava riavvicinando ai marchesi di Toscana dopo un periodo in cui i rapporti fra loro erano stati cattivi; fedeli di B. e di Alberico di Spoleto stavano tramando qualcosa che Giovanni cercava di scoprire per poterne poi informare i marchesi di Toscana; B. si preparava nel frattempo a lasciare Verona diretto alla volta di Roma, e Giovanni riteneva di dover mettere Berta sull'avviso.

Nelle lettere seconda e terza - indirizzate, rispettivamente, a un vescovo non meglio identificabile, ma molto vicino a Gisella, la sorella di B. che si trovava in S. Giulia di Brescia, e a Berta, figlia di B., monaca e più tardi badessa del medesimo monastero, oppure alla già ricordata Gisella -, l'arcivescovo Giovanni, che si professa amico devoto del re, chiede insistentemente che venga fatta giustizia alla Chiesa ravennate, gravemente danneggiata dall'usurpazione di Didone, e - alla fine della terza lettera - nello stesso tono con cui, scrivendo a Berta, lascia cadere l'indiscrezione sul previsto viaggio di B. a Roma, accenna a uno scambio di posizione di Adalberto di Toscana e di Alberico di Spoleto fra Lucca e Parma, dove c'era un esercito (ibid., p. 525). In un momento non molto lontano da quello testimoniato dalla quarta lettera (il collegamento fra le tre lettere è costituito dalla menzione di Didone), e forse precedente, l'arcivescovo di Ravenna informa persona vicina a B. degli apprestamenti militari, che sembrerebbero rivolti contro di lui, dei marchesi di Toscana e di Spoleto, in un punto nevralgico della strada che da Pavia, attraverso il passo della Cisa, portava a Lucca ed a Roma.

Nelle lettere, infine, quinta e sesta, dirette l'una allo stesso B., l'altra ai vescovi Adalberto di Bergamo ed Ardingo di Brescia, Giovanni, mentre lamenta le difficoltà di ogni genere in cui versava la sua Chiesa, espone una sua dottrina dei rapporti fra regno e sacerdozio, basata sulla separazione e sulla collaborazione, di là da ogni pretesa di subordinare il primo al secondo, che è la coerente risposta di un uomo di chiesa ai problemi connessi con la crisi di autorità che si era abbattuta sull'Europa occidentale dopo la fine dell'impero carolingio; una dottrina che veniva anche a costituire una specie di piattaforma ideologica di quella restaurazione dell'impero, nella persona di B., alla quale Giovanni pensava o avrebbe pensato di lì a poco. Poiché ci risulta per altra via che, nel gennaio del 907, la Chiesa di Ravenna era agitata da uno scisma, è probabile che a questo fatto piuttosto che a malversazioni del genere di quella compiuta da Didone alludesse Giovanni, parlando delle molte e gravi "adflictiones" che tormentavano la sua Chiesa. Si tratta di un episodio della contesa fra formosiani e antiformosiani che, riaccesasi improvvisamente, con l'ascesa al papato di Sergio III, a Roma come a Ravenna come un po' dappertutto, aveva diviso in due partiti contrapposti il clero italiano. E B., che nell'autunno dell'898, aveva forse appoggiato la rivolta di Adalberto di Toscana, il grande protettore dell'allora diacono Sergio, capo riconosciuto degli antiformosiani, contro l'imperatore Lamberto - il quale invece, d'accordo con papa Giovanni IX, stava provvedendo alla riabilitazione della memoria di Formoso -, dovette appunto alla ripresa di quell'ormai annosa vicenda l'occasione di un proprio inserimento, naturalmente su posizioni antiformosiane, in un gioco politico dagli orizzonti più vasti di quelli nei quali si era mosso fino allora, e che, prima o poi, gli avrebbe valso la corona imperiale.

