Spaventa, Bertrando

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Bertrando Spaventa

Alessandro Savorelli

Bertrando Spaventa fu il rappresentante più dinamico di quel gruppo di intellettuali che si suole denominare degli ‘hegeliani napoletani’. La sua fama era già tramontata alla fine dell’Ottocento, quando Giovanni Gentile lo rimise in circolazione come ‘riformatore’ della dialettica hegeliana e precursore dell’attualismo: cultore di una raffinata ‘teologia’ laica parve anche a Benedetto Croce. Nel secondo dopoguerra, sulla scia dell’individuazione di alcuni ignoti articoli politici del giovane Spaventa, emerse un diverso giudizio storico sulla sua opera, definita poi da Eugenio Garin (1983), per abito critico e intreccio fra riflessione storico-teorica e impegno civile, tutta di «immanente politicità» (nuova ed. 2007, p. 29).

La vita

Spaventa, di cinque anni più vecchio del fratello Silvio, nacque a Bomba (Chieti) il 26 giugno 1817, da una famiglia imparentata con i Croce. Dal seminario di Chieti passò a insegnare matematica all’abbazia di Montecassino (1838-39), quindi a Napoli dal 1840, dove si iniziò alla filosofia classica tedesca e frequentò i vivaci circoli intellettuali della capitale. Tra il 1846 e il 1847 aprì con Silvio una scuola privata (che, sospetta per le sue idee eterodosse, fu chiusa per ordine del governo) e redasse, probabilmente di nuovo con lui, il giornale politico-filosofico «Il Nazionale», che ebbe un importante ruolo politico nel 1848. Fallito il moto costituzionale a Napoli e condannato Silvio alla pena di morte nel 1849 (la condanna fu poi commutata nell’ergastolo), Bertrando riparò prima a Firenze, quindi a Torino (1850), dove visse esule per un decennio.

Svestito l’abito sacerdotale (aveva preso i voti alla vigilia dell’andata a Napoli), tentò inutilmente di ottenere un insegnamento universitario. A contatto con gli esuli meridionali, collaborò a riviste e giornali politici, dapprima al «Progresso», di orientamento radicale-democratico, quindi al «Cimento», al «Piemonte» e alla «Rivista contemporanea». L’ostilità degli ambienti accademici alle sue idee filosofiche finì per emarginarlo, costringendolo a vivere dei modesti proventi di traduzioni dal tedesco, dell’attività pubblicistica e, nei momenti peggiori, del sostegno degli amici esuli. L’occasione di mettere a frutto l’approfondito e inedito lavoro di scavo sulla filosofia idealistica tedesca (da Immanuel Kant a Georg Wilhelm Friedrich Hegel) e sul Rinascimento italiano (a proposito del quale scriveva al fratello: «Se altri ha dormito per 10 anni, io non ho dormito!», lettera del 15 ottobre 1859, in Epistolario, 1° vol., 1847-1860, a cura di M. Rascaglia, 1995, p. 249) gli venne nel 1859, quando, a seguito degli eventi della Seconda guerra d’indipendenza, fu chiamato da Luigi Carlo Farini, governatore delle province emiliane, a insegnare filosofia del diritto all’Università di Modena. L’anno seguente, mentre il fratello, scarcerato, rientrava in Italia, passò a insegnare storia della filosofia all’Università di Bologna. Nel 1860, per iniziativa dell’allora ministro Francesco De Sanctis, poté tornare a Napoli, dove tenne la cattedra di filosofia teoretica.

Nei suoi corsi universitari espose la celebre teoria della ‘circolazione’ del pensiero europeo e le parti principali del sistema di Hegel. Non fondò una vera e propria scuola: gli allievi (fra gli altri Andrea Angiulli, Donato Jaja, Felice Tocco e Antonio Labriola) si segnalarono anzi per autonomia intellettuale e uscirono presto dalla cerchia delle idee del maestro. La breve egemonia culturale del circolo hegeliano, di cui fu il principale esponente (mentre Silvio si avviò alla carriera politica), si andò esaurendo: nel 1872 fondò il «Giornale napoletano di filosofia e lettere», in contrapposizione al nascente positivismo e ai periodici legati ad ambienti filosofici tradizionali, come la «Nuova antologia» e «La filosofia delle scuole italiane».

Dal 1870 (e in particolare dal 1876, dopo la caduta della Destra, nelle cui file era stato anche eletto deputato) si venne a trovare in un crescente isolamento, che visse politicamente appartato e con senso di risentimento e disagio intellettuale, anche per il distacco ideale di antichi camarades come De Sanctis e Pasquale Villari. Avviò così un lavoro di revisione dell’hegelismo, entrato in crisi da tempo in tutta Europa, e un serio confronto critico con altre correnti filosofiche (principalmente con il positivismo), interrotto dalla morte avvenuta il 20 febbraio 1883: nel giro di pochi anni, come avrebbe scritto Labriola, del movimento hegeliano («la sola via – sosteneva – per la quale l’Italia avrebbe potuto ripigliare il largo»; lettera del 17 nov. 1898, in Carteggio. IV. 1896-1898, a cura di S. Miccolis, 2004, p. 671) si andò perdendo «la traccia e la memoria».

Filosofia e vita civile a Napoli alla vigilia del Risorgimento

Quando Spaventa giunse esule a Torino si era da poco consumato a Napoli l’ultimo atto del lungo scontro fra il potere politico e l’élite colta, iniziato con l’episodio della Repubblica partenopea del 1799. La fine dell’esperimento costituzionale degli anni 1848-49, parallelo al crollo delle rivoluzioni in Europa, e la repressione che ne seguì decapitarono per la terza volta un’intera generazione di intellettuali, e dispersero esperienze culturali eredi, in diverso modo, del Settecento napoletano, del quale avevano condiviso l’aspirazione alle riforme politiche e una concezione della cultura non come una sfera a sé stante, ma come riflessione sulla società.

