DADDI, Bernardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 31 (1985)

DADDI, Bernardo

Giovanna Damiani

Figlio di Daddo di Simone, originario del Salto nel Mugello, pittore, immatricolato a Firenze, all'arte dei medici e speziali, il suo nome è segnato alla fine del registro che va dal 1312 al 1320 (Hueck, 1972, p. 119). La sua data di nascita andrà perciò collocata nell'ultimo decennio del XIII secolo probabilmente a Firenze.

Nel 1335 eseguì una tavola, perduta, per l'altare di S. Bernardo nella cappella dell'Udienza nel palazzo della Signoria ed acquistò parte di una casa situata in via Larga, nel popolo di S. Lorenzo. Nel 1339 rivestì la carica di consigliere della Compagnia di S. Luca e compare come testimone di un decesso (Baldinucci, 1686, p. 70). L'anno successivo dipinse una tavola per il coro della chiesa di S. Maria a Quarto e nel 1341 quella per l'altare maggiore della stessa chiesa, ambedue perdute. L'ultima notizia sul D. risale al 18 ag. 1348 ed è tratta da un documento in cui è ricordato come già morto, probabilmente vittima della epidemia di peste, se due dei suoi figli, tra i quali Daddo, anch'egli, poi, pittore, sono ricordati come minori (Offner, p. 3).

Scarsamente e imperfettamente considerato dalla antica storiografia artistica fiorentina (il Vasari, 1568, nella vita di Iacopo del Casentino lo dice allievo di Spinello Aretino e ne colloca la morte nel 1380), si deve la ricostruzione della personalità artistica del D. alla critica moderna sulla base dell'identificazione, dovuta alle ricerche filologiche del Passerini e del Milanesi (1865), di Bernardus de Florentia, che firma alcuni dipinti trecenteschi, con il Bernardo Daddi delle fonti e dei documenti. Dopo una iniziale ricognizione della produzione artistica del pittore dovuta al Milanesi stesso (1878), la prima monografia si deve al Vitzhum (1903) che, sulla base di un primo nucleo. di opere significative, ne tracciava i lineamenti stilistici fondamentali. Il favore incontrato nel gusto moderno dalle opere del D. ha condotto ad un eccessivo ampliamento del suo catalogo inducendo I'Offner, autore di fondamentali studi sul pittore (1930), a restringere con troppo rigore l'elenco delle opere autografe. I contributi successivi, volti a definire con maggiore precisione la fisionomia artistica della cultura fiorentina giottesca e postgiottesca, hanno ricondotto la questione ad un più equilibrato giudizio storico-critico.

Gli studi recenti hanno messo a fuoco una serie di dipinti variamente scalabili lungo l'arco del terzo decennio del secolo, stifisticamente più arcaici del trittico firmato e datato 1328 (Oggi agli Uffizi), prima opera certa del D., concordemente ritenuti le prove iniziali della attività artistica del pittore. A Tjesto gruppo appartiene la solenne Madonna in trono con il Bambino tra quattro santi nella Galleria nazionale di Parma. eseguita probabilmente agli inizi del decennio, fondamentale per comprendere la formazione artistica del D. e i suoi rapporti con la più antica corrente figurativa giottesca; le tipologie daddesche, caratteristiche di una produzione innumerevole a partire soprattutto dal quarto decennio del secolo, non risultano ancora ben definite; la Madonna e i santi si legano formalmente ad un giottismo ancora arcaico, anteriore al 1320, non lontano da analoghe soluzioni stilistiche realizzate dal Maestro della S. Cecilia; il richiamo a modelli molto antichi permane ad evidenza, per esempio, nella scelta del trono, ancora di tipo cosmatesco. A quest'opera si lega strettamente, anche per caratteri esterni, quali appunto l'identità del trono, la figura di Santo vescovo nel Museo Fesch di Aiaccio, quella di S. Benedetto nella coll. Brunelli a Milano e la Madonna con il Bambino della Pinacoteca Vaticana, da taluni ritenuta l'opera più antica del Daddi. La tendenza ad un plasticismo accuratamente tornito, una certa fissità di forme ed una cromia vivace, che caratterizzane. queste opere, costituiscono i tratti fondamentali sia del polittico di Lucarelli (Radda in Chianti), molto vicino alla Madonna di Parma e diretto precedente del trittico degli Uffizi, sia dei due affreschi raffiguranti il Martirio di s. Lorenzo e il Martirio di s. Stefano nella cappella Pulci-Bernardi in S. Croce a Firenze - uniche opere eseguite dal D. con questa tecnica - tradizionalmente ritenuti di una fase più tarda, circa il 1328-33, ma che invece vanno situati non oltre la seconda metà del terzo decennio del secolo.

