TELESIO, Bernardino

Enciclopedia Italiana (1937)

TELESIO, Bernardino

Guido Calogero

Naturalista e filosofo, nato a Cosenza nel 1509, ivi morto ai primi d'ottobre del 1588. Primogenito di sette figli (un fratello, Valerio, fu barone di Castelfranco e Cerisano, ma nel 1567 i vassalli lo denunciarono al governo vicereale come luterano e nel 1579 lo uccisero; un altro, Tommaso, fu vescovo di Cosenza dal 1565 al 1569), si allontanò fanciullo dalla città natale, seguendo lo zio Antonio, umanista e letterato dottissimo, col quale già nel 1518 era a Milano. Da esso apprese il latino e probabilmente anche il greco. Chiamato lo zio ad insegnare nel ginnasio romano, venne con lui in tale città forse sulla fine del 1521, e in ogni caso prima del 1523. Nel celebre sacco del 1527 fu fatto prigioniero, e liberato dopo due mesi per intercessione di un concittadino, segretario di Filiberto d'Orange. Passato poco dopo lo zio a insegnare a Venezia, egli si fermò all'università di Padova, attendendo principalmente a studî di matematica, di ottica, di filosofia. Dopo circa un decennio, lasciata Padova, si ritrasse in solitudine in un convento benedettino, forse nella Grancia di Seminara; e passò lungo tempo nella meditazione e nella ricerca. Solo dopo aver lasciato Seminara per Napoli, probabilmente intorno al 1545 cominciò a scrivere: e dovette allora stendere la prima redazione della sua opera maggiore, il De rerum natura, che venne poi rielaborando, e a poco a poco pubblicando, durante tutta la sua vita.

Nel 1555, nonostante che egli non avesse ancora stampato nulla, la fama della sua nuova filogofia e del suo antiaristotelismo si era già diffusa: un tal Capilupi poteva, allora, già celebrarlo e invocarlo in versi. Nel 1563 si recò a Brescia, per sottoporre le sue critiche dell'aristotelismo a Giovanni Maggio, che doveva essere uno dei più illustri peripatetici del tempo: e rimase ammirato e confortato dalla liberalità con cui questi accolse le sue obiezioni e, riconosciutane la forza, lo esortò a pubblicare la sua opera. Alla quale egli continuò quindi tenacemente ad attendere, nonostante le traversie che lo venivano colpendo. Nel 1553 aveva sposato, a Cosenza, Diana Sersale, vedova con due figli: ma nel 1561 essa morì, lasciandogli altri quattro figliuoli suoi. Infelici erano anche le sue vicende economiche: ché il T., risiedendo a Cosenza, dove nel 1554 era sindaco dei nobili, attendeva ai lavori dell'Accademia Cosentina (la quale da lui ebbe vivo impulso e per sua influenza si volse principalmente, dalla letteratura, alla scienza e alla filosofia), ma non troppo alla cura dell'avito patrimonio. Cionondimeno, quando nel 1564 Pio IV gli offrì l'arcivescovado di Cosenza, egli pregò il papa di conferirlo piuttosto al fratello; e neppure accettò pienamente l'invito che gli venne prima da Roma a nome di Gregorio XIII, e poi da Napoli, di recarsi colà a tenere un insegnamento pubblico sul suo De rerum natura, limitandosi a conversarne e discuterne con dotti e amici in quelle città. Ma intanto la fama del suo pensiero si diffondeva; e, ancora molti anni prima che egli avesse pubblicato per intero la sua opera, già i primi due libri editi di essa erano, nel 1573, volgarizzati a Firenze da F. Martelli, mentre Antonio Persio difendeva le sue dottrine a Bologna, a Venezia e a Padova e induceva Francesco Patrizzi a comunicare al T. alcune sue osservazioni critiche. Peraltro, nonostante il conforto di questa fama crescente, l'ultimo decennio della sua vita fu duramente amareggiato dall'assassinio del suo primogenito Prospero, avvenuto nel 1576; e ancora poco prima della morte quel dolore doveva durargli cocente nell'animo se l'aneddoto riferito dal Manso nella sua biografia del Tasso (secondo cui il poeta, per consolare il filosofo, gli domandò "se quando il figliuolo non era al mondo, egli si doleva che non vi fosse" e avutene risposta negativa soggiunse: "Dunque perché vi dolete ora che non vi sia?") è, come par probabile, da ascrivere al 1588, anno che il Tasso trascorse in gran parte a Napoli, dove il T. si recava spesso, ospite dei Carafa.

