BERENGARIO II, marchese d'Ivrea, re d'Italia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BERENGARIO II, marchese d'Ivrea, re d'Italia

Paolo Delogu

Figlio di Adalberto, marchese di Ivrea, mutuò il nome dall'avo Berengario, re d'Italia e imperatore, da cui discendeva per via di madre, Gisla.

Adalberto era uno dei principi più potenti dei Regno italico. Giunto in Italia col padre Anscario al seguito di Guido di Spoleto, aveva conservato le relazioni con le terre borgognone di provenienza, ed era insediato in una posizione che gli permetteva di bilanciare, anche militarmente, le proprie aderenze dalle due parti delle Alpi occidentali, di cui dominava i passi. Egli fu pertanto in prima linea quando l'aristocrazia italica, morto Guido di Spoleto, oppose a Berengario I rivali chiamati, appunto, dalla Provenza e dalla Borgogna; ma fu anche disposto a riavvicinamenti coi re italico, di cui, in un periodo di distensione, sposò la figlia, prima dell'anno 900 o verso il 903, cioè o prima o dopo la spedizione italiana di Lodovico di Provenza, cui Adalberto aderi verso il 902, sebbene di lì a poco tornasse alle parti di Berengario.

L'anno di nascita di B. si dovrà dunque porre nel 900, o nel 903 circa, e fa propendere per la prima data il trovarlo, nel 918, "missus discurrens" con funzioni di comes nel comitato milanese (Manaresi, Placiti, n. 129, pp. 484 ss.), presumibilmente diciottenne piuttosto che quindicenne; e la esplicita testimonianza diLiutprando che Adalberto era già sposato a Gisla e già padre di B. quando abbandonò Berengario I (Antap., II, c. 33, p. 52: vedi contra Fasoli, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, p. 217, che propende per il 903).

Giovanissimo, B. venne iniziato alla vita politica. Sebbene verso il 913-15 Adalberto, rimasto vedovo di Gisla, sposasse Ermengarda, figlia di Berta di Toscana e si legasse perciò con una fazione dichiaratamente antiberengariana, i rapporti col re rimasero per qualche tempo buoni, e B. entrò nel suo vassallaggio riconoscendolo senior nel citato documento del 918, e da lui ricevette incarichi, come appunto il missatico del 918 in una zona, la Lombardia, che già era stata e resterà area di influenza della famiglia e distretto amministrativo di B. in particolare. Ma quando Adalberto divenne il capo della congiura antiberengariana che chiamò in Italia Rodolfo re di Borgogna, anche B. si schierò con la famiglia dalla parte del nuovo pretendente, che entrò in Italia proprio attraverso la Valle di Aosta e Ivrea. Con il fratellastro Anscario era alla corte di Pavia nell'agosto del 924, intervenendo presso Rodolfo per la chiesa di S. Giovanni domnarum di Pavia (Diplomi di Rodolfo, n. IV, pp. 103 ss.); ed ancora nel dicembre dello stesso anno ambedue i fratelli, con Ermengarda, erano vicini al re per sollecitare privilegi relativi a possedimenti nel territorio di Asti (Diplomi di Rodolfo, n. X, p. 122). In quell'occasione per la prima volta B. viene indicato col titolo di comes. Marchese sarà detto, nella documentazione in nostro possesso, solo a partire dal 928, nell'atto di compera di terre sul Po da lui stipulato il 1°maggio di quell'anno (Codice diplomatico longobardo, Torino 1873, n. 526, col. 894). L'esponente principale della politica familiare era in quegli anni Ermengarda che, passato nell'ombra Adalberto, "totius Italiae principatum obtinebat" (Antap., III, c. 7, p. 77). B., nelle testimonianze che restano per questi anni, segue la politica della matrigna, anche quando ella si rivolge contro Rodolfo e si unisce ai marchesi di Toscana per chiamare ad assumere il Regno d'Italia Ugo, conte di Arles, figlio in prime nozze di Berta di Toscana, e fratellastro quindi di Ermengarda. Ugo giunse in Italia nell'aprile del 926. Già il 3 settembre Ermengarda era presente a corte ed interveniva presso di lui in favore del monastero di S. Sisto di Piacenza (Diplomi di Ugo, n. 2, p. 6). B. ed Anscario la seguivano: nel 929 è attestato un intervento di B. presso il re in favore di S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia (Diplomi di Ugo, n. 20,p. 54). Sotto Ugo la famiglia riuscì a raggiungere la massima potenza; se Ermengarda scomparve in quegli anni dalla scena politica, i due fratelli, B. ed Anscario, si imposero tra le prime personalità del Regno. Anscario, interessato principalmente al Piemonte, tenne la marca di Ivrea, ed i pochi documenti che restano di lui si riferiscono a interessi patrimoniali nell'Astigiano (cfr. Dizionario Biografico degli Italiani, III, p. 375); B. tese piuttosto verso la Lombardia. A titolo privato egli possedeva corti e castelli fino a Cremona (Codice diplomatico longobardo, n. 537, col. 915, del 931) e fino al comitato di Modena (Diplomi di Ugo, n. 80, p. 232), probabilmente per eredità paterna, in quanto anche di Adalberto sono testimoniati possessi "finibus Parmense" (Diplomidi Ugo, n. 36, p. 115). Più spesso del fratello è presente alla corte di Pavia, dove compare nel maggio 928, nel marzo 929, nell'aprile 931 (cfr. Codice diplomatico longobardo,n. 526, col. 894; Diplomi di Ugo, n. 20, p. 54; Codice diplomatico Iongobardo, n. 357, col. 915) anche perché il suo missatico, in Lombardia del 918 si era evoluto nel titolo di conte di Milano, e forse anche, per qualche tempo, nell'amministrazione dell'intera marca Lombarda. Ancora nel 941, pochi mesi prima di cadere in disgrazia, sarà in funzione di conte a Milano (Manaresi, Placiti, n. 139, p. 520). Ugo, sebbene iniziasse presto la lotta contro il potere ribelle dei principi italici, per vari anni restò legato alla dinastia, forse per i buoni uffici di Ermengarda. Anzi, nel 931, in corrispondenza con la sostituzione violenta dell'ultimo marchese di Toscana, discendente da Adalberto il Ricco, con Bosone, fratello del re, diede a B. in sposa Willa, figlia appunto di Bosone, cercando di creare una nuova alleanza tra la dinastia di Ivrea e quella che egli insediava in Toscana per assicurarsi il controllo della marca. Cinque anni più tardi Anscario veniva nominato marchese di Spoleto concludendo l'ascesa della famiglia, che ormai dominava tutto il Piemonte conla Valle d'Aosta e la Liguria, parte della Lombardia e la vasta marca di Spoleto e Camerino. A partire da quest'epoca, B. diventa il personaggio principale dell'Antapodosis di Liutprando. Le notizie su di lui diventano quindi più diffuse, sfiorando talvolta il romanzesco.