La «libertà del pensiero» che «illumina e predilige il Golfo di Napoli» – come aveva sentenziato solennemente Johann Gottfried von Herder (cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 1925, rist. 1967, p. 152) ‒ era stata costretta, dopo il secolo di Giambattista Vico, di Antonio Genovesi e di Gaetano Filangieri, a emigrare altrove. Era toccato dopo il 1799 a Vincenzo Cuoco e a Pietro Colletta, scampati al sanguinoso epilogo della rivoluzione giacobina; sarebbe toccato alla generazione superstite dell’amministrazione murattiana e compromessa con i moti del 1821, un gruppo di liberali, uomini di Stato e filosofi (come Melchiorre Delfico, Pasquale Borrelli, Francesco Paolo Bozzelli, David Winspeare, Francesco Saverio Salfi, Carlo Lauberg, Luigi Blanch), che non concepirono mai, per formazione, abito mentale e temperamento, una cultura che non fosse impegno nella società e nelle istituzioni.

Le persecuzioni e le censure nei riguardi di coloro che venivano sprezzantemente definiti «pennaruli» e il severo controllo sull’università avevano condannato questa generazione a un isolamento quasi totale e sancirono un divorzio definitivo tra politica e cultura. Esemplare la vicenda di una voce isolata, come quella di Pasquale Galluppi, l’unico filosofo di spessore operante nel periodo della restaurazione: dall’iniziale partecipazione alla vita pubblica, quando, a ridosso del moto del 1820, aveva difeso la libertà di coscienza e di stampa dagli abusi dell’autorità e dall’ingerenza ecclesiastica, fu costretto a rientrare nei ranghi, benché tollerato per il suo prestigio, instaurando un prudente commercio con le novità filosofiche ‘pericolose’ d’Oltralpe, da Kant a Victor Cousin.

L’allentamento della pressione poliziesca sulla cultura napoletana ebbe una pausa negli anni Trenta, per riprendere poi al solo accenno dell’emergere di posizioni meno conformiste. Si formò in quegli anni un gruppo di giovani pensatori che guardò inizialmente all’eclettismo di Cousin, espressione del quadro ideologico della Rivoluzione di luglio e del tentativo di salvaguardare l’eredità liberale del 1789: ed è attraverso la mediazione di Cousin e della sua scuola che si diffuse a Napoli la conoscenza del pensiero tedesco postkantiano, destinato a diventare in seguito, e principalmente per gli sforzi di Spaventa, la piattaforma concettuale degli ‘hegeliani di Napoli’. L’apparenza di un lavoro libresco (si trattava in realtà dell’embrione di una opposizione anche politica), dovuta alla prudenza e allo stato di semiclandestinità in cui operò questa nuova generazione, non valse a impedire censure e intimidazioni, al punto che alla vigilia del 1848 questi gruppi – ai quali si erano da poco uniti i due fratelli Spaventa –, raccolti attorno a riviste e a insegnamenti privati, erano ridotti al silenzio.

Il richiamo – cousiniano e vichiano – alla dimensione storica (e l’influsso delle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte di Hegel, pubblicate nel 1837 e tradotte in italiano già nel 1840) agiva in direzione della ricerca di una legge universale della cultura e della società in grado di soddisfare ai bisogni del tempo: nella primavera del 1848 (negli stessi giorni in cui a Napoli usciva la prima traduzione della Philosophie des Rechts di Hegel) Silvio Spaventa scriveva sul «Nazionale» (nr. 41, 22 aprile 1848) che

l’idea è la razionalità della rivoluzione, imperocché la ragione sola governa il mondo ed ha un dritto infinito all’esistenza. La ragione è scopo a se stessa, e questo scopo è la libertà.

La filosofia – avrebbe scritto Bertrando più tardi – non è «una semplice ricreazione dell’intelligenza», ma essenza «di tutti gli atti della vita civile, politica e sociale», e «principio efficacissimo di attività pratica», atto a «rinnovare la società, la religione, lo Stato» (False accuse contro l’hegelismo, 1851, in Opere, a cura di G. Gentile, 3° vol., 1972, pp. 627, 629, 634): e aveva perciò predisposto quei giovani – come stava avvenendo in Europa – all’«attività pratica» e alla «lotta degli elementi politici e sociali» (Studii sopra la filosofia di Hegel, 1851, rist. in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, a cura di G. Vacca, 1969, p. 21) e all’appuntamento rivoluzionario. Su basi dottrinali nuove, la filosofia ripigliava la tradizione napoletana dell’impegno civile, che ne avrebbe segnato in maniera indelebile i successivi sviluppi.

Una filosofia della rivoluzione

Non si sa molto dell’attività di Spaventa nel periodo convulso che precedette il 1848. Colpiscono tuttavia già negli esordi letterari, dopo la fuga da Napoli, tra Firenze e Torino, vari aspetti: un’inedita padronanza dei testi e dei problemi della filosofia tedesca, un salto di qualità rispetto alle sintesi provvisorie dei suoi predecessori, e una puntuale informazione sul movimento politico europeo, persino di quelli delle scuole sorte dalla matrice hegeliana, che cominciavano a essere distinte in ‘destra’, ‘centro’ e ‘sinistra’, e sul quadro dei conflitti politici e sociali francesi. Ma soprattutto una certa chiarezza d’intenti sul compito storico assegnato alla riflessione filosofica, che non è esagerato definire una ‘filosofia della rivoluzione’.

A Torino Spaventa si muove e scrive su fronti distinti e con toni e livelli di elaborazione diversi: collabora a testate di orientamento democratico con lunghe serie di articoli di filosofia politica (anonimi e ancora solo parzialmente identificati), scende sul terreno del dibattito politico subalpino (affrontando il problema degli ordinamenti scolastici), progetta la traduzione di Sozialismus und Kommunismus des heutigen Frankreichs (1842, 18472) di Lorenz von Stein, con l’obiettivo di venire in chiaro sul pensiero e il movimento socialista in Europa, espone sinteticamente le sue prime letture di Hegel, polemizza con l’establishment filosofico moderato, avvia la redazione di una storia della filosofia italiana. Alcuni di questi progetti non saranno portati a compimento, altri subiranno imprevisti sviluppi.

