Bologna

Enciclopedia Dantesca (1970)

Bologna

Augusto Vasina
Pier Vincenzo Mengaldo
Fiorenzo Forti

Il declino dell'Impero medievale attorno alla metà del Duecento, se per un verso affrettò alcuni processi di ordine economico-sociale e culturale già in atto nel corso di quel secolo nella nostra città, per l'altro segnò il tramonto della B. esarcale, quella simboleggiata da Guido del Duca nelle virtù di un Fabbro e compresa nei tradizionali confini dell'esarcato, segnati dalle antiche donazioni carolingie e ottomane tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno (Pg XIV 92). Le nuove forze cittadine, a stento frenate fino allora nell'ambito del comune podestarile, che aveva fatta propria la causa guelfa contro il pericolo svevo, ruppero finalmente gli argini frapposti dai gruppi di potere tradizionali e dilagarono nella vita comunale, imprimendole un ritmo ancor più febbrile e convulso. B. vide allora dilatato il respiro dei suoi traffici all'intorno, soprattutto verso oriente, alla conquista dei mercati romagnoli, dove cercò di far fronte alla serrata concorrenza del fiorino e di respingere a un tempo verso l'Adriatico le pretese commerciali di Venezia, già saldamente attestata nei centri rivieraschi.

Affacciata sul mondo padano, fra Lombardia e Romandiola, B. prese dunque a primeggiare, intrecciandosi entro le sue mura alle relazioni culturali, che rendevano famoso ovunque il suo Studio, scambi sempre più intensi di natura economico-politica; anche se qua e là dovevano affiorare i primi segni di stanchezza, nel declinare di certi valori e istituti tradizionali e, nello Studio, di qualche insegnamento: quello, soprattutto, del diritto romano - il più importante e caratteristico della cultura bolognese - che, privato del contatto vivificante con la realtà di un Impero politicamente efficiente, subì le conseguenze della crisi sveva e parve sempre più languire e irrigidirsi entro schemi scolastici ormai logori e astratti. In compenso però nelle scuole dei Mendicanti presero nuovo vigore le arti liberali e, dopo che B. entrò a far parte anche formalmente dello stato della Chiesa (1278), lo studio del diritto canonico.

Questa nuova esperienza di B. papale, che si sarebbe vieppiù caratterizzata così da apparire con certi suoi tratti inconfondibili anche a D., fu preparata da un incalzare di vicende dolorose: dapprima la rottura dell'equilibrio politico-sociale interno, in seguito alla cacciata dei Lambertazzi, la famiglia attorno alla quale si erano coagulate le residue forze ghibelline, la nobiltà cioè più tradizionalmente legata all'economia terriera; poco dopo, la crisi dell'egemonia bolognese in Romagna sotto la pressione congiunta dei fuorusciti bolognesi e delle forze ghibelline romagnole, condotte da Guido da Montefeltro, che minacciarono direttamente la città; questa fu allora indotta ad aprire le porte all'influenza angioina, che fu, assieme alla ormai prossima dominazione pontificia, un veicolo ideale per una penetrazione ancor più massiccia del fiorino sul mercato bolognese. Mentre i suoi rapporti con l'economia fiorentina si facevano sempre più stretti, B., nella nuova provincia dello stato della Chiesa, vide accentuarsi il distacco suo e del proprio territorio comitale dal restante territorio ‛ esarcale ', che assumeva così i definitivi contorni della Romagna attuale, proprio quella ricordata da D. a Guido da Montefeltro (If XXVII 37-54).

Analogamente all'evoluzione politica fiorentina, attraverso un severo processo selettivo delle forze economico-sociali cittadine, si pervenne nell'ambito del comune bolognese al superamento della diarchia podestà-capitano del popolo in un regime di Parte guelfa, sempre più oligarchico e intransigente, rappresentato dalla magistratura degli Anziani e impersonato per qualche tempo dalla ‛ dittatura popolare ' di Rolandino Passeggeri, maestro di notariato e abile politico. Sotto l'incalzare di severi provvedimenti antimagnatizi, realizzatisi negli Ordinamenti sacrati e sacratissimi degli anni 1282-1284, quello che in passato era stato un libero e fecondo ricambio di energie sociali fra nobiltà e borghesia, divenne ora un fatto di mimetismo politico, di trasformismo coatto, in cui la nobiltà dei natali e le avite tradizioni cavalleresche perdevano sempre più terreno di fronte all'iniziativa della gente nova dai subiti guadagni, e si confondevano con essa.

Intanto la cacciata dei Lambertazzi e l'affermarsi in B. della sovranità papale avevano fatto ripiegare il guelfismo cittadino su più ristrette posizioni autarchiche di difesa delle libertà comunali. Allontanato per qualche tempo il pericolo di un ritorno in forze dei ghibellini, il ceto dirigente bolognese, espresso dalla pars Jeremiensium che raccoglieva il meglio del ‛ guelfismo ' cittadino, apparve minato da dissidi insanabili che esplosero in manifestazioni gravemente faziose e assottigliarono ulteriormente l'oligarchia dominante. Non mancavano tuttavia da più parti tentativi per rimettere ordine nella cosa pubblica bolognese. A tale scopo infatti si intrecciavano iniziative ora private ora pubbliche, sia di ecclesiastici, sia di ordini religioso-cavallereschi, sia infine di società e gruppi laici. Ma né la predicazione dei Mendicanti, né la diplomazia dei Frati Gaudenti (v.), né le costituzioni moderate di papa Nicolò III Orsini, né la fervida opera di moderazione dei legati apostolici (ne è esempio l'infaticabile attività pacificatrice svolta contemporaneamente a B. e a Firenze dal cardinal-legato Latino Frangipani; v.) riuscirono nel loro intento; anzi tali iniziative rivelarono tutti i loro limiti: debolezze, complicità, parzialità, mentre il governo papale si dimostrava sempre più nepotista e fiscale.

