BREVIARIO

Enciclopedia Italiana (1930)

BREVIARIO

E. Cas.
T. D. M.

. Il nome "breviario" (lat. breviarium) significa compendio" e, in senso derivato, "estratto, catalogo, inventario". Già usato nel linguaggio teologico (per esempio, breviarium fidei), amministrativo (breviarium imperii di Augusto), giuridico (breviarium extravagantium [v. compilationes antiquae], breviarium Alarici; breviarium canonum; breviarium regularum), in liturgia significò dapprima (secoli IX-XI) un elenco delle regole per la celebrazione delle messe e degli uffici divini.

Breviario romano. - È il libro liturgico nel quale si contiene l'intero ufficio divino secondo il rito romano, ossia quel metodo ordinato secondo cui la chiesa romana vuole che i suoi ministri lodino e preghino oralmente Dio in determinate ore di ogni giorno a nome di tutta la Chiesa. Alcuino (morto nell'804) chiamò "breviario" una specie di ufficio divino da lui compendiato a uso dei laici. Con la fine del sec. XI appaiono i breviarî nel nostro senso, cioè di raccolta compendiosa di brani della Scrittura, d'inni, di orazioni liturgiche, ecc., uniti al Salterio per la recita più comoda dell'ufficio divino, che aveva finito con esigere una piccola biblioteca (Bibbia, Antifonario, Passionario e Legendario, Sermonario, Omiliario, ecc.). I più antichi breviari noti son dovuti ai benedettini cassinesi: i più importanti furono quelli della corte romana (breviaria de camera, secundum usum romanae curiae) fissatisi almeno a partire dai tempi d'Innocenzo III (1198-1216).

Per conoscere i varî elementi del breviario, bisogna conoscere il valore dei varî elementi dell'ufficio divino che il breviario compendiò in sé. E prima di tutto le ore della preghiera. Spontaneamente la giornata ammette 3 grandi divisioni: mattina, mezzogiorno e sera. Il bisogno di più accurata divisione del tempo portò già gli antichi a dividere la giornata in 12 ore: il levar del sole ne indicava la prima; il tramonto o vespro la dodicesima; il mezzogiorno la sesta; queste, con le intermedie terza e nona, divennero le più nominate anche negli usi civili. Nel culto ebraico v'erano due sacrifici: mattutino e vespertino, con recita di salmi. I primi cristiani di Gerusalemme, secondo gli Atti degli Apostoli, frequentavano quotidianamente il tempio, e praticavano riunioni nelle case private per compiere la fractio panis (Eucaristia). L'ora terza era stata santificata per i cristiani dalla discesa dello Spirito santo e dalla condanna di Cristo; l'ora sesta dalla crocifissione, e dalla visione di Pietro, simbolo dell'ammissione dei Gentili alla Chiesa; l'ora nona dalla morte di Cristo e dal miracolo di Pietro alla Porta Speciosa del Tempio (secondo le narrazioni dei Vangeli e degli Atti). Usi pubblici e ricordi cristiani portavano quindi i fedeli a pregare soprattutto in queste ore. Tuttavia era difficile che potessero così spesso adunarsi, impossibile poi quando scoppiarono le persecuzioni. Troviamo infatti attestate e raccomandate nei secoli II-III (Clemente Alessandrino, Origene, Tertulliano, Cipriano) le preghiere di terza, sesta e nona, ma come divozione privata e di consiglio, contrapposta a quella obbligatoria alla levata del sole e al tramonto. Neanche questa però importava riunione dei fedeli ogni giorno. Tale riunione si faceva invece la domenica (già attestata in Atti, XX, 7, e più tardi in altri documenti) per l'offerta del sacrificio eucaristico: "sinassi" (δύναξις) ossia "riunione" eucaristica o liturgica. Sempre per le difficoltà di riunione e forse anche per comodità dei cristiani schiavi o lavoratori, il culto cristiano impiegò di preferenza le ore notturne. Sorsero così le vigilie domenicali, massima tra queste la pasquale, che forse anche precedette le altre e le modellò: la notte di Pasqua era quella "beata notte che sola meritò di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo risorse vittorioso da morte" (Preconio pasquale); la domenica era il giorno "primo della settimana", in cui appunto il Signore risorse. La vigilia pasquale e in genere le vigilie dovettero dapprima occupare l'intera notte, donde il nome di παννυχίς dato in greco alle vigilie; ma ragioni pratiche indussero a incominciare la vigilia non prima della mezzanotte, e di solito al "gallicinio". Si aggiunsero presto alla vigilia domenicale le vigilie dei giorni di digiuno, o stazioni, e le vigilie presso le tombe dei martiri nei cimiteri in occasione delle loro feste annuali: vigilie stazionali e vigilie cimiteriali. Non sempre tali sinassi "antelucane" (già menzionate nel sec. II-III) erano connesse con la celebrazione del sacrificio, ma miravano talora solo a lodare Dio e ad edificarsi: "sinassi aliturgiche" o semplicemente "eucologiche" (da εὐχή "preghiera"). Allo spuntare dell'alba si amava lodar Dio con salmi adatti all'ora e col cantico Benedicte o con i salmi finali del Salterio, nei quali tutte le creature sono invitate a lodare il Signore: da ciò il nome di laudes matutinae dato a tale preghiera, che coronava la vigilia. Come ricordo dell'antico uso della παννυχίς, o dell'uso ebraico della riunione sinagogale del venerdì sera (inizio del sabato), si ebbe anche una sinassi eucologica all'inizio della notte vigiliare, all'accensione dei lumi: onde il nome di vespro o lucernare (λυχνικόν).

