Biotecnologie

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Biotecnologie

Alberto Albertini e Paolo Vezzoni

di Alberto Albertini e Paolo Vezzoni

Biotecnologie

sommario: 1. Introduzione. 2. L'era postgenomica e la genomica funzionale. a) Biotecnologie del trascrittoma. b) Biotecnologie del proteoma. c) Le ricadute mediche: diagnosi genetica e terapia genica. 3. Le biotecnologie della riproduzione. a) Animali transgenici. b) Le cellule staminali embrionali, gli animali chimerici e gli animali  knockout. c) Animali clonati. d) La clonazione terapeutica e le cellule staminali dell'adulto. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Non è certamente casuale che l'ultimo anno del XX secolo si sia chiuso col sensazionale annuncio dell'avvenuto sequenziamento del genoma umano; tale annuncio è stato fatto addirittura da due capi di governo, Bill Clinton e Tony Blair, i quali non si sono lasciati sfuggire la possibilità di legare il loro nome a questa grande impresa scientifica. La vicenda testimonia senza dubbio l'importanza raggiunta dalle biotecnologie sul finire del XX secolo e merita di essere riportata nei dettagli per le sue implicazioni di natura non solo scientifica ma anche sociale.

Nel giugno del 2000, in realtà, il sequenziamento del genoma umano non era affatto terminato, ma la situazione era davvero frenetica. Un Consorzio di varie istituzioni governative americane, sotto la direzione di Francis Collins e John Sulston (quest'ultimo recentemente insignito del premio Nobel), stava da qualche anno lavorando al sequenziamento in collaborazione con scienziati di tutto il mondo, ma soprattutto col Sanger Centre di Cambridge (UK) - un istituto di ricerca creato dal Wellcome Trust, una fondazione non a scopo di lucro pur essendo emanazione della omonima industria farmaceutica inglese. L'approccio al sequenziamento seguito dagli scienziati di questo Consorzio era di tipo 'ordinato', consisteva, cioè, nella produzione di una mappa ordinata di cloni genomici sequenziati uno per uno e successivamente assemblati con gli altri. Si trattava di un metodo un po' lento, ma relativamente sicuro, in particolare riguardo alle sequenze ripetute che, essendo molto simili tra loro e presenti in oltre un milione di copie, avrebbero potuto effettivamente complicare l'assemblaggio dei cloni, cioè la fase in cui si connettono tra loro le sequenze identificate come comuni a due cloni, che in tal modo si dimostrano contigui. Con questo approccio il Consorzio riteneva di poter raggiungere l'obiettivo nel 2003. Ma nel 1998 Craig Venter, uno scienziato che in precedenza aveva lavorato al sequenziamento del genoma umano presso i National Institutes of Health, fonda un'azienda biotecnologica, la Celera Genomics, con lo scopo di proseguire le proprie ricerche nel settore privato. In poco tempo Venter riesce a completare il sequenziamento del genoma di Drosophila utilizzando un nuovo approccio, di tipo 'globale': invece di approntare una mappa ordinata di cloni, il genoma viene spezzettato in piccolissimi frammenti che vengono poi sequenziati a caso, nella convinzione che alla fine i computer sarebbero riusciti ad assemblare l'intero genoma attraverso le parti sovrapponibili. Quando Venter annuncia di apprestarsi a usare lo stesso metodo per il genoma umano, i suoi critici obiettano che l'approccio 'globale' aveva funzionato nella Drosophila perché nel genoma di questo organismo le sequenze ripetute sono relativamente poche, mentre nell'uomo, in cui vi sono milioni di tali sequenze, non sarebbe risultato applicabile. Nonostante tali critiche, Venter, che può contare su una grande quantità di sequenziatori veloci e di supercomputer, nonché di eccezionali risorse umane ed economiche, presto dichiara di aver già assemblato una gran parte del genoma umano. Il Consorzio, che inizia a temere la sfida di Venter, deve rivedere i suoi obiettivi e comincia ad affermare che è possibile ottenere una bozza dell'intero genoma per il 2001. Questo annuncio provoca una serie di accuse reciproche tra Venter e il Consorzio e rende impossibile ogni accordo di collaborazione. La vicenda viene ulteriormente complicata dal fatto che Venter mantiene il segreto industriale sulla sua frenetica attività di ricerca, mentre il Consorzio continua a pubblicare i suoi risultati: Collins, Sulston e i loro collaboratori hanno infatti deciso di mettere in rete, a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo, le sequenze via via che riescono a identificarle. Tale decisione è stata presa soprattutto per due ragioni: rendere omaggio al valore primario dell'etica scientifica, che impone di divulgare il più rapidamente possibile le proprie conoscenze, e impedire che le sequenze di DNA del genoma umano possano essere brevettate. Così Venter può leggere e utilizzare le sequenze del Consorzio, mentre il Consorzio non ha accesso a quelle di Venter.