Il processo di disintegrazione del gruppo dirigente bolognese giunse alla sua fase più acuta fra il penultimo e l'ultimo decennio del Duecento. Poi la precarietà del regime comunale, l'incapacità e il malgoverno dei rettori papali e soprattutto il delinearsi all'orizzonte di un pericolo estense (a seguito dell'assorbimento di Modena e Reggio E. nei domini signorili di Obizzo II d'Este e della penetrazione ferrarese in Romagna e nel Bolognese) spinsero i cittadini a risalire la china delle dissidenze interne mediante un'opera paziente di ricomposizione e reintegrazione nel ceto dominante delle forze politico-sociali prima escluse. Venne così ristabilita la solidarietà geremea; poco appresso, alle soglie del giubileo indetto da Bonifacio VIII nel 1300, vennero ammessi entro le mura anche i Lambertazzi. Pur tra disagi, irrequietezze e defezioni, dovute all'eterogeneità dei gruppi politici cittadini, si tentò di elevare un argine a presidio delle autonomie comunali contro l'invadenza estense che aveva in B. una delle sue manifestazioni organizzate nella sempre più potente " pars Marchixana "; e poiché questa si era attestata sulle posizioni del guelfismo più intransigente, i gruppi politici bolognesi trovarono per reazione un comune denominatore nel moderatismo guelfo; una base d'intesa, questa, la cui validità venne sperimentata alla luce delle vicende cittadine dei primi anni del nuovo secolo. Esse furono strettamente condizionate dalla situazione politica fiorentina che vide prima la scissione dei guelfi in Bianchi e Neri e poi, con la venuta di Carlo di Valois, l'ascesa al potere di questi e la cacciata della fazione avversa. Stretti, fra le mire angioine da sud e quelle estensi da nord, in un gioco che li avrebbe potuti di lì a poco soffocare, i Bolognesi continuarono ad agire nello spirito del moderatismo, appoggiando concretamente gli esuli fiorentini e mostrandosi persino disponibili per un'intesa con alcune frange del vecchio ghibellinismo. Ma si trattò di un equilibrio difficile e di breve durata. Una crisi dinastica estense nel 1306 e il conseguente attenuarsi della pressione ferrarese su B. ebbero come contraccolpo immediato nella nostra città l'insorgere di nuove lotte intestine che portarono ancora una volta all'espulsione dei Lambertazzi. B. parve allora legarsi sempre più alla Chiesa, soprattutto nella politica esterna: sia durante la guerra di Ferrara, sia nel settore romagnolo, particolarmente in occasione della discesa di Arrigo VII in Italia.

Intanto dalle contraddizioni della vita comunale bolognese, percorsa nuovamente da convulsioni settarie, ma anche da nuove aspirazioni sociali e da fermenti ereticali duramente perseguiti e repressi, venivano emergendo per ricchezza di terre e di denaro i Pepoli, che con Romeo e poi Taddeo avrebbero fondato, pur tra forti resistenze, la loro signoria sulla città.

Una B., dunque, inserita nella cornice istituzionale dello stato della Chiesa e cionondimeno divisa e dispersa in una pluralità di gruppi famigliari e consortili, alternantisi al potere e oscillanti fra aspirazioni corporative e tentazioni autoritarie; una B. costretta a subire sempre più l'egemonia del fiorino e compromessa nel gioco del guelfismo intransigente, fosse esso ispirato dalla Firenze dei Neri o dalla Ferrara degli Estensi; una B. ovviamente dove non poteva esserci più posto, nonché per D., neppure per i suoi ideali politici e morali. In tali condizioni dovette presentarsi la nostra città agli occhi di D.: un'esperienza che per più aspetti dovette richiamare allo spirito del poeta, già prima, ma soprattutto durante l'esilio, l'immagine angosciosa della sua città natale.

D. e Bologna. - Le reminiscenze bolognesi, esplicite o semplicemente allusive, negli scritti di D. sono tali e tante da accertarci non solo della sua reale presenza in B. ma anche della sua dimestichezza con l'ambiente cittadino, per averlo frequentato in modo non proprio occasionale e fuggevole.

La prima traccia per ricostruire l'itinerario dantesco in B. potrebbe essere costituita dalla registrazione nei Memoriali bolognesi del 1287 di un sonetto in cui è ricordata la Garisenda / torre (Rime LI 3-4); dove, oltre a una certa consuetudine visiva con le due principali torri bolognesi, ribadita peraltro circa venti anni dopo dal suggestivo scorcio della Garisenda ispiratogli dal gigante infernale Anteo (Qual pare a riguardar la Carisenda, If XXXI 136) sembra di poter cogliere l'eco di ormai abituali tenzoni poetiche fra D. e i rimatori della nostra città ricordati in VE I XV 6, II XII 6: Guido Ghisilieri, Fabruzzo, Onesto, su su fino al maggiore, Guido Guinizzelli (v. oltre).

Certo che col tempo l'esperienza di D. dovette spaziare ben oltre la ristretta cerchia dei poetantes, gelosamente legati a una rigorosa tradizione formale, per attingere al nuovo verbo poetico del Guinizzelli, e distendersi poi nel mondo comunale bolognese, fervido di contrasti politici, di negozi giuridici e di attività mercantili, fino a inoltrarsi in certe pieghe intime della vita privata di alcuni suoi protagonisti; per dilagare infine nel mondo cosmopolita dello Studio, nel suo variopinto intrecciarsi di parlate, nel suo febbrile commercio culturale.

Se D. fu a B. anche dopo il penultimo decennio del Duecento, si può ragionevolmente presumere che ciò potesse accadere, se non prima, almeno nei primi anni del Trecento, quando B. accolse gli esuli fiorentini di Parte bianca (1303).

In seguito, e soprattutto dopo il 1306, l'ambiente bolognese dovette farsi sempre meno accogliente per il poeta, fino a divenire proibitivo negli ultimi tempi della sua vita, come è adombrato nella corrispondenza poetica fra D. e Giovanni del Virgilio (1319-1321).

Certo da quella multiforme realtà bolognese D. dovette ricevere abbondante materia, dapprima per le sue riflessioni etico-politiche e pure linguistiche, poi, nel corso del Trecento, per la loro elaborazione e sistemazione negli scritti, soprattutto nei suoi trattati. Le notazioni linguistiche raccolte in VE I IX 4, XV 2 ss., II XII 6, ci rivelano un D. attento osservatore delle parlate bolognesi, distinte nelle loro variazioni e sfumature, dalla periferia al centro della città, da borgo a borgo. Nel trattato linguistico conoscenze del volgare scritto ed esperienze delle lingue parlate s'intrecciano e concorrono nell'individuazione nel milieu bolognese di tre dialetti: uno dei poeti, rappresentato da Guido Guinizzelli; un altro, rustico, dei sobborghi (es. di Porta S. Felice); un terzo, infine, dei mediastini, della borghesia del centro cittadino (es. Strada Maggiore); dei tre questo sarebbe il più prossimo al volgare illustre.

Dall'analisi dei fatti linguistici lo sguardo di D. tende a penetrare nel sostrato umano e morale della società bolognese, quasi alla ricerca di una sua caratterizzazione psicologica. Come in altri casi, anche qui i riferimenti a personaggi e a situazioni ambientali bolognesi si dispongono su due piani: un primo piano, in cui ora con pungente ironia, ora in tono pesantemente allusivo, ora con fare sferzante, il poeta mette in evidenza alcune anime di Bolognesi contemporanei dannate nell'Inferno, facendone altrettanti simboli di un'umanità bassa, sanguigna e carnale, talora cinica, sempre piegata alle suggestioni del denaro, situatile per certi suoi tratti inconfondibili tra Savena e Reno, ma al tempo stesso partecipe per il suo avaro seno (If XVIII 61, 63) del dramma di tutti i cristiani aduggiati dall'avarizia; un secondo piano invece ambientato nella penombra del Purgatorio sul quale D. proietta le immagini del suo sentimento mitico del passato; un passato non remoto ma nondimeno inattingibile nel suo retaggio di perfezione etica, di costumanze cortesi e cavalleresche.