Nel sec. IV la pace concessa alla Chiesa permette ai fedeli di accorrere liberamente a pregare nelle basiliche; d'altra parte lo sviluppo preso dal monachismo, che prega in comune alle ore di terza, sesta, nona, e celebra vigilie quotidiane (vigilie feriali), tende a rendere preghiera pubblica le ore suddette e quotidiani i notturni, soprattutto quando i monaci vengono ammessi ad assicurare il servizio eucologico divino nelle basiliche, per accrescerne lo splendore o per supplire al clero scarso o troppo impegnato nel ministero. Questo avviene ad Antiochia verso il 350, quando il vescovo Leonzio ammette all'ufficiatura nella cattedrale gli asceti della confraternita di Diodoro; da Antiochia l'uso si diffonde in Oriente, e attraverso Milano in Occidente; il massimo sviluppo pare si sia avuto a Gerusalemme (v. la descrizione dell'ufficiatura nella Peregrinatio Silviae, del 385-388); a Roma si cominciò nel sec. V, elevando monasteri basilicali, per esempio quello ad catacumbas, ossia a S. Sebastiano, ai tempi di papa Sisto III (432-440), quello a S. Pietro sotto S. Leone Magno (440-461), e altri. Nel sec. IV si fissarono i salmi e le lezioni dell'ufficio notturno; l'uso di unirvi immediatamente le lodi mattutine portò la recita di queste fino a due ore prima del mattino. Dopo tali lodi in Siria e Palestina si concedeva ai monaci un po' di riposo; affinché però questo non venisse prolungato fino a terza e il ridestarsi fosse santificato dalla preghiera comune, s'introdusse alla fine del sec. IV in un monastero di Betlemme un nuovo mattutino che poi si disse ora di prima; anche tale ora si diffuse rapidamente, eccetto presso i monaci d'Egitto che tennero a lungo l'uso di riunirsi solo per l'ufficio nottumo (vespro, notturno e lodi), lasciando a ciascuno in privato la preghiera diurna. Finalmente, nella seconda metà del sec. IV, si fa cenno qua e là (nelle Regulae di S. Basilio, nel De virgin. di S. Ambrogio) a una preghiera immediatamente prima del riposo dei monaci e delle vergini, staccata dai vespri, e che ha dato origine all'ἀπόδειπνον, ossia al "dopo cena" dei Greci e alla compieta degli occidentali (S. Benedetto, monasteri gallicani; sec. VI). Quest'ora però, come la prima, rimase a lungo piuttosto di tipo privato, e molti monasteri nel sec. VIII la dicevano ancora in dormitorio o nella loro sala capitolare. Il clero diocesano intanto, soprattutto col moltiplicarsi delle chiese a lui affidate e nelle quali il popolo desiderava ritrovare l'ufficiatura quotidiana, dovette ad essa sobbarcarsi almeno entro certi limiti. Giustiniano nel 529 lo obbligava quotidianamente a cantare i vespri, i notturni e le lodi; similmente i concilî gallicani e spagnoli del sec. VI impongono gli "uffici vespertini e mattutini"; si noti l'inizio del passaggio del nome di mattutino al notturno; Roma, ancora alla fine del sec. VI e all'inizio del VII (Liber diurnus), non imponeva che l'ufficio quotidiano dal gallicinio al mattino. L'accorrere dei fedeli a Roma e in particolare a S. Pietro, rese l'ufficiatura di questa basilica (servita dai monaci e quindi con l'ufficio diurno completo) modello per le altre in Roma e fuori. Si giunge così a Pipino e Carlomagno, che favoriscono quell'unificazione per cui l'ufficiatura della maggior parte dell'impero carolingio si fa romana, come era già per l'Inghilterra evangelizzata dai monaci romani.