Quando Spaventa darà alle stampe più tardi parte della sua produzione, opererà una selezione dei lavori giovanili, trascurando quelli più acerbi ed eliminando i riferimenti all’esperienza di pubblicista, non solo per il suo carattere contingente, ma anche perché aveva rinunciato alle idee politiche radicali cui essa si ispirava, aderendo alla politica cavouriana, dopo il crollo delle illusioni democratiche conseguente al colpo di Stato di Napoleone III Bonaparte. Invece, alla vigilia di quell’evento traumatico, mentre gli pareva di scorgere una corrispondenza tra la filosofia della storia di Hegel e gli avvenimenti politici contemporanei, non solo aveva sostenuto il passaggio dalla monarchia costituzionale e censitaria al suffragio universale, la libertà d’associazione, l’alleanza e la pace dei popoli, ma aveva assunto posizioni avanzate di ‘democrazia sociale’, interpretando le lotte di classe in Francia come la naturale evoluzione del 1789: la realizzazione del principio formale dell’uguaglianza del Terzo stato attraverso la rimozione delle «ineguaglianze sociali» economiche e l’instaurazione di un «novello ordine», un’«organizzazione nuova e veramente cristiana e ragionevole del possesso, della famiglia e della società» (Le utopie, 1851, rist. in Rivoluzione e utopia, a cura di I. Cubeddu, 1963, p. 87).

I motivi che condussero al dileguarsi di queste posizioni furono certo dovuti a uno spostamento di prospettiva. Spaventa venne a trovarsi in una sorta di «stupore intellettuale» per via del plebiscito che aveva aperto la strada al Secondo impero (lettera del 16 dicembre 1851, in Epistolario, cit., 1° vol., p. 106), e ne fu spinto a rimettere in discussione la fiducia nelle aspettative di palingenesi sociale e in una lineare evoluzione democratica.

Sarebbe tuttavia fuorviante supporre il carattere contingente di quella prima attività pubblicistica, o che – in base ai suoi giudizi negativi su quella produzione e alla reiterata dichiarazione della propria ‘impoliticità’ – essa non abbia lasciato tracce nel periodo successivo, quando Spaventa abbandonò il giornalismo per dedicarsi al lavoro teorico. L’intrapresa carriera accademica, il piano sempre più raffinatamente speculativo della sua riflessione, l’estraneità all’impegno politico militante dopo l’Unità, e poi sempre più negli anni Settanta con il profilarsi della crisi della Destra storica, non rimisero in discussione alcuni dei motivi comuni all’impegno giornalistico e all’elaborazione teorica ‘alta’, iniziata nei primi anni Cinquanta, che appaiono come due aspetti di uno stesso programma: senza che si possa ridurre il primo a un’effimera inquietudine, né la seconda a una decantazione strumentale e a mera propaganda culturale di un progetto politico.

L’unità di fondo dei due aspetti consiste nella presa d’atto della necessità di una piattaforma filosofica e intellettuale del programma rivoluzionario-unitario, compromesso dal fallimento del 1848. Il problema di Spaventa è perciò quello di «apparecchiare all’azione mediante la vita lenta e difficile del pensiero» (Prolusione inedita, 1859, in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., pp. 204-205), ripensando i fondamenti culturali della coscienza nazionale, del progetto politico e dell’architettura costituzionale del processo unitario, e aprendo un confronto con le insufficienze e i limiti delle tradizioni dominanti, e cioè l’eredità postilluministica, ormai flebile, e il cattolicesimo liberale, soprattutto nella versione giobertiana che aveva agito da principale fermento prima e durante il periodo rivoluzionario.

Della prima mise in discussione innanzi tutto l’impianto teorico della dottrina contrattualistica dello Stato, che costituiva ai suoi occhi una versione provvisoria, rispetto alla compiuta realizzazione della storia, concepita hegelianamente come «storia della libertà»: essa conduceva solo al rispetto formale delle maggioranze parlamentari e a una concezione negativa dello Stato, come garante del gioco reciproco dei diritti dei singoli, incapace di esercitare un ruolo egemonico sull’insieme della società e di costituire la base di un’azione politica razionale e riformatrice.

Ad Antonio Rosmini-Serbati e a Vincenzo Gioberti, e in generale allo spiritualismo dominante nella cultura piemontese, obiettò il fondamento dogmatico-confessionale della teoria politica, l’ossequio al principio di autorità, l’incapacità di una reale sintesi con la cultura filosofica moderna e l’arretratezza del giudizio sulla vicenda storico-culturale italiana di lungo periodo.

Spaventa argomentò per una sostanziale convergenza teorica di queste correnti apparentemente così distanti, che finivano per ricondurre la razionalità del processo storico all’«arbitrio» – individuale o divino – e per porre vincoli e limiti all’attività dello Stato. Questa semplificazione polemica non occulta tuttavia il fatto che la sua critica si presenta fortemente asimmetrica, dal momento che Spaventa si riallaccia alla tradizione illuministica e rivoluzionaria – pur riletta attraverso il filtro della filosofia della storia di Hegel – e considera il principio della libertà elaborato dalla filosofia moderna, giunto a compimento nell’Illuminismo e messo in atto nella Rivoluzione francese, un quadro di riferimento irrinunciabile. I fondamenti della politica moderna sono sorti nella lotta con l’ancien régime e come risposta a un sistema entrato in contraddizione con la società: ma, mentre la politica liberale-moderata corrisponde a un arresto di sviluppo rispetto alla sua stessa visione della storia, ben diverso è il caso della cultura cattolico-liberale, che nella versione giobertiana – contaminando teologia, escatologia e storia – si situa al di fuori della modernità, pur avvertendo l’esigenza di recuperarne e assorbirne alcuni momenti. Se infatti la cultura liberale, con i suoi limiti, è in rapporto dialettico con il movimento reale, è insieme motore del cambiamento e riflesso «dei bisogni particolari» e «delle condizioni attuali e determinate della vita d’uno stato», corrispondendo «a’ problemi nuovi che si agitano nel seno della società», per Spaventa la filosofia della storia giobertiana pretende di situarsi ai suoi antipodi; agita l’utopia regressiva di «restaurazioni, conversioni e ritorni alle origini, come se il mondo si muovesse e progredisse retrocedendo» (Le utopie, 1851, rist. in Rivoluzione e utopia, cit., pp. 80-82) e contrasta le manifestazioni della coscienza moderna, rifiutando tutto il pensiero da René Descartes a Hegel.