Nella prima cantica della Commedia, fra chierici e letterati sodomiti, D. ritrova un famoso glossatore del suo tempo, d'estrazione fiorentina ma operante allo Studio bolognese: Francesco d'Accorso (If XV 110); un solo nome che è anche un segno dietro al quale forse il poeta vuole adombrare certe degenerazioni di costume proprie del mondo universitario e in particolare dei giuristi considerati più di ogni altro venali. Poi, all'inizio di Malebolge, D. solleva impietosamente il velo su un retroscena famigliare fra i più scabrosi del suo tempo che ebbe per laido protagonista uno dei più potenti uomini politici bolognesi del tardo Duecento: Venedico Caccianemici, fautore delle mire dinastiche degli Estensi su Bologna, non meno che compiacente procacciatore di avventure erotiche a Obizzo II d'Este: I' fui colui che la Ghisolabella / condussi a far la voglia del marchese, / come che suoni la sconcia novella (If XVIII 55-57); episodio nel quale è dato per più segni (significativa è al riguardo la metafora delle pungenti salse, luogo di punizione dei malfattori e di abbandono dei corpi dei giustiziati, situato sui primi rilievi collinari di B.; e non meno la circostanza della presenza massiccia di bolognesi nella prima bolgia) cogliere, al di là della vicenda personale e famigliare di Venedico, l'allusione al mondo squallido e sfacciato dei seduttori che pullulava nella città, soprattutto attorno allo Studio.

La rassegna delle anime dannate di provenienza bolognese prosegue nella sesta bolgia: due ipocriti, gravati da pesanti cappe di piombo, si rivelano a D. (Frati godenti fummo, e bolognesi, If XXIII 103): l'uno, Catalano dei Malavolti, di nobile ascendenza guelfa, l'altro, Loderingo degli Andalò, appartenente a una delle più cospicue famiglie di tradizione ghibellina. D., collocandoli nella sesta bolgia e chiamandoli frati godenti, sembra da un lato accreditare l'opinione che i due avessero fatto cattiva prova a Firenze nel 1266 in qualità di podestà pacificatori delle fazioni, dall'altro confermare la diffusa convinzione di un declino precoce di tale ordine, per essere venuto meno ai suoi compiti istituzionali, anteponendo all'interesse generale quelli particolari e accrescendo confusione e disagio nella vita cittadina con le loro ambiguità.

Assai meno rilevante, invece, e senza stretti legami col mondo bolognese, ci sembra la figura di un altro dannato incontrato dal poeta nella nona bolgia fra i seminatori di scandali e di scismi: si tratta di Pier da Medicina, località del contado bolognese (If XXVIII 70-90).

Nel mondo delle anime purganti, la presenza dei Bolognesi e della loro città appare assai meno caratterizzata e sfuggente verso un mondo favoloso di perfezione spirituale e di pure emozioni estetiche.

Nella cornice dei superbi, in un pacato confronto stilistico si stempera un'accesa rivalità di mestiere fra due miniatori appartenenti ad altrettante scuole d'arte: da una parte Oderisi da Gubbio (v.), sicuramente attivo a B. negli anni 1268-1271, dall'altra Franco Bolognese, operante nella nostra città nei primi anni del Trecento (Pg XI 79-84). Qui ogni motivo terreno di gelosia e di superbia di Oderisi appare mortificato dalla cortesia che questi mostra nei riguardi di Franco e ancor più dalla coscienza del perenne rinnovarsi dell'arte e quindi della vanità delle cose terrene.

Poco più su nella montagna del Purgatorio, per voce di Guido del Duca, D. esprime il rimpianto per la scomparsa di un Bolognese, Fabbro de' Lambertazzi, non meno virtuoso che nobile, vissuto nella prima metà del Duecento; scomparsa qui assunta non solo come la fine di un retaggio personale e famigliare di virtù cortesi e cavalleresche, ma anche come segno dell'estinguersi nel mondo bolognese di ogni bella tradizione: Quando in Bologna un Fabbro si ralligna ? (Pg XIV 100).

I Bolognesi e la loro città, quasi del tutto assenti nella terza cantica della Commedia, non si può dire che nelle altre opere dantesche assumano una qualche rilevanza: anche nel Fiore i pochi riferimenti a B. (XXIII 11, CCXI 7), non paiono proprio significativi.

Fortuna di Dante. - Ha avuto vicende alterne: iniziatasi precocemente, quando ancora il poeta era vivente, e arricchitasi ben presto di voci e testimonianze significative nel corso del Trecento, declinò rapidamente dal sec. XV. Fino alle soglie della stagione romantica, quando si ebbe una ripresa dell'interesse per il poeta, D. fu pressoché ignorato nel mondo culturale bolognese, vuoi per ragioni di adattamento al clima politico stabilito nella città dal governo dei rettori e legati papali, vuoi per particolari attitudini umane e spirituali che rendevano B. poco disponibile ad accogliere il messaggio dantesco, vuoi infine per motivi generali di indirizzi culturali, che anche a B. per circa quattro secoli distolsero pregiudizialmente letterati e scrittori da un sereno e attento apprezzamento della tradizione medievale e dantesca nella fattispecie.

Le prime reminiscenze di scritti danteschi in B. sono state rintracciate nei Memoriali del comune sotto forma di trascrizioni, negli spazi liberi fra l'una e l'altra registrazione dei contratti notarili, di sonetti e terzine dantesche ad opera di notai addetti a quell'ufficio (v. oltre).

Mette conto qui rilevare che non sempre, diversamente da quanto si è creduto finora, tali reminiscenze implicano che quei notai fossero dei veri cultori di D., mentre esse solo eccezionalmente potrebbero essere indicative di una reale presenza del poeta nella città.

Un momento non trascurabile della fortuna di D. in B. ci è testimoniato dalla corrispondenza poetica avviata con l'Alighieri fra il 1319 e il 1321 dal maestro di grammatica bolognese Giovanni del Virgilio, per invitare e sollecitare D. a recarsi allo Studio per farsi incoronare poeta: una traccia, questa, della sua fortuna che subito si smarrisce, poiché D., com'è ben noto, ritenne di non poter aderire a quegli inviti, alludendo ai rischi di un suo trasferimento a Bologna.

Poco dopo la morte del poeta, un fatto forse non privo di risonanze fu l'invio a Guido Novello da Polenta, che si trovava a B. in qualità di capitano del popolo, della prima copia della Commedia da parte del figlio di D., Iacopo.

