BIODIRITTO

XXI Secolo (2009)

Biodiritto

Eligio Resta

«Che ne è del diritto mentre la tecnica s’impossessa del nascere e morire umano?». La domanda posta da Natalino Irti (2007, p. 41) ci conduce direttamente al cuore del problema del biodiritto. Esso indica molto di più di un neutro legame tra vita e diritto: da una parte vita smette di essere una semplice durata, un intervallo di tempo tra nascere e morire, cui erano affidati confini certi, e persino sacri e inviolabili. Dall’altra diritto smette di essere un semplice meccanismo di regolazione. Giuridificare la vita significa metterla in ‘forma’ e, di conseguenza, incidere direttamente su destini, scelte, progetti: mai come in questo caso il diritto si costruisce come tecnica, e insieme potere, che aggiudica libertà e limiti, possibilità che si aprono e contingenze che ne riducono gli spazi. Il gioco che si instaura tra la vita e le regole (Rodotà 2006) si snoda sempre su equilibri provvisori e instabili tra le tante dimensioni della vita, gli ambivalenti poteri della tecnica e le domande crescenti che vengono rivolte all’etica e al diritto. Mai soltanto limite e mai soltanto potere legittimamente riconosciuto, il diritto si trova di fronte all’eccedenza della vita con compiti difficili. Paradossalmente dovrà prendere distanza dalla vita per poterla regolare.

La vita e le sue Carte

Prima che il legame tra scienze della vita e diritti dell’uomo venisse richiamato direttamente da testi di legge, e diventasse tema rilevante, il rapporto tra diritto e dimensione vitale dell’esistenza si era già da tempo imposto alla cultura giuridica. Mai, però, in questa forma e con questa intensità.

«Coscienti dei rapidi progressi della biologia e della medicina» e «coscienti che un uso improprio della biologia e della medicina può portare ad atti che mettono in pericolo la dignità umana»; così esordisce il preambolo di un importante testo normativo che ha per soggetto i «popoli europei». Affermando che i progressi della biologia e della medicina devono essere utilizzati per il beneficio delle «generazioni presenti e future» e riconoscendo l’importanza di un «pubblico dibattito sulle questioni sollevate e sulle risposte da dare», viene solennemente emanata la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo).

Il testo dell’aprile 1997 emanato dal Consiglio d’Europa è preceduto dal Preambolo in cui si traccia il senso e si individuano le linee di un intervento normativo intorno alla questione della biomedicina.

Come accade per molti documenti giuridici, questo appare immediatamente nella sua natura di testo ‘narrativo’: assume come compito quello di tracciare linee guida, norme, limiti al possibile utilizzo improprio delle tecnologie biomediche. A questo proposito, la Convenzione si dimostra anche una sonda efficace della rilevanza dei problemi e delle inquietudini di un’epoca. Non è il primo, né sarà l’ultimo, ma è forse il testo normativo in cui, più esplicitamente, irrompe la questione della ‘dignità della vita’ come confine oltre il quale la tecnologia non può spingersi e non può espandere competenze e domini.

Tale testo appare come sensore potente della percezione del problema e dei compiti da affidare alle regole giuridiche. Non vieta né legittima, ma disegna solchi giuridicamente compatibili, secondo un linguaggio consentito al diritto, in cui libertà e autonomia delle singole sfere sono sempre riconosciute entro paradigmi e confini giuridicamente compatibili. Al di là dei singoli contenuti e delle specifiche previsioni, questo testo mostra un rapporto, non sempre lineare, tra il diritto e la vita. Lo si può definire un testo biogiuridico in cui si percepisce una diffusa richiesta di consapevolezza pubblica, oltre che l’assunzione di direttive e principi cui ispirarsi. Le questioni della biomedicina – così vengono definite – hanno fatto, dunque, irruzione nel sistema delle regole giuridiche, forse in ritardo, magari con una tematizzazione non del tutto soddisfacente, con tante incertezze, ma hanno anche imposto riflessioni alla province of jurisprudence.

Di fronte alle ormai consuete accelerazioni della tecnica, gli anni più recenti hanno mostrato una sola apparente divaricazione. Da una parte si è assistito al crescere di un dibattito, a volte dal carattere un po’ ‘salottiero’ sul cosiddetto postumano, una sorta di ‘nuova Atlantide’ piena di chimere e di corpi elettronici; dall’altra si è registrata una diretta conferma del presagio della filosofia di fine Ottocento secondo cui il ‘corpo’, nella sua fisicità, avrebbe costituito il ‘filo rosso dell’epoca moderna’.

Tra un corpo scomparso e un corpo ritrovato, la discussione pubblica si è concentrata in maniera prepotente sulla dimensione della vita e della sua ‘corporeità’. Tracce di tali discussioni si ritrovano in molti luoghi, ma testimonianze rilevanti dello stato della questione sono consegnate, come non mai, a quei testi normativi che ne recepiscono il problema e ne ‘indicano’ possibili soluzioni. L’incrocio stringente tra il diritto e la vita (il life dominion) risiede esattamente in questo punto e caratterizza in maniera puntuale l’epoca contemporanea. Per questo il diritto, che è un complesso sistema costituito da prescrizioni, decisioni, e da ragionamenti su prescrizioni, è diventato per larga parte biodiritto, avendo fatto proprio l’insieme delle relazioni tra limiti e possibilità della vita, quando la vita, si dice, diventa manipolabile da parte della tecnica.

Questo secolo si è aperto con uno dei testi normativi più significativi nella storia del costituzionalismo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) del 2000 entrata in vigore nel 2003; il documento è destinato a costituire la parte seconda del Trattato costituzionale europeo, attualmente in via di riforma.

La sua importanza è da rinvenire a diversi livelli, di cui alcuni attengono al carattere costitutivo di questo inedito spazio politico dell’Europa (fra, ma anche oltre gli Stati), altri alla dimensione, non soltanto simbolica, dei diritti che vengono sanciti, altri ancora al loro specifico contenuto. Non è nuova, del resto, la tendenza a leggere i documenti giuridici come veri e propri testi letterari che informano sull’epoca, sulle sue sensibilità, sui suoi temi rilevanti. Letta come un ‘racconto’ del proprio tempo, la Carta di Nizza appare come un testo particolarmente importante per il modo in cui adotta un linguaggio normativo riferito a temi, o assenti, o soltanto in ombra nelle precedenti esperienze costituzionali. Ripercorrere la mappa delle sue prescrizioni significa ritrovarsi di fronte a un singolare ‘progetto’ giuridico della vita degli individui (‘persone’ nella tradizione più francese).

L’esordio è dedicato alla clausola della dignità umana (degli ‘esseri’ umani) definita come inviolabile e oggetto di rispetto e tutela da parte della sfera pubblica. La dignità, che prende il posto, forse riassumendole, delle più tradizionali clausole dell’uguaglianza e della libertà, aveva fatto il suo ingresso nelle costituzioni e nelle carte dell’immediato dopoguerra quando, in maniera forse più decisa, le comunità politiche avevano sancito il ‘mai più’ della violenza e della ‘barbarie’, che soltanto il rispetto dei diritti fondamentali delle persone avrebbero potuto fermare.