La ‘circolazione’ del pensiero europeo e la crisi italiana

Spaventa aveva individuato dunque un nodo decisivo – anche per la presenza in Italia del papato – attribuendo alla cultura filosofica, in vista dell’unificazione nazionale, il compito strategico della costruzione di un’alternativa al modello giobertiano e neoguelfo del Primato morale e civile degli Italiani (1843). Fallito l’appuntamento con la storia, in seguito al contraccolpo conservatore in Francia, deluse le proprie aspettative personali («Sono già molti anni che io sono qui, e cosa ho conchiuso? Fame e fame, e nulla più»; lettera del 20 aprile 1857, in Epistolario, cit., 1° vol., p. 201), nel ‘decennio di preparazione’ perseguì tuttavia con tenacia il progetto di una diversa storia intellettuale d’Italia, che rimane probabilmente la sua intuizione più importante, di valore politico superiore a quello del diretto engagement dei primi anni dell’esilio. Ne uscì, tra i primi saggi degli anni Cinquanta (come quello sull’etica di Giordano Bruno, che menò scandalo per l’audacia ‘panteista’) e le celebri lezioni degli anni 1861-62 a Napoli (più note con il titolo in seguito dato loro da Gentile: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea), un ripensamento della storia della cultura in rapporto alle vicende civili del Paese, che – insieme alla Storia della letteratura italiana di De Sanctis – avrebbe fatto discutere per oltre un secolo.

I primordi di questo lavoro sono già evidenti nei primi scritti torinesi. Riscrivendo la «biografia della nazione», Spaventa aveva ben chiaro che è insufficiente la rivoluzione politica senza una «riforma o rivoluzione intellettuale» (Prolusione inedita, 1859, in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., p. 195; Lettera sulla dottrina di Bruno. Scritti inediti 1853-1854, a cura di M. Rascaglia, A. Savorelli, 2000, p. 208). L’idea che al compimento dell’unità politica fosse connessa l’edificazione di una sintesi filosofica aveva cominciato ad agire fra gli anni Trenta e Quaranta: l’Italia non vantava niente di simile alle consolidate scuole ‘nazionali’ rappresentate da John Locke in Inghilterra, da Descartes e Voltaire in Francia, da Gottfried Wilhelm von Leibniz, Kant e l’idealismo in Germania. «Terrò per redenta civilmente l’Italia – aveva detto Gioberti, lamentando questa lacuna – quando la vedrò posseditrice di una filosofia propria» (V. Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, 1° vol., 1840, p. 35). Senonché questa filosofia nazionale faceva perno in Gioberti su una concezione sapienziale, creaturale e provvidenziale, messa abilmente al servizio di un programma moderato di riforme, e sul cattolicesimo, considerato insieme una filosofia e una «civiltà» perfetta. Ne derivavano le tesi del Primato sulla «monarchia cristiana», il rifiuto del pensiero moderno, dal Rinascimento all’idealismo tedesco, visto come un processo di decadenza, e il richiamo al platonismo, alla patristica e alla scolastica, in nome di una presunta continuità e autosufficienza di una remota filosofia autoctona (l’antica ‘sapienza italica’), trasmessa addirittura dai Pelasgi, i mitici abitatori della penisola, ai Greci.

Spaventa sovvertì completamente questi punti di vista. Inserendosi in un dibattito europeo, e sulla base del fallimento del 1848, sostenne un concetto della nazionalità prossimo a quello di Pasquale Stanislao Mancini, che va oltre la nazione naturale o «immediata» (i costumi, la lingua, la religione ecc.), retaggio di una dimensione municipalistica, a favore di un’idea ‘progettuale’ della nazione, come personalità giuridica e risultato di una presa di coscienza libera e riflessa (cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, 1967, pp. 72-73). Non si trattava di un’idea nuova, non foss’altro perché riprendeva la tesi dell’«incivilimento» di Gian Domenico Romagnosi, come teoria del progresso dalle società tradizionali e patriarcali a quelle in cui si afferma l’«opinione illuminata». Per Spaventa le tesi giobertiane regredivano, con il mito della ‘sapienza italica’, a un concetto di nazionalità proprio del mondo antico, fondato sull’ethnos, e, con la tesi del primato cristiano, all’astratto universalismo romano-imperiale: erano perciò incompatibili con il moderno processo delle nazionalità – consce di se stesse e liberamente aperte al reciproco confronto – sorte dal disfacimento del Medioevo. Il momento che corrisponde a questo rivolgimento storico è individuato da Spaventa nel pensiero rinascimentale e moderno, inizio di una «rivoluzione compiuta di tutta la intuizione spirituale dell’universo» (Prolusione inedita, 1859, in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., p. 197). Il Rinascimento non corrisponde solo – come sostenevano in genere gli storici della filosofia – a un’inquieta epoca di transizione, né può ridursi (e qui Spaventa si opponeva anche alle vedute di Terenzio Mamiani della Rovere, autore nel 1834 di un’opera sul Rinnovamento della filosofia antica italiana) all’archetipo di una scuola ‘sperimentalista’, anticipatrice dei metodi della rivoluzione scientifica. Nel Rinascimento si gettano invece le basi dei principi della coscienza moderna: il rifiuto del principio d’autorità, una concezione della religione basata non sul dogma ma sull’intimità del sentimento individuale, l’autonomia del potere dello Stato, e in generale il valore dell’attività mondana, non più opaco riflesso di una perfezione inaccessibile ma scintilla della stessa divinità. Simbolo di questo profondo rivolgimento è l’etica di Bruno, celebrante il primato della vita attiva e del lavoro sull’ozio, la coincidenza – nel dovere – di libertà e necessità, di utilità e giustizia, di sensibilità e ragione, presupposti dell’ethos morale e giuridico compiutosi nella Riforma protestante, nella Rivoluzione francese, in Kant e nell’idealismo tedesco, quando si affermano la «potenza e il valore infinito dell’uomo», la libertà e l’autonomia della ragione, si abbattono la feudalità, i privilegi di nascita e le corporazioni.