Già presso gli Ebrei il Salterio era il libro della preghiera per eccellenza, e, specialmente dopo l'esilio babilonese, si erano venuti fissando salmi per i diversi sacrifici, feste e giorni (v. i "titoli" di varî salmi). Nelle sinagoghe si cantavano i salmi, si leggevano la Legge e i profeti, si facevano discorsi, si recitavano preghiere. Tutto questo troviamo passato negli usi della Chiesa fin dai primi tempi, attestato da numerosi passi sia del Nuovo Testamento sia dei più antichi scrittori cristiani: salmodia, letture dalla scrittura, orazioni, sermoni od omilie, formavano il contenuto primitivo delle sinassi cristiane; aggiungendovi l'offerta eucaristica, si ha la messa; non aggiungendola, si avrà il notturno (simile alla prima parte della Messa, fino all'offertorio), sul quale sono modellate le altre ore. L'ordinamento della recitazione, che prima era libero, più tardi venne fissato stabilmente. Si possono seguire tali fissazioni attraverso le Costituzioni apostoliche (v. apostolo), le Istituzioni di Cassiano (v.), che dànno gli usi dei monaci d'Egitto, Siria e Palestina, e ci fanno conoscere quelle introdotte da lui nei suoi monasteri di Marsiglia, la Regola di S. Benedetto (v.) e di S. Colombano (morto nel 615), il Liber diurnus, i Decreti conciliari, ecc. Diamo qualche esempio. Il minimo di fisso si ha nelle Costituzioni apostoliche, II, 59: "alla riunione mattutina, il Salmo LXII, Deus, Deus meus, ad te de luce vigilo; a quella della sera il CXL.... Dirigatur oratio mea sicut incensum in conspectu tuo, elevatio manuum mearum sacrificium vespertinum". I monaci egiziani e i palestinesi usavano nelle vigilie feriali 12 salmi (nelle domenicali 20), un'orazione dopo ciascun salmo, l'alleluia dopo il 12°, due lezioni dalla Scrittura (Antico e Nuovo. Testamento, di solito), orazione finale del superiore. La tendenza dei monaci di Cassino e di S. Colombano fu piuttosto ad ampliare; S. Benedetto e la chiesa di Roma (S. Gregorio Magno ne riassume l'opera) tennero una via di mezzo. Il contenuto dell'ufficio romano dei tempi di Carlomagno ci è dato da Amalario di Metz (morto circa nell'850), da S. Benedetto d'Aniano (morto nell'821), dai più antichi e puri Ordines romani, ecc. Vi si vede l'ufficio de tempore feriale e domenicale, cioè la preghiera del giorno come tale, in cui si prega per il dovere abituale, non per un ricordo speciale connesso col giorno.

Fuso con l'ufficio de tempore è l'ufficio di quelle feste che sono state il cardine dell'anno liturgico, cioè il gruppo pasquale con la sua preparazione e il suo compimento (quaresima, settimana santa, Pasqua e tempo pasquale, Pentecoste), e il gruppo natalizio (Avvento, Natale, Epifania). Nella struttura del notturno appaiono quattro tipi: a) ufficio Ieriale: 12 salmi seguiti da 3 lezioni; b) ufficio domenicale, diviso. in 3 notturni, il primo di 12 salmi più 3 lezioni, il 2° e il 3° ciascuno di 3 salmi più 3 lezioni; c) ufficio festivo: 3 notturni ciascuno di 3 salmi più 3 lezioni; d) ufficio pasquale: un notturno di 3 salmi con 3 lezioni. La brevità di quest'ultimo era dovuta alla lunghezza delle funzioni che avevano occupato una gran parte della vigilia pasquale.