Verso il 940 Ugo mutò atteggiamento. Cadde in disgrazia per primo Anscario perché - Liuiprando dice - il re temeva che volesse portargli via il regno (Antap., v, c. 4,p. 131). Se il racconto merita fede, una nuova prospettiva si stava aprendo alla politica dei marchesi d'Ivrea. Fino ad allora avevano disposto delle sorti del Regno italico senza mai tentare di impadronirsene essi stessi, per diffidenza, o per ritegno, davanti alla dignità regia. Né alcun principe italico, dopo Guido e Berengario, aveva mai posto la propria candidatura alla corona. Ora Anscario, il quale, scomparse le dinastie marchionali di Toscana, dei Friuli e di Spoleto, era restato col fratello l'unico principe che, insediato nella marca da lungo tempo, deteneva il potere per eredità, poté pensare, forse, di farsi egli stesso re. Era un nuovo atteggiamento dei marchesi nei confronti dei Regno e comportava la rottura della politica, tradizionalmente seguita, di opporre principi chiamati d'oltralpe ai re italici. Forse la notizia di Liutprando trascende le reali intenzioni di Anscario. Ma Ugo, per sventare il pericolo, gli inviò contro inSpoleto un esercito da cui, nel 940, il marchese fu vinto, cadendo in battaglia.

Non è detto che B. subentrasse immediatamente al fratello nei progetti di conquista della corona. Ma Ugo avvertì pericoloso anche lui e si preoccupò di renderlo inoffensivo, meditando di invitarlo al palazzo, per impadronirsene ed accecarlo, come aveva fatto con Lamberto di Toscana. B. fu avvertito del pericolo; secondo Liutprando, dallo stesso figlio di Ugo, Lotario. Immediatamente abbandonò l'Italia e, attraverso il San Bernardo, fuggì in Svevia, chiedendo ospitalità al duca Ermanno. Ancora nel febbraio del 941 aveva tenuto placito in Milano e. nel luglio, era nominato tra i confinanti di una terra di Casalmaggiore nel Cremonese (Codice diplomatico longobardo, n. 563, col. 961). Fuggi dunque dopo quella data, nell'autunno, e ciò concorda con la notizia secondo cui Willa per raggiungerlo, avrebbe attraversato le Alpi a piedi, incinta, "rigidae tempore brumae" (Antap., V, c. 11, p. 136).

La fuga di B. in Svevia aveva però un significato politico. Nel fare il ritratto morale del marchese, Liutprando sottolinea la sua ricchezza di espedienti, la sottigliezza dell'ingegno, l'astuzia preponderante: "Berengarius consiliis providus, ingenio callidus ", "calliditate suffarcinatus" (Antap., V, c. 4, p. 131, e c. 28, p. 148). Nella scelta del protettore B. si fece guidare appunto da questa astuzia politica. Ruppe decisamente l'orientamento borgognone tradizionale del padre e della matrigna, perché le fila di quelle relazioni erano adesso accentrate nelle mani di Ugo, ma anche perché a quest'epoca, ormai, l'aristocrazia italica, di origine franca, sveva, bavara, borgognona, aveva perduto i legami con le terre d'origine e tendeva ad una politica che aveva il centro nell'interno del Regno. Per questo B., al momento della fuga, scelse il suo rifugio non in base agli affievoliti legami con le terre d'origine della sua famiglia, ma considerando la situazione politica transalpina, e chiese aiuto ad un principe tedesco. Ermanno di Svevia lo ricevette - "con onore" sottolineano le fonti - e lo accompagnò dal suo re, Ottone I, che parimenti lo accolse con grandi onori e ricchi donativi. Ottone era già il sovrano che si profilava più potente tra quelli che potevano influenzare la situazione politica del Regno. Se, fino ad allora, non si era particolarmente interessato dell'Italia, non doveva sfuggirgli - ed Ermanno, confinante con la marca di Ivrea, poteva informarlo - che B., sebbene caduto in disgrazia, era uno dei più potenti principi del Regno. Accoglierlo a corte, onorarlo e beneficarlo nella sfortuna, poteva significare aprirsi una via di ingerenza sulle future vicende del Regno italico. Perciò quando Ugo inviò un'ambasceria con ricchi donativi, per chiedere la consegna dei fuggiasco, gli si rispose che Ottone desiderava una conciliazione tra i due avversari; se non si poteva ottenere, non avrebbe comunque mai consegnato B. all'ira di Ugo.