Il Rinascimento è dunque il momento più alto della storia intellettuale italiana, nell’ottica dell’interrelazione con il pensiero europeo, del quale agiva come ‘precursore’. Bruno e Tommaso Campanella anticipavano i grandi temi della nascita del pensiero moderno, l’immanentismo di Baruch Spinoza e il soggettivismo cartesiano, fino all’idealismo. A parte certe forzature di metodo, Spaventa delineò per primo in Italia un quadro interpretativo di alto livello e con una inedita base di analisi critica e testuale attenta alla storiografia europea più avvertita, di pensatori (i principali esponenti di quella «falange di eroi del pensiero», che illustrano la prima Italia moderna), ancora incertamente collocati, o emarginati, se non proscritti, nelle sintesi storiografiche. A essi si aggiunse poi Giambattista Vico, tutt’altro che trascurato in Italia, ma riletto ora non per i fondamenti platonici e provvidenzialistici del suo pensiero, cari alla tradizione spiritualistica, bensì per la metafisica «della mente» implicita nella Scienza nuova, assimilata al trascendentalismo kantiano, e recante a compimento la riflessione sul «mondo delle nazioni»: un Vico europeo e laico, non più filosofo cattolico, isolato e antimoderno.

Spaventa compendiò questo disegno nella formula della ‘circolazione’ del pensiero europeo. Essa si contrapponeva al modello giobertiano di un ‘deposito’ originario al quale sarebbe stato sufficiente riattingere per riaffermare l’identità nazionale italiana, ma anche a quello, più laico, del Mamiani e della sua scuola, dell’astratto ritorno ciclico o di un rinnovamento del periodo esemplare della vicenda intellettuale italiana. Al contrario, la ‘circolazione’ significava l’insussistenza di un pensiero nazionale in senso proprio, come una scuola chiusa in se stessa attorno a un nucleo stabile di idee: il suo carattere di lungo periodo, dal Cinquecento in poi, consiste unicamente nell’ininterrotto scambio e nei reciproci rapporti con la cultura europea: «La filosofia moderna non è dunque né inglese, né francese, né italiana, né alemanna solamente, ma europea» (La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, 1862, a cura di A. Savorelli, 2003, p. 16).

L’accenno, sopra notato, alla relazione tra Rinascimento e Riforma è importante anche perché – come già la sottrazione del pensiero rinascimentale all’etichetta di una fase provvisoria e confusa – è una revisione del giudizio di Hegel, che nelle citate Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte aveva sostenuto il primato etico e politico della Riforma, irrinunciabile atto fondante dello Stato germanico moderno. Era già stato proprio Silvio Spaventa, prima del 1848, a porre il problema, domandandosi se la mancata Riforma fosse all’origine della subalternità italiana:

Tutti gridano: è Lutero che ispira Descartes; la filosofia moderna viene dal protestantesimo. Ma, perché noi non abbiamo avuto protestantesimo, non avremo diritto alla filosofia moderna? Noi ci riserberemo di dimostrare che tutto il movimento filosofico, che oggi agita popoli interi, è venuto egualmente operato nel nostro paese (Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti pubblicati da Benedetto Croce, 1898, 19232, p. 11).

Questo tema, che può apparire una fragile rivendicazione nazionalistica (volta a reinserire nella storia le nazioni ‘latine’ penalizzate dallo schema di sviluppo hegeliano), era in realtà destinato a far sorgere una discussione che coinvolse gli uomini del Risorgimento dopo l’Unità. Tale discussione si prolungò fino nel Novecento, nella consapevolezza che si toccava in essa uno dei nodi più complessi del processo di formazione dell’Italia moderna e dello stesso significato e origini della modernità. Spaventa sostenne la tesi di uno stretto parallelismo tra Rinascimento e Riforma, aspetti inscindibili e complementari di un medesimo processo di emancipazione, che aveva assunto forme diverse nei vari Paesi con diverse tradizioni culturali e religiose. Il filosofo individuò tuttavia il momento decisivo della vicenda italiana moderna non tanto nella ‘mancata Riforma’, quanto nell’interruzione della rivoluzione filosofica e scientifica avviata tra Quattro e Cinquecento, i cui «germi», gettati dal naturalismo rinascimentale italiano, erano stati costretti a ‘emigrare’ e avevano fruttificato altrove. Dava forma in tal modo a idee non solo già avanzate da eredi del pensiero illuministico – Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari – ma che circolavano anche nell’ambiente napoletano prequarantottesco, e che postulavano la necessità, per l’Italia, di riappropriarsi degli sviluppi speculativi più maturi della filosofia europea, senza pregiudiziali e chiusure municipalistiche di alcun genere.

Spaventa espresse la tesi con tocchi drammatici, alludendo alle «catene» e ai «supplizi» patiti dai filosofi del Rinascimento, «segno e [...] principio della nostra rovina» e al dovere, per lo storico, di una scelta di campo tra la filosofia dei martiri e quella «dei loro carnefici» (La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, 1862, cit., p. 24). Al di là delle immagini e dei difetti di esecuzione (con infondati e talora fuorvianti parallelismi tra pensatori italiani e stranieri), il senso profondo della proposta consisteva nella denuncia della impossibilità di ricostruire un indefinito continuum dell’identità culturale italiana, come da un’astratta catena di idee, poiché essa si forma attraverso aspri conflitti ed è scandita da profondi rivolgimenti e fratture storiche: la più importante delle quali è l’uscita forzata e violenta del Paese dal circuito della grande cultura europea («Noi fummo come separati dalla vita degli altri popoli»; Studii sopra la filosofia di Hegel, 1851, rist. in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., p. 7).

Noi altri italiani – concludeva – prima di rimetterci davvero in via […] abbiamo l’obbligo di rientrare ancora in noi medesimi, di orizzontarci, di guardarci anco attorno, di vedere e conoscere ciò che gli altri hanno fatto da sessant’anni in qua e specialmente ciò che stanno facendo (La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di A. Savorelli, 2003, p. 144).