Nel riconoscimento della dignità dell’esistenza umana vi è qualcosa in più: nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre del 1948 la dignità si articolava nell’esplicito diritto a ‘riconoscersi come uomini’, con echi kantiani facilmente riscontrabili. La consapevolezza che ‘essere uomini’ spesso non coincide con l’‘avere umanità’, aveva spinto la comunità internazionale a porre la dignità della vita di ogni individuo al centro dello statuto giuridico degli individui e come cuore pulsante delle costituzioni: essa era progetto positivo da perseguire all’interno della sfera pubblica e limite negativo all’esercizio di qualsiasi potere. Ancora più esplicitamente, nella Costituzione della Repubblica Federale di Germania del 1949 e nella giurisprudenza che l’ha interpretata e applicata, ‘dignità’ è stata intesa come salvaguardia della vita, materiale e immateriale, di ogni individuo di fronte a sofferenze gratuite imposte da qualsiasi prepotere. Vi sono tracce anche nella Costituzione italiana (artt. 2, 36, 41), anche se meno visibili di quelle emergenti in altre leggi fondamentali.

Ripartire da questa tradizione nel testo costituzionale europeo non è senza significato, anche perché in questa maniera si individua un passaggio dalla categoria del ‘soggetto’, soltanto centro di imputazione giuridica astratta, a quello delle persone con le loro scelte, i loro destini, la loro esistenza concreta. Che il referente della dignità sia la ‘vita’ nella sua complessità è indicato da quella mappa ideale della Carta di Nizza che fa seguire all’incipit in chiave di dignità, la sanzione del ‘diritto alla vita’ (art. 2) di ogni individuo e l’interdizione, conseguente, della pena di morte che è antitesi, appunto, del diritto alla vita. Dignità della vita va intesa specificamente come dignità di una ‘esistenza’ in quanto singolo e nelle formazioni sociali: qualificazione di una modalità che tiene sempre insieme individuo e comunità e lega lo ius solitudinis alla più aperta socialità che si esplica nelle relazioni, nei gruppi. Si potrebbe dire che si tratta di persone ‘in carne e ossa’, per riprendere la nota formulazione di Walter Benjamin; ed è proprio a partire da questo contenuto giuridico minimo che ogni altro diritto può trovare una forma di riconoscimento.

Nella sua declinazione costituzionale, infatti, la vita materiale e immateriale degli individui trova cittadinanza nell’universo delle regole giuridiche, che è molto di più della sua semplice ‘giuridificazione’. Si può ricostruire nel testo costituzionale europeo una specifica ‘grammatica’ della vita, con tutte le sue più diverse dimensioni, da quella puramente biologica a quella propriamente psichica o spirituale: in controluce finiscono per evidenziarsi le complesse pieghe del body mind problem (corpo/mente), con tutti i suoi incidenti ‘cartesiani’; ma questa è altra questione. Dunque ogni individuo, continua la Carta all’art. 3, ha diritto alla propria «integrità fisica e psichica». Si allarga così lo sguardo rispetto ai codici civili del secolo scorso e si parla insieme di soma (corpo) e psyché, non separandoli, ma connettendoli reciprocamente. Quella che sembrerebbe soltanto una clausola generale, che rischia di svuotarsi, viene progressivamente riempita da puntuali riferimenti tanto al contenuto della vita ‘biologica’ quanto alle scelte immateriali che possono connotare l’esistenza.

Al co. si ribadisce, ed è qui la novità, che nell’ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, il divieto delle pratiche eugenetiche selettive della specie, il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti fonte di lucro, il divieto della clonazione riproduttiva. Ogni termine va sottoposto ad analisi e la cultura giuridica non ha mancato di farlo, ma è significativo che l’integrità vada riferita anche alla pratica medica e biologica che spesso, si sa, può seguire itinerari del tutto autonomi e separati; non si tratta di antiscientismo, ma si tratta di ribadire che ogni tecnica deve trovare un limite al suo ‘prometeismo’ e questo limite è dato dal senso di quella dignità che costituisce l’impalcatura della ‘vita’. L’extrapatrimonialità del corpo è innanzitutto un dato culturale che, giuridicamente, pone limiti all’autonomia della scienza e ciò porta notevoli conseguenze in merito alla disciplina della brevettabilità, alla circolazione, in genere a quella che, in ambiente anglosassone, viene chiamata commodification.

Biologia, biografia

La tecnica non è letta come antitesi della vita, né la vita si esaurisce nella sua dimensione di corpo ‘malato’ o di corpo ‘biologico’ (nel senso di ridotto a biologia). Anzi, proprio nella grammatica della vita che il testo costruisce, biologia e biografia non si sovrappongono; il carattere biografico dell’esistenza è molto più legato a dimensioni esistenziali che si consumano dentro forme collettive, condivise, dentro una contingenza storica indipendente dai cromosomi. Due gemelli vissuti in ambienti diversi mostrano, per es., diversità profonde e atteggiamenti culturali differenti; il cosiddetto diritto all’identità è qualcosa di più del semplice dato genetico e le leggi europee sulla privacy lo hanno di recente ribadito. Persino in decisioni giudiziarie si parla del ‘diritto ad essere sé stesso’ come diritto a scrivere la propria storia con parole e racconti, almeno in parte, propri: oltre che biologia è anche, se non soprattutto, biografia. L’identità è sicuramente dato genetico, ma è anche ‘filo della memoria’, ‘racconto di sé’, persino nei documenti giuridici.

Le declinazioni complesse della ‘vita’ nei testi costituzionali che questi ultimi decenni ci hanno proposto si sforzano di indicare il perseguimento del fine della dignità come compito collettivo in cui ci sono doveri della sfera pubblica da attivare. Il modello che torna è quello illuminista consegnato a leggi fondamentali come la Costituzione francese del 1793 che ribadiva il dovere di tutti di tutelare e attuare i diritti individuali. E questo vale soprattutto per la clausola della dignità che, in ambiente anglosassone, è stato definito come il knockdown argument.

Il nuovo habeas corpus passa infatti per il divieto rivolto ai pubblici poteri di sottoporre alcuno a «pene o trattamenti inumani e degradanti» (Carta di Nizza, art. 4), per l’obbligo di rimuovere le «condizioni di schiavitù o di servitù» e le costrizioni a un «lavoro forzato o obbligatorio», e per la proibizione della «tratta di esseri umani» (art. 5). Tali prescrizioni sono accompagnate anche da un vincolo di ‘tutela penale’ per gli Stati membri che l’Unione Europea ha ribadito nelle politiche di sicurezza e giustizia. Che poi le prescrizioni non siano sempre accompagnate da prassi di politiche sociali adeguate non è, ovviamente, questione di dettaglio ma è sicuramente altro discorso. Dello stesso tenore appaiono gli espliciti richiami al dovere di rispettare e far rispettare la «vita privata e familiare» di ogni individuo, il «domicilio e le sue comunicazioni» (art. 7): il nome possibile è quello dell’autonomia di ogni individuo, come presupposto della dignità, da realizzare attraverso tutele negative e obblighi positivi (habeas data, protezione dei dati personali e libertà di scegliere la propria dimensione di vita). Non si giunge alla nota sanzione del diritto alla felicità della Costituzione americana, ma sicuramente a un singolare diritto alla vita degna, in cui tanto felicità quanto vita degna non sono intese in maniera monologante, a valore unico e imposte dall’alto, come nello Stato etico. Le norme indicano il diritto a ricercarle individualmente, ma anche l’obbligo a rimuovere gli ostacoli che a esse, nei fatti, si frappongano.

