BONIFACIO VIII Papa

Enciclopedia Italiana (1930)

BONIFACIO VIII Papa

Giorgio Falco

Benedetto Caetani discendeva per parte del padre Roffredo I da una delle più cospicue famiglie di Anagni, per parte della madre Emilia dalla nobile casa dei Patrasso di Alatri, imparentata con Alessandro IV. Nacque in Anagni intorno al 1235; fu educato in Todi presso il vescovo Pietro suo zio, nominato notaio apostolico forse sotto Innocenzo IV, canonico di Todi nel 260. Studiò, oltre che in questa città, a Spoleto, ed ebbe maestri un Angelo di Perugia, un Arnaldo e un Teobaldo doctor iuris. Si ritiene, senz'altro fondamento sicuro che la sua profonda scienza giuridica, che abbia frequentato l'università di Parigi e vi si sia addottorato in diritto civile e canonico. Nel 1264-65 accompagnò il cardinale Ottobono dei Fieschi in Inghilterra; nel 1280 col cardinale Matteo Rosso condusse felicemente le trattative fra Rodolfo d'Asburgo e Carlo I d'Angiò. Il 23 marzo 1281 fu eletto da Martino IV cardinale di San Nicola in Carcere Tulliano, conservando i larghi benefici che gli erano stati precedentemente conferiti a Todi, ad Anagni, in Francia; nel 1283 fu incaricato del non difficile compito d'impedire il duello fra Carlo I d'Angiò e Pietro d'Aragona. Condusse nel 1290 e concluse il 19 febbraio 1291 con ottimo esito le trattative per staccare Alfonso d'Aragona dal fratello Giacomo di Sicilia e per pacificarlo con Carlo d'Angiò. Nel 1291 fu eletto da Niccolò IV cardinale vescovo dei Santi Silvestro e Martino e ottenne la conferma dei benefici, grandemente accresciuti dal 1281.

Uomo di altissima ambizione e di energia indomabile, esperto giurista e canonista, ricco e potente più che per censo e per tradizione familiare, per prebende ed uffici ecclesiastici, per negoziati politici e per gli acquisti fatti in Anagni (1279), a Silvamolle in Campagna (1283-84), a Calvi nel Napoletano (1291), a Norma nella Marittima (1292), B. non rimase probabilmente estraneo all'abdicazione di Celestino V (13 dicembre 1294), e nel conclave, adunatosi nel Castello Nuovo di Napoli il 23 dicembre 1294, al terzo scrutinio, il giorno dopo, ottenne la maggioranza dei voti.

Eletto appena, mostrò di voler rompere con la debole politica del suo predecessore, revocando varie concessioni di lui, e, contro il volere di Carlo II d'Angiò, lasciando Napoli per Roma. Qui, in S. Pietro, fu solennemente consacrato e incoronato il 23 gennaio 1295. Pietro da Morrone, l'ex-papa, sperò invano di seppellirsi nuovamente nella solitudine eremitica: la sua libertà costituiva un'oscura minaccia contro la sicurezza del pontefice, che qualche voce accusava di aver usurpato la dignità papale, e che col suo imperioso governo aveva rotto le antiche clientele. Pietro fu quindi catturato dagl'inviati dell'Angioino, e consegnato a B., che prima lo fece custodire nel suo palazzo in Anagni, poi rinchiudere nella rocca di Fumone presso Alatri, dove morì il 19 maggio 1296.

Se B. mostrò fin da principio la sua indipendenza di fronte a Carlo II, non per questo si scostò sostanzialmente dalla tradizionale politica della chiesa verso l'Italia meridionale e gli Angioini nella gravissima questione della guerra del Vespro. Il re e il papa erano stretti dal comune interesse di strappare la Sicilia agli Aragonesi: l'uno per ricostituire l'unità del regno, l'altro per restaurare la signoria feudale della chiesa sull'isola. Gli accordi già avviati da Niccolò IV con Giacomo II, re d'Aragona e di Sicilia, parvero giungere a una soddisfacente soluzione per opera di B. Egli riuscì infatti a persuadere Giacomo alla rinuncia, e se ne fece strumento nella lotta nominandolo grande ammiraglio della chiesa (20 gennaio 1296) sovvenendolo nelle sue strettezze finanziarie; lo investì anche della Corsica e della Sardegna (4 e 5 aprile 1297), sebbene non potesse vantarvi diritti di sorta e per quanto la Sardegna fosse il campo aperto delle contese fra Genova e Pisa, della quale ultima egli aveva assunto per tre anni la podesteria dal 1° settembre 1296. A conclusione dell'accordo una sorella di Giacomo, Violante, andava sposa a Roberto di Calabria, figlio di Carlo II, portandogli in dote le pretese aragonesi sulla Sicilia. Sennonché nel frattempo Federico (III), fratello minore del re d'Aragona, dopo qualche esitazione di fronte alle lusinghe di B., aveva cinto la corona sicula il 25 marzo 1296, pronto a difendere l'indipendenza dell'isola contro le armi spirituali e temporali alleate, del papa, dei suoi congiunti e di Carlo d'Angiò.