Non risulta dalle fonti se il generico rapporto di protezione e di ospitalità tra Ottone e B. fosse perfezionato fino a diventare un rapporto feudale. Solo Widukindo parla di "subiectio" del marchese verso Ottone, ma Rosvita ed il continuatore di Reginone non conoscono un legame così impegnativo, ed insistono piuttosto sulla riconoscenza dovuta da B. al re che non su doveri feudali. Ottone non intendeva infatti compromettersi dei tutto con Ugo legandosi troppo a Berengario. Accettò i "munera immensa" che il re di Italia gli inviò da allora ogni anno per scongiurare il pericolo che fornisse esercito ed armi a B., e lasciò che questi provvedesse da solo a cercare il modo di tornare in Italia.

B. rimase in Svevia circa tre anni. A mezzo di inviati segreti, la cui azione fu narrata in modo romanzesco da Liutprando, sondò gli umori dei grandi italici; né gli scontenti mancavano. Milone, conte di Verona, sapeva di essere sorvegliato continuamente da agenti dei re Ugo; Guido, vescovo di Modena, mirava ad estendere i propri possessi; altri erano legati al fuggiasco, come Arderico, arcivescovo di Milano, dove B. era stato conte; non esisteva infine, a detta di Liutprando, quasi nessun principe italico che non fosse stato spogliato di parte almeno delle sue dignità in favore dei fedeli burgundi di Ugo. Questi, informato dei maneggi, temendo sempre che B. "collectis ex Francia et ex Suevia copiis super se irrueret regnumque sibi auferret" (Antap., V, c. 17, p. 139), si accordò con i Saraceni di Frassineto, perché, insediati sui monti tra l'Italia e la Svevia, contrastassero il passo ad un eventuale esercito. In realtà, B. non poté, o non volle, raccogliere un esercito. Fidando piuttosto nella defezione dei grandi italici, nella primavera del 945, mosse, "desideratus" (Antap.,V, c. 26, p. 145), verso l'Italia. "Paucis se comitantibus," (ibid.), evitò i passi delle Alpi occidentali, dove Ugo aveva posto le difese, e scese, attraverso la Val Venosta lungo il corso dell'Adige, fermandosi sotto il castello di Formicaria, vicino Bolzano, che difendeva la chiusa. Qui si ebbe la prima defezione. Il difensore del castello si incontrò con B. e passò dalla sua parte, seguito dal suo signore, l'arcivescovo Manasse, che, nella zona di Trento, aveva funzioni di marchese. Secondo Liutprando, B. aveva comprato l'uno e l'altro, promettendo al primo il vescovato di Como, al secondo la sede milanese.

Non è, però, impossibile che le cose andassero diversamente: in effetti a Como B. insedierà un Valdone; incerta rimane invece l'identificazione di Adelardo, difensore di Formicaria, con l'omonimo vescovo di Reggio. Quanto alla sede di Milano, era occupata nel 945 da Arderico, sostenitore di B., che non poteva avere interesse a togliergliela. Manasse infine tenne verso B. un contegno assai ambiguo. è perciò probabile che, come si è supposto, la chiusa non riuscisse ad impedire il passaggio, e che in seguito i difensori si accordassero con B. (Besta, p. 456).

Da Trento B. scese a Verona, chiamato dal conte Milone, poi passò a Milano, dove si stabilì, iniziando a distribuire tra i suoi sostenitori le cariche italiche. Il suo avvento fu salutato come il ritorno di Carlomagno; si disse che si apriva un'altra età dell'oro e B. venne acclamato nuovo Davide. Ugo, tentata inutilmente una spedizione punitiva contro Guido, vescovo di Modena, si ritirò, "tristis ", in Pavia. Tuttavia non sembra che B. avesse intenzione di assumere immediatamente la corona regale. Forse per calcolo politico, forse perché impegnato in questo senso con Ottone, a Milano si preoccupò di consolidare le sue aderenze senza manifestare l'intenzione di farsi incoronare e piuttosto aspettando un'iniziativa del re. Non ebbe quindi difficoltà, quando Ugo, ormai senza speranza, inviò a Milano il figlio Lotario chiedendo che venisse conservato nella dignità regia perché innocente in cambio della propria abdicazione, non solo a riconoscere Lotario come re, ma a volere che anche Ugo conservasse il titolo regale e restasse in Italia. Evitava in tal modo anche che, tornando in Borgogna, potesse preparare la rivincita. Riconciliato così formalmente con i sovrani, l'8 apr. 945 B. era a Pavia con i suoi più vicini sostenitori: il conte Lanfranco, cui veniva data la dignità palatina, Mílone, conte di Verona, Maginfredo, conte di Parma, ed i tre conti piemontesi Arduino, Aleramo ed Oberto (Diplomi di Ugo, n. 80, p. 232). La sua posizione ufficiale nel Regno restava quella di marchese di Ivrea, forse nuovamente conte di Milano e, come risulta da un diploma di Ugo, "summus consiliarius" del re (ibid., n. 83, p. 947). D'altra parte, Ugo e Lotario non avevano perso tutto, anche perché B., pur mirando ad insediare in tutti i posti chiave i propri uomini, non aveva potuto eliminare dei tutto i fedeli del re.