La posta in gioco è alta per ambedue le parti: il Consorzio rischia di buttare al vento i consistenti contributi della ricerca pubblica, mentre Venter, che ha iniziato più tardi, sa che arrivare secondo significherebbe il suo personale fallimento, con una grave perdita di credito e soprattutto di finanziamenti. Così Venter comincia a dire che ha realizzato la bozza dell'intero genoma, senza peraltro specificare con quale grado di completezza; il Consorzio ribatte che la bozza realizzata dai ricercatori pubblici è più avanzata e dettagliata di quella di Venter. Per salvare sia l'impresa governativa che gli investimenti privati, durante una cerimonia ufficiale organizzata dall'Amministrazione americana viene annunciato al mondo intero un verdetto di parità che rispecchia comunque i valori in campo: gli Stati Uniti nella grande sfida scientifica sono ai primi due posti, mentre al terzo posto si piazza la Gran Bretagna, che grazie al Wellcome Trust ha contribuito notevolmente al progetto.

Questi riconoscimenti ufficiali non bastano però a sedare le polemiche, che si riaccendono quando, otto mesi dopo, i dati vengono pubblicati sulle due riviste scientifiche più accreditate, "Nature" e "Science", e tutti possono allora constatare che entrambe le bozze di genoma sono in realtà ben lontane dal rappresentarlo nella sua interezza (v. Lander e altri, 2001; v. Venter e altri, 2001). La polemica continua tuttora, alimentata da nuove accuse reciproche, la più pesante delle quali è quella che Venter non sarebbe mai riuscito a completare il suo assemblamento delle sequenze genomiche senza i dati del Consorzio che, come abbiamo visto, erano disponibili in rete (v. Waterston e altri, 2002).

Questa vicenda testimonia purtroppo i cambiamenti occorsi nell'ambito della ricerca scientifica durante l'ultimo decennio del Novecento. L'immagine del ricercatore chiuso nella sua turris eburnea, avulso dal mondo circostante, che cerca solamente l'approvazione del mondo scientifico è scomparsa; al suo posto è emersa una figura di scienziato estremamente dinamico e competitivo, il cui lavoro viene messo in discussione da movimenti di opinione pubblica anche molto aggressivi e determinati, e il cui accesso ai finanziamenti dipende in gran parte dalla percezione che la società e gli investitori privati hanno dell'impresa scientifica. Notevoli interessi economici possono essere in gioco, soprattutto nel campo delle biotecnologie, e un annuncio sensazionale può causare guadagni enormi, mentre la perdita di un brevetto può significare il fallimento dell'investitore. Si tratta di un argomento che meriterebbe maggiori approfondimenti, ma che non verrà qui ulteriormente trattato. Mostreremo invece come, malgrado questi cambiamenti e queste limitazioni, le biotecnologie nell'ultimo decennio del Novecento si siano affermate come un campo disciplinare ricco di possibilità che nei prossimi anni troveranno completa applicazione.

2. L'era postgenomica e la genomica funzionale

Il sequenziamento dell'intero genoma umano ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia della biologia e della genetica, con la quale si è degnamente chiuso il Novecento. Ma mentre quest'impresa veniva completata, il mondo della ricerca guardava già oltre, a quella che è stata poi chiamata 'genomica funzionale'. Il mappaggio e successivamente il sequenziamento del genoma umano hanno contribuito all'identificazione di tutti (o quasi) i geni della nostra specie (che, contrariamente alle aspettative, sono risultati essere circa la metà di quelli previsti), ma hanno fornito pochi dati circa la funzione dei singoli geni. È stato pertanto necessario passare alla seconda fase del Progetto genoma, quella dello studio della funzione di ogni singolo gene.

Così, nell'ultimo decennio la comunità scientifica ha sviluppato una serie di tecnologie mirate a chiarire la funzione genica e a superare alcune limitazioni dell'approccio precedente. Sinora, la genetica è stata necessariamente analitica, vale a dire ha cercato di studiare i singoli geni nei dettagli, ma si comincia a percepire che questo approccio è troppo lungo, estenuante e limitativo. Si sente il bisogno di avere, per così dire, una visione d'insieme, quasi 'olistica', anche se questo termine non deve essere preso nel suo significato antico, bensì in quello più ristretto di analisi multiparametrica globale. Ecco allora che compaiono nuovi termini, quali 'trascrittoma' e 'proteoma', che stanno a indicare la necessità di avere una visione sintetica della fisiologia cellulare, capace di analizzare globalmente il funzionamento di ogni cellula a livello della trascrizione del DNA in RNA e della traduzione di quest'ultimo in proteine (v. Lockhart e Winzeler, 2000). Questa strategia è l'unica possibile per risolvere realmente problematiche estremamente complesse quali il differenziamento cellulare e la patogenesi dei processi tumorali. Ogni cellula, come è noto, esprime solo una parte dei geni presenti nel suo genoma e lo specifico pattern d'espressione sta alla base delle diverse caratteristiche delle cellule dei vari tessuti e organi. Parimenti, le cellule tumorali devono esprimere geni diversi dalle cellule normali. Se potessimo analizzare l'insieme di tutti i geni espressi dai vari tessuti o da tutte le cellule normali e tumorali, probabilmente riusciremmo a capire i meccanismi che stanno alla base di questi processi.

