MOLINO, Biagio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75 (2011)

MOLINO, Biagio

Silvio Ceccon

MOLINO (Molin, da Molin, da Molino), Biagio. – Nacque probabilmente a Venezia tra il 1380 e il 1383 da Filippo, appartenente a uno dei tredici nuclei familiari di Molino che all’inizio del XV secolo facevano parte del patriziato veneziano.

Stando allo stemma attribuitogli da Ughelli (col. 1152), il M. faceva parte di un ramo dei Molin d’oro (arma d’azzurro alla ruota di mulino d’oro). L’abitazione di famiglia nel 1405 si trovava nella contrada di S. Giovanni Nuovo; a quella data Filippo era sposato in seconde nozze con una certa Sarai. Biagio era nato dal precedente matrimonio del padre; anche Sarai aveva avuto in precedenza, non da Filippo, almeno un figlio, di nome Pellegrino. Filippo ebbe inoltre almeno altri quattro figli, non sappiamo se di primo o di secondo letto: Antonio, padre di Giacomo; Benedetto, che sposò una Cristina figlia di Francesco Rovecho; Francesco, che sposò prima del 1421 Flosnovella, figlia di Ottaviano Bono, e che fu podestà di Rovigno nel 1419 e poi amministratore dell’erario a Zara, dove morì nel 1422; Graciamana, che fu monaca. Filippo morì a Venezia sul finire del 1421.

Il 21 maggio 1408 il M. si trovava a Padova, ove studiava diritto civile, in veste di rettore (e dunque era già chierico, non sposato e neppure appartenente a qualche ordine religioso) degli studenti citramontani dell’Università. Nel febbraio 1410 il consiglio dei Rogati lo scelse nella proba (votazione) per il vescovato di Pola, al quale il 19 dello stesso mese venne confermato dal papa con dispensa per l’età (meno di 30 anni) e la mancanza degli ordini maggiori. Egli si obbligò all’accettazione e al pagamento delle dovute tasse il 10 maggio. Entro l’estate 1413, quando partecipò senza successo alla proba per l’arcivescovato di Corfù, era già presbitero e vescovo consacrato.

Il M. probabilmente risiedette a Pola solo sporadicamente. Di certo all’inizio del suo vescovato il patriarca di Aquileia Antonio Panciera gli scrisse, in quanto suo suffraganeo, per ordinargli di togliere l’interdetto che aveva posto ad Albona a causa di alcune decime. Il 15 febbr. 1412 il M. si laureò in diritto civile presso lo Studio padovano, e sei anni più tardi, il 3 sett. 1418, in diritto canonico alla presenza del vescovo di Padova Pietro Marcello e dell’arcivescovo di Creta Pietro Donato. Il M. d’altronde, a partire dal 26 nov. 1411 e fino al settembre 1418, risulta presente a Padova come testimone a una quarantina di lauree, spesso insieme con suo nipote Giacomo Molin. Questi doveva essere il più vicino e affezionato di quei nipoti che, secondo Vespasiano da Bisticci, il M. allevò «per volere che venissino alla dignità ecclesiastica».

Nel tentativo di migliorare la propria posizione, il M. partecipò, senza successo, a tre probe per sedi vescovili più ricche e prestigiose di quella di Pola: oltre che per l’arcivescovato di Corfù, nell’aprile-maggio 1415 per quello di Creta, e nel marzo 1418 per il vescovato di Treviso. Il nipote Giacomo contemporaneamente si iscrisse alla proba per il priorato di S. Salvatore, ma venne cancellato dalla lista.

Nel 1417 il M. completò la ricostruzione dell’antica cattedrale di S. Maria Assunta di Pola, distrutta dai Genovesi nel 1379 durante la guerra di Chioggia. Nel febbraio 1420 risultò vincitore con ampio margine della proba per l’arcivescovato di Zara, e sulla scelta pesò probabilmente la richiesta pervenuta in suo favore dai nobili e dalla Comunità di Zara. In quello stesso anno, al nipote Giacomo non riuscì invece l’elezione a vescovo di Capodistria.

Confermato alla prestigiosa e primaziale sede dalmata da Martino V il successivo 4 marzo, il M. fu raggiunto agli inizi del 1422 dal fratello Francesco che, già podestà di Rovigno nel 1419, si vide affidata la direzione dell’erario di Zara. Francesco fece testamento il 7 apr. 1422 e morì nel giro di un mese. Forse anche per questo fatto, non più legato a Zara da motivi affettivi e in cerca di nuova sistemazione, il M. partecipò alla proba (30 nov. 1425) per l’episcopato di Venezia (Castello). Risultò il più votato, ma il papa gli preferì Pietro Donato, già arcivescovo di Creta.

Il 17 ott. 1427, resasi vacante la sede patriarcale di Grado, Martino V vi traslò il M., anche se il 7 ottobre il Senato aveva indicato il nuovo patriarca nella figura del grande riformatore Ludovico Barbo, abate di S. Giustina di Padova.

Iscritto nel 1428 alla proba per il vescovato di Padova, il suo nome fu cancellato prima della votazione. Il 14 dic. 1429, nella chiesa di S. Marco, il doge Francesco Foscari investì il M., inginocchiato di fronte all’altare maggiore, di tutti i beni temporali pertinenti al patriarcato gradense e siti nel Ducato veneziano. Erano presenti, oltre al vicario del primicerio di S. Marco, molti chierici, nobili e il conte di Carmagnola (Francesco Bussone), capitano generale delle truppe veneziane.