Se il marchese Uberto, figlio di Ugo, venne privato della marca di Spoleto e del titolo di conte palatino, gli venne pur lasciata la marca di Toscana; a Pavia e a Piacenza vennero conservati vescovi Liutfredo e Bosone - figlio illegittimo, quest'ultimo, di Ugo - sia pure dietro pagamento di una somma e sebbene Bosone fosse privato dell'ufficio di arcicancelliere che venne dato al vescovo di Asti, Bruningo, fedele di Berengario. Manasse, che nel 948 successe, coi favore di B., sul soglio milanese, mantenne buoni rapporti con Lotario e con la sua promessa e poi sposa, Adelaide, figlia di Rodolfo di Borgogna. Ed il matrimonio fra i due, avvenuto nel 947, rinsaldò i legami della famiglia regia con quella borgognona e fu in sostanza un vantaggio per essa. Infine sembra che B., pronto ad'accordarsi per denaro con i dignitari insediati da Ugo, dovesse avere difficoltà finanziarie se, nello stesso 947, per comprare la pace dagli Ungari, che avevano compiuto un'ennesima scorreria in Italia, impose su tutti gli abitanti del Regno una tassa di un nummo argenteo a testa, senza escludere chiese, poveri e bambini, attirandosi l'impopolarità e l'accusa che da allora incominciò a correre, e che lo doveva marcare poi sempre, di insaziabile avidità di denaro, giacché si disse che egli aveva incamerato i frutti della imposta.

Tuttavia, nonostante queste difficoltà, B., che poteva contare sulla fedeltà del Piemonte, di Milanoi del vasto comitato veronese, di buona parte dell'Emilia, avendo per sé i conti e taluni vescovi di quelle zone, accompagnato dalla fama di essere protetto da Ottone di Sassonia, sembrò in quegli anni "nomine solum marchionem, potestate vero regem" (Antap., V, c. 30, p. 149); e doveva essere tanto sicuro della sua posizione che, nel 947, poté accettare la "fede" di Ugo e permettergli di ritornare, "omni cum pecunia ", in Borgogna, nonostante potesse prevedere che colà avrebbe cercato alleanze per tornare in italia e riconquistare le posizioni perdute. La morte, sopraggiunta il 10 apr. 948 (cfr. Mor, L'età feudale, I, p. 159 e nota 60), liberò B. dell'avversario e gli permise di rafforzare ulteriormente la sua posizione nel Regno. Nel primo diploma emanato da Lotario, rimasto unico re in Italia, in cui B. ricompare, egli viene designato "regni summus consors" (Diplomidi Lotario, n. 8 dell'11 giugno 948). Era un titolo che, impiegato in età carolingia per indicare genericamente il figlio associato alla dignità regia del padre, era stato poi applicato alle regine, quando esse avevano assunto importanza politica nella struttura del Regno. Anche Adelaide, moglie di Lotario, venne designata "consors regni" e dovette assumere - se pure tacitamente - quei diritti di compartecipazione alla sovranità e di rappresentanza della dignità regia in caso di vacanza del trono che erano diventati propri della regina italica (cfr. C. G. Mor, Consors regni. La regina nel diritto pubblico italiano dei secoli IX e X, in Archivio giuridico, CXXXI[1948], pp. 7-32); ma B., "summus consors ", volle probabilmente richiamare l'antica associazione carolingia del re in trono col successore designato, e sottolineare la superiorità del suo consortium, rispetto a quello della regina. Certamente, non si trattò di una associazione formale. Ma forse il titolo poté valere come espressione, più o meno esplicita, di una aspettativa di successione. è probabile dunque che B. riprendesse ormai il progetto di Anscario, scegliendo, per l'attuazione, quella che gli sembrava la via più piana. Poteva rafforzarlo nei progetti il vasto diffondersi, nei tre anni che durò il regno di Lotario. della sua fama, "praesertim apud Graecas nationes" (Antap., V, c. 33, p. 151). L'imperatore Costantino, che già sotto Ugo aveva intrattenuto cordiali rapporti col Regno italico, prendendolo in una sorta di ideale patronato, inviò a B. - come al vero reggente del Regno - una ambasceria, per la prosecuzione di quei rapporti, esortandolo insieme ad essere "fidelis administrator" di Lotario (ibid.). In quell'occasione B. inviò a Costantinopoli il diacono Liutprando, conoscitore dei greco, che, a lui personalmente raccomandato, era impiegato nella cancelleria regia. Ma, d'altra parte, nel Regno esistevano fermenti di insofferenza e di rivolta. Nell'anno 949 a Como scoppiarono tumulti. Nella repressione attuata fu coinvolta la famiglia di Liutprando, che da allora passò tra i nemici di B. e ne divenne il portavoce. La sua amministrazione cominciò ad essere considerata "tyrannis" sotto cui piangeva l'Italia tutta. E di inquietudine può essere segno anche la nuova organizzazione dei rapporti amministrativi e politici nella marca di Ivrea. Essa, probabilmente nel 950, venne smembrata; i comitati meridionali ed occidentali, cui furono aggiunti comitati del litorale fino a Luni, vennero raggruppati in tre "marchesati ", ai quali furono preposti tre fra i più fidati collaboratori di B., già conti nella sua marca: Aleramo, Arduino e Oberto. Lo smembramento, oltre ad essere un mezzo per legare a sé i fedeli, innalzati nella dignità, poté essere pensato in vista di una successione al trono, per limitare la potenza di quegli che sarebbe successo a B. nella marca; e d'altra parte non dovette essere un danno troppo grande, perché B. teneva legati a sé, forse anche da vincoli feudali, i tre nuovi marchesi. Anzi Aleramo, che fra i tre sembra gli sia stato il più legato, qualche anno più tardi ne sposò la figlia Gilberga. La riorganizzazione della marca dovette avvenire in un momento in cui il Piemonte era oggetto di particolare attenzione da parte della corte. Nello stesso 950, infatti, Lotario era a Torino, ospite del marchese Arduino, cui concesse la abbazia di Breme, e colà morì improvvisamente, il 22 novembre. Si disse che fosse stato avvelenato da Berengario. Ma poiché altre voci, anche di avversari di B., lo dicono morto di malattia, può essere questa l'ipotesi più probabile. Comunque B. non perse tempo: poche settimane più tardi, quasi tutto fosse stato già predisposto in vista di una simile eventualità, si fece coronare re in S. Michele di Pavia, insieme col figlio Adalberto, il 15 dicembre. Aveva allora cinquant'anni.