Oltre l'ufficio de tempore vi è quello dei santi. Il culto liturgico dei santi era in antico celebrato quasi solo là ove era il loro corpo, o almeno qualche loro memoria concreta. Anche per i santi l'ufficiatura originale era quella della notte (vigilie cimiteriali). Gregorio III (731-741) eresse in S. Pietro un oratorio a tutti i santi; ivi i monaci addetti alla basilica dovevano recarsi ogni giorno a recitare 3 salmi seguiti da lezioni scritturali e da un'orazione in onore del santo di cui ricorreva l'anniversario. Adriano (772-795) ordinò che si leggessero le Passioni o le Vite dei santi; era un piccolo ufficio aggiunto, già preparato dalle commemorazioni degli anniversarî dei santi prescritte dalla Regola benedettina: esso cominciò a togliere al culto dei santi il suo carattere locale. Alla fine del sec. VIII le feste dei santi son distinte in maggiori e minori; nelle maggiori l'ufficiatura era ispirata al tipo festivo. A Roma inoltre vi era "doppio" ufficio notturno o vigiliare: uno feriale e uno del santo; l'uno era detto alla sera precedente poco dopo i vespri, l'altro a mezzanotte. Fuori Roma l'ufficio feriale divenne facoltativo e poi fu soppresso, il che pure si fece a Roma dopo il sec. XIII; restò tuttavia il nome di "ufficio doppio" a indicare il grado della festa. Inoltre il trasporto d'un ufficio vigiliare alla sera precedente occasionò il passaggio del nome di vigilia al giorno previo alla festa, e fu la prima radice della facoltà di recitare la sera precedente il mattutino e le lodi del domani. Presto si fissarono i Comuni dei santi (apostoli, martiri, confessori, vergini), ricavandoli generalmente dal Proprio dei santi più celebri di quella categoria, per es. i Ss. Pietro e Paolo per il Comune degli apostoli; S. Agnese per quello delle vergini, ecc. Le feste minori conservavano il salterio feriale, il resto era del santo. La struttura delle altre Ore s'ispira a quella del notturno, abbreviandolo: cioè salmodia (5 salmi fissi per le lodi e i vespri, 3 per le altre Ore, nelle quali viene distribuito il lungo salmo CXVIII Beati immaculati invia, 4 per compieta); "lezione abbreviata"; "orazione". L'Ora di Prima ha come appendice una serie di pratiche derivate dal riunirsi della comunità monastica nella sala capitolare, iniziando la giornata con la lettura d'un capitolo delle Regole (da ciò il nome di sala capitolare; il clero diocesano sostituì alla Regola una lettura abbreviata, Lectio brevis o "capitolo"), dopo la quale con la benedizione del superiore si andava al lavoro.

