BALDI, Bernardino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BALDI, Bernardino

Raffaele Amaturo

Nacque in Urbino il 5 giugno 1553 da Francesco e Virginia Montanari. Appresi i primi elementi di greco e di latino alla scuola dell'umanista urbinate Gianantonio Turoneo, fu avviato agli studi matematici sotto la guida del celebre Federico Commandino. Nel 1573 si iscrisse alla facoltà di medicina dell'Ateneo di Padova, e successivamente alla facoltà di logica e filosofia, senza tuttavia conseguire alcun titolo accademico. Non tralasciava intanto i suoi preferiti studi letterari e in particolar modo quello della lingua e della letteratura greca. Componeva in quegli stessi anni il suo primo poemetto didascalico, L'Artiglieria,e i numerosi versi lirici, ispirati dall'amore di una Laura da Rio, più tardi riuniti nel volumetto IlLauro (Pavia 1600). Ritornato ad Urbino, riprese gli studi di matematica con il Commandino, e dopo la morte di costui con il matematico Guidubaldo del Monte. Portava a termine frattanto la traduzione dei Fenomeni di Arato, già intrapresa negli anni padovani, e scriveva un secondo poemetto didascalico L'invenzione del bossolo da navigare (1578).

La fama di vasta e varia cultura che egli ancor giovane aveva saputo meritare, gli valse nel 1580 l'invito alla corte di Mantova da parte di don Ferrante Gonzaga signore di Guastalla, desideroso di istruirsi sotto la sua guida nelle scienze matematiche. A questo invito non furono peraltro estranee le raccomandazioni dello zio del Gonzaga, il cardinale Carlo Borromeo, che più tardi lo volle per alcuni anni presso di sé a Milano. Si deve anzi al consiglio e alle sollecitazioni del famoso arcivescovo la composizione de La corona dell'anno - pubblicata in seguito a Vicenza nel 1589 e poi più correttamente a Roma nel 1594 -, una collana di centosedici sonetti di argomento sacro volti principalmente alla celebrazione di vite di santi: poesie, o meglio esercitazioni letterarie eleganti e colorite, ma facili e superficiali.

Nel 1585, per la protezione dei Gonzaga, fu nominato abate di Guastalla e venne ordinato sacerdote. Gli obblighi del nuovo stato e le innumerevoli molestie procurategli dal suo ufficio non lo distolseso tuttavia dagli studi eruditi: tradusse allora il poemetto Ero e Leandro di Museo, studiò il caldaico e l'ebraico, si fece più che mediocre cultore delle arti del disegno e della pittura. Nel 1586, per affari inerenti alla sua carica, si recò per la prima volta a Roma, ove si trattenne per alcuni mesi, soggiogato dal fascino dei monumenti antichi. Scrisse in questo periodo, che è dei più felici e fecondi della sua vita, la migliore raccolta dei suoi versi lirici, i Sonetti romani (in Versi e prose,Venetia 1590), ordinati bizzarramente secondo una sorta di itinerario turistico da Porta del Popolo a Porta San Paolo, e ispirati alla poesia delle rovine che fin dal 1558 Joachim du Bellay aveva inaugurato pubblicando il Premier livre des antiquités de Rome. Poeti insigni quali il Guidiccioni, il Casa, il Tasso e il Molza avevano anche essi attinto a questo motivo che si rivelò comunque particolarmente congeniale alla indole e ai gusti del Baldi.

Tornato a Mantova nel 1587, vi restò, angustiato da continue contese con le autorità laiche di Guastalla, per altri dieci anni, concedendosi sempre più lunghi periodi di riposo nella natia Urbino. Nel 1597 è di nuovo a Roma, al seguito del cardinale Cinzio Aldobrandini; nel 1601 il duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere gli conferì l'incarico di scrivere la vita di Federico di Montefeltro; nel 1609, dopo aver rinunciato definitivamente all'abbazia guastallese, passa al servizio del duca della Rovere e ad Urbino trascorre gli ultimi anni fino alla morte avvenuta il 10 ott. 1617.

Dalle vicende biografiche, varie e molteplici, ma prive di quella coerente linea di svolgimento che sola può confermare una vocazione intima e geniale, già traspare il carattere del personaggio: uomo di universale erudizione, ma non uomo "universale", versatile e volubile, il B. già presenta nella sua insaziabile e arida curiosità culturale, nella sua stessa ombrosa suscettibilità, alcuni aspetti inconfondibili dell'età barocca. Delle sue numerose opere in versi e in prosa, che egli in gran parte disegnava di lasciare inedite e che solo l'indiscreto zelo degli eruditi ottocenteschi ha dissepolto dall'oblio, ben poco resta di vivo e vitale: La Nautica,alcune egloghe, alcune pagine delle sue opere storiche. Giova tuttavia passare in rapida rassegna anche altre opere per diverse ragioni interessanti.

Il Lauro, che, nell'edizione del 1600, è dedicato a Ferrante Gonzaga, presenta due parti nettamente distinte.