La semplificata sintassi spaziale delle scene appare desunta dalle soluzioni giottesche della cappella Peruzzi in S. Croce, mentre talune invenzioni di raccordo narrativo, come i personaggi affacciati ai balconi, costituiscono, nella revisione cronologica oggi generalmente accettata per i due affreschi, un elemento di priorità rispetto ad analoghe soluzioni di Taddeo Gaddi nella cappella Baroncelli, sempre in S. Croce. Il permanere di un plasticismo ancora crudo, in certi casi quasi spigoloso, i forzati contrasti chiaroscurali, pur nella scelta di gamme cromatiche tenerissime, denunziano i limiti dell'arte del D. che non sembra adatta a svolgere imprese di troppo ampio respiro. Il già ricordato trittico del 1328, proveniente dalla chiesa di Ognissanti, mentre da un lato si richiama ancora alla corrente giottesca più arcaica facente capo al Maestro della Santa Cecilia, dall'altro sembra anche risentire della problematica formale giottesca dell'ultimo periodo, ma in parallelo, piuttosto che con le ricerche che da tali esiti prendono le mosse nell'ambiente di stretta osservanza giottesca, con le interpretazioni offerte dai pittori senesi nella seconda metà del decennio. Prevale infatti nell'opera, nonostante un crornatismo ancora crudo, un ritmo più sciolto ed un modellato più morbido, un tono facile e quasi familiare che sarà proprio della tematica artistica del D. e tipico delle sue successive realizzazioni. Quest'opera si può pertanto considerare un punto di arrivo, nel percorso artistico del pittore, che conclude la fase iniziale della sua attività e orienta circa le successive preferenze stilistiche.

Tali preferenze, sono riconoscibili in opere che a questa si legano abbastanza strettamente, intendendo fra le altre la figura di S. Giovanni Evangelista nel Museo Bandini a Fiesole, la Madonna in collezione Acton a Firenze, il trittico nella Galleria comunale di Prato, opera ancora giovanile, forse di poco successiva a quella degli Uffizi, e le importantissime tavolette appartenenti alla predella di un disperso polittico, con Storie di s. Cecilia, due delle quali sono conservate nel Museo Folkwang di Essen e un'altra nel Museo nazionale di Cracovia (coll. Czartoryski) e che sono riferibili agli inizi del quarto decennio del secolo; in esse, meglio che nelle ampie distese degli affreschi, le composizioni risultano ritmicamente spaziate anche attraverso delicati rapporti cromatici.

Apre quella che si può definire una nuova fase nel percorso artistico dell'artista l'anconetta cuspidata con la Madonna con il Bambino, angeli e santi conservata nei depositi degli Uffizi, eseguita nel 1333 probabilmente per l'arte dei medici e degli speziali, e verosimilmente prima di una lunga serie di altaroli portatili destinati alla devozione privata, pienamente rispondenti ai gusti e agli ideali della ricca borghesia fiorentina, prodotti in larghissimo numero dal D. e dalla sua fiorentissima bottega: nuova fase che dovette coinvolgere non solo lo stile, ma anche una impostazione diversa della produzione artistica del pittore, data la grande quantità di opere eseguite in questi anni, per far fronte ad una sempre crescente richiesta (in parte probabilmente determinata anche dall'assenza da Firenze di Giotto, a Napoli dal 1328 al 1334).

Il successo riscosso dalla produzione del D. in questo periodo fu dovuto probabilmente alla capacità di adeguamento che egli dimostrò riuscendo ad innestare le novità, in special modo le sollecitazioni culturali provenienti dalla pittura senese contemporanea, sul tronco della tradizione giottesca e in questa ottica va nuovamente rivista l'importanza storica del Daddi.