Era tutt’altro dunque – come la critica ha poi talora obiettato – che l’abile schizzo di una nuova ‘genealogia illustre’ del pensiero italiano, o la sostituzione polemica di momenti e figure esemplari – o ‘eroi’ del pensiero – ad altri e diversi, ossia tutt’altro che una scaltrita operazione ideologica con cui contrabbandare una nuova mitografia. Si trattò bensì di un meditato giudizio storico sulla ‘modernità interrotta’ dell’Italia e sulla sua decadenza, provocata dall’arresto dello sviluppo e da eventi storici decisivi, in primo luogo la perdita dell’indipendenza degli Stati italiani e, soprattutto, la Controriforma: una «forza prepotente e ingiusta», che «ci arrestò nel cammino della civiltà» (Lettera sulla dottrina di Bruno, cit., p. 203) e che costrinse il pensiero filosofico italiano, non «spento sui roghi», a mutare stanza, «in più libera terra e in menti più libere» (Studii sopra la filosofia di Hegel, 1851, rist. in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., p. 8). Senza la netta percezione di questa cesura, degli eventi traumatici e delle loro cause, la ricostruzione dell’identità culturale e politica della nazione italiana sarebbe rimasta equivoca, illusoria e priva di una solida base storica.

Lo ‘Stato etico’

Silvio Spaventa aveva così commentato il progetto della ‘circolazione’, scrivendo al fratello dal carcere: «Tu hai capito una buona verità: che gl’italiani non intenderanno mai che cosa sia la filosofia moderna se non ricavandola dagli stessi loro filosofi» (Dal 1848 al 1861, cit., p. 313). La filosofia tedesca era sospetta, considerata estranea, speculativamente inadeguata (si parlava con disprezzo delle «nebbie alemanne»), pericolosa sul piano etico e politico, perché subdolamente materialista, distruttiva del senso morale e matrice, insieme, del dispotismo e dell’estremismo demagogico. Modificando l’impianto originario della ‘circolazione’, Spaventa si studiò di dimostrare che il pensiero italiano non solo aveva anticipato quello moderno, ma, con qualche disinvoltura, che la stessa filosofia italiana contemporanea si era più o meno consapevolmente elevata, pur in una forma incerta e contraddittoria, ai risultati raggiunti dall’idealismo tedesco, a partire dalla rilettura di Kant fatta da Rosmini, e soprattutto dall’ultima forma del pensiero di Gioberti affidata all’opera postuma che si andava pubblicando in quegli anni. In quest’ultima Spaventa si sentì autorizzato a leggere una dialettica del progresso, con la rivalutazione del ruolo attivo dell’uomo, che partecipa e coopera con il piano della creazione divina, quasi come un «Dio inferiore». Il pensiero giobertiano veniva recuperato come una forma, non sempre coerente, di panteismo spiritualistico, come l’aspirazione a una sintesi metafisica affine alla filosofia dello spirito hegeliana e ‘laicizzata’, con la neutralizzazione dell’ipoteca confessionale, del provvidenzialismo e del dualismo ontologico.

Attraverso una sorta di storia ‘fenomenologica’ della filosofia italiana, Spaventa poteva presentare a sua volta il pensiero di Hegel come il compimento di quella: una forma di storicismo umanistico, una filosofia del mondo storico e della soggettività («L’unità di Spinoza e Kant è Hegel, dell’immobile assoluto e dell’irrequieto relativo è il soggetto», il quale dà alla sostanza concretezza, «individualità» e «coscienza di sé»; lettera dell’11 ottobre 1857, in Epistolario, cit., 1° vol., p. 201). Il principio del valore infinito dell’uomo e di tutto ciò che è umano, centro di unificazione dell’esperienza e della storia, e non più mero ‘momento’ dell’assoluto, ma autocoscienza morale e politica, spinse in particolare Spaventa a una lettura largamente revisionistica di Hegel, non solo in sede logica, ma anche a proposito della filosofia del diritto.

Fu proprio a questo settore dell’opera di Hegel che Spaventa dedicò particolari attenzioni, accingendosi a esporne il sistema nei cicli di lezioni a Napoli, dopo l’Unità, e dopo la breve parentesi dell’insegnamento di filosofia del diritto a Modena, materia per la quale dichiarò di avere una particolare propensione. I suoi Studi sull’etica hegeliana, breve compendio del testo della Philosophie des Rechts, uscirono nel 1869, ma – e questo si è appurato solo di recente – erano stati di fatto composti nella forma definitiva già negli anni 1862-63: non dunque un’opera relativamente senile, ma concepita nel crogiuolo dell’Unità italiana. Trascurando la filosofia della natura, dell’arte e della religione, e pubblicando solo parzialmente una ‘logica’, il diritto fu l’unica parte del sistema hegeliano della quale Spaventa fornì una esposizione compiuta, che, invero, per la sua densità speculativa, non era destinata ad agire come «acquisto intellettuale» (come avrebbe rimpianto nel 1896 Antonio Labriola in La concezione materialistica della storia; rist. a cura di E. Garin, 1965, p. 213), meno che mai come teorizzazione filosofica della prassi della Destra al potere: quando l’opera apparve, il breve periodo in cui l’hegelismo aveva giocato un ruolo di qualche rilievo nella cultura italiana ed era il centro di elaborazione concettuale più dinamico del Paese si stava avviando rapidamente al tramonto.

La rielaborazione dell’opera di Hegel in Spaventa fu molto personale, e molto distante – una volta caduto il nesso intravisto nel periodo ‘radicale’ tra rivoluzione democratica e realizzazione della filosofia della storia – dagli scritti militanti del decennio precedente. Di fatto essa venne adattata alla situazione italiana, e letta in chiave liberale, in una forma cioè in cui l’ortodossia hegeliana avrebbe stentato a riconoscere i tratti dell’originale. Spaventa non era però affatto isolato in questo senso, giacché una lettura ‘centrista’ che ne smussava, o espungeva del tutto, gli aspetti illiberali, conservatori e autoritari (che Rudolf Haym, in un celebre libro del 1857, Hegel und seine Zeit, aveva dichiarato espressione teorica della politica autoritaria dello Stato prussiano) fu comune a gran parte degli allievi e interpreti di Hegel in Germania (come Karl L. Michelet, Eduard Gans, Johann K.F. Rosenkranz ecc.).