Se è degna di fede, come tutto lascia ritenere, la notizia data dal Boccaccio secondo la quale, nel clima rovente della contesa per l'incoronazione imperiale fra Lodovico il Bavaro e Giovanni XXII, il cardinale legato Bertrando del Poggetto ordinò in B. di bruciare come sospetta di eresia la Monarchia e di disperdere persino le ossa del poeta (ordine che non venne poi eseguito per intercessione di Pino della Tosa e di Ostasio da Polenta), si può pensare che la fortuna di D., attorno al 1329, subisse un momentaneo declino in B.; ma è del pari presumibile che, dopo la cacciata del legato (1334), gli scritti danteschi, da segni di una polemica di natura politico-dottrinale, tornassero a essere materia di studio pacato e devoto. Tale ripresa dell'interesse per il poeta, placatesi nel frattempo le controversie sulla persona e sulle idee del nostro, dovette creare in B. condizioni idonee al sorgere di un vero e proprio culto per Dante.

In realtà non mancano in seguito a B. tracce della diffusione delle opere dantesche, relative soprattutto alla tradizione orale e scritta della Commedia, com'è attestato dalla fervida operosità nel secondo Trecento e anche in seguito dei chiosatori del poema, culminata nella lettura pubblica a B., attorno al 1375, delle tre cantiche sapientemente glossate da Benvenuto, e continuata nel magistero di Giovanni da Spoleto e Angelo dell'Aquila. Ma già alle soglie dell'Umanesimo questo rinnovato interesse per D. tende sempre più a languire fino ad estinguersi.

Una ripresa della fortuna di D. si ebbe solo verso la fine del sec. XVII per merito dell'arcade bolognese Iacopo Martelli (1665-1727), imitatore della Commedia. Questi anticipò di oltre un secolo il definitivo recupero di D. alla cultura bolognese, maturato nella prima metà dell'Ottocento, in un clima fondamentalmente neoclassico, sempre più però permeato di fermenti romantici e di ideali risorgimentali. Tale ritorno al poeta è testimoniato da un fitto succedersi di edizioni della Commedia e di studi danteschi, a opera principalmente di G. Marchetti, F. Machiavelli e P. Costa. D. divenne sempre più chiaramente, nella prospettiva risorgimentale, simbolo del riscatto nazionale, e come tale venne assunto, all'indomani dell'annessione di B. al regno d'Italia, negli ambienti culturali cittadini e affidato al magistero universitario di G. Carducci. Così D. dopo un lungo silenzio rientrava anche nel circolo della cultura accademica bolognese, dove un altro poeta e docente, Giovanni Pascoli, con sensibilità e gusto del tutto rinnovati e personali, avrebbe continuato la tradizione degli studi danteschi.

Frattanto una nutrita schiera di filologi e linguisti raccolti attorno alla rivista " Il Propugnatore ", anche per suggestione dell'insegnamento carducciano, veniva svolgendo ricerche sistematiche per reperire e pubblicare criticamente le prime testimonianze della nostra lingua: dalla collaborazione di questi studiosi vennero contributi preziosi soprattutto alla conoscenza del D. minore e del milieu culturale e poetico entro il quale l'Alighieri si era formato e aveva operato. L'affermarsi in B. degli orientamenti positivistici e delle istanze della scuola storica permise a tale tradizione di studi di rassodarsi, di meglio precisare i suoi compiti e piani di lavoro, di acquistare maggiore consapevolezza metodologica: fra il secolo scorso e i primi decenni del presente, nel mentre l'attenzione degli studiosi tornava a concentrarsi su D., si è condotta una sistematica esplorazione degli archivi e delle biblioteche locali per acquisire nuovi elementi alla biografia del poeta e alla storia letteraria del suo tempo. Di qui la fioritura di una ricca produzione erudita, intensificatasi attorno al 1921, in occasione del sesto centenario della morte di D., per merito soprattutto di Francesco Filippini, Carlo Frati, Giovanni Livi, Corrado Ricci, Lino Sighinolfi, Albano Sorbelli e Guido Zaccagnini. Di questo ciclo celebrativo merita di essere segnalato un volume di Studi danteschi curato dalla Deputazione di storia patria romagnola (Studi e documenti, IV, Bologna 1922) e una raccolta di conferenze dantesche, D. e Bologna (ibid. 1922).

Il contributo bolognese più recente agli studi danteschi è scaturito dalle celebrazioni del VII centenario della nascita del poeta, per iniziativa della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi, che ha curato l'edizione del volume miscellaneo Dante e Bologna nei tempi di Dante (Bologna 1967).

Bibl. - Manca tuttora uno studio complessivo sulla B. dei tempi di D., mentre abbondano contributi particolari, non sempre aggiornati però, su singoli momenti e aspetti della storia politica, economico-sociale e culturale della nostra città nei secoli XIII e XIV. Si rende pertanto opportuno risalire direttamente alle fonti fra le quali, per particolare ricchezza di testimonianze e notizie sulla B. due-trecentesca, si devono ricordare le cronache di Salimbene, del Cantinelli e quelle raccolte nel Corpus Chronicorum Bononiensium, nonché il commento della Commedia lasciatoci da Benvenuto da Imola.

Per limitarsi ai lavori più recenti basterà ricordare: E. Dupré Theseider, L'eresia a B. nei tempi di D., in Studi in onore di G. Volpe, I, Firenze 1958, 381-444; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., ibid. 1964; e ultimamente: G. Arnaldi, Pace e giustizia in Firenze e in B. al tempo di D., in D. e B., cit., 163-177; G. Orlandelli, I Memoriali bolognesi come fonte per la storia dei tempi di D., ibid. 193-205; G. Fasoli, B., D. e i commentatori antichi, ibid. 251-263.

Per la storia dei rapporti fra D. e il mondo bolognese, cfr.: C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Ravenna-Faenza 19653; Id., D. a B., in Ore e ombre dantesche, Firenze 1920, 1-42; F. Filippini, D. scolaro e maestro, Ginevra 1929; G. Albini, Giovanni del Virgilio, in D. e B., Bologna 1922, 45-73; G. Vecchi, Giovanni del Virgilio e Dante. La polemica tra latino e volgare nella corrispondenza poetica, ibid. 61-76.

La posizione che D. attribuisce ai dialetti bolognesi nella questione del volgare illustre è stata di recente illustrata da L. Heilmann, Il giudizio di D. sul dialetto bolognese, in D. e B., cit., 151-160.

Su personaggi, episodi e riferimenti bolognesi negli scritti danteschi con particolare riguardo alla Commedia, oltre ai già citati studi del Ricci e del Filippini, cfr.: F. Torraca, Catalano e Loderingo, in Studi danteschi, Napoli 1912, 213-248; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in B., in " Giorn. stor. " LXIV (1914) 1-47; ID., Personaggi danteschi a B. e in Romagna, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. di Romagna " s. 4, XXIV (1933-1934) 19-71; e inoltre: E. Raimondi, I canti bolognesi dell' ‛ lnferno ' dantesco, in D. e B., cit., 229-249; S. Bottari, Per la cultura di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese, ibid. 53-59.