In questo senso vanno interpretate le norme che proteggono i singoli cittadini da pratiche statuali contrarie alla dignità (art. 19) e quelle che traducono il principio di uguaglianza in divieti di discriminazione. Le forme della discriminazione, sempre possibile nei fatti, sono indicate nel testo giuridico con lo stile di una grande narrazione che la tradizione costituzionale europea, non ultima quella della Costituzione italiana del 1948, ha conosciuto. Si parla infatti di discriminazione «fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» (art. 21); non ultima viene interdetta quella particolare discriminazione fondata sulla ‘cittadinanza’ che pure, come è peraltro ben noto, nella discussione pubblica europea, non di rado abbiamo visto ritornare.

Lo schema adottato è quello della diversità non come limite, ma come struttura costitutiva dell’uguaglianza. La novità non secondaria è che nel catalogo delle discriminazioni figurano inediti come le caratteristiche genetiche che vengono esplicitamente richiamate; questo non è semplice omaggio ai novissima del dibattito scientifico. Si tratta di un problema di etica della vita pratica che il diritto europeo affronta perché l’esperienza quotidiana ha suggerito la rilevanza e la ricorrenza di discriminazioni sulla base della genetica: si pensi ai casi giudiziari frequenti decisi da corti nazionali e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sulla discriminazione nei contratti di lavoro e nei contratti di assicurazione in cui la ‘predittività’ della genetica viene usata per prevedere inefficienze lavorative o rischi assicurativi. Qui si vede come il dato ‘biologico’ si trasformi in atteggiamento culturale e in pratica sociale, che hanno a che fare fino in fondo con la ‘dignità’ e la sua uguaglianza e, quindi, inevitabilmente, con il diritto. Si tornerà più avanti sui dati genetici, su cosa siano dal punto di vista giuridico, sul loro statuto, ma fin da ora va sottolineato il fatto che il diritto incorpora (internalizza con una Verkörperung) il linguaggio della scienza traducendolo nel suo. Così nei testi costituzionali i dati genetici sono fonte di discriminazione, altre volte costruzione dell’identità, che attengono a dimensioni della vita che non possono essere mai esaustive. Non a caso la Carta immediatamente dopo prende in considerazione la condizione sessuale e l’età: donne, uomini, bambini, anziani, disabili. Il lessico ci pone direttamente di fronte alla questione del bios con la sua singolarità (l’età, il sesso, la malattia) e la sua relazione infraumana: non è richiamata la dimensione di un’astratta soggettività giuridica, ma quella dell’esistenza concreta, delle singole vite con tutte le loro determinatezze.

Più apertamente che in passato, questo testo costituzionale fa emergere un singolare rapporto tra la vita e il diritto: la vita suggerisce il diritto (nomos) e il diritto interpreta e regola la vita (tanto bios quanto zoé). Il gioco è quello dell’autonomia relativa dell’una e dell’altro, ma anche quello di una loro relazione ineliminabile che, pur esistendo da sempre (si pensi al nomos empsychos di scuola platonica), soltanto qui e soltanto ora diventa semanticamente influente.

Dunque questo secolo si è aperto con un testo che affonda lo sguardo sulla vita e che quindi è esempio di quella cultura biogiuridica che si era andata costruendo nella scienza, che aveva fatto il suo ingresso nei testi normativi e che si era proposta come ‘caso’ di fronte alla giurisdizione negli ultimi anni del secolo scorso. La Carta di Nizza, che abbiamo ricostruito attraverso il filo rosso della dignità della vita, non fa altro che coagulare tracce già visibili di una regolazione e di una tematizzazione giuridica della questione del bios, individuale e collettivo. Si pensi a metà degli anni Novanta al Protocollo di Kyoto, nel quale si sottraeva all’appropriazione (pubblica, degli Stati, e privata) e si definiva «bene comune dell’umanità» il fondo del mare, da preservare in quanto custode del patrimonio genetico dell’umanità da trasmettere alle «generazioni future». Si era avuta un’anticipazione con il Trattato sullo spazio extratmosferico (1967), con l’Accordo per la salvaguardia delle risorse naturali della Luna e degli altri corpi celesti (Moon Agreement, 1979), con la Convenzione sulla diversità biologica (1992).

Accanto a molti altri vanno richiamati alcuni testi normativi, non per caso sovranazionali, che hanno anticipato i contenuti della Carta e che rappresentano il modello di una forte ‘irruzione’ delle tematiche della vita nel panorama del diritto. Le domande che abbiamo visto crescere nella scienza e nell’opinione pubblica hanno trovato alcune prime risposte in importanti testi giuridici, così come il diritto può fornire risposte. Va sempre infatti richiamata la nota legge di Hume per cui non si possono dedurre fatti da norme, descrizioni da prescrizioni, e che tra previsione normativa e realtà che dovrebbe a essa adeguarsi vi è sempre una cospicua distanza di sicurezza (la ‘fallacia normativa’ è il pericolo in cui si incorre). Questo significa che non basta una norma perché la ‘dignità della vita’ si realizzi, ma senza la norma non si possono imputare inadempienze da cui nasce la sua lesione.

Se ci sia, quale possa essere e come regolare «l’uso improprio della biologia e della medicina» è la domanda con cui, abbiamo visto, esordisce il Preambolo della Convenzione di Oviedo del 1997 dedicata significativamente ai diritti dell’uomo e alla biomedicina; tale domanda è rivolta al diritto in maniera del tutto differente rispetto all’etica, alla religione, all’economia, alla politica. La domanda di regolazione rivolta al diritto nasconde richieste di orientamenti normativi generali e vincolanti, non incompatibili, ma diversi rispetto a quelli elaborati dall’etica. Di fronte alle tante comunità morali e alla pluralità delle scelte (la ‘repubblica delle scelte’) al diritto si chiedono principi e direttive unitarie e condivise: che ci si riesca è un altro conto e ciò dipende dal fatto che non si realizza tanto facilmente la ‘differenza’ del diritto rispetto agli orientamenti morali.