Le dottrine meno compatibili con il liberalismo (quali la rappresentanza per ceti, il primato dello Stato ‘dei funzionari’, l’inevitabilità della guerra, la pena di morte e così via) vennero trascurate oppure criticate. Fu accentuato invece un tema, estraneo propriamente a Hegel, come quello della «nazionalità» intesa come espressione della concretezza della vita dello Stato contro le astrazioni cosmopolitiche: da qui l’abbandono del susseguirsi dei popoli-guida della filosofia della storia hegeliana, spesso a favore di un processo di progressiva cooperazione, nel «convito dei popoli eguali, fratelli dell’umana famiglia», tutti chiamati a «compiere l’opera della reale manifestazione dello spirito nella storia del mondo» (Studii sopra la filosofia di Hegel, 1851, rist. in Unificazione nazionale ed egemonia culturale, cit., p. 18; Cesa 1978, pp. 1-2).

Ciò non toglie che il primato hegeliano dell’‘eticità’ venisse riaffermato e liberamente ritradotto nella formula dello ‘Stato etico’, che riprendeva la consueta critica del contrattualismo e del liberalismo classici, ovverosia il rifiuto di una versione minimale e negativa dello Stato. Al contrario, si attribuiva allo Stato la funzione di promotore di cultura, educatore e regolatore sociale: una coscienza direttiva che non si restringe all’amministrazione della giustizia e alla difesa della società, ma ne promuove il benessere in vista dell’interesse universale e del bene comune. Scrive Spaventa:

L’interesse individuale che fa nascere la società, tende naturalmente a distruggerla appena formata, sforzandosi di servirsi di quell’organismo, che deve promuovere gli interessi particolari di tutti, unicamente per il suo fine (Studi sull’etica hegeliana, 1869, rist. in Opere, cit., 1° vol., p. 777).

Questa teoria ‘pedagogica’ dello ‘Stato etico’ sarebbe poi stata interpretata, per opposti motivi, da apologeti e detrattori, come un modello autoritario, estraneo alla tradizione liberale, e addirittura, in Gentile, come un antecedente della dottrina fascista. Indubbiamente essa era ormai lontana dal radicalismo degli scritti giovanili, non foss’altro per la rinuncia all’idea di una progressiva estinzione delle differenze tra le classi sociali, che qui venivano invece esplicitamente riaffermate. Il presupposto, tuttavia, della funzione regolatrice dello Stato sulla società – non più fondato sul controllo democratico, come negli scritti giovanili, ma sull’esistenza di una ‘classe generale’, interprete della razionalità della legge, ritenuta in grado di temperare i conflitti sociali e, di fatto, identificata nel ceto dirigente che aveva compiuto l’unificazione del Paese – conservava qualche tratto del giacobinismo dei primi scritti di Spaventa: l’accentuazione, indubbia, della «potenza etica» dello Stato in relazione alla società civile rispondeva alla percezione di problemi reali, come la fragilità dell’unificazione e delle istituzioni, che non si potevano immaginare abbandonate a gruppi di potere o a particolarismi e municipalismi.

Nonostante l’enfasi sul ruolo dello Stato e l’accettazione del modello costituzionale (del cui potenziale conflitto tra personalità e universalità Spaventa avvertì la difficoltà, dichiarando la forma istituzionale «ancora allo studio»), la teoria non implicava in linea di principio una prevaricazione sui diritti fondamentali, né un modello organicistico (che per Spaventa rimaneva tipico dello Stato dispotico antico), né una forzatura autoritaria (lo Stato non è una «forza», «fuori della vita comune», «sopra o contro di essa»). L’ampiezza dello spazio concesso da Spaventa alla sfera della «moralità» – assai distante dall’originale impianto hegeliano – attesta un’accentuazione della soggettività, non come negatività da addomesticare e subordinare comunque all’eticità, ma come il suo momento fondante, senza il quale lo Stato moderno perde la sua peculiarità, che consiste nella «soggettività», «saputa e voluta dagli individui liberamente come la loro stessa essenza» (per questi luoghi, cfr. Studi sull’etica hegeliana, 1869, rist. in Opere, cit., 1° vol., p. 776-80).

Stato e Chiesa

La rivendicazione allo Stato di una sua propria fisionomia etica aveva anche forti addentellati con la questione religiosa e dei rapporti tra Stato e Chiesa, un nodo nevralgico che, a causa della presenza in Italia del papato (una «tarlata – scrive nel 1868 – e pure ancor viva, mostruosa autorità spirituale», riconosciuta «infallibile»; Paolottismo, positivismo, razionalismo, 1868, rist. in Opere, cit., 1° vol., p. 485), il nuovo Stato unitario (nell’immediato e nei decenni a seguire, fino ai nostri giorni) non avrebbe potuto evitare di affrontare:

Credo che noi italiani – scrive Spaventa – abbiam bisogno, più che i tedeschi e gl’inglesi, di libertà interiore, morale, religiosa, scientifica e filosofica, per poter essere liberi politicamente (Paolottismo, positivismo, razionalismo, 1868, rist. in Opere, cit., 1° vol., p. 485).