a) Biotecnologie del trascrittoma

Fin dall'inizio degli anni ottanta sono state prodotte librerie sottrattive per identificare geni espressi specificatamente nei vari tessuti. Successivamente sono state messe a punto metodologie più raffinate, quali il differential display (v. Liang e Pardee, 1992); altre tecniche, quali il SAGE (Serial Analysis of Gene Expression), sono di nuova concezione (v. Velculescu e altri, 1995). Il SAGE ha il vantaggio di fornire dati per così dire 'assoluti' sui livelli di espressione genica in ogni singola popolazione cellulare, sia essa la componente di un tessuto, una linea tumorale o in generale un qualsiasi insieme di cellule. Questi dati vengono immagazzinati in un database cui tutti i partecipanti allo studio contribuiscono con i loro risultati: man mano che essi aumentano, i confronti e le correlazioni diventano sempre più significativi fino a fare emergere, si spera, un quadro globale dell'espressione genica.

Un approccio completamente innovativo che stimola la fantasia anche del profano è quello basato sulle nanobiotecnologie. Il principio che sta alla base di questa strategia - indicato con varie denominazioni, quali microchips, macroarray, microarray, ecc. - è relativamente semplice. Su una superficie assai piccola, che può essere quella di un vetrino da microscopio, si depositano frammenti di DNA di lunghezza variabile (da una ventina a qualche migliaia di basi) che rappresentano tutti i geni presenti nel genoma umano. Questi supporti vengono ibridati con l'RNA delle cellule che si vogliono studiare, di modo che solamente i geni che sono espressi in tale materiale vengano evidenziati sul supporto (l'intensità del segnale dà anche una misura semiquantitativa dei livelli di espressione, che solo raramente sono del tipo tutto o nulla). L'analisi dell'immagine con un software adeguato consente poi di analizzare i singoli segnali e di confrontarli con quelli di altre popolazioni cellulari.

Con entrambi gli approcci (SAGE e microchips) si sta accumulando una grande mole di dati, che diventerà sempre più interessante da analizzare. A parte l'interesse scientifico, le ricadute in campo medico sono rilevanti, perché la conoscenza dell'espressione genica nelle varie malattie può chiarirne i meccanismi patogenetici, fornire nuovi markers di interesse diagnostico e identificare nuovi bersagli per l'azione terapeutica. Per tale ragione negli anni novanta è stata lanciata un'iniziativa di grande interesse, il Cancer Genome Anatomy Project, un programma interdisciplinare coordinato dal National Cancer Institute (NCI) di Bethesda (v. Kuska, 1996), che ha lo scopo di produrre informazioni e strumenti che consentano di decifrare i patterns molecolari responsabili della trasformazione tumorale.

b) Biotecnologie del proteoma

Nella maggior parte dei casi i geni producono proteine (vi sono rari casi di loci genetici che producono RNA aventi un ruolo come tali, senza essere tradotti in proteine). Si potrebbe pensare che, data questa corrispondenza, l'analisi del proteoma (l'insieme delle proteine prodotte da una determinata cellula o, per estensione, di una determinata popolazione cellulare relativamente omogenea) non sia che una ripetizione dell'analisi del trascrittoma. La realtà è un po' diversa, perché la corrispondenza non è perfetta e l'analisi del proteoma fornisce in parecchi casi ulteriori dati. Infatti le proteine vanno incontro a modificazioni dopo la loro traduzione: possono migrare nei vari compartimenti all'interno della cellula (ad esempio, dal citoplasma al nucleo), possono venir degradate più o meno rapidamente, possono andare incontro a modificazioni post-trascrizionali, possono essere presenti in conformazione attiva o inattiva e così via. Pertanto, uno studio diretto dell'espressione globale a livello proteico può fornire dati aggiuntivi rispetto a quelli ottenibili con l'analisi del trascrittoma.