Partigiani dei ribelli, prima di Giacomo ed ora di Federico, si trovavano nello stesso collegio cardinalizio: i cardinali Giacomo e Pietro Colonna, zio e nipote. L'inimicizia fra il papa e i Caetani da una parte, i Colonna dall'altra, assume d'ora in avanti un sempre più accentuato carattere politico e religioso; ma ha la sua radice in anni lontani, quando il cardinale Benedetto brigava prebende e uffici, cercava di pareggiare e superare le grandi casate cardinalizie e papali di Roma, e fronteggiava gelosamente ogni mossa dei Colonnesi a Roma, nel Lazio, in Toscana, nel Napoletano. Si trattava allora di un semplice antagonismo, di una emulazione personale e familiare, naturalmente non esente da asprezze e da urti. Tuttavia i due cardinali avevano dato il loro voto in conclave a Benedetto Caetani, l'avevano accompagnato da Napoli a Roma sicut papam et dominum, l'avevano accolto ospite nel loro castello di Zagarolo. A mutare l'antagonismo in odio e in aperta inimicizia concorsero l'indole imperiosa e violenta del pontefice, l'adesione di Pietro e Giacomo Colonna agli Spirituali, che negavano la legittimità del pontefice, le loro intese con Federico III di Sicilia, gl'interessi contrastanti delle due casate nella Marittima. Quasi come risposta ai primi acquisti fatti colà da parte di Pietro II, nipote del papa, sulla signoria degli Annibaldi, il 3 maggio 1297 Stefano Colonna assaliva e depredava sulla via Appia a due miglia da Roma, un convoglio di ottanta muletti provenienti da Anagni, carichi del tesoro papale, del valore di 200.000 fiorini d'oro; e fu il segnale della guerra. Il giorno dopo B. citò i Colonnesi a presentarsi a lui audituri quid sibi placuerit dicere et mandare, quod vult scire si papa est; e qualche giorno dopo, traendo pretesto da liti familiari per motivi d'interesse, chiese che gli fossero consegnati i castelli e i luoghi posseduti dai due cardinali e dal rispettivo nipote e fratello Stefano, specialmente i castelli della Colonna e di Zagarolo e la città di Palestrina. Al loro rifiuto, con provvedimento da lungo tempo inusitato, B. depose dalla loro dignità i cardinali, per le intese antiche e recenti con gli Aragonesi e per la condotta tirannica verso i loro congiunti, rispettivamente nipoti e fratelli (Praeteritorum temporum, 10 maggio 1297). La citazione e la richiesta di presidiare la città e i castelli, non avevano avuto altro effetto se non di persuadere i due cardinali a riparare in Palestrina: ma all'imprudente curiosità del papa i Colonnesi e, con essi, Jacopone da Todi e due altri Spirituali, risposero il 10 maggio dal convegno di Lunghezza sull'Aniene, con un manifesto in cui proclamavano l'illegittimità di B. e si appellavano a un concilio. Di questo atto essi davano comunicazione a Filippo IV di Francia, allora combattente contro le Fiandre, per mezzo di Tomaso di Montenigro, arcidiacono di Rouen, uno dei sottoscrittori della protesta.

Fuori dalle abili schermaglie il conflitto si definiva così in una questione di principio e si svelava in tutta la sua formidabile minaccia contro l'organismo politico-religioso della chiesa. Di fronte ad essa lo sdegno del pontefice non ebbe limiti: con la Lapis abscissus del 23 maggio scomunicò come scismatici i cardinali Giacomo e Pietro con tutti i fratelli di quest'ultimo e coi loro discendenti, li dichiarò infami, li privò dei loro beni, minacciò l'interdetto su tutte le terre che avessero dato loro rifugio; quindi pose mano alle armi, valendosi del volonteroso aiuto delle città guelfe e dei banchieri toscani, e ponendo a capo del suo esercito insieme con Landolfo Colonna, fratello e nemico di Giacomo, il capitano della lega guelfa toscana e della taglia dei cavalieri, Inghiramo di Biserno (settembre 1297). Falliti i tentativi d'accordo intavolati dal senatore Pandolfo Savelli, accolti in Palestrina ambasciatori aragonesi, il 18 novembre 1297 B. rinnovava la scomunica contro i Colonnesi, il 14 dicembre bandiva la crociata per il loro sterminio e nominava Matteo d'Acquasparta, generale dell'ordine dei minori e cardinale vescovo di Porto, a suo legato per la Lombardia, la Toscana e la Romagna, con l'incarico di predicare la croce contro i Colonna. Caddero così in sua mano la città di Nepi, e, con altri, i castelli di Zagarolo, della Colonna, di Arcione. L'ultima resistenza si restrinse alla capitale della signoria, Palestrina.