B. fu incoronato imperatore a Roma, ai primi di dicembre del 915, dall'arcivescovo di Ravenna, diventato (nel marzo del 914) papa Giovanni X. Il primo diploma di B. imperatore è datato all'8 dic. 915 (I diplomi di Berengario, n. 108, pp. 276-279); il 2 genn. 916, B. era già nel Mugello (ibid., n. 109, pp. 279-281).

La descrizione dell'arrivo di B. a Roma e della cerimonia dell'incoronazione consentì all'autore dei Gesta di chiudere in bellezza il suo poema (Gesta Berengarii, lib. IV, vv. 80-208, pp. 397-401); ma i numerosi accenni a riti, luoghi, gesti, oggetti, persone reali, che sono stati faticosamente isolati in questi versi celebrativi, interessano più da vicino la storia locale di Roma e la Staatssymbolik che B. medesimo, tranne forse il dettaglio dei baltei preziosi e delle vesti ricamate d'oro, che erano appartenute ad Eberardo, e che ora il figlio portava in dono al papa (ibid., vv. 192-196, p. 401). La vera premessa di questa giornata che veniva a premiare la costanza, più che il valore, dell'ormai sessantacinquenne re d'Italia, stava in una giornata dell'agosto precedente, che aveva visto la distruzione del campo fortificato del Garigliano, fonte principale delle temute scorrerie saracene nell'Italia centrale, ad opera di una coalizione formata dal papa, dal basileus,dai potentati dell'Italia meridionale e da Alberico di Spoleto. La vittoria così ottenuta valse a Giovanni X il prestigio e il respiro necessari per portare a compimento il progetto che era rimasto a suo tempo inattuato per la sopraggiunta morte di Sergio III. Contrariamente a ogni apparenza, l'assenza di B. dal campo di battaglia e dalle complesse, trattative che avevano portato alla stipulazione della lega, dovette risolversi in un vantaggio per il re d'Italia: l'Italia meridionale era un terreno infido, sul quale erano sdrucciolati sia Ludovico II sia i Guidoni; avventurarvisi avrebbe voluto dire, anche per B., creare una zona d'attrito con Bisanzio e suscitare, a più o meno lunga scadenza, la diffidenza di Roma.

Durante il viaggio verso Roma B. si era fermato a Lucca, dove, accanto a Berta, c'era ormai Guido, figlio e successore di Adalberto, che era morto nel frattempo. Guido accompagnò a Roma B., che, nel diploma già citato del 15 dic. 915, lomenziona come "filiolus noster". Ma, sulla via dei ritorno, il neo-imperatore si impadronì con un colpo di mano di Berta e del figlio, come se volesse garantire una volta per tutte la sicurezza delle comunicazioni fra le sue due capitali: Pavia e Roma. Soltanto che il gesto non ebbe la virtù di scuotere la fedeltà dei vassalli dei marchesi di Toscana, che si rifiutarono di consegnare città e castelli, cosicché B. si risolse a rimettere subito in libertà i prigionieri (Liutprando, Antapodosis,lib. II, cap. 55, p. 63)

In un diploma che precede di poco l'incoronazione imperiale (I diplomi di Berengario, n. 107, pp. 275-276) compare per la prima volta come interveniente Anna, seconda moglie di Berengario. Non sappiamo quando sia morta Bertilla: due versi dei Gesta Berengarii (lib. II, vv. 79-80, p. 375) proiettano sulla sua fine l'ombra di un veneficio. Nel 920 Anna ebbe in dono da B. la corte di Pratopiano (Piacenza; I diplomi di Berengario, n. 129, pp. 334-336) ed appare menzionata in un diploma del 923 (ibid.,n. 139, pp. 35-6361).