Una tecnologia per studiare globalmente le proteine presenti in una determinata popolazione era già nota negli anni ottanta, ma il suo potenziale è stato sfruttato appieno solamente negli ultimi anni del Novecento. Con l'elettroforesi bidimensionale su gel di poliacrilamide è possibile ottenere delle mappe che permettono di identificare una specifica proteina in base alla sua posizione sulla mappa stessa. Pertanto, se diversi estratti cellulari vengono sottoposti a migrazione su gel in due dimensioni, si otterranno delle mappe che forniscono nel loro insieme una 'fotografia' delle proteine prodotte dalle cellule in esame, il cui confronto con quelle espresse in altre cellule o tessuti permetterà di determinare sia il quadro globale dell'espressione proteica, sia le fluttuazioni di una certa proteina (identificata da una specifica 'macchia') a seguito di un particolare mutamento nella fisiologia della cellula o a una sua patologia. Inoltre, è oggi possibile prelevare le singole 'macchie' presenti nel gel, determinare la sequenza amminoacidica dei peptidi in esse contenuti e confrontarla con quelle presenti nella banca dati, così da conoscere in poco tempo quali siano le proteine che sono state espresse in modo differente. Tutti questi metodi di analisi, sia del proteoma che del trascrittoma, possono, a seconda delle situazioni, presentare vantaggi o svantaggi, e pertanto non vanno considerati mutuamente esclusivi bensì tra loro complementari. Anche se sinora i risultati sono stati inferiori a quelli attesi, è assai probabile che ulteriori miglioramenti nelle tecniche e nell'analisi computerizzata dell'enorme mole di dati che si sta accumulando consentiranno nel prossimo decennio di ottenere un quadro globale dell'espressione genica nei vari tessuti, fornendo informazioni utilissime per comprenderne la funzione.

c) Le ricadute mediche: diagnosi genetica e terapia genica

Le maggiori aspettative suscitate dalle biotecnologie sono sempre state quelle relative alle loro applicazioni a beneficio della salute umana. Agli inizi degli anni ottanta, la produzione su larga scala e la piena disponibilità dell'insulina umana ricombinante avevano aperto nuove vie terapeutiche e sembravano promettere grandi risultati, alcuni dei quali sono stati effettivamente ottenuti. Oltre all'insulina umana vi sono ora una ventina di farmaci ottenuti tramite DNA ricombinante che si sono rivelati efficaci sia per le malattie umane che per quelle animali; tali farmaci sono già in commercio, così come diversi vaccini ricombinanti (ad esempio quelli contro alcune forme di epatite), mentre moltissimi altri sono in via di sviluppo.

Ma il settore della salute nel quale le promesse della genetica e delle biotecnologie sono state confermate nella maniera più spettacolare è senza dubbio quello della diagnosi genetica delle malattie ereditarie (v. Villa e altri, 1998). Le malattie genetiche sono dovute a un'alterazione specifica nella sequenza del DNA, ed è oggi possibile identificare tali alterazioni in tutte le malattie delle quali è stato individuato il gene responsabile. In questo modo diviene possibile individuare non soltanto le persone affette, ma anche coloro che, pur non essendo malati, potrebbero trasmettere il gene alterato. Nel caso delle malattie che si manifestano solamente in età adulta è possibile fare la diagnosi prima che la sintomatologia si manifesti, talvolta addirittura prima della nascita; in alcuni di questi ultimi casi, la diagnosi precoce in utero consente interventi terapeutici che prevengono l'insorgenza della malattia, ad esempio alcune immunodeficienze gravi, tra cui la sindrome di Omenn (v. Wengler e altri, 1996). In altri casi, purtroppo, la diagnosi genetica non può venir seguita da misure terapeutiche adeguate perché non ancora disponibili.

A tal proposito, molte speranze sono state riposte nella terapia genica. In linea di principio, quest'ultima potrebbe arrivare a eliminare molte malattie ereditarie attraverso lo sviluppo di tecnologie che consentano di trasferire una copia normale del gene alterato nelle cellule dei pazienti in cui quel gene è difettoso. Nel 1990, presso i National Institutes of Health di Bethesda nel Maryland, French W. Anderson e i suoi colleghi hanno effettuato il primo tentativo autorizzato da un comitato etico-scientifico di trasferimento genico in un paziente affetto da una grave immunodeficienza ereditaria, quella da difetto di adenosina deaminasi. Nel decennio successivo i tentativi di terapia genica si sono moltiplicati sino a coinvolgere pazienti affetti dalle patologie più svariate, cancro e AIDS inclusi, ma i risultati ottenuti sono stati complessivamente deludenti. Il primo decesso chiaramente collegato alla terapia genica (quello di Jesse Gelsinger, avvenuto nel 1999; v. Stolberg, 1999) ha suggerito di tornare allo studio in laboratorio dei meccanismi che stanno alla base del trasferimento genico nelle cellule di mammifero, e ha rappresentato un nuovo monito per il mondo scientifico a non enfatizzare risultati la cui applicabilità, per quanto auspicabile, non è stata ancora rigorosamente dimostrata. Tuttavia, a onor del vero, il Novecento si è chiuso con il primo risultato positivo, ottenuto dal gruppo parigino di Alain Fischer, che ha trattato con successo pazienti con immunodeficienze primitive, i quali, a distanza di tre anni dall'intervento, hanno presentato una soddisfacente ricostituzione del proprio sistema immunitario (v. Cavazzana-Calvo e altri, 2000). La possibilità che insorgano complicazioni dovute alla terapia non è tuttavia ancora del tutto esclusa.