Non è chiaro quale fede meriti l'accusa lanciata dai Colonnesi nel processo del 1312 contro B. di aver avuto a patti Palestrina e i rimanenti castelli e di avere, contro gli accordi, distrutta quella e consegnato questi ai loro nemici; né quanto di vero vi sia nella tradizione, raccolta da Riccobaldo da Ferrara nelle sue Historie e passata nella Commedia di Dante, del consiglio frodolento di Guido da Montefeltro. Non è improbabile che i Colonnesi, ridotti a mal partito, non abbiano veduto altro scampo che nella sottomissione, e che Bonifacio, pur senza impegnarsi formalmente, abbia con il suo contegno autorizzato i ribelli a sperare nel perdono oppure nell'indulgenza.

Fatto è che nel settembre 1298, consegnati nelle mani del pontefice Palestrina con tutti i castelli, i due cardinali con Agapito e con Sciarra gli si presentarono innanzi a Rieti, e in concistoro, alla presenza di Filippo di Taranto, figlio di Carlo II d'Angiò, gli chiesero umilmente perdono delle loro colpe e lo riconobbero come legittimo papa; dopo di che ottennero grazia, e dietro suo ordine si ritrassero sotto sorveglianza a Tivoli in attesa che la controversia venisse definita. La vittoria non parve completa al pontefice senza un gesto famoso - dettato più da cieca passione che da buona politica - che sonasse vendetta e definitivo trionfo: la distruzione di Palestrina. Il 13 giugno 1299 B. poteva annunciare al mondo che aveva fatto distruggere la capitale dei Colonnesi, solcare le rovine con l'aratro, sull'esempio della vecchia Cartagine africana, spargervi sopra il sale, perché della città non avesse più né la sostanza né il nome; e che nelle vicinanze aveva fatto sorgere una nuova città, sede cardinalizia, col titolo di Civitas papalis. Fra gli assediati di Palestrina fu fatto prigioniero Iacopone da Todi, che scontò l'odio contro il pontefice con cinque anni di durissimo carcere. I Colonna, vinti e ormai delusi in ogni speranza d'accordo fuggirono il 3 luglio 1299 dal confino di Tivoli, tentarono forse un'ultima resistenza in Romagna, vissero qualche tempo raminghi qua e là in varie parti d'Italia, finché, al più tardi nel 1303, si rifugiarono in Francia.

L'invio del manifesto di Lunghezza e il rifugio alla corte francese erano ben giustificati dal contegno di Filippo IV verso B. Al principio del suo pontificato egli aveva trovato gran parte dell'Europa agitata dalla guerra tra l'Inghilterra e la Francia, aiutate soprattutto questa dagli Scozzesi, quella da Adolfo di Nassau, re di Germania e da Guido di Dempierre, conte di Fiandra, e aveva ricevuto gravi lamentele da parte del clero francese e inglese per le tasse ad esso imposte indebitamente dai due re per sostenere la guerra (1296). B. intervenne come pacificatore e come difensore delle immunità ecclesiastiche appellandosi nell'una e nell'altra questione alla suprema autorità della Chiesa nelle cose spirituali e temporali. Alle premure del papa per la pace, si oppose tenacemente Filippo IV, come ad una indebita ingerenza negli affari del regno e ad una usurpazione dei suoi diritti sovrani; più arrendevole si mostrò Adolfo di Nassau aspirante alla corona imperiale, e minacciato dai principi ribelli e da un competitore: Alberto d'Asburgo. Comunque B. riuscì nel 1295 a imporre un armistizio di un anno e a rinnovarlo per i due anni successivi nel 1296; ordinò ai tre principi di farlo arbitro della loro contesa (18 agosto 1296) e, rifiutato come papa, accettato infine come privata persona, emise la sentenza il 27 giugno 1298, ristabilendo lo statu quo ante.

