BERTA di Toscana

Enciclopedia Italiana (1930)

BERTA di Toscana

Antonio Falce

Contessa e marchesa, figlia di Lotario II re di Lotaringia e di Waldrada; sposa in prime nozze di Teobaldo, conte di Arles, già morto nell'890, da cui ebbe Ugo, poi re d'Italia, e Bosone che fu marchese di Toscana; e in seconde nozze, avvenute prima dell'898 e forse già nell'894, di Adalberto II il Ricco, duca e marchese di Toscana, da cui ebbe tre figli, Guido e Lamberto, che succedettero al padre nel governo della Toscana, ed Ermengarda, andata sposa al vedovo marchese Adalberto d'Ivrea. Morì nel 925 e fu sepolta nella cattedrale di Lucca; è probabile che nascesse intorno all'860. Nata da stirpe regale ed educata finemente nelle corti feudali della Lotaringia, della Borgogna e della Provenza, sortì da natura un ingegno non comune, e anche una spiccata attitudine all'intrigo, un'audacia spregiudicata, una sfrenata ambizione, capacità di influire potentemente sui mariti e sui figli suoi. Nella condotta politica seguita verso i re e verso i papi da Adalberto II di Toscana dall'894 al 905, assai spesso le fonti contemporanee - sia pure sfacciatamente tendenziose - ci informano che bisogna vedere il peso della volontà di Berta. Prima sostiene con ogni mezzo Guido di Spoleto, zio del marito, contro Berengario del Friuli e Arnolfo di Carinzia; poi si stacca da Guido per avvicinarsi ad Arnolfo; indi passa a Berengario, per adoprarsi poco dopo al ritorno della pace tra Adalberto e Lamberto di Spoleto; insoddisfatta anche di questo, torna a brigare con Berengario, contro cui fa venire in seguito il suo parente Lodovico di Provenza, che finirà poi accecato perché abbandonato e tradito da lei stessa e da suo marito. Si serve d'ogni espediente e d'ogni alleato: dei marchesi d'Ivrea attraverso l'intrigante e astuta figlia Ermengarda; di Alberico I duca di Spoleto; di personaggi della corte romana, nonché dell'amicizia dei conti Teofilatti, nella cui famiglia avverrà poi il matrimonio di suo figlio Guido con la celebre Marozia; degli arcivescovi ravennati, come dei parenti di Provenza e di Borgogna; delle dolci arti della seduzione femminile, ma anche della menzogna calunniosa e perfida. Morto Adalberto, si può dire che assunse in persona il governo dell'Italia feudale, servendosi dei figli Guido, Lamberto, Ermengarda, Ugo e Bosone, che pendevano come ciechi strumenti dai suoi cenni. L'imperatore Berengario, nel 915, la fece imprigionare a Mantova col figlio Guido, senza ottenere altro effetto che l'inasprimento del malanimo dell'ambiziosa contessa contro di lui. Dovette rimetterla in libertà: libera, ella si rimise a tessere intrighi e certamente fu tra coloro che piti persuasero Rodolfo di Borgogna a scendere in Italia, e più contribuirono con tutti i mezzi leciti e illeciti alla sconfitta e alla fine di Berengario, spianando in tal modo la via della corona regale d'Italia al figlio Ugo.

Sollevò pertanto intorno a sé espressioni di ammirazione adulatrice, ma anche un vespaio di pettegolezzi, di maldicenze e di calunnie volgari e feroci. Il contemporaneo vescovo Liutprando di Cremona, notoriamente ostile alla famiglia dei marchesi d'Ivrea, e quindi a Ermengarda e ai suoi parenti di Toscana, ci ha lasciato nei suoi scritti, pervasi da impudente partigianeria, degli interessanti ricordi relativi a Berta, che sono ora delle accuse e ora delle contumelie.

Inoltre il poeta delle gesta berengariane attribuisce con sicurezza e forza a Berta l'invito di scendere in Italia fatto nel 900 a Lodovico di Provenza, per contrapporlo a Berengario, a Berta, che è da lui chiamata "belva" e "Cariddi", e che una glossa presenta come la dominatrice della Toscana, sempre pronta a sobillare i nemici del partito berengariano. Ancora da Liutprando si raccoglie l'aperta accusa che Berta per raggiungere i suoi più loschi fini politici non sarebbe rifuggita nemmeno dall'adulterio.

Ricordo di persona saggia pia e benefica B. invece naturalmente lasciò nella sua epigrafe sepolcrale che, composta all'epoca della sua morte, ancor oggi si legge nella cattedrale lucchese, a cui ella fece molte e cospicue donazioni. Alla corte di Costantinopoli la si conosceva col nome di "grande Berta". Alcuni studiosi vollero a torto vedere un'allusione a lei nel leggendario motto popolare: "Passò il tempo che Berta filava".

Bibl.: A. Hofmeister, Markgrafen u. Markgrafschaften im ital. Königreich in d. Zeit. v. Karl d. Grossen bis auf Otto d. Grossen (774-962), in Mitteil. d. Inst. f. österr. Geschichtforschung, suppl. VII (1906), fasc. 2.

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