Dall’etica al diritto

In un documento informativo del Consiglio di Stato francese del 1988 intitolato non a caso Dall’etica al diritto, si diceva che il cammino dall’etica al diritto sarebbe stato inevitabile e che le questioni della vita sarebbero ricadute prima o poi nel dominio del diritto con un salto difficile, ma obbligato, dalla ‘coscienza’ alla ‘legge’. È quanto è avvenuto all’interno dei sistemi giuridici nazionali e, in maniera più significativa, all’esterno di essi in una sfera pubblica più vasta. Uno degli esempi più evidenti è offerto dalla Convenzione di Oviedo che traccia alcune linee normative (i ‘principi’ sono, mai come in questo caso, ‘direttive delle regole’) nei confronti della biomedicina. Ponendo al centro la dignità della persona, si subordina ogni intervento al consenso, informato e tutelato, dell’individuo, con particolare attenzione ai minori e ai soggetti incapaci; si stabilisce la priorità dell’individuo (personne, nel testo francese, individual in quello inglese) su società e scienza (artt. 1 e 2) e si sancisce il pari accesso agli interventi sanitari (principio di solidarietà, art. 3) nonché il divieto di discriminazione ‘genetica’ e la tutela della riservatezza dei dati. Dove più deciso si manifesta l’intervento normativo è nel campo della genetica, in cui la ‘predittività’ dei test è ammessa soltanto a fini curativi e scientifici e non classificatori o discriminatori. Gli interventi sul genoma, preventivi, diagnostici e terapeutici, non possono essere tesi a modificare la struttura genetica dei discendenti (art. 13); nello stesso senso, per quanto riguarda l’assistenza medica alla procreazione, se ne interdice l’utilizzazione ai fini della scelta del sesso tranne che per evitare malattie ereditarie a esso connesse (art. 14). Così, mentre si afferma la libertà della ricerca scientifica (art. 15), la si subordina alla «protezione dell’essere umano», di cui principio guida è l’extrapatrimonialità (art. 21) dell’impiego di qualunque parte del corpo umano (ribadito dagli ordinamenti statuali, come gli artt. 611 e 617 c.p.) e, conseguentemente, la sottrazione ‘giuridica’ alla sfera del mercato.

Complessivamente le linee tracciate riguardano una politica di riduzione del cosiddetto paternalismo e l’introduzione di scelte consapevoli e informate per quanto riguarda l’uso della biomedicina. Ne sono una riprova l’autonomia dell’individuo nella scelta di sapere o di non sapere (art. 10), e la possibilità di esprimere volontariamente direttive anticipate (living will e testamenti biologici, art. 9). Sullo sfondo si può leggere il tentativo del diritto di ridurre l’asimmetria tra i detentori dell’informazione e i ‘pazienti’ che, nella tradizione foucaultiana (ma non soltanto), è tipico di una ‘microfisica del potere’. Il problema non è nuovo: nella tradizione giuridica tutto questo era già emerso da tempo, pur con alterne fortune, per quanto riguardava la diversità di potere tra lavoratori e datori di lavoro, la tutela dei consumatori, l’uso dei mezzi di informazione. Ma rispetto alle tradizionali forme di disuguaglianza e di disparità di potere, quello che il biodiritto lascia trasparire è qualcosa in più: dal terreno delle relazioni economiche e sociali si passa a una dimensione più decisiva che attiene alle questioni della vita dove, si era detto, biografia e biologia, corpo e dignità si trovano su un terreno più scivoloso e spesso non facilmente controllabile. Per questo nella Convenzione di Oviedo si pone l’accento sul dovere degli Stati di aprire la sfera della comunicazione pubblica a dibattiti aperti e consapevoli su questioni di tal genere. Il senso di questa singolare prescrizione, importante quanto inedita, è far crescere un’informazione collettiva consapevole che, pubblica quanto privata, è diritto dei cittadini e obbligo delle istituzioni e dei soggetti ‘competenti’. L’apertura al controllo pubblico, forse più del ‘consenso informato’, spesso soltanto malinconico, potrebbe essere assunta come modello pratico di una democrazia deliberativa.

La consapevolezza che tutto questo non basti è senza dubbio un punto di partenza, ma è ovviamente altro discorso. Ne è seguita infatti una pratica abbastanza diffusa, ma in sé stessa non giustificata da carte e direttive come quelle citate, a usare in maniera troppo larga il ‘principio di precauzione’ tutte le volte che nasce incertezza sui risultati di un’utilizzazione scientifica: il risultato è stato quello di vietare tutto. Nei testi normativi non si giunge a una conclusione così definitiva; un uso particolarmente restrittivo nelle pratiche ‘amministrative’ nasce, piuttosto, da un’informazione anche pubblica, un po’ frettolosa, ed è alimentato principalmente dal tentativo di neutralizzazione del ‘rischio’ insito nella decisione del politico. Tutta la questione degli organismi geneticamente modificati ne è un esempio, soprattutto se si pensa al rifiuto della clonazione che è l’unico caso in cui la manipolazione genetica è assente.

Sullo sfondo, come cornice di riferimento teorico, rimangono la questione della ‘verità’ (stipulativa) delle proposizioni scientifiche e il carattere ambivalente delle tecnologie (il ‘dono’ prometeico del fuoco, che serve a riscaldare come a bruciare, raccontato miticamente attraverso il peccato di ybris). Sull’uso giuridico delle proposizioni scientifiche vi è un dibattito infinito che alimenta, più che placare, l’incertezza. Rispetto a esso il ruolo difficile del diritto dovrebbe essere quello di mantenere distanza di sicurezza (‘deve’ ma spesso non ‘riesce’ a farlo). Quella incertezza che vede la cultura giuridica schierata su versanti opposti e che spesso deriva da una disponibilità a confondere atteggiamenti morali e dimensione giuridica, viene risolta dalla legislazione con il ricorso a clausole generali che a volte spostano soltanto il problema senza affrontarlo e risolverlo. Così avviene che, affermata la dignità come criterio limite e principio direttivo delle pratiche biomediche, si debba discutere se sia o meno contrario alla dignità stessa il ricorso a esse. Cos’è contrario alla dignità, clonare o non clonare? Chi, per es., si schiera contro l’inseminazione eterologa deve di conseguenza negare il diritto fondamentale alla genitorialità, e via di seguito. L’intera materia biogiuridica appare attraversata da ‘campi’ normativi, se non contraddittori, almeno differenti e massimamente articolati.

Accade così che, per opposte ragioni, Stati membri come Gran Bretagna e Germania non ratifichino il testo della Convenzione di Oviedo. Per giungere a soluzioni condivise, nei Protocolli aggiuntivi alla Convenzione sui diritti umani e la biomedicina e nei Rapporti esplicativi del gennaio 1998 che ne sono seguiti, e nella risoluzione del Parlamento europeo sulla clonazione (del 1997 e del 2000), si fa ricorso a clausole generali le più disparate, come la parità degli esseri umani, o alle ragioni di «ordine pubblico e buon costume» (formula giuridica) che tutelano il «valore» di ogni essere umano (formula morale) (risoluzione, 2000, punto A). Né basta distinguere modelli e tecniche di clonazione (cellule somatiche, embrionali, per scissione embrionale o trasferimento nucleare) quando si sottopone tutto al divieto di «clonazione riproduttiva» ribadita nel 1997 dalla Dichiarazione universale sul genoma umano e sui diritti dell’uomo dell’UNESCO (art. 11). La permeabilità del discorso giuridico da parte di atteggiamenti morali più o meno giustificati è visibile tanto nella forma quanto nella sostanza dei principi normativi adottati. Non è infatti accertato che la clonazione per scissione embrionale sia un meccanismo riproduttivo; a essa infatti manca la verticalità del rapporto. Ma non è neanche chiaro il confine, persino tra i genetisti, su caratteristiche e possibilità della clonazione terapeutica; il risultato è che ‘funzioni’ riproduttive e terapeutiche sono presenti nelle tre procedure tecniche di clonazione (per scissione embrionale, per trasferimento nucleare, per partenogenesi). Colpisce la perentorietà dell’affermazione contenuta nella Dichiarazione universale sul genoma umano e sui diritti dell’uomo, votata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1998 che, all’art. 1, definisce il genoma umano «in senso simbolico, patrimonio dell’umanità»; tale definizione appare mossa da un principio assoluto di precauzione rispetto al rischio, del tutto generico, di ‘manipolazione’.