Se il contrasto tra stato moderno e teocrazia era affiorato appena nei negoziati di pace, si manifestò più nettamente nella questione delle immunità ecclesiastiche, prima avvisaglia del conflitto che metterà capo alla bolla Unam sanctam e all'insulto di Anagni. Alle proteste del clero, B. rispondeva con la Clericis laicos (23 febbraio 1296), che, dopo un violento attacco contro l'ostilità e le usurpazioni del laicato verso il clero, vietava, sotto le pene più severe, agli ecclesiastici di pagare o di promettere qual si fosse sussidio, alle potestà laiche di esigerne o di riceverne senza l'autorizzazione espressa della S. Sede. Ora, mentre Edoardo I d'Inghilterra, dopo qualche resistenza, dichiarò che non avrebbe più levato tasse senza il consenso del clero (1297), Filippo emise un'ordinanza con la quale interdiceva l'esportazione dal regno d'ogni sorta di danaro e di derrate (17 agosto 1296), con l'evidente intenzione di colpire nei suoi interessi la curia papale. Di fronte all'atteggiamento del re e dei suoi fedeli, in mezzo alle difficoltà della Guerra del Vespro e della crociata colonnese, B. fu costretto a transigere a poco a poco sulla pratica esecuzione dei suoi ordini. Con la Ineffabilis amor del 20 settembre 1296, pure abbandonandosi a severi rimproveri per l'ingratitudine del re verso la chiesa, per l'oppressione dei sudditi, per le sue guerre, annunciava tuttavia spiegazioni verbali intese ad attenuare la portata del divieto; con la Romana mater del 7 febbraio 1297 autorizzava i donativi volontarî del clero a favore del re senza permesso del papa; infine con la Etsi de statu del 31 luglio 1297 dichiarava che la Clericis laicos non si applicava alle imposizioni consentite dal clero, né ai casi di necessità, di cui sarebbe stato giudice il re, e in cui questi avrebbe avuto diritto d'imporre sugli ecclesiastici inconsulto etiam Romano Pontefice. Ma l'ordinanza del re aveva dato occasione a B. di levarsi a giudice della sua opera politica e di enunciare nella sua Ineffabilis amor, sia pure in maniera meno rigorosa che non in appresso, i principî, da lui fermamente professati, della tradizione teocratica: la prerogativa accordata da Cristo alla chiesa - e per essa al pontefice - libero fidelibus populis praeesse dominio, ut velut in filios haberet more matris in singulos potestatem, ac eam cuncti cum filiali reverentia tamquam universalem matrem et dominam honorarent.

La questione più grave rimase per allora insoluta, e il segno della tregua fu dato dalla canonizzazione di Luigi IX (11 agosto 1297), dall'arbitrato del 1298, dalle trattative intavolate in quel medesimo anno fra B. e Carlo di Valois, fratello del re, con oscuri disegni e con magnifiche promesse.

Il 1300, l'anno del giubileo, sembra chiudere il primo grande periodo della vita di B. e segnare il momento più alto della sua fortuna. I Colonnesi erano vinti, pacificate fra loro Francia e Inghilterra, deposto il 23 giugno 1298 dai principi tedeschi Adolfo di Nassau, quindi ucciso il 2 luglio nella battaglia di Gellnheim, offerte al pontefice col suo successore e uccisore Alberto di Asburgo nuove opportunità di abili combinazioni politiche. Il giubileo, proclamato il 22 febbraio 1300, concedeva indulgenza plenaria a tutti coloro che durante l'anno, per trenta giorni se cittadini, per quindici se forestieri, visitassero le basiliche di San Pietro e di San Paolo. Si fa ascendere a 200.000 il numero dei forestieri presenti in Roma in quel periodo, e a 1000 libre di provisini del senato - dalle 80 alle 100.000 lire - la somma delle offerte giornaliere, somma senza dubbio ragguardevole, non certo esuberante di fronte alle necessità del tesoro papale e alle spese della guerra siciliana. In quei giorni i Fiamminghi, lagnandosi che Filippo IV avesse tratto a suo vantaggio e a loro danno l'arbitrato del 1298, e invocando l'aiuto del papa, lo salutavano come sovrano del re di Francia nello spirituale e nel temporale; e il 6 gennaio 1300 Matteo di Acquasparta predicando avanti al papa e alla sua corte sosteneva la tesi che "egli solo è sovrano temporale e spirituale al di sopra di tutti quali essi siano, in luogo di Dio".

Questo momento di trionfo, e di stasi, è più un'illusione che una realtà. La guerra siciliana era stata proseguita con accanimento, ma senza esito definitivo: il 4 luglio 1299 le flotte di Giacomo e di Federico s'erano scontrate a capo Orlando, e i Siciliani erano stati sconfitti da Ruggero di Lauria con gravissime perdite; il 1° dicembre Filippo di Taranto, figlio di Carlo II, era stato vinto e fatto prigioniero nei piani della Falconara in Sicilia. Disperato ormai di vincere con le armi dell'Aragonese e degli Angioini, B. condusse innanzi con maggior energia le trattative con Filippo IV e con Carlo di Valois per una spedizione di quest'ultimo in Sicilia. Ad attrarli nei suoi disegni e a sollecitare l'aiuto finanziario del re, egli fece balenare agli occhi di Carlo la speranza della corona imperiale bizantina - forse anche dell'impero occidentale - e a lui, rimasto vedovo il 31 dicembre 1299 di Margherita, figlia di Carlo II, diede in isposa poco dopo Caterina di Courtenay, erede del titolo imperiale bizantino. Come termine per la spedizione fu stabilito dapprima il 16 novembre 1300, poi, dietro richiesta di Filippo, il 2 febbraio 1301. Un'altra urgente ragione moveva B. a stringersi con la casa di Francia, cioè il pericolo di quell'alleanza fra Alberto di Asburgo e Filippo, che, conclusa nel dicembre 1299 a Vaucouleurs, minacciava di esporre senza scampo la chiesa a un nuovo attacco dell'impero in Italia. Traendo abilmente partito dalle circostanze, B. cercò allora di negoziare il riconoscimento di Alberto sulla base della cessione della Toscana imperiale e della subordinazione dell'impero alla chiesa.