La prima parte dell'opera, composta di madrigali, canzoni, sonetti e sestine, non si discosta dai moduli lirici del petrarchismo cinquecentesco, pur se non è difficile scorgere in essa talora la presenza di interessanti imitazioni del Tasso (specialmente nei madrigali), del Guarini e del Marino. Più notevole la seconda parte, che reca il titolo di Rime secondo l'uso dei Siciliani antichi, e che tenta l'imitazione, nel linguaggio e nei metri, dei nostri poeti lirici del Duecento, tutti accomunati, anche gli stilnovisti e Dante, sotto l'unica denominazione di "siciliani". L'una e l'altra parte rivelano ad ogni modo due aspetti significativi e in un certo senso singolari della personalità del B.: la spiccata attitudine mimetica e il gusto degli esperimenti metrici.

Ambizioni di poesia più concettosa e morale si trovano invece nell'altra raccolta poetica pubblicata a Parma nel 1607, Iconcetti morali,dedicata al poeta tragico Pomponio Torelli. È qui evidente l'imitazione delle poesie morali del Chiabrera e del modello comune ad entrambi, i Sermoni oraziani, il cui ritmo il B. tenta invano ripetere nelle sue stentate quartine di endecasillabi. Altre rime inedite sono conservate nel cod. XIII, D, 38 della Bibl. naz. di Napoli. I Carmina,poesie latine di vario genere e di vario metro, rivelano nel B. modeste doti di latinista.

Più che nella lirica, del resto, pregi di elegante letteratura vanno ricercati nei poemetti didascalici, verso i quali dovevano attrarlo non tanto, come pur si è detto, le sue giovanili attitudini scientifiche, quanto invece il culto della poesia virgiliana e ancor più la moda di questo genere letterario, rinverdita nella seconda metà del Cinquecento dietro l'esempio del Rucellai e dell'Alamanni. Si consideri d'altra parte che la fine sensibilità metrica e tecnica del B. doveva essere in un certo senso stimolata anche dalle possibilità offerte dal metro di solito usato nei poemetti di tal genere, l'endecasillabo sciolto: un metro duttile e vario, agile e grave, che meglio d'ogni altro sembrava ormeggiare la cadenza dell'esametro latino e che favoriva pertanto l'assunzione, pure in argomenti tecnici e scientifici, di un linguaggio eletto e latineggiante. Alla Nautica, che è, come abbiamo detto, la miglior prova del B. in questo campo, il poeta venne studiosamente preparandosi con la composizione di altri due poemetti di importanza di gran lunga minore.

In età giovanile, nel 1575, scrisse il primo dei due, L'Artiglieria,che restò incompiuto e inedito nel cod. XIII, D. 38 della Bibl. naz. di Napoli. Il poemetto, che rivela un uso ancora molto maldestro dell'endecasillabo sciolto, narra le immaginarie origini delle armi da fuoc0, intrecciando in una favola disordinata invenzioni mitologiche, notizie storiche e reminiscenze dell'episodio ariostesco di Cimosco e Orlando. Di un'arte più matura mostra i segni un altro poemetto didascalico, rimasto anch'esso per lungo tempo inedito e pubblicato solo al principio del nostro secolo da G. Canevazzi, L'invenzione del bossolo da navigare (1578).

Ma, a paragone delle due precedenti prove didascaliche, La Nautica palesa un'arte senza dubbio più esperta: più proporzionata è la struttura generale dell'opera, più fuso il linguaggio, più scaltro l'uso del verso sciolto, modulato ora con una raffinata sapienza di accenti, di pause, di enjambements. Alla composizione del poemetto l'autore si preparò accuratamente, studiando le opere tecniche per qualche ragione affini alla materia del suo lavoro e tutti quei poemi che in qualche modo potessero giovargli nella ricerca del giusto tono stilistico. Sicché non fu difficile alla critica erudita scomporre i vari elementi di cui si compone il prezioso mosaico, elencando una lunga serie di "fonti" tecniche e letterarie, distinguendo tra queste ultime le antiche e le moderne, le greche e le latine, le umanistiche e le italiane. Lavoro opportuno e anzi, senza dubbio, utile: purché non si presuma, una volta accertata l'una o l'altra derivazione, di togliere ogni valore di originalità al poemetto, o per converso giungere a un'esagerata valutazione di esso proprio in ragione della ricchezza sterminata di materiali eruditi che esso utilizza e rielabora. Vero è che La Nautica,come tanti altri poemetti del genere didascalico, è opera squisitamente letteraria e umanistica, nella quale il lettore accorto non vorrà ricercare gli accenti della vera e schietta poesia, sì piuttosto i pregi letterari e le grazie retoriche, le infinite risorse dello stile, la capacità, infine, veramente prodigiosa, di assimilare e di fondere le fonti più disparate.