Per questo nel dibattito europeo è stato necessario precisare che il ‘diritto’ a un patrimonio genetico non manipolato non deve essere considerato in conflitto con ‘terapie dei geni’ che aprono la speranza di trattamenti e possibili eliminazioni di malattie genetiche ereditarie (raccomandazione del Consiglio d’Europa, 2006).

Il diritto allora vive in una condizione doppia: deve regolare le pratiche della vita essendone nello stesso momento regolato. Usa il suo linguaggio giuridico essendo informato dal linguaggio scientifico e morale: è sempre accaduto, ma in ‘campi’ così problematici, tale dimensione si amplifica in maniera consistente. La sua funzione equivale a quella di un termostato che regola la temperatura di un ambiente essendo regolato dalla stessa temperatura dell’ambiente. Tra vita e regole si stabilisce un circuito di riferimento reciproco e continuo all’interno del quale l’assolutezza che si pretende dalle regole deve fare i conti con la dipendenza dalle dimensioni della ‘vita’ che cambia nel suo linguaggio, nella sua autodescrizione e nelle sue possibilità.

Le banche della vita

Mai come per la questione della genetica tutto questo è diventato evidente. Modificandosi in maniera consistente il rapporto tra acquisizioni scientifiche e diritto sorgono problemi di compatibilità ermeneutica all’interno dello stesso universo giuridico. Quello che Mariachiara Tallacchini ha definito lo stato epistemico (in Etica della ricerca biologica, 2000, pp. 91-111) nasconde molte conseguenze. La più evidente è offerta dall’utilizzazione dei test genetici come mezzi di prova nel processo; alla tradizionale risposta (positivistica) per cui è la scienza a dettare regole al giudice e al potere, è subentrato un generale processo di ripensamento: la non ammissione, se non a certe condizioni, delle prove genetiche rientra, più che nella diffidenza scientifica nei confronti della junk science, nel principio del libero convincimento del giudice a garanzia della ‘terzietà’ del processo. Si è consapevoli del fatto che se Charlie Chaplin avesse potuto disporre di test genetici avrebbe avuto la possibilità di confutare una falsa attribuzione di paternità; ma si è anche consapevoli che, per questa via, la scienza si sostituisce progressivamente al giudice. L’apparente certezza scientifica, non regolata e non istituzionalizzata, prenderebbe il posto ‘dell’ultima parola del giudice’ e in tal modo potrebbe verificarsi più di qualche rischio per le garanzie.

Tutto questo ovviamente non può arrivare fino al punto di negare qualsiasi ammissibilità di prove scientifiche: è noto il caso Michael H. v. Gerald D. (491 U.S. 110) deciso il 15 giugno 1989 dalla Corte suprema degli Stati Uniti, con l’opinione di maggioranza del giudice Antonin Scalia. La Corte respinse l’appello di un padre naturale che chiedeva di far visita alla figlia nata da una relazione con una donna sposata, in seguito tornata dal marito che aveva deciso di riconoscere la bambina: la motivazione recitava «la legge, come la natura, non conosce che un solo padre» (Bruner 2002, p. 45).

Nel confronto serrato tra scienza e diritto un buon modello che sembra emergere nel dibattito tra civil e common law è quello di un rafforzamento dell’autonomia relativa dei due sistemi, con processi comunicativi forti, ma con competenze e funzioni del tutto rigidamente distinte.

Al di là del terreno aperto delle prove scientifiche nel processo che, pur importante, è soltanto una parte ben delimitata del rapporto scienza/diritto, vi è una dimensione forse meno visibile. Essa riguarda il problema delle compatibilità ermeneutiche che sorgono nel linguaggio giuridico a opera delle acquisizioni scientifiche. Su questo né soltanto la legislazione né soltanto la giurisdizione sui casi concreti (il judge made law) hanno finora potuto operare una sistematizzazione. Suggerimenti importanti stanno emergendo dal formante dottrinario che in parti diverse del pianeta, ma non da ultimo in Italia, lavora sulle differenti, e spesso contraddittorie, indicazioni normative. Del resto a influire sull’intero legal process sono l’incertezza cognitiva, acquisizioni scientifiche controverse, modelli culturali, pluralismo delle tante ‘comunità morali’ che si fanno interpreti, oltre che di etiche, di indirizzi normativi. A risentirne è, in una parola, il linguaggio giuridico, nel dare nomi (giuridici) a cose, pratiche, attori e nel trovare la regola del comportamento e il rimedio del conflitto che inevitabilmente nasce. Dietro la ‘grammatica’ vi sono ovviamente delle poste in gioco.

Tra le sue ‘determinatezze’ il linguaggio giuridico trova ‘nomi’ e categorie che spesso non sono adeguati: diritti/doveri, obblighi/pretese, responsabilità/solidarietà, proprietà/persona, ma anche beni/circolazione, accesso/fruizione. Quando ci si trova di fronte a problemi riguardanti il corpo e la vita, è difficile sciogliere da parte del giurista antichi nodi come quello dell’‘essere o avere un corpo’: se ‘siamo’ un corpo è difficile sostenere che possiamo donare organi e, se è così, il principio di solidarietà deve trovare ingiusti condizionamenti. Ma ‘avere un corpo’ può essere facilmente fatto rientrare nelle logiche ‘proprietarie’ («Do we own our body?», si chiede Guido Calabresi)? E se è così, fino a che punto? Di fronte a pratiche economico-sociali che mostrano crescenti e inedite forme di ‘utilizzazione’ e di commercializzazione di parti del corpo, bisogna apprestare rimedi ‘possessori’ o, piuttosto, occorre indirizzarsi verso tutele contrattuali o risarcitorie? L’inedito sta nel fatto che la pratica tecnologica produce ‘nomi’ nuovi e, ben sappiamo, che le cose che corrispondono ai nomi nuovi non sono sempre già regolate.

Quando una signora italiana affetta da glaucoma bilaterale chiede informazioni sui dati genetici del padre e queste le vengono negate, il giudice o l’autorità garante dovrà decidere di chi sono tali informazioni, come devono circolare, a quali fini e con quali limiti. Tra corpo e informazioni vi è identità o si tratta di cose diverse e, soprattutto, scisse? Ancora, come nel noto caso Moore v. the regents of the university of California (793 P 2d 479), se dei ricercatori isolano una sequenza cellulare da tessuti della milza di John Moore, la brevettano a sua insaputa e ne fanno oggetto di proventi commerciali e Moore rivendica la proprietà, i giudici negano che il puro materiale biologico sia idoneo, senza informazioni e trattamenti scientifici, a generare ricchezza. Non è un ‘bene’ proprietario senza la sua ‘informazione’: la novità sta tutta qui.