3. Le biotecnologie della riproduzione

L'embriologia sperimentale è nata all'inizio del Novecento, ma solamente negli ultimi due decenni del secolo ha rivelato tutto il suo potenziale biotecnologico. Se è vero che la fecondazione artificiale già da tempo viene largamente usata in campo zootecnico e che la stessa procedura di clonaggio di Anfibi è stata messa a punto tra gli anni cinquanta e sessanta, è però solamente con la produzione dei primi topi transgenici, alla fine degli anni settanta, e la nascita della prima bambina concepita in provetta, nel 1978, che la manipolazione genetica comincia a essere utilizzata anche nei Mammiferi, uomo incluso. La possibilità di impiegare queste sofisticate procedure a scopo biotecnologico, subito evidenziata dai centri di ricerca più avanzati, ha aperto la strada a esperimenti le cui potenzialità terapeutiche sono certamente di grandissima rilevanza, ma hanno anche importanti implicazioni mediche, sociali, filosofiche ed etiche.

a) Animali transgenici

Si definiscono 'transgenici' quegli animali nelle cui cellule è stato inserito artificialmente un gene (transgene). Sono stati prodotti Pesci e Uccelli transgenici, ma i risultati più spettacolari sono stati ottenuti con i Mammiferi, in particolare con i Roditori. Già da qualche anno l'ingegneria genetica aveva permesso agli scienziati di inserire frammenti di DNA in cellule di mammifero in provetta, e sembrò quindi logico ipotizzare che se un frammento di DNA fosse stato inserito in uno zigote (cioè in un embrione allo stadio di una cellula), esso avrebbe potuto replicarsi in tutte le cellule dell'embrione e quindi dell'animale adulto. Non solo questa ottimistica previsione si rivelò esatta, ma cosa ancora più sorprendente il transgene era funzionale, produceva cioè una proteina in grado di svolgere la sua attività biologica nell'animale modificato. Così, dopo esperimenti portati avanti da un manipolo di pionieri quali Beatrice Mintz, Rudolf Jaenisch, Frank Ruddle, Ralph Brinster e altri, nel 1982 un topo transgenico gigante appariva sulla copertina di "Nature" ai ricercatori di tutto il mondo: Brinster e Palmiter avevano inoculato in embrioni murini il gene che codificava per l'ormone della crescita di ratto, il quale, essendo prodotto in quantità superiori alla norma, aveva fatto crescere oltre misura il topo transgenico (v. Palmiter e altri, 1982).

Da allora il progresso in questo settore non si è mai arrestato, culminando nel 1997 con il clonaggio della pecora Dolly, cioè con la produzione di un animale ottenuto da cellule di un organismo adulto mediante la procedura di trasferimento nucleare. Sebbene varie metodiche siano state tentate per la produzione di topi transgenici, quella basata sulla microiniezione di DNA nel pronucleo maschile dello zigote rimane il sistema d'elezione. Tramite questa tecnologia, che oggi è diffusa nei laboratori di tutto il mondo, sono stati creati Roditori che vengono utilizzati nei campi più disparati. Nel settore delle biotecnologie farmaceutiche sono stati ottenuti animali transgenici che producono latte contenente farmaci e che insieme ad altri, come il famoso 'oncotopo' di Harvard, sono stati brevettati, alimentando in questo modo il dibattito sulla brevettabilità delle forme viventi (v. Anderson, 1988). Non solo. La manipolazione di embrioni necessaria per produrre topi transgenici ha portato alla creazione di nuovi tipi di animali modificati - ad esempio, gli animali chimerici, quelli knockout e quelli clonati - nonché all'isolamento di cellule embrionali staminali umane che hanno a loro volta aperto un dibattito imponente sui limiti delle biotecnologie. Anche in questo caso vi è stato al riguardo un intervento sia del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, il quale ha riconosciuto ai ricercatori il diritto di utilizzare solo alcune linee di cellule staminali umane ben identificate e catalogate, sia delle autorità governative dell'Unione Europea, peraltro ancora alla ricerca di una comune linea di comportamento.