Il poema vide la luce nel 1590 nell'edizione veneziana di Versi e prose. Si tratta però, probabilmente, di una seconda edizione, come appare dopo la scoperta, fatta dal Canevazzi, di un manoscritto autografo recante la data del 1580.

Certo è che dopo il 1580 il B. sembra aver volto ormai i suoi interessi ad altri generi letterari, anche se la Deifobe, un poemetto scritto durante il soggiorno romano sotto il fascino dell'antica grandezza di Roma, serba ancora qualche impronta, nella impostazione e nella forma, del poemetto didascalico. La maggior cura del B. fu dedicata in questo periodo alla composizione delle Egloghe,delle quali la maggior parte furono scritte o rielaborate nell'estate del 1584 durante il soggiorno del poeta ad Urbino. Una prima edizione, dedicata al principe Ranuccio Farnese, ne fu fatta a Parma nel 1590, mentre altre ne appaiono nell'edizione veneziana del 1607 e altre ancora restarono inedite nel cod. Albani.

Sono in tutto venti egloghe, dette dal poeta "miste", per la ragione, in verità molto estrinseca, che esse presentano pastori, pescatori e mietitori; i modelli sono i grandi poeti bucolici antichi e moderni, Teocrito e Virgilio, il Sannazaro e il Rota. Ma è stato giustamente osservato che queste egloghe andrebbero chiamate "miste" non per la ragione addotta dall'autore, ma perché tutte, o quasi tutte, incominciano idilliche e terminano didascaliche.

Tra le più valide letterariamente vanno ricordati due delicati idilli domestici: La maestra d'amore e La madre di famiglia. Ma la più famosa e indubbiamente la più bella è Celèo e l'orto, più volte ristampata nelle antologie, e la cui bellezza consiste soprattutto nella sua semplice eleganza, nella linea estremamente gracile e pura del disegno. In questa, come nelle altre egloghe, che sono tra le migliori del '500,il poeta sa abilmente intrecciare sopra motivi tradizionali un suo personale gusto, avvicinandosi ora alla maniera dell'idillio domestico del Tansillo, ora alla vivacità del dramma pastorale.

Agli anni tra il 1580 e il 1590 vanno ascritti anche i Dialoghi, sette in tutto; dei quali però due (Goselino, ovvero della cortesia e Della corte)andarono perduti, e un altro, Il Genio,è incompiuto. Gli altri quattro (Della dignità, L'Arciero, Il Tasso, La Lucerna e l'Hipnofilo) trattano argomenti morali o letterari senza grande originalità e molto ricordano il Cortegiano del Castiglione e i Dialoghi del Tasso. Un certo interesse tuttavia presenta il dialogo Il Tasso per le questioni tecniche e metriche che in esso sono dibattute, e si leggono con diletto le prime pagine de L'Arciero per la vivacità della situazione presentata e per la naturalezza del dialogo.

Gli ultimi anni della vita del B., oltre che alla compilazione di studi eruditi, furono dedicati alla composizione di due opere storiche che sono anche letterariamente tra le sue cose migliori. La prima di esse, Vita e fatti di Federico di Montefeltro, duca d'Urbino,commissionatagli nel 1601 dal duca Francesco Maria II Della Rovere, fu scritta tra il 1602 e il 1603, ma vide la luce soltanto nel 1824.

Sul grande condotticro e mecenate dei Montefeltro erano fiorite molte biografie fin da quando nel 1471 il pontefice Sisto IV gli aveva conferito il titolo ducale. Merito del B. è di aver fatto un accorto uso delle fonti e di essere tornato giudiziosamente a una antica biografia di Pier Antonio Paltroni di cui dimostra la sostanziale veridicità.

Singolare la sorte dell'altra opera storica, Della vita e dei fatti di Guidubaldo I da Montefeltro duca d'Urbino. Nel 1816 Giulio Perticari ne pubblicò alcuni brani sulla Biblioteca Italiana,accompagnandoli con una breve nota informativa. L'interesse suscitato da quelle pagine valse alla opera pochi anni dopo (1821) la prima edizione integrale, a cura di Carlo de' Rosmini, e attirò anzi l'attenzione degli studiosi anche sul primo lavoro storico del B., La Vita di Federico,che, come abbiamo detto, fu appunto pubblicato nell'anno 1824.

Se nella prima opera domina il fragore delle armi, in questa c'è l'esaltazione delle pacifiche occupazioni della cultura. In un racconto mosso e vario rivivono le vicende della vita dell'infelice principe, ultimo della stirpe dei Montefeltro: dalla avventurosa fuga dinanzi alle armi del Valentino, alle peregrinazioni dell'esilio, fino al ritorno in patria, al perdono magnanimo dei nemici, alla morte immatura. Fa da sfondo l'ambiente colto e sereno della corte urbinate, l'ambiente del Cortegiano.

Forse anche per questa ragione sembra talora di sentire in queste pagine, che sono tra le ultime e tra le migliori del B., un'eco impreziosita di quell'aurea prosa.

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