Di fronte al reiterarsi di casi simili, le Corti giungono al massimo (come nel caso Greenberg v. Miami children’s hospital, 264 F. Supp. 2d 1064, S. D. Fla. 2003) a ribadire il principio, per poi concedere, comunque, a Daniel Greenberg, quasi in via compassionevole, un risarcimento per l’ingiustificato arricchimento degli ‘utilizzatori’.

Qualche nostalgico ricorderà che, per es., nel diritto romano la controversia tra proprietà e utilizzazione veniva risolta a favore dell’artifex che era capace di ‘valorizzare’ un bene grezzo: così tra il proprietario della stoffa e il sarto che cuce le vesti va preferito chi è capace di dare valore a un bene che non ne ha. Sarebbe questo un caso di utilitarismo ante litteram capace di sorprenderci. Ma è anche vero che tra la stoffa grezza e il materiale biologico umano qualche differenza dovrà pur esserci.

Dunque la scissione sempre più vistosa tra il materiale biologico (raw material) e l’informazione produce una serie di problemi di ‘compatibilità ermeneutica’ che il diritto deve affrontare: il primo è quello della ‘dematerializzazione’ del corpo con la sua riduzione a ‘informazione’ (e ovvie ricadute sulle vecchie forme identitarie, art. 5 c.c.).

Il secondo è il carattere ‘comunitario’ delle informazioni: esse sono tanto più rilevanti quanto prese da campioni collettivi e rilevanti per interi gruppi di popolazione. Questo spiega l’insorgere di biobanche o di archivi informativi sempre più diffusi, con importanti questioni giuridiche connesse, tanto da parte del detentore dell’informazione (controllo, custodia, conservazione, pubblicità ma riservatezza), quanto da parte dei ‘soggetti’ dell’informazione (consenso, controllo, accesso, privacy) (Società italiana di genetica umana, Telethon fondazione onlus, Biobanche genetiche, Linee guida, «Analysis», 2003, 5-6; Fondazione Smith Kline, Società italiana di genetica umana, Linee guida per i protocolli clinici di ricerca genetica, ott. 2006; European society of human genetics, Data storage and DNA banking for biomedical research, «European journal of human genetics», 2003, 11, suppl. 2, pp. 8-10).

Ai nomi (alle ‘fattispecie’, dicono i giuristi) corrispondono dunque campi semantici complessi in cui le regole dovrebbero dare uniformità (almeno grammaticale) e indicare rimedi per risolvere i relativi conflitti; e mai, come nella genetica e nella biomedicina, il corpo dematerializzato nelle sue informazioni è diventato un terreno di controversie e di hard cases. Accade così che nella Carta di Nizza, nella Dichiarazione universale sul genoma umano e sui diritti dell’uomo e nei Protocolli che ne sono seguiti, si ribadisca il principio della extrapatrimonialità del corpo, ma poi si assista alla sua trasformazione in bene ‘informazione’ con tutte le utilizzazioni, formali e informali, a questa connesse. Il rispetto dei principi passa così dall’enunciazione alla predisposizione di controlli e tutele. La linea generale di tendenza che forse meglio rappresenta tale percorso è quella europea e italiana in particolare (più che quella statunitense). In attuazione della Convenzione di Oviedo e delle direttive stabilite nella Dichiarazione internazionale sui dati genetici umani dell’UNESCO, adottata nel 2003, le leggi si orientano verso il principio di corretta utilizzazione e di autodeterminazione consapevole degli individui. Ciò significa concretamente previsione di un consenso al prelievo, alla raccolta, alla conservazione e, non ultima, alla brevettazione del materiale biologico umano. La Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2006 viene così accolta dalla legge italiana, che appare fra le più garantiste. Si richiede infatti che ogni brevettazione sia costitutivamente legata all’esplicito consenso, sempre revocabile, dei soggetti da cui è prelevato il materiale biologico (Codice sul trattamento dei dati personali, 2003, e Provvedimento del garante del 22 febbr. 2007, artt. 4 e 6).

Ovviamente la questione non si esaurisce nel consenso che sconta tutte le dissimmetrie di informazione tra il singolo e i repeat players a diverso titolo competenti; del resto non era per caso che nella Convenzione di Oviedo e nei relativi Protocolli si richiamasse la necessità di discussioni pubbliche e aperte sulle questioni genetiche, a conferma della centralità di queste scelte nello spazio della ‘sfera pubblica’.

Vi è inoltre sullo sfondo un’altra dimensione del problema che deve essere accennata: anche quando il diritto avesse realizzato le sue tutele e quando la genetica ci avesse ‘informato’, grazie alla sua funzione predittiva, dei ‘destini’ individuali scritti nelle nostre strutture genetiche, ci troveremmo sempre in una paradossale situazione, saremmo cioè sempre più informati ma, proprio per questo, sempre più indecisi e, forse, più soli. La scena non è del tutto inedita e bisognerebbe scavare nella vicenda antropologica segnata dall’etica religiosa moderna che, di fronte all’ineluttabilità della ‘predestinazione’, aveva riscoperto il ‘principio speranza’ connesso alla incommensurabilità della ‘grazia’. Se nello scarto tra ‘quello che si dice’ e ‘quello di cui si parla’ nel discorso giuridico emerge un’antropologia nascosta, questa è da riferire a quella dimensione dell’identità che si snoda tra esperienze e aspettative, tra lo spazio delle certezze scientifiche e l’orizzonte delle speranze.

Essere informati non sempre aiuta a risolvere il problema; in certi casi paradossalmente lo aggrava. Così la rivendicazione giuridica dell’autonomia spesso si svolge su un piano, importante, ma estraneo alla questione vera dell’esistenza. Ma questo è, appunto, altro discorso rispetto al diritto.

L’eccedenza della vita

Le possibilità crescenti che la tecnica suggerisce diventano per il diritto problema ermeneutico e dilemma regolativo. Tradurre e rendere compatibile con i propri codici linguistici quello che avviene nella vita è l’operazione che precede costitutivamente le scelte normative. Quando la tecnica ha reso possibile la maternità surrogata e le diverse forme di inseminazione, al diritto si sono poste ‘controversie salomoniche’ (il caso di Baby M. negli Stati Uniti, il doppio ruolo di mamma e di nonna in un caso italiano, le continue querelles su inseminazione omologa o eterologa, senza parlare della questione delle banche del seme). La vecchia rassicurante certezza della maternità ha fatto presto a barcollare e il diritto si è trovato di fronte a spinte contraddittorie. Il diritto fondamentale alla ‘genitorialità’, ribadito da tutte le costituzioni e da tanti tribunali, ha visto spesso scontri culturali sui diritti, rinfocolati da vecchi e nuovi familismi. Si è assistito a un progressivo riconoscimento di dimensioni della vita che il diritto ha tutelato attraverso la tecnica del ‘danno esistenziale’, ‘danno biologico’, ‘danno alla vita di relazione’: la vecchia ‘fisicità’ del corpo ha visto espandersi la sfera d’influenza. In una importante sentenza della Cassazione italiana del maggio 2006 si è anche ricostruito, sia pur indirettamente, un particolare ‘diritto alla sessualità’ risarcibile se non adempiuto all’interno della coppia. Forse più che nei casi estremi ed eclatanti, nella regolamentazione della vita quotidiana degli individui il diritto si scopre, appunto, (bio)politica della vita. L’impatto con le tante ‘comunità morali’, da una parte, e l’accelerazione della tecnica dall’altra, hanno prodotto un salutare ‘spaesamento’.