b) Le cellule staminali embrionali, gli animali chimerici e gli animali knockout

Durante gli anni settanta, lavorando con cellule di un particolare tipo di tumore, il teratocarcinoma, alcuni ricercatori si resero conto che tali cellule avevano la capacità di differenziarsi in tessuti di diversa derivazione embrionale e conclusero che esse potessero rappresentare l'equivalente neoplastico di cellule embrionali dotate di un completo potenziale differenziativo. Le cellule di teratocarcinoma, iniettate in blastocisti murine, contribuivano alla formazione di tutti i tessuti dell'animale, e ciò dimostrava in maniera incontrovertibile la loro vasta potenzialità. Ma tali cellule erano neoplastiche, e il loro significato non era del tutto chiaro, anche perché alcuni degli esperimenti effettuati con esse furono successivamente posti in discussione. Nel 1981, tuttavia, Martin Evans e i suoi collaboratori riuscirono a coltivare in provetta cellule direttamente derivate da blastocisti di topo che mantenevano le caratteristiche di cellule normali, cariotipo compreso (v. Evans e Kaufman, 1981). Tali linee cellulari crescevano indefinitamente se coltivate in particolari condizioni ed erano anch'esse in grado, se iniettate in una blastocisti, di colonizzare tutti i tessuti dell'animale, compresi quelli della linea germinale. In altre parole, esse potevano dar origine ad animali chimerici intraspecifici, i cui gameti derivavano in parte dalle cellule coltivate in vitro. Tra le conseguenze rilevanti di questa procedura c'era quindi la possibilità di modificare le cellule in provetta per poi ottenere animali che mantenevano le modifiche effettuate.

Rimaneva tuttavia il problema delle modificazioni da effettuare. Infatti, nonostante fosse stato verificato che l'inserimento di un transgene in queste cellule, denominate 'cellule staminali embrionali' (CSE; v. anche cellule staminali) consentiva di ottenere animali transgenici, la procedura di microiniezione del transgene nel nucleo era all'epoca così ben standardizzata che la procedura basata sulle CSE non dava grandi vantaggi. Risultò decisiva l'applicazione di una tecnologia completamente diversa alle CSE, messa a punto da Mario Capecchi. Questo scienziato aveva lavorato a lungo, presso l'Università dello Utah, su una tecnica di inserzione genica (denominata 'ricombinazione omologa') che consentiva l'inserimento di un frammento di DNA in una posizione predeterminata, e non casuale come generalmente avveniva. Infatti, se tale frammento è almeno in parte identico a una sequenza endogena, esso va a inserirsi esattamente nel punto di identità. Capecchi pensò che se fosse riuscito a effettuare tale ricombinazione omologa nelle CSE, avrebbe potuto modificarne i geni a piacere. Sebbene l'inserzione omologa, nelle cellule di mammifero, sia un evento rarissimo, dell'ordine di uno su 106 o 107 cellule, Capecchi riuscì a identificare questi rari eventi e isolare CSE modificate a piacere (v. Thomas e Capecchi, 1987). Ancora una volta, il sistema funzionò al di là di ogni più rosea previsione e le cellule inserite nella blastocisti diedero origine ad animali chimerici (formati cioè in parte dalle cellule della blastocisti ospite e in parte dalle cellule coltivate in vitro e inoculate nella blastocisti) e quindi, in seguito a successivi incroci, ad animali che mantenevano la stessa modificazione che era stata indotta nelle CSE. La strada per la modifica a piacere del genoma del topo, e dei Mammiferi in generale, era così aperta (v. Capecchi, 1989).

Utilizzata per la prima volta alla fine degli anni ottanta, questa tecnica, detta gene targeting via homologous recombination (colpire un gene attraverso la ricombinazione omologa), consentì inizialmente di disattivare geni conosciuti sostituendoli con geni inattivi e producendo così animali che erano difettivi per un solo gene (animali knockout), quello desiderato dallo sperimentatore. Questa tecnica poteva venir applicata a qualsiasi gene clonato e il fenotipo mostrato da questi topi knockout poteva svelare la funzione del gene nell'organismo in toto. Non solo, ma se si conosce l'alterazione di un gene umano che provoca una malattia, è possibile clonare l'omologo gene nel topo, alterarlo con tecniche note col nome di site directed mutagenesis e inserirlo con la tecnica della ricombinazione omologa nel genoma del topo, creando un modello di malattia che può essere utilizzato per studiarla e per sperimentare nuove terapie. Sono stati in effetti prodotti modelli di gravi patologie, quali la fibrosi cistica, l'immunodeficienza combinata grave (SCID), la corea di Huntington e così via: in molti casi, ma non in tutti, le attese sono state soddisfatte, perché la sintomatologia clinica mostrata dall'animale era simile a quella presente nell'uomo.

Da allora la tecnologia è stata perfezionata ed estesa. Oggi è possibile inserire una singola mutazione puntiforme nella sequenza codificante e creare una serie di modificazioni diverse nello stesso locus che inattivino solo parzialmente la proteina prodotta. Inoltre una nuova versione della ricombinazione omologa, basata sul sistema CRE-lox, consente di inattivare selettivamente un gene solamente in alcuni tessuti e/o a uno stadio dello sviluppo prescelto. Questa tecnica ha consentito di superare uno dei principali problemi connessi con l'inattivazione genica, cioè quello che si presenta nel caso di geni che svolgono un ruolo vitale nello sviluppo dell'organismo. In molti casi, infatti, l'inattivazione di uno di tali geni nella prima cellula dell'embrione (zigote) provoca la morte intrauterina dell'embrione perché il gene era indispensabile per la crescita cellulare o per lo sviluppo embrionale ed era così impossibile studiarne la funzione nell'organismo in toto. Se invece l'inattivazione del gene letale in utero avviene a livello di uno o pochi tessuti, oppure solamente nell'animale ormai adulto, diventa in molti casi possibile studiarne la funzione. Infine, è oggi possibile, nel topo, non solo inattivare un gene funzionante, ma anche riparare un gene alterato.