Poiché la narrazione dell'Antapodosis è interrotta all'anno 947, la fonte principale per la storia di B. dopo quella data diventano le cronache tedesche dell'età ottoniana, che forniscono però solo notizie intermittenti e succinte. Sulle circostanze e sul significato dell'incoronazione si è dunque male informati. Tuttavia, la fretta con cui essa avvenne (non si attese nemmeno la solennità del Natale), in contrasto con la prudenza abituale di B., e la circostanza della duplice assunzione al trono, avvertita subito come inconsueta, fanno pensare che si volesse costituire il fatto compiuto per prevenire opposizioni dall'interno e dall'esterno del Regno. Si pensò forse anche di creare un argomento di legittimazione dell'ascesa al trono della nuova dinastia facendo sposare Adalberto con la giovane regina vedova Adelaide, e stabilendo così una continuità con la dinastia di Ugo e Lotario. Ma, se anche la notizia, data da fonti oscure e tarde, è accettabile, non se ne fece comunque niente. Tuttavia, la questione della legittimità era fondamentale. Sebbene l'assunzione al trono fosse la conclusione di tutta la carriera politica di B., alla corte di Ottone I si riteneva che egli fosse ancora vincolato dall'impegno col re di Germania. Appena due anni prima egli aveva spedito un'ambasciata che doveva aver rinnovato i patti di amicizia. Assumendo la corona regia, il marchese si faceva eguale al re, il protetto al protettore. I rapporti tra Italia e Germania, sui quali forse Ottone aveva voluto porre un'ipoteca, entravano in crisi. E perciò la dignità regia di B. venne considerata subito dai Tedeschi un'usurpazione (Widukindo III, c. 7, p. 108), un frutto di superbia esaltata (Vita Mathildis posterior, c. 15, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, IV, Hannoverae 1841, p. 293). I generici impegni di B. verso Ottone vennero intesi come obblighi feudali; si considerò dunque violato l'ordine delle cose e necessario un intervento di Ottone per riportare ciò che era "distortum ad rectitudinem" (DieBriefe des Bischofs Rather von Verona,a cura di F. Weigle, in Mon. Germ. Hist., Briefe der deutschen Kaiserzeit, Weimar 1949, n. 7, p. 41). Lintervento dovette essere deciso nell'estate del 951.

All'interno del Regno intanto l'opposizione era rappresentata dalla vedova di Lotario, che rifiutò di scomparire dalla scena politica., ma neanche volle, nonostante pressioni e minacce, accordarsi col nuovo re, e divenne il centro ideale di gravitazione per tutti i nemici di Berengario. Pochi mesi dopo l'incoronazione venne fermata a Como, sulla via dei valichi alpini, mentre tentava di raggiungere la Svevia. Chiusa nella rocca di Garda, nell'agosto riuscì a fuggire e trovò asilo presso il vescovo Adelardo di Reggio che aderì a lei venendo meno alla fedeltà per Berengario. Contemporaneamente Liudolfo, duca di Svevia, figlio di Ottone I, scendeva in Italia con un esercito.