Alcuni esempi possono essere significativi: se due omosessuali cittadini italiani contraggono matrimonio in un Paese (nel nostro caso l’Olanda) dove questo è previsto e poi ne chiedono il riconoscimento in Italia secondo le norme del diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta dei diritti europea, è davvero difficile sostenere, come è stato fatto da un tribunale nostrano, che si incorre nella contrarietà al buon costume.

Si pensi ancora alle norme penali, previste da molti Paesi occidentali, compreso il nostro, che vietano e puniscono le mutilazioni genitali, pratiche diffuse in molte comunità di residenti immigrati che spesso sono segno di un sentimento di appartenenza: l’universalismo dei ‘diritti umani’ non sempre convive facilmente col diritto all’identità. Una ragazza nordafricana senza permesso di soggiorno deve essere rimpatriata anche con il rischio di subire lì le mutilazioni genetiche che non desidera? Ancora, ed è un caso ormai frequente nei Paesi europei, il diritto al ricongiungimento familiare si estende anche ai diversi nuclei poligamici? Più in generale, per quanto riguarda il diritto all’identità (l. 31 dic. 1996 n. 675), il diritto all’oblio è (e deve essere) totalmente equivalente al diritto alla memoria, come il diritto a conoscere le proprie origini è perfettamente simmetrico rispetto al diritto a non sapere. Il diritto si trova costantemente di fronte alle hegeliane ‘contraddizioni sempre crescenti’. Tra il caso e la legge, si sa, vi è una sottile complicità. Ogni caso aspetta la sua legge e ogni legge aspetta il suo caso; le questioni dell’esistenza non fanno altro che ridurre le attese. È quanto è successo per un caso che, presentatosi dapprima in Francia, ha finito per rendere inquiete molte corti supreme dei Paesi occidentali: il caso, che va sotto il nome di affaire Perruche dal nome del ricorrente, pone un paradossale ‘diritto a non essere nato’. Non si tratta della solita richiesta di risarcimento per ‘danno da procreazione’ (Rescigno 2006) nei confronti dei medici cui si imputa malpractice (scarsa diligenza professionale). Si denuncia una condizione di wrongful life (vita, esistenza non degna) da imputare alla nascita stessa: il paradosso del diritto a non essere nati, che non si può agire se non nascendo, viene rivolto a chi è stato costretto alla ‘vita non degna’ da chi ha costretto alla vita (Cayla, Thomas 2002). Gioco tragicamente paradossale, rispetto al quale i giudici non potranno rispondere se non con il malinconico risarcimento dei danni; ma la questione si spinge oltre, verso quella soglia in cui il diritto non può che prendere atto dell’eccedenza della vita sul diritto stesso.

Il discorso sulla scelta di fine della vita non è distante dalla dimensione della nascita: la vita e la morte irrompono nel diritto con una pregnanza tale da mettere in discussione tutte le grandi costruzioni e le grandi certezze del diritto. La solidità viene spazzata via da un colpo di vento.

La costrizione a vivere, che molti ordinamenti impongono a chi definisce la propria vita wrongful (e a definirla non può che essere lo stesso soggetto), è il tipico esempio di una comunicazione complessa e spesso distorta, tra diritto, vita e scelte morali: lo spazio del biodiritto sta tutto nelle maglie di tale comunicazione. Il 19 marzo 2008, nello stesso giorno, a non molti chilometri di distanza, muoiono, in Francia, Chantal Subire e, in Belgio, Hugo Claus, noto scrittore fiammingo. La prima, affetta da un cancro al setto nasale, in nome della dignità della sua vita (morte), aveva chiesto che le venisse praticata l’eutanasia che in Francia non è contemplata; il secondo, in nome della stessa dignità, per suo esplicito volere, era deceduto per eutanasia, che in Belgio (come in Olanda e Lussemburgo) è invece consentita. Non è tanto sulla geopolitica che tali scelte normative presuppongono, né sulla mancanza di uniformità di regole, che pure tradisce il costituzionalismo europeo, che bisogna fermarsi: quello che colpisce è la forte divaricazione tra la scelta consapevole di entrambi e le chances che a questo volere sono offerte dalle leggi.

Il problema del living will (testamento biologico) costituisce soltanto una parte di questa discussione. I casi sono frequenti dappertutto e le vicende di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro ne hanno riproposto in Italia tutta la drammaticità. Emblematico il caso Diane Pretty v. UK. La signora, che versava in una condizione di totale infermità, chiedeva al governo prima e alla Corte suprema poi, che il marito potesse assisterla nello staccare la spina della sua ‘vita artificiale’ e giustificava questo sulla base di tre considerazioni: la prima era la precisa volontà di interrompere la wrongfulness della sua esistenza, la seconda la sua impossibilità di farlo da sola, la terza che un diniego avrebbe comportato nei suoi confronti un atto di discriminazione per la sua inabilità. Di fronte alla rigidità delle risposte (il noto dura lex sed lex) Diane Pretty si rivolgeva alla Corte europea dei diritti dell’uomo avanzando il proprio diritto fondamentale all’autodeterminazione, tuttavia la decisione della Corte non è stata particolarmente ‘coraggiosa’ e si è mostrata, soprattutto, contraddittoria. Si è detto infatti che l’autodeterminazione è contenuto e presupposto di ogni diritto dell’uomo, che la dignità di ogni individuo (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art. 1; Convenzione europea dei diritti dell’uomo, artt. 2, 8, 14; Carta europea dei diritti fondamentali, art. 1) è il fine della comunità politica ed è alla base di ogni scelta pubblica; si è ribadita la consapevolezza del fatto che non consentire a Mrs. Pretty di essere assistita nella sua scelta avrebbe configurato ‘discriminazione’ nei suoi confronti, vietata dalla Carta europea, ma, in maniera pilatesca, si è deliberato che la questione fosse affare interno degli Stati membri.

Ci sarebbe da argomentare sulla resistenza delle ‘piccole patrie’ nazionali a fronte dell’universalismo, sbandierato ai quattro venti, dei diritti umani; ma la questione più rilevante sta proprio nel rapporto tra il diritto e la questione della vita. L’eutanasia o il suicidio assistito, la fine della vita in generale, non mostrano dimensioni differenti rispetto alla nascita o alla questione della genetica. La domanda da porsi è cosa si può chiedere al diritto e cosa dobbiamo aspettarci da regole giuridiche il cui compito non è, almeno nel moderno, impersonare la virtù aristotelica o parlare a nome di chissà quale trascendenza (visto che tanto la prima quanto la seconda sono tante e tutte equivalenti). Il biodiritto incorpora queste domande e può essere letto come un paradigma rilevante per tutti gli hard cases che scienze e tecnologie impongono alla decisione pubblica. Per quello che il diritto dice di sé, a fondamento del suo ‘codice’ linguistico vi è la dignità, l’autodeterminazione di ogni individuo. Per renderlo effettivo il diritto deve garantire non questa scelta, ma la scelta. Il vietare e il permettere devono essere rivolti alla garanzia della libertà di ognuno – singolo, individuo, persona – (Rodotà 2007) affinché, kantianamente, si sia in grado di operare consapevolmente le proprie scelte morali. Il diritto moderno è attraversato interamente da una storia della ricerca della ‘differenza’ dagli altri codici: ne va della sua ‘identità’. Ma proprio per garantire la libertà di scegliere moralmente (è stato questo il commento della vedova Welby di fronte al caso di Hugo Claus) il diritto non deve annullare o ridurre le possibilità.