Della sua opera capitale, il De rerum natura iuxta propria principia, il T. pubblicò a Roma nel 1565 il primo libro, che ristampò rielaborato, insieme col secondo, a Napoli nel 1570; l'opera completa, in nove libri (in cui i primi due erano ancora una volta rielaborati), uscì a Napoli nel 1586. Fu poi ristampata, insieme con opere di Filippo Mocenigo e Andrea Cesalpino, a Ginevra nel 1588, e, a sé, a Colonia nel 1646: una riedizione critica è infine quella di V. Spampanato (I, contenente i libri I-III, Modena 1910; II, contenente i libri III-VI, Genova 1913; III, contenente i libri VII-IX, Roma 1923). Il T. compose inoltre una serie di opuscoli di argomento naturalistico: nel 1570 pubblicò a Napoli, in tre stampe separate, il De his quae in aere fiunt, et de terraemotibus, il De colorum generatione e il De mari; i quali nel 1590 furono ristampati a Venezia a cura di Antonio Persio, in una serie di volumetti, insieme con altri lasciati inediti dal T., e cioè il De cometis et lacteo circulo, il De iride, il Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur contra Galenum, il De usu respirationis, il De saporibus, il De somno. Due altri opuscoli inediti del T., De fulmine e Quae et quomodo febres faciunt, furono pubblicati dal Fiorentino nell'opera sotto citata, II, pp. 325-74, insieme con la risposta del T. alle obiezioni comunicategli, come si è detto, dal Patrizzi (Solutiones Thylesii, ivi, pp. 391-98): e nello stesso libro (pp. 311-12) è anche ristampato il Carmen ad Joannam Castriotam, inserito dal T. nel volume Rime et versi in lode della ill.ma et ecc.ma S.D.G. Castriota, ecc., edito da don Scipione de' Monti, Vico Equense 1585. Infine, per alcune notizie di opere smarrite, v. la sotto citata monografia del Gentile, pp 143-44

L'orientamento della filosofia del T. risulta già dal titolo della sua opera, enunciante come la rerum natura vi sia interpretata iuxta propria principia, cioè secondo "principî insidenti in essa medesima, ad essa proprî", e non estranei, per la loro trascendenza, al suo ambito ontologico. Tali sono, dal punto di vista della critica del T., i principî che sostanzialmente determinano la realtà e il divenire naturale secondo quell'aristotelismo, che, come si è detto, costituisce il termine precipuo di tutta la sua polemica. Quand'anche, infatti, si volesse considerare come proprium della rerum natura il principio della materia, estraneo le resterebbe in ogni modo quello della forma, il quale, per quanto fuso con l'altro nella concreta esistenza dell'individuo, appartiene tuttavia nella sua essenza alla superiore sfera dell'eterno. E, quel che più importa, tale natura della "forma" aristotelica, attraverso la sua identità con l'"atto", verso cui tende nel divenire ogni "potenza", e per la dipendenza gerarchica di tale sistema di rapporti di potenzialità e attualità dal supremo principio rappresentato dal divino actus purus, subordina a questo termine trascendente l'intero divenire naturale. Il T. mira invece a rendere questo divenire comprensibile per sé medesimo: e sostituisce perciò alla forma aristotelica un duplice principio attivo, costituito dal binomio del "caldo" e del "freddo", i quali, insidendo nel principio passivo della materia, vengono ad essere opposte cause di ogni suo divenire, in quanto determinano l'una ogni sua evoluzione in senso positivo (ossia rispondente, potrebbe dirsi, all'aristotelica generatio) e l'altra ogni sua evoluzione in senso negativo (ossia rispondente all'aristotelica corruptio).