Le relazioni di B. con la Toscana risalivano ad anni lontani: là presso, in Orvieto, egli era stato educato in gioventù, e la città a lui devota e ricordata sempre con affettuosa riconoscenza, gli era servita in seguito come sentinella avanzata verso la regione vicina. Ancora cardinale era stato nominato da Niccolò IV alla carica di procuratore per il governo e la difesa della contea di Sovana, feudo della chiesa, a favore di Margherita Aldobrandesca (10 luglio 1291), ed aveva saputo poi trarre a vantaggio dei suoi la difficile successione, unendo in matrimonio nel 1296 la matura ereditiera, vedova di due mariti, col suo pronipote Roffredo III. L'aiuto largo e volenteroso prestato da Firenze e dalle città guelfe di Toscana alla guerra colonnese ci illumina sugl'interessi, in ampio senso, onde le democrazie cittadine erano strette al papato e al Reame, sull'allarme che destava il sorgere nell'Italia meridionale di una dinastia aragonese, erede della tradizione degli Hohenstaufen; e ci mostra nel tempo stesso come il conflitto, se mai era stato strettamente personale e familiare, rispondesse ormai a ragioni storiche più vaste e profonde e complesse di quanto non abbiano fatto pensare l'avidità e l'ambizione di Bonifacio.

Altrettanto va detto per le trattative con Alberto, che derivavano da troppe e troppo varie ragioni perché sia lecito vedervi semplicemente un'astuzia nepotistica. Il papa poggiava la sua richiesta sia sulla plenitudo potestatis della chiesa - alla cui concessione l'impero andava debitore della sua potenza - sia su considerazioni pratiche, quali le violente lotte di parte che minacciavano e agitavano il vicino Patrimonio, o il pericolo di un ritorno offensivo dell'impero, contro il quale la Toscana, ceduta alla chiesa, avrebbe potuto opporre una salda resistenza. Al che, volendo, possiamo aggiungere la solidarietà economica e politica coi banchieri toscani e qualche oscuro disegno d'ingrandimento familiare, cioè, secondo le voci che correvano in curia, la costituzione di un regno di Toscana - o di Sicilia - a favore del nipote del papa, Pietro, marchese della Marca d'Ancona. Da parte di B. i negoziati erano ancora in pieno sviluppo il 13 maggio 1300, quando da Anagni accreditava a questo scopo il vescovo d'Ancona presso il duca Alberto di Sassonia, ma fallirono per allora contro la resistenza opposta dal re alla cessione.

Mentre duravano le trattative, il papa conduceva un'azione parallela per irretire Firenze appoggiandosi ai magnati, contro il popolo, nelle cui mani era il governo cittadino e che faceva capo ai Cerchi. Le manovre di B. ebbero per effetto di rianimare le discordie, di avvicinare la parte dei Cerchi ai Ghibellini, di spingere la signoria ad apprestare le difese. Il 18 aprile 1300 tre fiorentini residenti alla corte papale: Simone Gherardi degli Spini, Noffo Quintavalle e il notaio Ser Cambio furono condannati come rei di macchinazioni contro la città. Scoppiò così un gravissimo conflitto giurisdizionale, chiedendo B. la revoca del processo e della condanna in virtù della supremazia papale e del vicariato di Toscana, a lui spettante per la vacanza dell'impero, rifiutandosi i Fiorentini di sottostare alla pretesa, e deliberando i Consigli speciali provvisioni per impedire ogni ingerenza papale nella giurisdizione cittadina (13 giugno). Frattanto, dopo uno scontro sanguinoso tra Cerchi e Donati nel calendimaggio, Matteo d'Acquasparta, nominato legato per la Toscana, la Romagna, la Lombardia e Genova (13 maggio), era venuto in città con l'ufficio di pacificatore e s'era adoprato per metter fine alle lotte di parte e per far revocare i processi e le provvisioni. Fallitogli l'intento, fatto segno egli stesso a un attentato, se ne partì sulla fine di settembre alla volta di Bologna, dopo aver lanciato la scomunica contro i magistrati e i membri dei Consigli, e contro singoli cittadini (29 settembre). Un'ambasciata fiorentina (11 novembre 1300) parve ammansire alquanto il pontefice; ma non erano trascorsi venti giorni, quando in un manifesto al clero francese, imponendo una decima in sussidio della spedizione di Carlo di Valois, B. dichiarava apertamente ch'essa aveva per iscopo non solo la riconquista della Sicilia, ma anche la soggezione della Toscana e, in genere, di tutti i ribelli d'Italia, come preparazione alla crociata (30 novembre).