Il fissarsi delle lezioni originò, dal secolo VIII, la raccolta di sermoni, di omilie, ecc.; quella che sta a base dell'attuale breviario risale a Paolo Diacono (797). A rompere la monotonia della lettura, già in antico si introdussero, dopo un certo brano, i responsorî. Ispirandosi al brano letto, o al libro da cui il brano era tolto, oppure alle idee e fatti letti, un cantore proponeva un testo piuttosto breve e diviso in due o più sezioni; il popolo lo ripeteva; il cantore aggiungeva uno o più versetti e finalmente una dossologia, ossia formula di lode a Dio; il coro dopo ogni versetto ripeteva il testo o le sue sezioni, e dopo la dossologia cantore e coro ripetevano l'intero testo. Era un modo opportuno di far imparare al popolo belle massime, e imprimere nell'animo fatti e sentimenti edificanti. La struttura responsoriale suesposta è d'origine italiana (S. Isidoro) e probabilmente romana. Bellissimi per pensiero e musica, i responsori assunsero poi forme più brevi, soprattutto dopo le "lezioni brevi". L'insieme dei responsorî tolti da un dato libro, si chiamò nel Medioevo Historia. Altra cosa è il salmo responsorio. Dapprima, dato che molti non conoscevano i salmi o non sapevano leggere, anche la salmodia era fatta da un lettore che modulava il salmo un versetto dopo l'altro ("salmo tratto"); il popolo ascoltava, e alla fine cantava all'unisono di solito una dossologia (tra le più antiche e note è il Gloria Patri). Per dare al popolo parte più attiva, presto simili formule furono interposte lungo il salmo: tali salmi furono detti dai Greci acrostichion, e dai Latini responsorium. Ne è esempio ancora oggi l'Invitatorio col seguente salmo Venite exultemus, che già dal sec. VIII risulta premesso al notturno. Col sec. IV fattisi più noti i salmi e meno adatta la lettura a solo nelle grandi basiliche, si usò, sull'esempio di Antiochia o di Edessa, il canto del salmo fatto da tutto il popolo diviso in due cori, alternanti un versetto ciascuno. Fu questo il canto "antifonato" (ἀντιϕωνή "suono di rimando, alternato"). Introdotto da S. Basilio nel 375 a Cesarea di Cappadocia (il santo ce ne attesta già l'uso in Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia), e a Milano da S. Ambrogio in circostanze tragiche per la lotta contro gli Ariani (settimana santa del 386), si diffuse da Milano in tutto l'Occidente; a Roma pare posteriore a S. Damaso, ed è forse dei tempi di S. Celestino (422-432). Nei secoli seguenti piacque molto ripetere intercalata tra i versetti dei salmi, qualche formula che veniva annunciata prima. In fondo erano i salmi responsorî, ma furono chiamati salmi antifonati (Amalario), forse dal senso di preannuncio dato alla parola antifona, scritta anche "antefona". Più tardi le antifone non rimasero che in principio e alla fine, integre negli uffici solenni (di rito "doppio"), solo annunciate in principio e dette integre alla fine del salmo negli uffici non solenni (di rito "semidoppio" e "semplice").

Come i salmi venivano cantati anche i Cantici, ossia le altre liriche contenute nella Scrittura, fuori del Salterio. Ne possediamo una raccolta nel codice Alessandrino (sec. V). In S. Benedetto tre cantici formano il III notturno domenicale. Prevalse però l'uso di cantare quelli scelti dall'Antico Testamento uno per giorno immediatamente prima dei laudate delle lodi, e riservare quelli del Nuovo Testamento a corona delle lodi stesse (Benedictus, perché contiene la frase oriens ex alto: illuminare his qui in tenebris sedent), dei vespri (Magnificat) e di compieta (Nunc dimittis). Nel Medioevo erano chiamati Evangelî, e ancora adesso si cantano in piedi e con l'incensazione degli ufficianti.

S. Benedetto, come pure le chiese orientali e quasi tutte le occidentali, eccetto Roma, ammisero nell'ufficiatura gl'Inni, ossia liriche non tolte dalla Scrittura. Già S. Paolo parla di "salmi, inni e cantici" con i quali i cristiani si edificavano tra loro. Tali inni sorti nelle riunioni stesse sotto il dono carismatico, o dovuti al genio poetico cristiano, furono detti anche salmi "idiotici" cioè privati. Il più noto tra noi è il Gloria in excelsis, che si trova nelle Costituzioni Apostoliche come dossologia mattutina. I migliori innografi occidentali furono S. Ilario, S. Ambrogio imitato da anonimi (inni ambrosiani), Prudenzio, Sedulio e Venanzio Fortunato. Fino a costui gl'innografi liturgici imitarono S. Ambrogio, tenendo il metro o almeno il ritmo del dimetro giambico; con Fortunato entrano altri metri e ritmi. Di Paolo Diacono (morto nel 797) è l'inno per la natività di S. Giovanni Battista: Ut queant laxis resonare fibris, mira gestomm Famuli tuomm, solve polluti Labii reatus, sancte Joannes, da cui furon tolti i nomi delle note della scala musicale. La diffusione della liturgia romana in occidente fece sopprimere gl'inni anche in altre chiese; però essi ripresero vigore soprattutto per l'influsso di Cluny, il cui innario penetrò definitivamente a Roma stessa nel sec. XIII.