Il T. viene con ciò a resuscitare da un lato (secondo un'osservazione acuta, ma parziale, di Francesco Bacone, che lo ebbe molto in pregio) quel binomio del caldo e del freddo, o della luce e della tenebra, di cui già s'era valso Parmenide nell'interpretazione della natura dal punto di vista della sua "apparenza" e dall'altro quel motivo dell'antitesi della passività all'attività, che era stato sfruttato dallo stoicismo nella trasformazione, operata in sede di "fisica", dell'ontologia di Platone, e del giovane e ancor platonizzante Aristotele, da esso presupposta. Ma quel che nel T. interessa non è tanto la particolare costituzione dei suoi principî, sotto certo aspetto assai presocraticamente ingenui, quanto lo spirito decisamente immanentistico, con cui egli cerca di dedurre da essi ogni fenomeno naturale, senza presupporre ulteriori elementi teleologici. Specialmente notevole è a questo proposito la sua psicologia, e la congiunta etica, nella quale egli non pone alcuna netta distinzione qualitativa tra le facoltà animali e quelle umane, né tra il fisiologico e lo spirituale, derivando da un lato lo "spirito" dal principio del caldo e dall'altro deducendo ogni funzione conoscitiva dal "senso", in modo che potrebbe parere sensistico ed empiristico a chi non badasse a tutto l'apriorismo metafisico ancora superstite nel T. S'intende quindi come la sua dottrina (che aveva poi, per varî aspetti, il suo massimo difensore e continuatore nel Campanella, da lui acceso d'entusiasmo per gli studî di filosofia) dovesse venire direttamente in urto non solo con l'aristotelismo tradizionale, ma con quella stessa interpretazione albertino-tomistica del cristianesimo, che sull'aristotelismo principalmente si basava. Il T. cercava bensì di evitare tale urto, almeno sul piano religioso, ammettendo che nell'uomo sussistesse anche un'anima creata da Dio, la quale, provenendo dall'eterno regno di quest'ultimo, tendeva platonicamente a ritornarvi, e, desiderosa e insieme incapace di ficcar lo viso al fondo della suprema saggezza, che pur vedeva manifesta nella rerum natura, finiva per rimettersi, a tal proposito, ai dettami della rivelazione e della fede. Ma tale ammissione (per sincera che fosse, sia come espressione di sentimento religioso, sia come postuma correzione spiritualistica dell'eccessivo naturalismo del sistema) non poteva non restare estrinseca rispetto all'organismo fondamentale del sistema stesso: e quindi logicamente la Chiesa, a soli cinque anni dalla morte del T., poneva all'indice l'opera con la quale egli aveva vigorosamente contribuito, in seno al pensiero del Rinascimento, alla liberazione del cristianesimo dalla teologia aristotelico-scolastica.

Bibl.: Per la biografia lo scritto migliore è quello di F. Bartelli, Note biografiche (B. T. e Galeazzo di Tarsia), Cosenza 1906. Tra le monografie moderne, si veda anzitutto G. Gentile, B. T., Bari 1911 (con bibliografia del T. e sul T., riportante i proemî delle opere originali); inoltre: Chr. Bartholmèss, De B. T., Parigi 1849; F. Fiorentino, B. T., ossia studî storici su l'idea della natura nel Risorgimento italiano, voll. 2, Firenze 1872-74; K. Heiland, Erkenntnislehre und Ethik des B. T., Lipsia 1891; E. Troilo, B. T., Modena 1910; E. Zavattari, La visione della vita nel Rinascimento e B. T., Torino 1923. Fra gli scritti più antichi conservano interesse: Montano Accademico Cosentino [Sertorio Quattromani], La filosofia di B. T. ristretta in brevità et scritta in lingua toscana, Napoli 1589; G. d'Aquino, Oratione in morte di B. T., philosopho eccellentissimo, agli Accademici Cosentini, Cosenza 1596; F. Bacone, De principiis atque originibus secundum fabulas Cupidinis et Coeli: sive Parmenidis et T. et praecipue Democriti philosophia, ecc., in Scripta in naturali et universali philosophia, a cura di I. Gruster, Amsterdam 1653, p. 208 segg.; J. G. Lotter, De vita et philosophia B. T. commentarius, ecc., Lipsia 1733; F. S. Salfi, Elogio di B. T., 2a ed., Cosenza 1838; F. Scaglione, in Atti della Accademia Cosentina, II (1842), pp. 15-115.