Sulla fortuna di D. in B. nel secolo scorso, cfr. A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958, 173 ss.

Lingua. - Una prima interessante menzione del dialetto bolognese si trova in VE I IX 4 (e v. anche I X 9), nel quadro della teoria dell'infinito frazionamento linguistico nello spazio (e nel tempo): dove s'afferma che tale differenziazione tocca non solo città vicine ma - ciò che è anche più sorprendente - gli abitanti di una stessa città, ut Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Stratae Maioris. La scelta non sarà casuale. A parte le deduzioni (assai labili) che se ne possono trarre in merito a un soggiorno di D. a B. nel periodo della stesura del trattato (v. DE VULGARI ELOQUENTIA. COMPOSIZIONE), l'indicazione implica subito, al di là dell'intenzione meramente esemplificativa di un fatto generale, il riconoscimento della natura di ‛ metropoli ' della B. del tempo, coerente allo spirito antimunicipale (antifiorentino) che anima il trattato, e base anche della successiva, più ampia trattazione del volgare bolognese (I XV). D'altra parte è verosimile che la scelta di B. come esempio di differenziazione tra le parlate del centro e della periferia di una stessa città vada messa in rapporto con la tesi, svolta in I XV, della precellenza del bolognese tra i volgari municipali d'Italia, e con la contemporanea, dialettica affermazione che tuttavia la lingua dei poeti illustri locali è diversa anche dalla parlata degli abitanti del centro (mediastini): tanto più dunque da quella di Borgo S. Felice.

Il riconoscimento della superiorità del bolognese sugli altri dialetti municipali, siciliano compreso, sottintenderà in realtà, anche se la formulazione di fatto sia tutta in chiave ‛ estetica ', una considerazione di natura ‛ politica ' sul carattere non particolaristico, anzi supermunicipale del bolognese dei mediastini, capace di accogliere e mediare, in virtù della centralità non tanto geografica quanto politica della città, correnti linguistiche opposte provenienti dalle zone romagnola ed emiliana (‛ lombarda ' per D.): il che sembra rispondere (quale che ne fosse la coscienza precisa da parte di D.) a una reale situazione linguistica della B. due-trecentesca come si rispecchia nei documenti, che mostra soprattutto una vivace pressione romagnola (alla quale è certamente collegata, almeno in parte, ad es. l'introduzione a B. del dittongamento, prima assente, nel corso del '300). Così risponde a una realtà effettiva, e ben controllabile da noi, la scarsa caratterizzazione idiomatica che D. implicitamente attribuisce alla lingua dei mediastini Bononiae (come risulta se non altro da un fatto notevole, che il bolognese è il solo, fra i dialetti italiani presi in più attenta considerazione, del quale egli non offra uno specimen linguistico puntuale): infatti già i documenti più antichi del bolognese scritto - beninteso di livello letterario ‛ medio ' - mostrano la tendenza a una nobilitazione e obliterazione dei tratti locali in cui agirà l'influsso di una prestigiosa cultura latina universitaria (soprattutto retorica e giuridica), nonché la precoce ricchezza di contatti con il toscano.

Nella formulazione dantesca (I XV 2 ss.) il pregio del bolognese è individuato, esteticamente, in una lodevole suavitas (termine tecnico dantesco: v. Cv IV Le dolci rime 10, e II VII 5, dove soave, equivalente ad abbellito, dolce, piacente e dilettoso, è etimologicamente connesso, con Uguccione da Pisa, a suaso), che deriva dal contemperamento di opposti: la lenitas e mollities dei Romagnoli (Imolesi) e la garrulitas dei Lombardi ' Ferraresi e Modenesi (v. la trattazione di queste tre voci). E vano e pericoloso tentare, come pur è stato fatto, di determinare a quali tratti linguistici concreti del bolognese D. pensi come incarnazione di questo dolce contemperamento di opposti. Più importa tener presente che il fondamento teorico dell'affermazione (avvalorata dal parallelismo con l'operazione individuale di un tantus eloquentiae vir come Sordello) sta in quella nozione matematico-musicale di stampo boeziano dell'armonia come unità dei contrari che avrà un valore portante nella definizione dantesca dello stile tragico (v. in particolare Boezio Inst. arithm., ediz. Friedlein, II XXXII 125 " non sine causa dictum est, omnia, quae ex contrariis consisterent, armonia quadam coniungi atque componi. Est enim armonia plurimorum adunatio et dissentientium consensio "). Si può infine ricordare che viceversa in If XVIII 61, nel contesto di una serie di canti vivacemente polemici nei confronti di vari aspetti del costume bolognese, D. caratterizza la parlata di B. con uno di quei blasoni che nel De vulgari Eloquentia colpiscono i dialetti ‛ municipali ', sipa (" sia "): non senza, probabilmente, un ironico contrappunto del rilievo linguistico a quello di costume.

Bibl. - P.G. Goidanich, Sul giudizio di D. intorno al dialetto romagnolo e bolognese, e sulla lingua usata da Sordello, in " Arch. Glottol. It. " XX (1926) 117-124 (mal impostato); F. Torraca, Il dialetto romagnolo e il bolognese nel " De vulg. Eloq. ", in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. di Romagna " s. 4, XVII, fasc. IV-VI (luglio-dic. 1927) 354-356; Marigo, De vulg. Eloq., 124 ss.; G. Toja, La lingua della poesia bolognese del secolo XIII. Saggio filologico-critico, Berlino 1954, 1-12; M. Marti, Con D. fra ,i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 19; L. Heilmann, Il giudizio di D. sul dialetto bolognese, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 151-160; E. Raimondi, I canti bolognesi dell'Inferno dantesco, ibid. 229-249; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P. V. Mengaldo, I. Introduzione e testo, Padova 1968, XVII, LXVII, LXXX. Per la situazione del bolognese scritto duecentesco, v. da ultimo Vita di San Petronio, con un'Appendice di testi inediti dei secoli XIII e XIV, a c. di M. Corti, Bologna 1962.