Altri elementi dell'ufficio divino non tolti dalla Scrittura sono le lezioni agiografiche e patristiche, ma già nelle più antiche riunioni vigiliari si leggevano, oltre la Scrittura, lettere di vescovi o di chiese, Atti di martiri, ecc. Quanto alle orazioni, le Costituzioni Apostoliche ce ne dànno alcune fisse; le più antiche ancora in uso sono tolte dai sacramentarî Leoniano, Gelasiano e Gregoriano, e sono profonde di senso teologico e insieme spirano pietà e senso estetico. Un modo di pregare che dava maggior partecipazione al popolo era quello della "supplicazione litanica", in cui uno del clero variava le domande, e il popolo ripeteva una supplica, oppure rispondeva con versetti o con emistichî scritturali, ad altri pronunciati dal cantore. Provengono da tali preghiere le "preci feriali" che ancora si conservano nel breviario, e delle quali i versetti dopo i notturni e altrove sono probabilmente l'abbreviazione. Con i saluti e le acclamazioni giudaiche e cristiane primitive si collegano il Dominus vobiscum, l'Amen, il Deo gratias, l'Alleluia (v.); quest'ultimo fu soppresso nel tempo dalla Settuagesima al sabato santo da Alessandro II (1061-1073).

L'estendersi della liturgia romana a quasi tutto l'Impero Franco non operò un'assoluta unificazione, poiché le chiese introdussero alcune modifiche sullo schema romano. Fra queste furono: riduzione nell'uso delle antifone e nella lunghezza dei responsorî; fissazione, riduzioni e cambiamenti nelle lezioni (si diffonde sempre più l'uso dell'omilia sul Vangelo della messa alla fine del mattutino); recita del simbolo Atanasiano a Prima; introduzione di uffici nuovi, specialmente di santi; commemorazioni, anche quotidiane, alle lodi e ai vespri, della beata Vergine e dei santi "commemorazioni comuni" o "suffragi"). Sorge anche nel sec. XI tra i camaldolesi della congregazione di Fonte Avellana il Piccolo Ufficio della beata Vergine, aggiunto quotidianamente al divino (ne fu zelatore S. Pier Damiani). Vien pure d'uso quotidiano, soprattutto a Cluny, l'ufficio dei morti, che ci risulta già in uso a Roma dal sec. VIII ma solo in occasione di funerali. La corte papale, spesso lontana da Roma e agitata dalle vicende di quell'età, non dirigeva il movimento liturgico; se ne interessò S. Gregorio VII (1073-1085), ma la sua opera non è ancora chiarita; certo si oppose a esagerate riduzioni che si volevano introdurre, prendendo a modello il notturno pasquale. Dimorando qua e là, la corte papale accettò nella sua ufficiatura l'una o l'altra modifica con più facilità che non facessero le basiliche romane. Così l'ufficio di queste, soprattutto quello del Laterano, venne a chiamarsi "antico", mentre gli altri si denominarono in complesso "ufficio moderno". I "breviarî secondo l'uso della curia romana" rappresentavano quanto il papa accettava d'innestare dall'ufficio moderno sull'antico; da ciò il loro diffondersi come uso della chiesa romana, specialmente dopo che Gregorio IX (1227-1241) ne concesse l'uso ai francescani, così spesso in viaggio per le loro predicazioni e così popolari. Il breviario minoritico (revisione di quello papale, fatta dal generale francescano Aimone), oltre a preferire nel Salterio il testo gallicano al romano, accettò con facilità l'ufficio di nuove feste e in specie dei santi, molti dei quali di rito doppio, escludenti quindi il Salterio feriale. Quanto più questi crebbero di numero e d'importanza (primi e secondi vespri: ossia vengon detti in onore del santo tanto il vespro della sera precedente quanto quello del giorno; ottave privilegiate; giorno dell'ottava di rito doppio; preferenza sull'ufficio domenicale stesso, ecc.) tanto più veniva esclusa la recita settimanale del Salterio, limitandosi alla ripetizione dei salmi fissi nel Comune dei santi. La divozione a Maria portò all'ufficio de Beata Virgine da recitarsi al sabato, e a terminare anche l'ufficio d'ogni giorno con un'antifona in suo onore: la prima a essere imposta fu la Salve regina prescritta da Gregorio IX dopo la compieta del venerdì. Già nel 1249 il generale francescano Giovanni da Parma enumera le quattro antifone in onore della Vergine che anche ora si susseguono nei varî tempi dell'anno. Nicolò III (1277-1280) impose l'ufficio minoritico a tutte le chiese di Roma.