Prototipo incontrastato di questo tipo di produzione, per la indubbia eleganza e l'alta qualità artistica, è l'altarolo conservato nel museo fiorentino del Bigallo, datato anch'esso 1333, dove meglio si esprime la poetica essenzialmente lirica del D., di piano e facile illustratore, incline ad una narrazione accostante, animata da una umanità cordiale e bonaria; nella tipologia della Madonna il D. crea un modello sereno e sorridente, in tenero e giocoso rapporto con il figlio, che costituirà un motivo costante e distintivo della sua produzione e di quella del suo largo seguito. Si può riconoscere inoltre in quest'opera una prima suggestione dell'arte di Maso, formatosi giusto agli inizi del decennio e probabilmente nella bottega stessa del Daddi. In realtà il rapporto di dare e avere fra il D. e Maso di Banco merita una revisione a favore di un ruolo tutt'altro che marginale svolto dal primo nella cultura figurativa fiorentina a cavallo dei due decenni. Ècerto, tuttavia, che l'esagerato espandersi del manto della Vergine, che suggerisce una nuova considerazione dello spazio, e la scelta di un cromatismo più morbido e fluido costituiscono le novità vuoi indotte dal giovane Maso vuoi proprie del rinnovato clima artistico fiorentino, di cui sembra partecipe anche Taddeo Gaddi. In un'altra opera simile all'altarolo del Bigallo, l'anconetta cuspidata, eseguita nel 1334 e firmata "Bernardus de Florentia" (Firenze, Uffizi), si palesa in maniera esplicita un notevole ascendente derivato dalla scuola senese e in special modo dai Lorenzetti, mentre le suggestioni masesche, più appariscenti nell'altarolo del 1333, sembrano superate in una maggior libertà compositiva e in una interpretazione personale, di raffinata scenografia puramente decorativa, dei problemi cromatico-spaziali introdotti da Giotto nel decennio 1320-30 e da Maso sviluppati. Nella serie di opericciole prodotte nell'arco del decennio, sugli schemi dell'altarolo del Bigallo e dell'anconetta degli Uffizi melto spesso fornite di firma e data, andranno ricordate per qualità di stile ed eleganza di risultati quella nel Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.) del 1334, quella riferibile a circa la metà del decennio nel Museo di Capodimonte a Napoli, l'anconetta della Kress Foundation nella Nelson Gall. and Atkins Mus. di Kansas City (Mo.), l'altarolo della Pinacoteca nazionale di Siena datato 1336, versione conforme ma meno elegante di quello del Bigallo, quello nel Lindenau Kunst Museum di Altenburg, quello nella Gemáldegalerie di Berlino, l'anconetta nella National Gallery di Washington, il frammento con l'Incoronazione della Vergine nella Galleria Sabauda di Torino, l'anconetta nel Museo Horne a Firenze, l'altarolo datato 1337 già nella collezione Sterbini (poi Lupi di Roma) ed infine tre altaroli datati 1338, che in certo senso concludono questa fase, a Minneapolis (Institute of Art), Londra (coll. Seilem presso il Courtauld Inst.: cfr. A. s.; Ital. paintings ... at 56 Princes gate ..., II, London 1959, n. 69, tavv. I-XV; Id., Corrigenda and Addenda to the catal. ..., London 1971, pp. 41 ss.), Edimburgo (National Gallery of Scotland). Sempre negli anni '30 vanno inoltre ricordate due tavolette interessanti anche dal punto di vista iconografico: la Madonna fra due santi del Museo dell'Opera del duomo di Firenze, datata 1335, e quella con lo stesso soggetto nella Pinacoteca Vaticana, di poco posteriore.

Al quarto decennio del secolo appartiene inoltre una serie di grandi polittici destinati alle maggiori chiese di Firenze e dintorni. Quello grandioso eseguito per l'altare maggiore della chiesa di S. Pancrazio è l'opera più impegnativa e significativa del Daddi. Appartiene alla piena maturità artistica del pittore, quando cioè egli sembra aver superato le più evidenti suggestioni masesche risolvendole in un prevalere di ritmi eleganti e nel gusto per una cromia squillante e quasi aggressiva. Tale luminosità di colore, nuova nell'ambiente fiorentino per opere di grande formato ma che incontrerà largafortuna nella seconda metà del secolo, sembra costituire la personale risposta del D., a cui dovevano essere ben presenti le esperienze senesi soprattutto di Ambrogio Lorenzetti, alla sintesi forma-spazio-colore di Maso. Il D. produce, cioè, in una generale armonia di cffetti, una versione dei principi gotici affatto personale e quasi eclettica, cui non risulta del tutto estraneo, piuttosto, il goticismo di Andrea Pisano. Il polittico non appartienead una epoca troppo avanzata e probabilmente va collocato nella seconda metà del decennio, poiché i pannelli della predella conservano ancora alcuni ricordi di quelli pisani con le Storie di s. Cecilia e un'adesione maggiore all'ambiente giottesco, rispetto a quelli della predella di un perduto dossale con Tre santi domenicani, firmato e datato 1338, eseguito per S. Maria Novella, raffiguranti tre Storie di santi, divisi tra il Museo di Poznań, la collezione Jarves della Yale University a Hartford (Conn.) eil Musée des arts décoratifà di Parigi. Quasi certamente al 1337 risale il perduto polittico già sull'altar maggiore del duomo di Prato di cui si conserva nella Galleria comunale di quella città la predella con Storie della sacra cintola e di cui non è improbabile facesse parte, sia per il soggetto sia per le dimensioni sia anche per la presenza inconsueta, in Prato, di due polittici con doppia predella (di Giovanni da Milano e Pietro di Miniato), anchequella con Storie del sacerdote Luciano e di s. Stefano nella Pinacoteca Vaticana, stilisticamente di poco più tarda e perciò eseguita, verosimilmente, in un successivo ampliamento dell'opera. Questa serie di dipinti di piccole dimensioni, cui vanno aggiunte anche le due tavolette, di qualità molto alta, con Storie di s. Orsola, appartenenti anch'esse alla fine del decennio, conservate nel J. Paul Getty Muscum di Malibu (Cal.) e nel Landesmuseurn di Zurigo, e i sei pannelli con Storie di s. Reparata, anchessi appartenenti ad un perduto polittico, sparsi per musei e collezioni d'Europa e d'America, (cfr. Steinweg, 1956, pp. 25-40; Conti, 1968, p. 4), riferibili ad un'epoca più avanzata, circa la metà degli anni '40, più confacenti per il carattere narrativo al temperamento artistico del D., costituiscono i suoi più apprezzati raggiungimenti.