Già nella primavera Enrico di Baviera, fratello di Ottone, aveva invaso il Friuli e occupata Aquileia. Ora Liudolfo, al corrente della progettata spedizione di Ottone, cercò di precederla per crearsi diritti sul Regno. Tuttavia Enrico di Baviera, ostile a lui, avvertì le città italiche della nuova invasione, sicché questa si risolse in un fallimento. Ma poche settimane più tardi Ottone stesso, con un esercito più forte, scese in Italia. Alla fine dell'estate entrava in Verona senza incontrare resistenza, e il 23 settembre giungeva, sempre senza combattere, a Pavia. B. e Adalberto avevano abbandonato la città il giorno prima e si erano rifugiati nella rocca di San Marino. Si è discusso sui motivi che spinsero Ottone in Italia; principale forse fu quello della corona imperiale da ricevere a Roma dal papa. Ma il motivo più immediato dovette essere quello feudale, bene espresso da una fonte: "ut resisteret superbienti Berengario" (Vita Mathildis posterior, c. 15, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, IV, p.293). Conquistata Pavia, per alcuni giorni Ottone badò a raccogliere adesioni. Emanò subito, in favore di enti ecclesiastici, alcuni diplomi (Ottonis I Diplomata, nn. 136, 137) ed in essi, a partire dal 10 ottobre, assunse il titolo di "rex Francorum et Langobardorum" (ibid.,n. 138), che già il 15 ottobre fu perfezionato in quello di "rex Francorum et Italicorum" (ibid., n. 139). In quest'assunzione della dignità regia italica sì presentò come successore di Ugo e Lotario, di cui esaltò la memoria nei diplomi per S. Ambrogio (ibid., nn. 138, 145). E poiché la via della legittima successione ai due re passava attraverso Adelaide, intavolò trattative matrimoniali con lei, che poteva portargli l'adesione di tutti gli antiberengariani d'Italia. Alla fine, del 951 le nozze furono celebrate con grande solennità a Pavia. è possibile che già prima Adelaide avesse fatto pervenire richieste di aiuto ad Ottone; la sensibilità cavalleresca che già si affermava nei circoli aulici vide nella spedizione del re un nobile gesto in difesa della principessa perseguitata. Ma è certo che il matrimonio rappresentava la legalizzazione dell'acquisizione, già avvenuta, del titolo di re degli Italici. Adelaide era stata lasciata da Lotario erede del regno (Hrotsvithae Gesta Ottonis, vv. 469 s.) e dunque Ottone poteva legittimamente "regnum… simul cura ea Italicum adquirere" (Continuatore di Reginone, anno 951, p. 164). B. era dunque liquidato definitivamente dalla possibilità di successione legittima nel Regno. Tuttavia all'affermazione di principio di Ottone non fece seguito una azione politica e militare volta ad eliminarlo completamente. Anzi, il 6 febbr. 952, su intervento di Adelaide stessa, Ottone confermava tutti i possessi del monastero di S. Sisto di Piacenza alla figlia di B., la abbadessa Berta, rinnovando il privilegio berengariano dell'anno precedente (Ottonis I Diplomata,n. 141; cfr. Diplomi di Berengario, n. 1). In realtà la situazione di B. non era disperata. Nei diplomi emanati da Ottone in Italia non si ha l'impressione di un gran seguito intorno al sovrano.

L'unica personalità del Regno che aderì clamorosamente a lui fu Manasse, che ebbe incarichi in cancelleria (cfr. il diploma n. 138); ma non vi fu, intorno al nuovo re, la consueta folla di richieste di privilegi e conferme; le concessioni più importanti furono fatte ai canonici di Verona, di Parma e di Padova, probabilmente su ispirazione dei vescovi di quelle città.

Intanto B., rifugiato a San Marino, continuava ad intitolarsi re e, se Ottone si era impadronito dell'Italia settentrionale - ma per mancanza di documenti non sappiamo quale fosse l'atteggiamento dei marchesi piemontesi -, arroccato nella marca di Spoleto stringeva i legami con i potentati dell'Italia centrale e meridionale. Il 26 dic. 951 emanò un diploma per S. Vincenzo al Volturno e, nel marzo dell'anno seguente, uno per il monastero di S. Antimo nel territorio di Chiusi (Diplomi di Berengario, nn. 4, 5, pp. 301 ss.). La Toscana, nonostante ne fosse marchese Uberto, figlio di Ugo, non riconobbe Ottone, che subì anche il grave scacco di veder rifiutare dal papa Agapito II, sotto l'influenza di Alberico, le sue proposte per un incontro a Roma. Perciò quando, nel febbraio del 952, lasciò l'Italia e tornò in Germania portando con sé la sposa, la situazione del Regno era ancora fluida. Restava acquisito solo il titolo di "rex Italicorum", di cui Ottone continuò a fregiarsi. Di portare avanti le operazioni militari venne incaricato Corrado di Lotaringia, insediato in Pavia. Ma nei primi mesi del 952 questi venne ad un accordo con B. il quale, fidando più in una soluzione politica che in uno scontro armato, accettò di riconoscere la dipendenza da Ottone pur di potere in cambio conservare il Regno. Accompagnato da Corrado, che caldeggiava tale soluzione, si recò in Sassonia. Il giorno di Pasqua egli venne accolto, ad un miglio dalla città regia di Magdeburgo, con quegli onori che convenivano ad un sovrano, dai duchi e dai più alti dignitari del palazzo.

Se la notizia, fornita da Widukindo, è esatta, questa accoglienza regale rivela in Ottone un rifuggire da prese di posizione nette che era anche incertezza sulla sistemazione da dare al Regno. Sebbene Ottone si considerasse "rex Italicorum", tuttavia restava anche la possibilità di riconoscere re B., e Widukindo implicitamente la accetta, quando, a proposito del colloquio che ebbero i due, dice: "rex regem alloquitur" (l. 111, c. 10, p. 110). Completamente diversa la testimonianza deicontinuatore di Reginone, secondo il quale l'accoglienza sarebbe stata tale da far temere a B. per la sua stessa vita. Ma il racconto di Widukindo è molto circostanziato, e l'atteggiamento di Ottone quale egli lo descrive concorda con quello espresso da Rosvita: è perciò possibile che sia sostanzialmente esatto.