Tradizione manoscritta e commentatori. - La fortuna delle opere di D. a B., è singolare per precocità e per vastità. A B., anzitutto, si è ritrovata la più antica trascrizione dalle rime dantesche: il famoso sonetto sulla Garisenda, No me poriano zamay fare menda, trascritto nel 1287, adespoto e in fonetica emiliana, dal notaio bolognese Enrichetto delle Quercie (per me " Henrigiptum de Querçiis ") nel Memoriale 69 (c. 203 v). Si voglia o no credere alla tradizione della frequenza di D. allo Studio, questi versi restano " la miglior prova interna del soggiorno giovanile di Dante a Bologna, del quale discorre il Boccaccio nella Vita " (Contini). Nel 1293, ampi passi della famosa canzone Donne ch'avete intelletto d'amore (vv. 1-22; 24-25; 29-36; 41-42; mutili i vv. 16-17) furono trascritti dal notaio Pietro Allegranza nel Memoriale 82 (c. 21v), anche questi con un colorito linguistico emiliano, pur essendo Pietro di padre fiorentino. In seguito lo Zaccagnini estrasse dalle carte di corredo ai registri podestarili bolognesi un curioso documento che prova presente in B. nel 1306 l'intera Vita Nuova (cfr. in " Marzocco " 8 dic. 1919): il 15 giugno del 1306 ser Giacomo di Domenico del quondam Mascarone, notaio bolognese, accusava formalmente, presso il podestà di B., Bernardino da Polenta, fratello di Francesca, un tale Pietro (detto Petruccio) da Musigliano, incolpandolo di avergli sottratto " unum librum qui vocatur Vita Nova scriptum in cartis pecudinis et quasdam alias rationes diversas, ligatas cum ipso in duabus assidibus de ligno ". La presenza del libello giovanile di D. favorì certo il diffondersi delle poesie in esso raccolte; in B. comunque si ha traccia anche di liriche estranee alla Vita Nuova, ed è ancora la testimonianza certa dei Memoriali a soccorrerci: nel 1310 ser Bonfigliolo, detto Chirolo, Zambeccari, di una famiglia già allora illustre a Bologna, trascrisse, senza nome d'autore, nel Memoriale 120 (c. 33 r) la ripresa e la prima stanza della ballata Donne, io non so, nell'Escurialense attribuita a D. ; e, finalmente, nel Memoriale 143 del 1316, a c. 52, Filippo de' Panzoni, notaio di cospicua casata bolognese, trascrisse, col solito colorito dialettale, i primi otto versi della grande canzone petrosa Così nel mio parlar. Il costante colorito locale imposto al dettato fa pensare a un'assimilazione emiliana della lirica dantesca, sia che i notai citassero a mente, sia che trascrivessero da esemplari già emilianizzati.

Importanza molto maggiore, però, rivestono, anche per i connessi problemi della datazione e della pubblicazione del poema, le prime tracce bolognesi della Commedia. Di capitale rilievo al riguardo resta il reperto pubblicato da G. Livi nel 1918: in un registro di atti criminali del 1317 ser Tieri di Gano degli Useppi di S. Gimignano (" Therius Gani de sancto Geminnian "), una famiglia toscana che dette molti funzionari al comune bolognese, trascrisse sul verso della coperta membranacea anteriore di un registro di atti criminali da lui tenuto e datato 1316, stile fiorentino (perciò 1317), i vv. 94-96 del canto III dell'Inferno. Sul verso della coperta posteriore dello stesso registro si intravedono, frammentari, i vv. 103-104 del III e 16-17 del V dell'Inferno: da alcune parole replicate a fianco di quest'ultima citazione si può inferire che si tratti di semplici prove di penna. Testimonianza preziosa, giacché prima di essa non si possedeva prova certa della diffusione del poema vivente il poeta: il più antico ricordo testuale, la terzina di rimbrotto a Niccolò III (If XIX 97-99), vergata da un " Johannes quondam Antonii Yvani Ferri " in calce a un contratto stipulato il 20 dicembre 1321 e registrato il giorno seguente nel Memoriale 143 (281v), veniva a cadere un centinaio di giorni dopo la morte del poeta, e l'antico lacerto coi vv. 1-23 del V canto dell'Inferno e col primo verso del Purgatorio, trovato sfuso in un registro del 1319, non potéva garantire della data di trascrizione (Trauzzi). Trascrizioni più tarde si trovano nei Memoriali del 1327 (If XIII 22-29, Pg XI 1-24) e del 1332 (If V 103-114), mentre in un Memoriale del 1339 fu trovato un foglio contenente i vv. 83-136 del canto IV dell'Inferno. Tra questi reperti spicca la trascrizione del Padre nostro in colorito emiliano, non priva di qualche rilievo ai fini ecdotici (cfr. Petrocchi, Introduzione 504). Notevole importanza per la storia del testo della Commedia rivestono i codici trecenteschi conservati nelle biblioteche bolognesi (ivi, 504-505), il 322 dell'Archiginnasio e il 589 e il 4091 dell'Universitaria. Dopo la ‛ pubblicazione ' veronese, le prime due cantiche, accolte forse con riserbo dagli umanisti padovani per pregiudizio antivolgare e antiscaligero, e più ancora l'intero poema dopo la divulgazione ravennate, trovarono in B. quell'abbondanza di officine scrittorie che né Verona, né Ravenna possedevano: anche se i codici di origine emiliana del primo decennio sono andati perduti, sono giunti fino a noi il Riccardiano 1005, contenente le prime duecantiche, che si compie nel Braidense AG XII 2 (Rb), scritto da Galvano da B. fra il 1330 e il 1340; l'Urbinate latino 366 (Urb.), finito di copiare il 16 marzo 1352, con ogni probabilità in B. stessa, e il Madrileno 10-186 (Mad), compiuto il 10 novembre 1354, in Liguria, di su un esemplare dell'area emiliana-romagnola.

Secondo le indagini del Petrocchi i tre codici recano una tradizione testuale (β) nettamente distinta da quella toscana (α) e costituiscono un gruppo organico (e), che si distingue dall'altro ramo (d) della tradizione settentrionale, rappresentato dal famoso Iandiano di Piacenza, e attesta una fondamentale attività editoriale emiliana nella diffusione originaria della Commedia. Di più, il recupero radiografico delle lezioni originarie abrase del Landiano, che fu corretto, forse a Pavia, su un codice toscano, consente di definire con grande chiarezza i caratteri peculiari della trasmissione emiliana della Commedia, matrice di una ricca serie di codici, fra i quali il celeberrimo Urbinate latino 365, il più sontuoso manoscritto miniato del Rinascimento, nato forse in un'officina bolognese, e il bellissimo Estense italiano 474, nato a Ferrara e ora a Modena. A B., d'altronde, ci porta anche il più antico ricordo documentale del poema: nel maggio del 1325 il padovano Mezzoconte di Ezzelino dei Mezzoconti mandava a ritirare a B. un suo deposito al fondaco bolognese della fiorentina società della Scala, nel quale fra altri libri è elencato " Linferno de Danti ", codice che per vari indizi il Livi ritiene fornito da uno dei molti stationari della città emiliana (D. e B., pp. 88-91).