Se la scelta dell’eutanasia, come dell’aborto o dell’inseminazione, devono essere moralmente consapevoli e libere (si sa che non sono mai certamente facili), il diritto deve to save the chances (salvare ogni possibilità) e non eliminarle. La vera responsabilità sta proprio in questo meccanismo. Le stesse possibilità da salvare sono quelle legate al rapporto con la ricerca scientifica; negare la ricerca attraverso un irragionevole divieto, significa precludere delle chances. Altro discorso, si diceva, è quello di sancire discussioni pubbliche e controlli aperti che facciano della scienza un luogo della sfera pubblica.

L’imperativo della ‘differenza’ del diritto (come sua ‘identità’) è quello che spiega la storia del diritto, soprattutto contemporaneo, perché è in questo tempo che si sono accelerate e condensate tutte le domande rilevanti sulla vita e le sue regole (Resta 2008). E questo vale nei confronti della morale, come della politica, della religione, dell’economia e, non ultima, della tecnica (Severino 2005; Irti 2007). Alla ‘potenza’ della tecnica non si può opporre il diritto come ‘potenza’ più forte: si andrebbe incontro all’errore (fallacia) e alla delusione ‘normativa’. L’esito paradossale sarebbe quello di non poter fare quello che possiamo fare, ed è ciò che avviene nella pratica quotidiana. Ma è anche quanto l’ingenua utopia pensa del diritto.

Il discorso sulla vita e il diritto

Si diceva prima che, con una velocità crescente, anche se non del tutto inattesa, il discorso pubblico sulla vita (bios) ha finito per essere il discorso ‘influente’. Il tempo della ‘biologia’, che ha progressivamente soppiantato quello della chimica e poi della fisica, ha finito per allargare il suo orizzonte e imporre il suo linguaggio a saperi, conoscenze, sfere dell’azione più svariati. Dapprima, probabilmente, si è condensata e ha cominciato a diffondersi la biopolitica, soltanto dopo la bioetica e infine il biodiritto. La fine del secolo scorso e i primi dell’attuale hanno visto un espandersi del discorso sulla vita che registra domande crescenti, accumulo di informazioni, tematizzazioni più puntuali; meno spesso risposte certe e soluzioni razionali.

Dovrebbe essere tema di una specifica e approfondita ricerca di ‘semantica storica’, ma si può affermare che le formule, con le quali le questioni della vita sono state progressivamente indicate, hanno avuto non a caso un simile andamento temporale; ciò dipende naturalmente da molteplici fattori che altrove dovranno essere indagati. Va inoltre aggiunto che le formule non scoprono, ovviamente, un oggetto nuovo, ma si limitano a registrarne una rilevanza crescente per le scelte quotidiane e per le prospettive future. Della vita si sono occupate sempre la politica, l’etica, il diritto, accanto, si sa, alla medicina, alla biologia; ma mai con questa centralità e con le connessioni nuove che intorno a essa si stabiliscono.

Le connessioni si presentano in modo talmente stretto e reticolare da suggerire ad alcuni studiosi interpretazioni, non a caso, in chiave di ‘comunicazione ecologica’. A fronte della centralità ecologica del problema della vita, si chiede alle singole competenze, ai singoli saperi, ai singoli sistemi ‘parziali’, di trovare la soluzione del tutto: così si sposta il rischio della decisione, di volta in volta, dalla politica alla scienza, all’etica, al diritto, all’economia. Ai linguaggi (codici comunicativi e valori) ‘locali’ si chiede di decidere e regolare problemi mai così generali ed ecologici, come quelli che si condensano intorno alla questione della vita. Un possibile esito paradossale che vogliamo segnalare riguarda l’esito che si va delineando dentro il mondo della ricerca e della scienza: il carattere ‘ecologico’ della vita si va rintanando dentro discipline ‘specialistiche’ con il noto paradosso che vi è una parte del sapere che si costituisce come competente sul tutto. La vita diventa oggetto dei saperi sulla vita (dalle cattedre di bioetica, bioingegneria, bioarchitettura ecc.). E il biodiritto, che deve regolare e decidere sulla vita, non si sottrae a questo paradosso.

Così quando dai principi e dalle clausole generali si passa ai casi, alle singole decisioni, si pone il problema di come decidere e di come si debba regolare la vita: una specie di stupida furbizia ha portato a delegare decisioni riguardo alla vita a quel singolare procedimento paragiudiziario, morale e consultivo, amministrativo (difficilmente definibile dal punto di vista giuridico), centrato sui ‘comitati bioetici’. Si evita il ‘paradosso’ della decisione sulla vita creando organi specialistici, con il risultato che l’ecologia della vita diventa affare di competenze particolari e disciplinari: il problema sorge quando bisogna nominare i ‘bioetici’. La questione della decisione si sposta su quale sia il sapere più competente e, ancora, all’interno delle competenze, che spesso non sono neutre, chi deve essere considerato più competente? Il filosofo della morale o il filosofo del diritto, il genetista o il biologo, lo psicologo o l’antropologo, e il sacerdote oppure il politico, e, in questi casi, di quale religione o di quale orientamento? Se lo psicologo, quale? Quello di Tubinga o di Palo Alto?

Così il problema ritorna sotto forma di selezione delle competenze e di individuazione dei ‘rappresentanti’ dei decisori: accade per la vita quello che accadeva all’epoca del dispotismo legale in cui non vi era deficit ma inflazione di rappresentanza della ‘nazione’: ognuno si sentiva legittimo rappresentante del tutto.

Nelle pagine del saggio più rappresentativo su questi temi, Stefano Rodotà (2006, p. 165) coglie il senso dell’autonomia e dei limiti del diritto quando alla sua grammatica si vuole assegnare il compito definitivo di «regolare il nuovo modo di essere dell’intero ciclo vitale», la nascita, l’esistenza, la morte, persino il ‘prima’ e il ‘dopo’. Il suo avvertimento mi sembra da non trascurare: la società ‘postgenomica’ ci consegna una quantità di sapere che rende ognuno più informato ma anche esposto a tante forze, tante spinte, tante possibilità, tutte e sempre aperte. Era inevitabile che questo universo si affollasse di ‘diritti’ tesi a valorizzare l’autonomia contro il ‘caso’ e un’evanescente ‘natura’: la contraccezione, le diverse tecniche di interruzione della gravidanza, le tecnologie della riproduzione, la genetica allargano l’orizzonte della libertà di scelta rispetto a invisibili destini. Ma lì anche è il limite della sua ‘grammatica’: scegliere per l’autonomia e l’autodeterminazione significa ‘salvare tutte le possibilità’, compresa la differenza del diritto.

Bibliografia

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