Le tristi vicende della Chiesa durante e dopo il grande scisma d'Occidente portarono rapidamente a una decadenza dell'ufficio. Il sorgere della critica storica e lo svilupparsi dell'umanesimo fece notare anche l'esistenza d'infondate leggende nelle letture agiografiche, e fece dispiacere lo stile non classico del latino del breviario. A ovviare a quest'ultimo difetto, Leone X (1513-1521) incaricò Zaccaria Ferreri vescovo di Guardialfiera (Campobasso) di correggere l'innario. La correzione fu un vero rifacimento e, se migliorava il latino, introduceva però troppi elementi pagani (famosa l'espressione Triforme Numen Olympi, per dire la Trinità). I nuovi inni usciti nel 1525 non furono però autorizzati da Clemente VII (1523-1534) per la recitazione pubblica dell'ufficio. Lo stesso Clemente VII diede al cardinale Francesco Quiñones, francescano, l'incarico di riformare il breviario; questo, chiamato il breviariunm Sanctae Crucis (il Quiñones era titolare di S. Croce di Gerusalemme), pur essendo sgradito per la novità, piacque per la brevità, tanto che s'incominciò a introdurlo anche nella recita pubblica. Paolo III (1534-1549) lo approvò nel 1536 come provvisorio, ad uso solo del clero secolare e da concedersi dietro richiesta individuale. Ma Paolo IV ne proibiva nel 1558 la ristampa, e stava preparando l'ultima revisione del breviario proprio ai teatini quando morì. Come il papa così altri concilî locali s'interessavano della riforma del breviario; nessuna meraviglia quindi che la questione venisse proposta anche al concilio di Trento nel 1562: ma si era già alla sua chiusura. Il concilio diede l'incarico a Pio IV di compiere la revisione iniziata da Paolo IV. Solo Pio V poté veder finiti i lavori e pubblicare nel 1568 il breviario "Piano", che tenendo un sufficiente equilibrio tra la tendenza critica e la conservatrice riportò molte approvazioni, e venendo imposto a tutte le chiese occidentali che non avessero un proprio ufficio antico, produsse una notevole uniformità. Esso rimase senza modifiche sostanziali fino a Pio X. Sisto V (1585-1590) e Clemente VIII (1592-1605) modificarono alquanto le rubriche e i gradi delle feste, e v'introdussero nuovi uffici; Clemente VIII in specie (sotto cui lavorarono il Baronio, il Bellarmino e il Gavanto per la revisione anche delle lezioni agiografiche) aggiunse il Comune delle "non Vergini"; Urbano VIII (1623-1644) corresse gl'inni sotto l'aspetto linguistico e prosodico (la correzione fu ed è molto discussa). I difetti soprattutto nelle leggende agiografiche, e la parte ancora relativamente scarsa lasciata da Pio V all'ufficio feriale, diedero occasione in Francia e in Germania (gallicanismo e febronianismo) al sorgere più o meno illegale di nuovi breviarî diocesani: il più famoso è quello di Parigi o di Harlay, pubhlicato (in seguito alla revisione di Hardouin de Péréfixe e di De Harlay arcivescovi di Parigi) nel 1680, e quello di mons. de Ventimille pure arcivescovo di Parigi nel 1736. Quest'ultimo fu in vigore fino alla metà del sec. XIX. Dal 1830, sotto la guida di D. Prospero Guéranger benedettino di Solesmes, s'inizia un movimento in favore del breviario romano: movimento che fu trionfante quando Orléans, rimasta sola, riaddottò nel 1875 l'ufficiatura romana. Similmente scomparvero nel secolo scorso i breviarî di Colonia. Treviri, ecc. D'altra parte una nuova riforma, ristudiata sotto Benedetto XIV (1740-1758) che non poté effettuarla, fu ripresa da Pio IX nel 1856, e in tempi più tranquilli da Leone XIII che istituì nel 1902 una commissione per studî storico-liturgici annessa alla congregazione dei Riti e curò edizioni tipiche dei libri liturgici. Una vera riforma fu attuata sotto Pio X, quando la bolla Divino afflatu del 1911 impose una modifica nella recita del Salterio sì da rendere ordinaria la recita integra del Salterio ogni settimana. Si attendono ancora le modifiche nelle lezioni.