Nel corso degli anni Cinquanta Spaventa aveva affrontato più volte il problema, nell’ambito della sua attività di pubblicista, a proposito della legislazione ecclesiastica del Regno di Sardegna. Aveva criticato il progetto di una completa liberalizzazione dell’insegnamento scolastico, che avrebbe finito per concedere alle potenti corporazioni religiose un vantaggio di tipo monopolistico a detrimento della scuola laica privata – di fatto inesistente – e di quella pubblica, imprimendo al processo formativo un marchio confessionale irrispettoso del pluralismo religioso e del principio di tolleranza: l’applicazione dell’astratto dottrinarismo liberale alle condizioni concrete del sistema formativo instaurava un regime di privilegio a detrimento dei soggetti sociali più deboli (La libertà d’insegnamento, 1851, rist. in Opere, cit., 3° vol., pp. 673-763). Più tardi, in polemica con i gesuiti, e in parziale sintonia con la politica del governo piemontese, Spaventa aggredì sistematicamente la serie dei privilegi della Chiesa (giurisdizione separata, immunità ecclesiastiche, esenzioni fiscali ecc.), fondati sull’equivoco statutario del principio della religione di Stato, che avallava anche la pretesa teocratica di un controllo sull’attività legislativa e amministrativa (La politica dei gesuiti, 1854-1856, rist. in Opere, cit., 2° vol., pp. 72-1020). Dopo l’Unità, infine, espresse – come gran parte degli intellettuali di formazione idealistica, per es. De Sanctis – forti riserve sulla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato», non solo per via della concreta situazione italiana e dell’enorme potere materiale e spirituale della Chiesa, pur nella crisi del temporalismo, ma per i condizionamenti di principio che l’esistenza di un potere alternativo, con il suo retaggio teocratico, non poteva non esercitare sui fondamenti giuridici e istituzionali del nuovo Stato.

È significativo che, partendo dallo stesso orizzonte teoretico, l’hegeliano di ‘destra’ Augusto Vera, collega di Spaventa all’Università di Napoli, combattesse la teoria cavouriana in base al principio di una presunta superiorità della religione e della Chiesa sullo Stato: per Spaventa, al contrario, il principio della «separazione» attribuiva alla Chiesa un monopolio del «divino» e dell’«infinito» e conseguentemente riproduceva una concezione riduttiva e notarile dello Stato. Non teneva conto dunque di quanto era avvenuto con il Rinascimento e con la Riforma: la dislocazione, da un lato, dell’elemento religioso nella coscienza individuale, dall’altro che «l’elemento razionale, assoluto, divino è immanente, e non già comunicato per vie esteriori, in tutte le relazioni della vita». Ciò non significava affatto una enfatica ‘divinizzazione’ dello Stato, ma il riconoscimento dell’autonomia e autosufficienza etica dei rapporti civili, indipendentemente dalla fondazione teocratica, presupposto della formazione di un solido ethos pubblico: così, sostiene Spaventa, nel caso del matrimonio, che «ha valore in se stesso, è una relazione razionale, sacra, divina, indipendentemente dalla autorità esterna della Chiesa e dalla differenza di professione religiosa» (Saggi di critica filosofica, politica e religiosa, 1° vol., 1867, pp. 222-24, 308-09).

Un argomento specifico – apparentemente secondario, ma invero esemplare – riassume probabilmente in maniera efficace la lettura liberale di Hegel tipica di Spaventa e la sua idea dello ‘Stato etico’, ed è la questione della pena di morte, dibattuta sul piano giuridico e filosofico in Italia fino alla sua abolizione con il codice Zanardelli (1889). Spaventa aderì alla corrente abolizionista, contraddicendo anche su questo punto Vera, il quale, aderendo alla lettera del testo di Hegel, e anzi accentuandone gli aspetti autoritari, dichiarò la legittimità della pena di morte, e con essa l’assoluto potere dello Stato sull’individuo. L’argomentazione di Spaventa muove dalla tesi, apparentemente paradossale, che il delitto e la moralità sono espressione della libera volontà dell’individuo, che a sua volta è il fondamento dello Stato moderno. Se il diritto di punire si fondasse su un principio retribuzionistico o sulla teoria dell’«esempio» al fine della difesa della società, lo Stato non farebbe che riprodurre il modello della vendetta privata, atteggiandosi a mero regolatore esterno tra i singoli, o, peggio, usando il singolo come un mezzo per i suoi scopi e perciò come Stato dispotico. Lo Stato moderno liberale può muovere solo dal riconoscimento del valore infinito della personalità – persino nella forma distorta dell’aspirazione all’universale, che traspare nella violazione del diritto – e della sua integrazione nella eticità e nelle istituzioni: l’unico principio dunque che giustifichi la pena è quello dell’emenda, del «miglioramento» del colpevole e della sua «riconciliazione» con la legge, che come tali escludono – evidentemente – la pena di morte, e anzi la «perpetuità della pena» che li rende impossibili. Proprio richiamandosi alla celebre figura dialettica hegeliana di «signoria e servitù», Spaventa poteva marcare la distanza che la sua filosofia civile aveva assunto rispetto all’originale di Hegel, affermando in un manoscritto risalente agli anni Settanta:

Per Hegel (hegelismo) è necessaria assolutamente la guerra? Idem: la pena di morte. Perché le idee si scambino, e le buone s’impongano alle cattive è necessaria sempre la forza? Hegel dice (nella Fenomenologia): signore e servo, e prima l’uno ammazza l’altro. Si può dedurre da ciò, che si deva sempre ricominciare coll’ammazzare, e colla servitù? (Biblioteca nazionale di Napoli, Carte Spaventa, ms. 2.34, 1874).

D’altra parte la pena come restituzione del diritto, dunque della stessa volontà – in sé – del reo, non esclude solo l’ottica retribuzionistica del pensiero giuridico classico: quest’ultima, affermando che il diritto di punire risiede in un principio ‘giusto in sé’ o nel principio dell’«espiazione», conserva anche – per Spaventa – il carattere afflittivo della pena e con ciò, di nuovo, si palesa subalterna a una concezione «teocratica»; la pena di morte, in particolare, ha i tratti di un analogon della dannazione eterna, che tradisce la persistenza dell’impronta religiosa e trascendente, dalla quale lo Stato moderno deve necessariamente emanciparsi (cfr. Studi sull’etica hegeliana, 1869, rist. in Opere, cit., 1° vol., pp. 720-30).

Opere

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La filosofia di Gioberti, Napoli 1863.

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Esperienza e metafisica. Dottrina della cognizione, Torino 1888 (nuova ed. critica con il titolo Esperienza e metafisica, a cura di A. Savorelli, Napoli 1983).

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Scritti inediti e rari (1840-1880), a cura di D. D’Orsi, Padova 1966.

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Opere, a cura di G. Gentile, 3 voll., Firenze 1972 (ed. successive: Opere, saggio introduttivo, prefazioni, note e apparati di F. Valagussa, Milano 2009).

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