L'intervento di B. nella questione della contrastata elezione del vescovo di Liegi (vedi la lettera di Giovanni X a Erimanno, arcivescovo di Colonia, in Migne, Patr. Lat., CXXXII, col. 806: anno 921) è l'unica prova di un allargamento dei suoi interessi e della sua azione politica dopo l'incoronazione imperiale. Ma, subito dopo, una delle abituali cospirazioni dei "grandi" del regno italico sembra riportarci alla situazione di vent'anni prima: questa volta, il candidato cui i congiurati pensarono di rivolgersi era Rodolfo II, re di Borgogna dal 911-912. Prevenendo l'azione dei ribelli, B. si impadronì di Odelrico, uno svevo che era addirittura conte palatino e marchese di una marca non meglio precisata. Ma il prigioniero, affidato in custodia all'arcivescovo Lamberto di Milano, riuscì a farsi liberare e raggiunse il gruppo degli altri congiurati, che comprendeva Adalberto d'Ivrea (che aveva sposato in seconde nozze Ermengarda, figlia di primo letto di Berta di Toscana), il conte Sansone e il longobardo Giselberto, conte di Bergamo. Come punto di raccolta costoro avevano scelto la zona collinosa a sud-est di Brescia (presso Calcinato?). E B. pensò di poterli annientare mandando contro di loro due schiere di Ungari, "quorum duo reges Dursac et Bugat amicissimi Berengario fuerant" (Liutprando, Antapodosis, lib. II, cap. 61, p. 65): Odeirico fu ucciso, mentre Adalberto e Giselberto furono presi prigionieri. Ma il primo riuscì a fuggire e il secondo ottenne il perdono dell'imperatore.

Una missione presso Rodolfo condotta personalmente da Giselberto trovò il re di Borgogna già pronto a intervenire: alla fine del 921 Rodolfo è in Italia; il 4 febbr. 922 data un diploma da Pavia; mentre B., per l'ultima volta, cercava rifugio nella marca veneto-friulana (il 25 marzo 922 è a Verona: I diplomi di Berengario, n. 137, pp. 351-354). Ma solo la parte occidentale della valle padana aderì al nuovo sovrano: buona parte dell'Emilia, la stessa Toscana, Spoleto, per non parlare del Friuli, rimasero invece fedeli all'imperatore. Nella primavera del 923 una rivolta contro Rodolfo, promossa da Guido, vescovo di Piacenza, offerse a B. la sorte di uno scontro armato con il sovrano rivale. Ma la battaglia di Fiorenzuola d'Arda, nel Piacentino (17 luglio 923), si risolse, dopo una prima fase favorevole per B., in una sanguinosa sconfitta dell'esercito dell'imperatore.

La notizia di una spartizione del regno fra B. e Rodolfo ci è data dal solo Costantino Porfirogenito, che forse confonde questa pretesa spartizione del 923 con quella realmente avvenuta, fra B. e Lamberto, nell'896 (De administrando imperio, a cura di G. Moravcsik, Budapest 1949, cap. 26, p. 110, 38-40; tanto più che, in questa stessa fonte, viene messa in rapporto con la battaglia di Fiorenzuola la ferita che B. riportò invece alla Trebbia: cfr. ibid., p. 110, 29-35).

Rodolfo, pochi mesi dopo la vittoria (dicembre 923), tornò in Borgogna, dove la sua presenza era richiesta per le trattative in corso con Raoul, re di Francia. B., ormai incapace di preparare una rivincita, non trovò di meglio che assoldare una banda di Ungari, che l'anno seguente presero d'assalto Pavia e, senza riuscire ad espugnarla, la diedero alle fiamme, provocando un'enorme indignazione nei contemporanei (" Usta est infelix olim formonsa Papia ": Liutprando, Antapodosis, lib. III, cap. 3, p. 75). A questo stesso periodo risale forse un secondo tentativo di Ugo di Provenza per impadronirsi del regnum Italiae: ma anche questa volta B. riuscì a parare il colpo ed Ugo dovette impegnarsi a non ritornare mai più in Italia, finché B. fosse vivo (Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, cap. 26, p. 110, 41-53)

Il 7 aprile 924 B. veniva assassinato a Verona, sulla porta della chiesa di S. Pietro, dove poco prima aveva sostato in preghiera. A capo della piccola congiura locale, che ebbe ragione dell'imperatore, c'era un tale Flamberto, sculdascio del comitato veronese.

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