Tuttavia B., che era pur sempre un nemico umiliato, dovette attendere tre giorni prima di essere ammesso alla presenza del re. Finalmente fu ricevuto, accolto in dedizione e venne stabilito il luogo e la data di una cerimonia solenne che avrebbe reso pubblici e consolidati i nuovi rapporti che si fondavano. Il 7 ag. 952 ad Augusta, nel corso di una dieta cui furono chiamati a partecipare anche Manasse di Milano ed i vescovi di Como, Pavia, Tortona, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, cioè i più sicuri sostenitori di Ottone, quali rappresentanti dell'aristocrazia del Regno italico - ma non vi fu alcun principe laico - B. e Adalberto giurarono fedeltà ad Ottone da cui furono investiti del Regno mediante uno scettro d'oro, restando escluse però le marche di Verona e del Friuli che furono affidate ad Enrico di Baviera. Il provvedimento, che coronava le aspirazioni di Enrico, assicurava ai Tedeschi i valichi delle Alpi orientali. L'effettivo regno di B. cominciò dunque nel 952. Dopo Berengario I, egli era il primo sovrano veramente "nazionale ", nato in Italia e non legato ad interessi politici transalpini. Anzi, la minaccia incombente di un rafforzamento dell'egemonia tedesca poteva portarlo ad accentuare il carattere unitario ed autonomo del Regno. Ma la crisi politica seguita al suo insediamento aveva rivelato anche la presenza di una corrente ostile disposta a sostenere qualunque nemico. Ottone si era preoccupato, in seguito alle accuse di crudeltà e violenza portate contro B., di imporgli, all'atto dell'investitura, moderazione nel Regno. Ma, nei dieci anni che questo durò, B. tenne sempre presente l'opposizione interna, e svolse una azione estremamente energica e spesso violenta per sostenere il suo potere. Appena rientrato in Italia cercò, con una serie di vendette, di stroncare i nemici dichiarati: Manasse di Milano che, inviso agli stessi Milanesi, aveva cercato in Ottone appoggio anche contro di loro, fu sostituito con Walperto (Arnulfi Mediolanensis Rerum sui temporis libri, I, c. 4, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script., IV, Mediolani 1723, p. 9); fu condotta una spedizione punitiva contro Adalardo di Reggio, della quale fu parte preponderante l'assedio della rocca di Canossa (Chronicon Novaliciense, V, 10, a cura di C. Cipolla, Roma 1901, in Fonti per la Storia d'Italia, XXXII, p. 254); il comitato di Aosta, sembra, fu posto sotto stretto controllo da Adalberto, che incamerò le rendite delle chiese (Köpke-Dümmler, p. 287 nota 1). Ma il potere regio, più che con rappresaglie contro i traditori, venne consolidato - come già aveva fatto Ugo - con l'insediamento nei grandi distretti amministrativi di membri della famiglia reale: Guido, figlio di B., ottenne la marca di Ivrea; un altro figlio, Corrado, il comitato di Milano. Al governo centrale, oltre ad Adalberto, prese energica parte Willa. Contemporaneamente, adottando un sistema che sembra sconosciuto ai re italici precedenti, ma che era bene in armonia con l'evoluzione delle tecniche militari alla metà del sec. X, vennero rafforzate e tenute in efficienza una serie di rocche, che avrebbero dovuto costituire i punti di resistenza militare dei re. L'idea della capitale come sede regia per eccellenza, da difendere fino all'ultimo, presente in Ugo ed anche in Ottone, sembra ignorata da B., che preferì sempre alla resistenza in città quella nel castello. Vennero perciò fortificate l'isola di San Giulio d'Orta, tolta per rappresaglia al vescovo di Novara (Ottonis I diplomata, n. 243), l'isola Comacina, il castello di Garda e quello di Valtravaglia sul lago Maggiore. Rientrarono nel sistema di difesa anche le rocche marchigiane di San Marino, già utilizzata nella prima calata di Ottone, e di San Leo. La serie delle vendette e l'opera di rafforzamento poté essere compiuta senza ostacoli perché Ottone, tra il 952 ed il 955, fu seriamentè impegnato in Germania, prima nella repressione di una congiura di principi, alcuni dei quali disgustati con lui proprio per la politica italiana; poi nel fronteggiare rinnovate invasioni di Ungari e Slavi. Così ogni menzione della sua sovranità cadde dai documenti italici. D'altra parte, B. e la sua famiglia non erano completamente isolati in un regno ostile: continuarono i rapporti con la marca di Spoleto (cfr. il diploma per S. Michele di Barrea presso Sulmona del 953, n. 8, pp. 312 ss.); si ebbero riconciliazioni, come con Guido di Modena; mentre già nel 955 Milone di Verona, divenuto marchese, svincolatosi dalla dipendenza a Enrico di Baviera, riaffermava la sua fedeltà a B., riprendendo a datare gli atti con gli anni del suo regno (F. Ughelli-N. Coleti, Italia Sacra, V, Venetiis 1720, p. 737). Ma gli ecclesiastici, gravati di imposte, si confermavano nell'odio contro il re; se alcuni di essi gli restarono legati - in primo luogo Attone di Vercelli, che non venne mai meno, pur condannando talvolta l'operato del re - vi furono fedeli laici che si staccarono da lui: come Arduino, ma se di Torino, che durante l'assedio di Canossa intrattenne rapporti segreti con gli assediati. La situazione politica dei Regno era dunque oscillante. Quando, dopo la vittoria di Ottone sugli Ungari al Lechfeld, si profilò la possibilità di un nuovo intervento tedesco, B. volle garanzie dai suoi più probabili nemici, e impose ai vescovi un nuovo giuramento di fedeltà e la consegna di ostaggi (Attonis Epistolae, n. 6). In effetti Ottone, liberato della pressione interna, decise di fermare B. ed incaricò Liudolfo di una nuova spedizione in Italia che iniziò nell'autunno del 956. Mentre B. si ritirava al sicuro, Adalberto affrontò Liudolfo in battaglia, probabilmente nei pressi di Reggio, ma fu sconfitto. Liudolfo, poté insediarsi in Pavia, accolto da un seguito assai vasto. Walperto di Milano e Waldone di Como furono tra i principali sostenitori; entro il giugno del 957 la sovranità di Ottone fu nuovamente riconosciuta in tutta l'Italia settentrionale, in cui i documenti furono nuovamente datati con i suoi anni. Anche fedeli di vecchia data di B., come il marchese Oberto, aderirono a Liudolfo che, nell'estate, venne incaricato dal padre di ricevere il giuramento di fedeltà degli Italici. Tuttavia la situazione politica non era ancora decisa; B., sempre libero, conservava sostenitori in Toscana e a Ravenna, dove i documenti continuarono ad essere datati con gli anni del suo regno. Bastò dunque la morte di Liudolfo, nel settembre a Plumbia, sulla via del ritorno in Germania, mentre Ottone forse pensava di conferirgli il Regno italico, perché nuovamente B., Willa e Adalberto potessero riprendere il potere, costringendo i più compromessi, Walperto, Waldone, Oberto, alla fuga. Nonostante l'ostilità diffusa le insurrezioni armate di milites, le fughe dall'Italia verso la Germania, B. aveva ancora il sostegno di alcuni principi, Ugo di Toscana tra gli altri, ed altre forze mobilitava per rafforzare la sua posizione. I diplomi degli ultimi anni di regno furono emanati in favore di fideles non appartenenti all'aristocrazia, e degli abitanti delle città (diplomi nn. 11, 12, 13). Fidando in questi appoggi, invece di venire a patti con i nemici, B. tentò una politica di espansione. Nel 959 suo figlio Guido condusse, con l'appoggio del marchese di Toscana e di Pietro IV Candiano, figlio dei doge di Venezia, una spedizione contro il marchese di Spoleto (Iohannis diaconi Chronicon venetum, a c. di G. H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, pp. 24 s.). La marca fu posta sotto il controllo della famiglia regia, e Adalberto ne fece base per una serie di spedizioni in Sabina, nei territori della Chiesa di Roma. B. intanto si recava a Ravenna, città imperiale. A stato perciò supposto che il convergere della politica regia sulla zona spoletino-romana facesse parte di un preciso progetto. In rotta completa con Ottone, che ormai aveva manifestato l'intenzione di revocare a sé il Regno, B. potè forse cercare di prevenirlo a Roma, facendosi incoronare imperatore dal papa (Fasoli, p. 194). In realtà, furono proprio le pressioni contro i territori papali che causarono la rovina di Berengario. Il papa Giovanni XII, figlio e successore di Alberico, contro la sua minaccia ricorse proprio ad Ottone, chiedendogli di intervenire contro i nemici della Chiesa. Ottone fino ad allora aveva sempre rimandato una nuova spedizione in Italia. Ma la richiesta papale, presentata alla dieta di Regensburg nel Natale del 960, lo indusse finalmente a decidere, nel maggio dei 961, la venuta in Italia, con l'obbiettivo di eliminare B., raggiungere Roma ed ottenere la corona imperiale. Nell'agosto del 961 entrò con l'esercito in Italia passando da Trento. Forse Adalberto tentò di opporsi con un esercito alle chiuse di Verona; ma i conti italici posero come condizione per la difesa l'abdicazione di B., e, poiché questa venne rifiutata, l'esercito si sfasciò. Nuovamente B. abbandonò Pavia, facendo devastare il palazzo regio, quasi fosse consapevole che era l'ultima fuga.