Questa procedura, se eseguita nell'uomo, consentirebbe di eliminare i geni mutati responsabili delle malattie ereditarie. In questo caso, per giunta, non solo l'individuo stesso verrebbe curato, ma si potrebbe prevenire l'insorgenza della malattia in tutta la sua progenie e alla lunga il gene mutato potrebbe venir eliminato. Saremmo di fronte alla terapia genica germinale: le speranze dei primi eugenisti comincerebbero a diventare realtà. Tuttavia, la tecnica apre la via anche alla modificazione 'a richiesta' di altre caratteristiche della specie umana, comprese quelle che non hanno nulla a che fare con le malattie, come il colore della pelle o degli occhi, la statura e così via. Il sogno dell'eugenetica rischia così di diventare un incubo, una proposta inaccettabile dal punto di vista dell'etica e della dignità umana.

Questo tipo di prospettive non destavano preoccupazione all'inizio degli anni novanta, perché non vi era ancora disponibilità di CSE umane. Ma nel 1998 James Thomson e i suoi collaboratori presso l'Università del Wisconsin, dopo aver lavorato a lungo su CSE di Primati, annunciavano la produzione delle prime CSE umane (v. Thomson e altri, 1998). Per ottenerle, gli autori avevano utilizzato embrioni umani scelti tra quelli ottenuti in seguito a procedure di fecondazione in vitro, da anni conservati nei congelatori, e che, non essendo più richiesti dai loro genitori, sarebbero comunque stati prima o poi eliminati. Insieme alle temute prospettive di modificazione del genoma umano in senso razzista, la prospettiva di produrre e utilizzare embrioni umani per ottenere queste cellule ha scatenato un infuocato dibattito sulla liceità di tale procedura, dibattito che l'avvento del nuovo millennio non ha in alcun modo sopito. Anche perché alle tecniche di alterazione genica delle CSE possono essere associate le tecniche di clonaggio, giunte prepotentemente alla ribalta nel febbraio del 1997 quando tutto il mondo ha potuto osservare la mite espressione dell'animale più mansueto della terra: l'agnellino Dolly.

c) Animali clonati

La procedura di clonaggio o clonazione (i termini verranno qui considerati equivalenti) basata sul trasferimento nucleare non è semplicissima, ma alla fine degli anni novanta parecchi laboratori erano in grado di effettuarla. Essenzialmente, si tratta di asportare meccanicamente il nucleo della cellula uovo e di sostituirlo con quello di una cellula dell'individuo da clonare, oppure di fondere l'uovo enucleato con la cellula in questione. Sebbene già all'inizio degli anni sessanta John Gurdon dell'Università di Oxford fosse riuscito a clonare Anfibi partendo dal nucleo di una cellula intestinale completamente differenziata, nessuno credeva che questo fosse possibile anche nei Mammiferi. Come spesso è capitato nella storia della scienza, anche in questo caso - dato che la maggior parte degli scienziati si muove nell'ambito di credenze diffuse (per non utilizzare l'abusato termine 'paradigmatiche') - l'esperimento era ritenuto impossibile, così come inattuabili erano state giudicate inizialmente la procedura di Capecchi o l'idea che sta alla base della PCR (Polymerase Chain Reaction), una tecnica i cui presupposti teorici, pur essendo noti e alla portata di tutti, nessuno aveva pensato di utilizzare in quel modo.

Ma le cose cambiarono improvvisamente con la pubblicazione nel 1997 del lavoro effettuato da Jan Wilmut e dai suoi collaboratori presso il Roslin Institute di Edimburgo (v. Wilmut e altri, 1997): dopo anni di lavoro, spesi per mettere a punto la tecnica di trasferimento nucleare a partire da cellule embrionali e fetali, questi ricercatori erano riusciti a effettuare il trasferimento nucleare anche da cellule provenienti dalla ghiandola mammaria di una pecora adulta, ottenendo un mammifero (una pecora) clonato su 273 tentativi effettuati. Da allora in pochi anni sono stati clonati vari mammiferi, tra cui roditori, bovini e suini, anche se la procedura ha una bassissima efficienza, sia perché la percentuale di nascite di animali vivi rimane molto bassa, sia per il fatto che molti di essi muoiono poco dopo la nascita o presentano gravi difetti congeniti (v. anche clonazione).