Carlo, giunto il 2 settembre 1301 in Anagni dove risiedeva il papa, vi fu nominato il giorno dopo capitano generale di tutte le terre della chiesa, paciere in Toscana, rettore di Romagna, marchese della marca d'Ancona e duca del ducato di Spoleto. Entrato in Firenze il 1° novembre tra lo smarrimento dei Bianchi al governo, divenne volenteroso strumento della riscossa dei Neri, fautori di B.; dopo la vittoria dei quali, senza aver raggiunto lo scopo, se ne partì per la spedizione di Sicilia (aprile 1302).

Né più fortunata fu l'impresa siciliana, a cui parecchie case di mercanti fiorentini erano interessate e a cui Firenze e altre città della Toscana contribuirono con sussidî pecuniarî. Infatti, sia le difficoltà della guerra sia soprattutto l'inasprirsi del conflitto tra Filippo IV e Bonifacio e la vittoria riportata dai Fiamminghi a Courtras persuasero Carlo alla pace, conclusa in Caltabellotta il 29 agosto 1302 e giurata il 31. Per essa, contro le aspirazioni papali e senza alcuna intesa col pontefice, Federico sposava la figlia di Carlo II, Eleonora, e otteneva la Sicilia col titolo regio vita natural durante, dopo di che l'isola doveva ritornare agli Angioini. Solo l'anno successivo, con qualche riluttanza, B. s'indusse al riconoscimento del re, a patto che giurasse il vassallaggio alla chiesa.

La plenitudo potestatis, la supremazia della chiesa, è il principio al quale si appella costantemente B. nei conflitti contro le potestà laiche, e la stessa insistenza del richiamo dimostra come ormai il principio fosse tutt'altro che incontrastato. In realtà l'edificio teocratico di Innocenzo III minaccia rovina d'ogni parte. Contro Erich VIII di Danimarca che aveva imprigionato Giovanni Grand, arcivescovo di Lund, per estorcergli danaro (1294), B. non ottenne che una mezza e molto tarda vittoria (1302). Il suo tentativo d'imporre come re d'Ungheria Carlo Roberto, nipote della regina Maria di Sicilia (1300), fallì di fronte alla resistenza degli Ungheresi, che rimasero fedeli ad Andrea II e, alla sua morte, gli diedero come successore Ladislao V, figlio di Venceslao II, re di Boemia. Né la sua opposizione poté impedire che lo stesso Venceslao salisse, in luogo del deposto re Ladislao, sul trono di Polonia, apostolica sede contempta, ad quam provincie Polonie pertinere noscuntur (1302).

L'episodio saliente è il secondo conflitto con Filippo il Bello. L'alleanza di Filippo con Alberto d'Asburgo, le sue relazioni coi Colonna, l'oppressione fiscale verso il clero e la violazione delle immunità ecclesiastiche, avevano contribuito a mantenere il dissidio. A dare il tracollo sopraggiunse l'arresto e la condanna per alto tradimento di una creatura del papa, Bernardo Saisset, vescovo di Pamiers. B. di rimando ordinò la sua immediata liberazione perché venisse a giustificarsi a Roma, revocò i privilegi concessi con la Etsi de statu del 31 luglio 1297 (Salvator mundi, 4 dicembre 1301), mosse una severa requisitoria contro la persona e la politica del re (Ausculta fili, 5 dic. 1301) e indisse a Roma per il 1° novembre 1302 un sinodo del clero francese - a cui il re stesso era invitato - al fine di facere et ordinare que ad honorem Dei et Apostolice Sedis, augmentum catholice fidei, conservationem ecclesiastice libertatis, ac reformationem regis et regni, correctionem praeteritorum excessuum et bonum regimen regni eiusdem viderimus expedire (Ante promotionem, 5 dicembre 1301).

Questi formidabili propositi riposavano, per dichiarazione espressa del papa, sul mandato divino, che l'aveva posto super reges et regna, sulla doverosa subordinazione del re alla suprema giurisdizione della chiesa. Filippo liberò il Saisset; ma, convocata a Parigi il 10 aprile 1302 una dieta di rappresentanti dei nobili, del clero e delle città, fattavi leggere una copia falsificata dell'Ausculta fili, in cui erano ingrandite e inasprite le pretese papali, ottenne, volonterosamente dalla nobiltà e dal terzo stato, con qualche esitazione dal clero - a cui fu vietato di partecipare al sinodo romano - la promessa di difendere col sangue e con gli averi la corona nella giusta lotta contro Bonifacio.

Agli ambasciatori francesi, venuti a Roma a comunicare le deliberazioni dei tre ordini, nel concistoro del 24 giugno 1302, prima Matteo d'Acquasparta, poi il papa, con più rude linguaggio, ma con qualche sostanziale attenuazione, esposero quale fosse in proposito il sentimento della chiesa: due potestà ordinate da Dio, soggezione di tutti i fedeli al pontefice ratione peccati; diritto quindi da parte della chiesa di sorvegliare i principi, di chieder conto delle loro azioni, di condannare i colpevoli. L'ordine di convocazione del concilio fu confermato e minacciata al re la deposizione se non si fosse ravveduto.