E tuttavia la resistenza venne continuata, decentrata in più punti. B. si ritirò nella rocca di San Leo, Willa nel castello dell'isola d'Orta e i tre figli passarono dall'una all'altra delle rocche di Lombardia tenute dai loro fedeli, in massima parte semplici "milites ", che furono, fino all'ultimo, incrollabili nella fedeltà al castellano. Tuttavia era una resistenza disperata, perché Ottone, accolto come liberatore dalla maggior parte dei signori, era deciso, questa volta, ad impadronirsi della persona di Berengario.

Nel febbraio del 962 Ottone fu incoronato imperatore in Roma e subito fece porre l'assedio all'isola d'Orta, che venne espugnata nel luglio. Willa, lasciata libera, raggiunse il marito a San Leo, che fu assediata da Ottone stesso, mentre i suoi seguaci espugnavano una dopo l'altra le rocche lombarde. Adalberto, restato libero, tentò tutte le possibili combinazioni politiche, giungendo fino ad allearsi con Giovanni XII, ma non riuscì che a ritardare la soluzione definitiva di qualche mese. Alla fine del 964 San Leo cadde. B. e Willa, fatti prigionieri, furono esiliati a Bamberga, dove B. morì il 6 ag. 966, senza aver fatto più parlare di sé (Köpke-Dümmler, p. 381 nota 1).

La sua vicenda fu paragonata a quella del re dei Longobardi Desiderio. In realtà B. operò in una situazione completamente diversa. Desiderio era stato l'ultimo esponente di una monarchia forte e giunta all'apice dello splendore. B. invece era l'erede di una famiglia che era stata tra le principali responsabili dell'anarchia del Regno italico. Ugo di Provenza aveva tentato di ricostituire un Regno che avesse il centro nel re; B., soppiantandolo, doveva proseguirne la politica. Ma ebbe contro i vescovi e, soprattutto, privo di esercito e di amministrazione, dovette, per mantenersi, ricorrere a tutti gli espedienti della politica feudale, senza avere, peraltro, un prestigio adeguato, perché anche l'idea del Regno era ormai in crisi. La sua politica regia sembrò piuttosto il disperato tentativo di predominio di una famiglia dell'aristocrazia su tutti i centri di forza in cui si era frazionata la compagine del Regno. Crollò perciò all'intervento di una potenza militare superiore che seppe legare a sé soprattutto i vescovi. Re di Germania e vescovi saranno appunto le forze che, dopo la caduta di B., determineranno le sorti del Regno.

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