Alla fortuna di D. in B. contribuirono indubbiamente anche i soggiorni del poeta nella città emiliana prima e dopo l'esilio, certi anche se non definiti nel tempo e tali da consentire una conoscenza approfondita e diretta della vita bolognese, quale risulta dalla Commedia e dal De vulg. Eloquentia. I " poetantes Bononiae ", anche se non conobbero gli accenni onorevoli loro dedicati nel De vulg. Eloq. (I XV 6; II XII 6), non ignorarono certo gli elogi al Guinizzelli, riconosciuto maestro (Vn XX 3; Pg XXVI 97): la lunga presenza a B. di Cino nello scorcio del secolo XIII è il tramite più naturale fra la lirica dantesca e gli ambienti colti bolognesi, come prova il sonetto di Onesto Sete voi, messer Cin, dove il nesso tra il Pistoiese e D. è affermato in modo esplicito (v. 14).

Tali circostanze e il costante connubio fra la scienza giuridica e le arti del Trivio (Sabbadini) aprono la via, vivente il poeta, alla diffusione delle prime due cantiche anche negli ambienti accademici dello Studio: le prove documentarie sopra citate tolgono ogni motivo di diffidenza, per questo rispetto, all'invito di Giovanni del Virgilio che, maestro di retorica e di poesia allo Studio, non poté ignorare, sullo scorcio del 1319, il poema che i notai bolognesi citavano già direttamente un paio d'anni prima; d'altronde la sempre migliore conoscenza dell'opera delvirgiliana convalida l'opinione prevalente che la corrispondenza fra il maestro bolognese e il poeta, anche se giunta a noi pel solo tramite del Boccaccio, non possa essere un falso del Certaldese. Il Del Virgilio vi si conferma " rappresentante notevole di quel preumanesimo che in fondo non fu altro che il primo umanesimo anteriore al Petrarca " (Kristeller); per i suoi rapporti col Mussato e col classicismo padovano, per l'ufficio ricoperto allo Studio, l'invito del maestro bolognese all'uso del latino e al rifiuto del Carmen laicum acquista il valore di un contrasto di cultura; lo sviluppo della corrispondenza mostra, poi, " non solo gli elementi di contrasto, sì anche quelli di continuità, propri di una ben precisa fase di trapasso fra due generazioni e due scuole " (Sapegno). Secondo la testimonianza di Francesco da Fiano, Pietro da Moglio, l'amico del Petrarca, maestro ufficiale di grammatica e retorica allo Studio, lesse dalla cattedra i carmi della corrispondenza (Billanovich) e ciò prova il valore ideale che l'episodio aveva ormai assunto per la cultura locale nella seconda metà del sec. XIV: quello di un incontro della vecchia retorica con la nuova poesia.

L'ambiente bolognese appare inoltre un reagente sensibilissimo all'imponente portato dottrinale della Commedia. L'acre polemica che Cecco d'Ascoli (v. STABILI, FRANCESCO), acclamato maestro dello Studio fra il 23 e il 26, esercitò verso alcune tesi dantesche, riflette un conflitto ideologico: l'Ascolano, che lascia credere di aver avuto corrispondenza con D. (Acerba II 12), avversa le idee di lui sulla Fortuna (II 1), sulla nobiltà (II 12), sulla donna (IV 9), e in un luogo - sospetto, però, d'interpolazione - appunta i suoi strali sulla figurazione stessa di Beatrice (I 2). L'insistente opposizione che fa de L'Acerba una vera ‛ Anticommedia ' non va vista come frutto di invidia presuntuosa (Carducci) né come risentimento settario verso il poeta che " s'era acconcio coi frati " (Angelo Colocci, Codice Vaticano 4831, c. 56 r), ma come reazione di chi disconosceva nella Commedia quella ‛ summa ' del sapere che vi riconoscevano proprio in quegli anni i commentatori bolognesi, non solo perché il poeta troppo spesso " finge imagìnando cose vane " (IV 12), ma soprattutto perché mostra di acquietarsi a un generico aristotelismo, senza attingere alle più sottili dottrine dell'arabismo astrologico. Lo stretto legame di tale conflitto con l'ambiente bolognese è comprovato dal fatto che Giovanni Quirini, il devoto amico di D., cerca a B. il libro avverso al poema e il bolognese Giovanni di Mettivilla lo soddisfa con parole che mostrano per il " gran toscano " un'ammirazione al di sopra di ogni attacco. Attacchi, del resto, non potevano mancare in Emilia e in Romagna, dove tanti si sentivano colpiti dal detto e anche dal non detto nella Commedia: si pensi al sonetto già attribuito a Cino, ma che pare piuttosto d'origine locale, In fra gli altri difetti del libello, dove a D. si rimproverava di non aver rivolta la parola, nel famoso episodio del Purgatorio, a Onesto da B. che stava presso Arnaldo Daniello. Più degli aspetti letterari, che s'imponevano allo stesso Cecco, era discusso il sistema politico-religioso che scaturiva dalla Commedia e dalla Monarchia: quando scoppiò la lotta fra il Bavaro e Giovanni XXII, e i partigiani del primo si fecero forti del trattato dantesco e Bertrando dal Poggetto decretò la condanna al rogo del libro, questo trovò il suo confutatore ufficiale in Guido Vernani da Rimini, lettore nello Studio generale dei domenicani a B. fra il 1310 e il 1320. Il De Reprobatione Monarchiae, steso attorno al 1329 forse per sollecitazione di Bertrando (Matteini), testimonia anch'esso di un profondo contrasto ideale.

Il trattato del Vernani è dedicato, con intenzione monitoria, a Graziolo de' Bambaglioli, il guelfo cancelliere bolognese che, nel 1324, appena due anni dopo Iacopo Alighieri, commentò in latino l'Inferno, aprendo così la serie dei commenti bolognesi al poema. Graziolo forse non conobbe l'epistola a Cangrande (F. Mazzoni) ma, in virtù della cultura aristotelico-tomistica dell'ambiente in cui si formò, riuscì a cogliere nel proemio e nelle chiose dei primi due canti alcuni valori profondi della polisemia del poema - il viaggio come morale negotium, Virgilio come ipsa contemplatio rationis, D. come agens, l'uomo come analogia entis, ecc. - senza dissolvere le immaginazioni poetiche in arida moralizzazione, come avviene a Iacopo. Ciò non di meno Graziolo, con ingenuo entusiasmo, echeggia anch'egli il famoso epitaffio delvirgiliano Dantes nullius dogmatis expers, presenta il poeta come teologo, astrologo, filosofo morale e naturale, oltre che retore e poeta, s'adopera a difendere la ‛ dottrina ' di D. dalle insinuazioni dei malevoli, come fa nel canto VII a proposito della Fortuna. Non un generico richiamo al guelfismo è la dedica del Vernani al Bambaglioli (Carducci), o, peggio, la prova di un rivolgimento di Graziolo, ma un severo ammonimento a distinguere, sotto l'ambiguo velo della favola, la verità dall'errore. Ma l'enciclopedismo dello Studio andava ormai configurando la Commedia come una Summa in versi: lo mostra il commento a tutto il poema stesso, fra il 1324 e il 1328, di Iacopo della Lana, il quale conosce l'epistola a Cangrande, ma si serve del poema come supporto a un discorso dottrinale e moralistico autonomo, impostato nel proemio ai singoli canti, in cui esercita la funzione del maestro piuttosto che dell'interprete (F. Mazzoni).