In realtà il sinodo romano, inaugurato il 30 ottobre, nulla deliberò intorno al governo del regno, e la questione fu affidata a trattative dirette tra il re e il cardinale francese Lemoine, legato di B. Unica grande manifestazione, piuttosto papale che conciliare, fu la bolla Unam sanctam del 18 novembre 1302, nella quale venivano solennemente definiti i diritti del romano pontefice. Se infatti la formula finale (Porro subesse Romano pontifici omni humane creature declaramus, dicimus et diffinimus omnino esse de necessitate salutis) può sembrare alquanto vaga e remota dalla realtà della lotta, gli argomenti su cui essa si fonda - non nuovi nella tradizione cattolica, ma qui composti in un'organica unità - affermano con la più implacabile chiarezza che alla chiesa spettano le due spade, da esercitarsi, la spirituale dalla chiesa e per mano di sacerdote, la temporale pro Ecclesia, manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam sacerdotis; e che il potere civile è distinto dall'ecclesiastico, ma ad esso subordinato.

Poiché si protraevano senza effetto i negoziati del Lemoine, il 13 aprile 1303 B. fece notificare al re ch'era scomunicato per lo impedimento posto alla venuta degli ecclesiastici al sinodo. Cercò nel tempo stesso di isolarlo e di spingergli contro Edoardo I d'Inghilterra e Alberto d'Asburgo. Se non poté impedire l'alleanza franco-inglese contro di lui (1303), ebbe miglior fortuna con Alberto, sempre in attesa del riconoscimento papale, e geloso di conservare all'impero i territorî situati alla sinistra del Reno e alla destra del Rodano, su cui aveva posto o stava per porre le mani Filippo. Il 30 aprile egli fu riconosciuto re dei Romani e futuro imperatore, rinunciando all'alleanza francese, riconoscendo a sua volta il trasferimento dell'impero dai Greci ai Romani per parte della chiesa, e la concessione da essa fatta ai principi tedeschi di eleggere il re dei Romani; giurando obbedienza al papato e impegnandosi per un quinquennio a non inviare vicarî imperiali né in Lombardia né in Toscana. Il 31 maggio otteneva inoltre che le terre contestate fossero sciolte da ogni obbligo assunto a danno dell'impero verso Filippo.

Si venne così alla rottura aperta. In una solenne assemblea di nobili, di ecclesiastici e di giuristi, convocata dal re e tenuta a Parigi il 13 e il 14 giugno, furono mosse contro B. le accuse più infamanti: eresia, simonia, magia, omicidio, furto, incesto, sodomia; e in base a tali accuse, considerandosi la chiesa priva del legittimo capo, fu deliberato l'appello a un concilio, davanti al quale il falso papa doveva essere costretto a presentarsi. Messaggeri del re corsero l'Italia ad annunciare la deliberazione; mentre il vice-cancelliere Guglielmo di Nogaret si adoprava per condurla ad effetto, stringendosi con Sciarra Colonna e con l'aristocrazia anagnina e della Campagna, spodestata dal nepotismo del pontefice. All'attacco francese B. rispose il 15 agosto con la Nuper ad audientiam, minaccioso preannuncio della sentenza definitiva; la quale, redatta nella Super Petri solio, doveva esser lanciata l'8 settembre dalla cattedrale di Anagni, e dichiarare il re scomunicato, sciolti i sudditi dal giuramento di fedeltà.

Se non che il giorno innanzi, prima dell'aurora, per le porte aperte dal tradimento, Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna con le loro milizie entrarono in Anagni; ottennero la resa, a patto della vita, del marchese Pietro Caetani e dei suoi figli, Roffredo e Benedetto; presero di forza il palazzo papale, ne saccheggiarono il tesoro e s'impadronirono della persona del pontefice, superbamente risoluto a voler piuttosto morire "per la fede del suo signore Gesù Cristo", che a rinunciare alla tiara. Al terzo giorno, una improvvisa sollevazione dei cittadini mise in fuga gli assalitori; il 16 settembre il papa lasciò Anagni diretto a Roma, dove sopravvisse sino all'11 ottobre 1303, col corpo affranto, con l'animo straziato dalla passione e dai ricordi.

Nel governo dello Stato della Chiesa, B. seguì in genere una politica favorevole ai comuni e alle democrazie cittadine, come dimostrano le costituzioni Romana mater del 26 settembre 1295 per la Campagna e Marittima, la Licet merum del 1299 per il patrimonio in Tuscia, la Caelestis Patris del 1303 per la Marca d'Ancona; intese tutte a difendere le autonomie comunali contro gli abusi dei rettori. Non altrimenti dai suoi predecessori e successori, ma in più larga misura, assunse come privata persona, a tempo o a vita, le supreme magistrature nelle città dello Stato pontificio - a Roma, Orvieto, Corneto, Toscanella, Velletri, Terracina, Veroli - per assicurarvi la pace o per trarne danaro, per farsene strumento alla sua politica o per promuovere l'ingrandimento familiare.