La fortuna del M. cambiò considerevolmente con l’elezione al soglio pontificio (3 marzo 1431) del suo concittadino e amico Gabriele Condulmer (Eugenio IV). Il M. era a Roma il 12 marzo, data in cui compare nella costituzione In qualibet monarchia come reggente della Cancelleria pontificia. A Roma tra i suoi familiares spiccavano nomi come Guarnerio d’Artegna e Leon Battista Alberti. A quest’ultimo egli commissionò una serie di vite di santi; Alberti scrisse (attorno al 1443), con scarso impegno e fortuna, solamente quella del martire Potito.

L’amicizia e la vicinanza con il papa dovettero fruttare al M. molti benefici, alcuni documentati: dal 1431 fu abate commendatario dell’abbazia di Moggio (Udine), con rendita di oltre 500 ducati d’oro annui; da lì asportò vari beni, tra cui una Bibbia che probabilmente andò a implementare la sua personale biblioteca, che nel 1444 contava 149 titoli. Nel 1433 ottenne la conferma papale di una serie di privilegi della Chiesa gradense. Ricevette anche diversi incarichi da parte di Eugenio IV, come per esempio, il 18 nov. 1432, quello di riformare con Ludovico Barbo il monastero femminile di S. Maria degli Angeli di Murano. Nel 1434 gli fu affidata l’amministrazione del monastero femminile di S. Maria de Moniacis in diocesi di Monreale, che, a partire dal 1446, Eugenio IV trasformò in una pensione annua di 300 fiorini d’oro, da pagarsi presso la Curia romana ovunque ella fosse.

Tra la fine del 1433 e l’inizio del 1434 fu insignito del prestigioso titolo di patriarca di Gerusalemme. In tale veste dovette avere vari incarichi da parte del papa, come confermerebbe un salvacondotto del gennaio 1445 rilasciato dal doge per i suoi spostamenti non solo da Venezia a Roma, ma anche in «alias diversas partes mundi» (Battistella, 1903, p. 71).

Nelle prime ore del pomeriggio del 4 giugno 1434, durante la rivolta romana contro Eugenio IV, il M. prese parte alla messinscena per la fuga del papa.

Informato che il papa stava scappando da Roma travestito da monaco, il M. finse di aspettare udienza in anticamera, dicendo ai capipopolo che erano venuti a cercare Eugenio IV che il papa si sarebbe presentato a tutti loro dopo il riposo pomeridiano. Eugenio ebbe così tempo di allontanarsi con una imbarcazione lungo il Tevere. Scoperto l’inganno, il M. fu trascinato in Campidoglio con l’accusa di complicità; non sappiamo se nei giorni successivi riuscì a raggiungere il papa riparato a Firenze o se rimase in carcere a Roma come il cardinale Francesco Codulmer, nipote del papa. La riconoscenza di Eugenio IV per i servigi del concittadino e amico si concretizzò in altri benefici: nel luglio 1435 fu trasferito alla mensa del M. un casale nell’isola di Cipro, mentre nel giugno 1443 il M. ottenne una pensione di 125 fiorini d’oro sopra l’abbazia dalmata di S. Pietro di Valle in diocesi di Arbe (in croato Rab).

Agli inizi del 1438 il M. si trovava a Venezia, dove attendeva insieme con il legato papale cardinale di S. Croce in Gerusalemme Niccolò Albergati, presidente del concilio di Ferrara, l’arrivo dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e del patriarca di Costantinopoli Giuseppe, accompagnati tra l’altro dal Bessarione, arcivescovo di Nicea. La legazione orientale, giunta via mare l’8 febbr. 1438, si portò quindi a Ferrara per discutere dell’unificazione della Chiesa orientale con l’occidentale.

Nel febbraio 1447 morì Eugenio IV e il mese successivo fu eletto papa Niccolò V. Il nuovo papa, nel giugno 1447, diede mandato all’arcivescovo di Corfù Martino Bernardin, residente a Venezia, di decidere su una causa tra il M. e alcuni cittadini di Treviso che si erano indebitamente appropriati di alcuni beni prestati dal M. al vescovo di Concordia Daniele Scoto (deceduto nel 1443), nonostante un precedente tentativo di mediazione attuato da Ermolao Barbaro, vescovo di Treviso. Non sappiamo come si sia concluso l’arbitrato.

Il M. morì poco dopo, entro il 21 novembre, data in cui Niccolò V annullò il testamento del M., impugnato dal nipote Girolamo Molin, che si era visto sottrarre una cospicua parte di eredità dall’ultimo segretario dello zio, Giacomo Bigneti.

Il 14 maggio 1448 il papa dovette scrivere una nuova lettera per dare mandato al vescovo di Castello Lorenzo Giustiniani di convincere alcuni anonimi detentori di beni che erano stati del M. a restituirli a Girolamo Molin.

Al M. non fu mai concessa la dignità cardinalizia, alla quale, a detta di Vespasiano da Bisticci, egli aspirò e che gli fu anche più volte promessa. A impedirgli la scalata concorsero probabilmente il carattere a volte scontroso e un’intelligenza non brillante, come testimonia Poggio Bracciolini in una gustosa facetia: rimproverati per futili motivi alcuni suoi sottoposti, uno di questi rispose che la propria imperizia dipendeva dal fatto che aveva un «malum caput». Il M. pensò che l’uomo stesse incolpando se stesso, non comprendendo il gioco di parole allusivo a lui, che infatti «duro paulum capite existimabatur».

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