Nell'ultimo decennio di attività, ancora caratterizzato da opere di grande impegno, si assiste ad una ulteriore evoluzione nello stile del D., che torna tendenzialmente a rappresentare forme larghe e monumentali. Al 1343 risale la Crocifissione nella Galleria dell'Accademia di Firenze, che, nonostante lo schema più volte ripetuto dal D., è fra i dipinti più significativi di questo decennio, quando egli mostra una più equilibrata e complessa fusione tra la sua formazione giottesca e le sue propensioni variamente gotIche. Sempre agli inizi del decennio va inoltre riferito il polittico, proveniente dalla chiesa del Carmine di Firenze, smembrato, ma parzialmente ricomposto in quattro degli scomparti originali comprendenti la Madonna (Vienna, coll. Lanckorónski), la S. Cecilia (New York, coll. Hirsch) e i Ss. Bartolomeo e Lorenzo, oggi nella chiesa di S. Maria a Quarto, presso Firenze, che ben si accorda, per qualità e stile, alla tarda attività del pittore. Provenienti da S. Maria Novella sono inoltre l'Incoronazione della Vergine, oggi agli Uffizi, e il polittico nel cappellone degli Spagnoli, firmato e datato 1344. Nel 1347 il D. eseguì la splendente Madonna per il tabernacolo di Orsammichele, ispirata nello schema figurativo e iconografico ad un'immagine più antica, risultando curiosamente arcaizzante. Ultima opera eseguita dal D., firmata e datata 1348, fu probabilmente il polittico già in S. Giorgio a Ruballa, Poi nella collezione Gambier Parry a Higham Court e oggi nel Courtauld Institute of Art dell'università di Londra (mentre la predella si trova divisa tra il Museo di Strasburgo, la collezione Van Gelder di Bruxelles, quella Lawrence Jones di Londra e un'altra non meglio nota coll. privata: cfr. Blunt, 1967, p. 115; Offner, III, 1930, pp. 80 s.; VIII, 1958, pp. 49-58; Zeri, 1971., pp. 15 s.), nel quale va riconosciuto, come nella maggior parte delle opere realizzate nell'ultimo periodo, l'intervento della bottega, senza peraltro che vi si possa isolare il contributo autonomo di una distinta personalità artistica, segno che al D. va comunque pur sempre riferita la conduzione generale del lavoro.

L'ampio seguito che ebbe l'opera del D. è dimostrato dal gran numero di dipinti che ad essa si avvicinano strettamente, senza peraltro che si possa confermare al maestro la diretta esecuzione.

Tra i molti aiuti che egli dovette avere, soprattutto nell'ultimo periodo della sua attività, va certamente considerato il figlio Daddo, dalle fonti ricordato come pittore, nato intorno alla metà del terzo decennio del Trecento; si iscrisse infatti all'arte dei medici e speziali dopo il 1346 (Hueck, 1972), prima quindi del 1358 o 1351 come ritenevano Milanesi (1901) e Venturi (1907).

Non essendoci pervenuta alcuna opera di Daddo, risultano privi di fondamento i vari tentativi fatti dalla critica per ricostruirne la personalità artistica legando al suo nome alcune opere perché stilisticamente affini a quelle del padre, ma a questo non riferibili, o prodotte nella sua bottega dove verosimilmente egli dovette formarsi.

Simone, figlio di Daddo, fu scultore e architetto, ma non resta testimonianza di questa sua attività (Milanesi, 1878, p. 464).

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