La politica familiare di B. è uno degli aspetti più singolari della sua attività. Nato, sia dal sentimento del sangue, potentissimo in lui, sia dal bisogno, come cardinale, di gareggiare con le case rivali, come papa, di garantirsi mezzi sicuri e persone fedeli, il suo nepotismo, pur fondandosi sull'astuzia e sulla violenza, è nelle forme scrupolosamente legalitario, e pur movendosi lungo la linea della grande politica della chiesa, ne rimane distinto; tanto che i Caetani non partecipano né alla guerra, né al bottino colonnese. Il fratello, i nipoti, i pronipoti furono docile strumento nelle mani del papa, per lui podestà nei comuni, rettori nelle provincie. E ad essi, con operosità senza tregua, con somme ingenti di danaro, con abili negoziati matrimoniali, col favore più o meno spontaneo di Carlo d'Angiò e delle città toscane, riuscì a dare uno stato. Alla sua morte il nipote Pietro era conte di Caserta e signore di varî castelli nel regno, signore inoltre di molti luoghi della Campagna e della Marittima, della fortezza di Capo di Bove e della Torre delle Milizie in Roma; al cardinal Francesco, fratello di Pietro, era assicurata una più ristretta signoria nella stessa Campagna e Marittima; dei figli di Pietro, Roffredo III aveva raccolto l'eredità dei conti di Fondi; Benedetto era stato investito del contado aldobrandesco. Se, come vien detto, B. nutrì poi per i suoi congiunti speranze diverse e più ambiziose, esse non furono né compiute, né dichiarate esplicitamente.

Si deve all'iniziativa di B., espertissimo giurista, la compilazione del Liber Sextus, contenente le decretali emanate dai pontefici dopo Gregorio IX. È merito suo aver dato impulso alla cultura con la restaurazione dell'università di Roma (1303), fondata da Carlo I d'Angiò (1265) e con la fondazione delle università di Avignone e di Fermo.

Fu di alta statura, di complessione robusta, con fronte ampia, grandi sopracciglia, espressione del viso severa. Sofferse per lunghi anni, e più verso la fine della vita, del mal della pietra, ch'egli curava con le acque d'Anticoli e con un prodigioso sigillo d'oro applicato alle reni. Nativo di Campagna, parve serbare della sua origine il contegno rude, la franca e vivace intemperanza di linguaggio. Alla vita spregiudicata, ma non corrotta, a queste manifestazioni esteriori di una natura impetuosa, imperiosa, talvolta brutale, egli dovette in parte le accuse, non giustificate, di immoralità e di eresia che risonarono nell'assemblea parigina del giugno 1303 e nel processo d'Avignone. Fu di grande animo, avido, ambizioso, superbo, tutto versato nell'azione: fra coloro che lo avvicinarono non distinse che amici o nemici, con gli uni nepotisticamente generoso, con gli altri inesorabile. In un mondo mutato fece l'ultimo esperimento di un'inflessibile teocrazia papale; i suoi stessi errori, la sua stessa energia valsero a precipitare la crisi e a promuovere la nuova coscienza politica europea. (V. tavv. LXXVII e LXXVIII).

Bibl.: W. Drumann, Geschichte Bonifacius des Achten, Koenigsberg 1852; L. Tosti, Storia di Bonifacio VIII, Roma 1886; R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlino 1912, III, p. 1 segg.; G. Caetani, Caietanorum Genealogia, Perugia 1920; id., Domus Caietana, parte 1ª e 2ª, San Casciano Val di Pesa 1927; E. Finke, Aus den Tagen Bonifaz VIII, Münster 1902; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, Stoccarda 1893; Zöpffel-Hauck, Bonifaz VIII, in Herzog, Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, 3ª ed., III, p. 291 segg.; XXIII, p. 249 seg., e rimandi ivi; H. Hemmer, Boniface VIII, in Vacant-Mangenot, Dictionnaire de Théologie Catholique, II, col. 991 segg. e rimandi ivi; J. Rivière, Le problème de l'Église et de l'État au temps de Philippe le Bel, Lovanio-Parigi 1926, e rimandi ivi, p. 442 segg.; F. Ruffini, Dante e il protervo decretalista innominato, in Memorie della R. Acc. delle scienze di Torino, s. 2ª, LXVI (1928), parte 2ª, p. 1 segg.; P. Fedele, Per la storia dell'attentato d'Anagni, in Bullettino dell'Ist. stor. ital., n. 41 (1921); id., Rassegna delle pubblicazioni su Bonifacio VIII e sull'età sua degli anni 1914-1921, in Archivio della R. Società Romana di storia patria, XLIV (1921); G. Falco, Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani, in Rivista storica italiana, XLV (1928), p. 225 segg.

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