Peraltro, la tecnica apre anche interessanti prospettive per la produzione di animali transgenici di interesse zootecnico: infatti, mentre la microiniezione rimane la procedura di scelta per ottenere topi transgenici, negli animali di grandi dimensioni la transgenesi attraverso clonazione potrebbe semplificare la procedura e potrebbe anche consentire studi di ricombinazione omologa attualmente impossibili per la mancanza di CSE. Infine, di grande interesse è anche la possibilità di 'ricreare' specie estinte o preservare quelle in via di estinzione: se fossero disponibili cellule congelate di animali estinti potrebbe essere possibile trasferirne il nucleo nel citoplasma di una cellula uovo di una specie affine non estinta. Esperimenti in questo senso hanno dimostrato la fattibilità di questo approccio (v. Loi e altri, 2001).

E l'uomo? È possibile produrre cloni di un uomo adulto? Non vi è alcuna ragione perché ciò non sia possibile, ma non si vede bene a che scopo farlo e quali vantaggi potrebbe arrecare. Attualmente poi la procedura, oltre a essere estremamente rischiosa, sarebbe inaccettabile perché comporterebbe sicuri fallimenti e probabilmente causerebbe la nascita di bambini con difetti congeniti. Va infatti ricordato che nelle altre specie animali l'efficienza della procedura è comunque bassa e che, tra gli animali nati, parecchi non sono del tutto normali. L'opinione pubblica nei paesi occidentali è praticamente unanime nel condannare l'uso di tale procedura nell'uomo e nel vietarla per legge, ma altre nazioni con culture differenti potrebbero ragionare diversamente.

d) La clonazione terapeutica e le cellule staminali dell'adulto

Una nuova frontiera al limite tra la ricerca di base e quella clinica, oggi ampiamente dibattuta a livello scientifico e soprattutto etico, è quell'insieme di biotecnologie che vengono denominate 'clonazione terapeutica' e che sembrano aprire enormi possibilità di sviluppo. Esse si basano sull'applicazione del trasferimento nucleare (clonaggio) alle CSE umane attualmente disponibili. Le CSE, come abbiamo visto, possono differenziarsi in tutti i tipi di tessuto e pertanto, se in esse viene trasferito il nucleo di una cellula di un paziente bisognoso di un trapianto, sarebbe possibile ottenere cellule geneticamente identiche a quelle del paziente, evitando così il rischio che siano rigettate. Queste cellule potrebbero poi venir indotte a differenziarsi in modo da dare origine al tessuto di cui il paziente necessita. Si potrebbe teoricamente riuscire a produrre neuroni dopamminergici per pazienti affetti da morbo di Parkinson, in cui le cellule dopamminergiche della sostanza nigra sono state distrutte. In un futuro più lontano si potrebbe addirittura arrivare a produrre organi interi, come rene o fegato, risolvendo in tal modo, oltre al problema del rigetto, anche quello della scarsità dei donatori.

Non si tratta di un futuro troppo lontano, perché questa procedura è stata recentemente attuata nel topo. In questo animale, una grave immunodeficienza è stata 'riparata' trasferendo il nucleo di una cellula derivata da individui immunodeficienti in un embrione da cui poi sono state ottenute delle CSE, nelle quali è stato successivamente corretto il difetto genetico mediante la tecnica della ricombinazione omologa; le CSE sono poi state fatte differenziare in cellule linfoidi che hanno quasi completamente curato il deficit originario (v. Rideout e altri, 2002). Ma questa procedura nell'uomo utilizzerebbe CSE di embrioni umani che verrebbero dissociati per produrle, e ciò, anche se fatto per scopi terapeutici, è da molti considerato eticamente inaccettabile. Non è solo una minoranza a pensare in tal modo, perché in tutti i paesi occidentali, esclusa forse la Gran Bretagna, l'opinione pubblica è spaccata quasi a metà su questo argomento e, in generale, su tutte le tecniche che richiedono la distruzione di embrioni umani.

I vantaggi che avrebbe la clonazione terapeutica per il trattamento di malattie devastanti e diffuse come il diabete, le cardiopatie, il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer sembrano comunque far prevedere un enorme sforzo della ricerca in tutto il mondo, nella speranza di riuscire a raggiungere gli stessi risultati utilizzando cellule di origine non embrionale. Cellule staminali che conservano un certo potenziale differenziativo sono presenti anche nell'adulto e potrebbero essere utilizzate al posto delle cellule staminali embrionali senza alcuna remora etica. Il Novecento si è chiuso ammettendo la possibilità che queste cellule dell'adulto siano più 'staminali' e più 'plastiche' di quanto ritenuto sinora; ma questo punto non è stato ancora completamente chiarito. Accanto a studi che sembrano indicare la possibilità che cellule staminali dell'adulto siano in grado di dare origine a cellule di ogni tipo, ve ne sono altri che raccomandano maggior cautela. È quindi evidente che il dibattito su questi argomenti, per le sue implicazioni tanto sul piano sociale, quanto su quelli economico ed etico, coinvolge oggi in modo prepotente i ricercatori, le agenzie internazionali, le industrie e le autorità governative di tutto il mondo.

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