È notevole il suo ghibellinismo: il Lana aderisce senza riserve al pensiero politico dantesco ed è il primo a citare largamente la Monarchia (Schmidt-Knatz) tanto che si è pensato che il commento sia stato steso fuori della guelfa B. (Rocca); è comunque da credere che il Vernani abbia inteso rispondere anche a lui, se, come disse il Ruffini, lo sfondo delle idee del trattato dantesco è in tutta la cultura dello Studio. Allo Studio ci riconduce anche l'imolese Benvenuto Rambaldi che dal 1369 tenne scuola nelle case di Giovanni da Soncino, dove insegnavano anche Pietro da Moglio, l'aretino Domenico Accolti dantista anch'egli, Pietro da Forlì: il suo commento, derivato da corsi pubblici tenuti prima del '79, rielaborato poi a Ferrara fra il '79 e 1'83, si ricongiunge per l'uso del latino e per l'orientamento retorico alla tradizione dotta dello Studio (G. Vecchi), anche per la viva attenzione alle strutture del poema (Auerbach), ma innesta su questo tronco la nuova lettura toscana raccolta dalla viva voce del Boccaccio, che Benvenuto si recò ad ascoltare fra il 73 e il 74, e fonde tradizione e novità al fuoco di una personalità ricca di umore e di gusto, che gli ha conciliato la simpatia dei moderni. La lettura di D. assunse una tale importanza che si provvide nel 1395 a darle un corso ufficiale nello Studio, affidato a Maestro Biagio da Perugia; e forse già nel '94 Giovanni da Spoleto, lettore di rettorica nello Studio, aveva fatto lettura di D. (Livi). Ma la grande tradizione dantesca di B. " capitale centro di irradiazione e di consolidamento della fortuna della Commedia " (Petrocchi) declina dopo il Trecento.

È estremamente significativo che il grande lavoro trecentesco bolognese dia ancora frutti nel secolo XV, ma altrove: la versione e il commento del francescano riminese Giovanni Bertoldi da Serravalle, stesi a Costanza fra il 1414 e il 1418 in occasione del concilio, a dimostrazione della rispondenza del messaggio politico e religioso di D. alle aspirazioni dell'età conciliare, è filiazione, e talvolta calco, del commento di Benvenuto, di cui Giovanni fu allievo; della singolarità di nascita e destinazione di questo lavoro fa fede, del resto, l'esiguità della tradizione (Dionisotti). I prodotti della grande officina dantesca bolognese continuano a dominare fino alla seconda metà del Quattrocento: le due prime edizioni commentate a stampa della Commedia, quella veneziana del 1477 di Cristoforo Berardi da Pesaro, e quella milanese del 1478 di Martino Paolo Nidobeato portano entrambe il commento di Iacopo della Lana, la prima sotto il nome più famoso di Benvenuto, ma la seconda con la dichiarazione esplicita del nome dell'autore e dell'eccellenza del suo lavoro su tutti gli altri. La stampa della Commedia del Quattrocento nasce bolognese, al punto che Cristoforo Landino, nella dedicatoria della sua famosa edizione del 1481, dirà di aver lavorato a che D. sia finalmente " riconosciuto né romagnolo né lombardo ".

Per la fortuna di D. in Emilia, oltre alle singole voci dedicate a città (e particolarmente FERRARA; RAVENNA), a poeti ed esponenti della cultura contemporanei al poeta, ai ‛ cultori ' emiliani di D. dal XLV al XX secolo, si vedano le voci EMILIA e ROMAGNA.

Bibl. - Sulle antiche trascrizioni: A. Trauzzi, Notizia di due frammenti della " D. C. " rinvenuti a Santagata Bolognese, in " Giorn. d. " VIII (1900) 183-195 (If XX-XXI, Pg XIV, XV, XX, XXI); ID., Frammento della D. C. rinvenuto nel R. Archivio di Stato di B., ibid. IX (1901) 123-125 (If V); L. Frati, Lo studio e l'imitazione di D. e del Petrarca nei rimatori bolognesi del Quattrocento, ibid. XII (1904) 52-56; ID., Un cronista bolognese dantofilo, ibid. XVIII (1910) 147-148 (si tratta di Giacomo Ronco, primo ventennio del '400); G. Livi, D., suoi primi cultori, sua gente in B., Bologna 1918 (e cfr. recens. di E.G. Parodi, in " Marzocco " 28 aprile 1918; P. Rajna, in " Nuova Antologia " 16 genn. 1919; E. Levi, in " Giorn. stor. " LXXV [1920] 251 ss.); G. Livi, D. e B., Bologna 1921.

Censimenti di codici ed edizioni dantesche: A. Sorbelli, Indice dei codici e manoscritti danteschi, conservati nella Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio, Bologna 1921 (12 codd. dal sec. XIV al XVIII); C. Frati, I codici danteschi della Biblioteca Universitaria di B., con quattro appendici e quattordici facsimili, Firenze 1923 (17 codd. dal sec XIV al XVI); G. Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche con XLVI tavole fuori testo. Contributo ad una bibliografia definitiva, Bologna 1931; G. Petrocchi, Radiografia del Landiano, in " Studi d. " XXXV (1958) 5-27; ID., Introduzione 60-61 e 504-505; ID., La tradizione emiliano-bolognese del testo della Commedia, in D. e B. nei tempi di D., Bologna 1967, 323-330; inoltre i volumi Mostra di codici romanzi delle biblioteche fiorentine, Firenze 1957; e Mostra di codici danteschi, ibid. 1965.

Si rinvia alla bibliografia sotto le Voci Stabili, Francesco; Vernani, Guido, Per Le Opere Sulle Polemiche Antidantiste.

Sui commenti: L. Rocca, Di alcuni commenti della D.C. composti nei primi vent'anni dopo la morte di D., Firenze 1891; F. Schmidt Knatz, Iacopo della Lana und sein Comedia Komentar, in " Deutsche Dante Jahrbuch " XII (1930) 1-40; F. Mazzoni, Jacopo Alighieri e Graziolo Bambaglioli, in " Studi d. " XXX (1951) 157-202; M. Barbi, La lettura di Benvenuto da Imola e i suoi rapporti con altri commenti, in Problemi II 435-470; F. Mazzoni, I. della Lana e la crisi nella interpretazione della D.C., in D. e B., cit., 265-306; L.R. Rossi, D. and the poetic tradition in the Commentar) of Benvenuto da Imola, in " Italica " XXXII (1955) 215- 223; G. Vecchi, Motivi di poetica nel Comentum di Benvenuto da Imola, in D. e B. ai tempi di D., cit., 307-322.

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