Bibl.: Articolo Bréviaire di H. Leclercq, in Dictionnaire d'Archéologie chrétienne et de Liturgie, Parigi 1910; art. Breviary, di F. Cabrol, in The Cath. Encyclopedia, New York 1907; art. Brevier di F. Probst, in Kirchenlexicon, di Weltzer-Welte, Friburgo in B. 1882; P. Batiffol, Histoire du Bréviaire Romain, Parigi 1893; S. Bäumer, Geschichte des Breviers, Friburgo in B. 1895; G. Baudot, Il breviario Romano (trad. ital.), Roma 1909; F. Cabrol, Le livre de la Prière antique, Parigi 1913; P. Willi, Le Bréviaire expliqué, Parigi 1922; P. Piacenza, De officio divino, Roma 1909; G. B. Menghini, L'uso del brev. e del mess. rom. secondo la costituz. "Divino afflatu", Roma 1913; L. Barin, Catech. liturgico, Rovigo 1921; I. Schuster, Liber Sacramentorum, Torino-Roma 1919 seg.

Breviarî celebri. - Breviarî manoscritti furono esemplati per ogni genere di ordini religiosi; uno molto antico, del sec. XI, è custodito nella Biblioteca Vaticana (lat. 7018), dove si conserva anche quello adoperato da Francesco Petrarca (Vat. Borghesiano 364: cfr. Cozza Luzi, in Omaggio della Bibl. Vaticana nel giubileo episcopale di Leone XIII, Roma 1893, pp.1-19) e l'altro fatto per Mattia Corvino re d'Ungheria (Vat. Urbinate 112), meraviglioso codice trascritto nel 1487 e miniato da Attavante (v. attavanti).

Con l'introduzione e lo sviluppo dell'arte della stampa non solo ogni ordine monastico ebbe il suo breviario, ma anche singole città ne adottarono uno speciale. Il più antico di essi pare essere quello all'uso di Costanza, forse stampato a Strasburgo nel 1469: seguono quelli per Würzburg (Spira 1477); per Salisburgo (Venezia 1482 e 1518); per Senlis, 1486; per Augusta, 1487; per Spira, 1891, per Utrecht, 1498 e 1508; per Halbertstadt (Magdeburgo 1495); per Płock in Polonia (Venezia 1498); per l'abbazia di Melk, nella bassa Austria (Norimberga 1500); per Liegi (Parigi 1509); Valenza, 1510; Kiem, fra Salisburgo e Monaco (Venezia 1515); Bruxelles (Parigi 1516); Frisinga (Venezia 1516); Passavia (Venezia 1508); Marsiglia (Lione 1526); Halle a. Saale (Lipsia 1534); Parigi, 1544; Salerno (Napoli 1542); Rodez (Lione 1543). Un breviario per il capitolo di Windesheim fu stampato nel 1499 dai monaci del convento di Hem in Olanda. Questi breviarî erano quasi sempre assai elegantemente impressi e arricchiti di xilografie; per l'uso che se ne fece sono tutti della più grande rarità.

Bibl.: Ehrensberger, Libri liturgici Bibl. Apostolicae Vaticanae manu scripti, Friburgo in B. 1897, pp. 190-308; A. Alès, Description des livres de liturgie imprimés au XVe et XVI siècles faisant partie de la bibl. de S. A. R. Charles Louis de Bourbon, Parigi 1878.

Il breviario Grimani. - Celebre manoscritto miniato fiammingo, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, appartenuto al cardinale Domenico Grimani (v.). Glielo aveva venduto, secondo l'Anonimo Morelliano, un "messer Antonio Siciliano" di cui non conosciamo meglio l'identità, ma che non è certo - come si credeva - Antonello da Messina, l'acquisto deve essere avvenuto poco prima del 1520. Alla sua morte, nel 1523, il cardinale lo lasciò con altri oggetti preziosi alla Repubblica di Venezia, ma ne assegnò l'uso ai nipoti cardinal Marino (morto nel 1546) e Giovanni, patriarca d'Aquileia. Alla morte di quest'ultimo, avvenuta nel 1593, il breviario, già rilegato, venne consegnato al doge Cicogna, e nel 1594 deposto nel Tesoro della Basilica di S. Marco; nel 1797 il governo democratico, su proposta di Iacopo Morelli, ne ordinò il trasferimento alla Biblioteca Marciana e il passaggio avvenne nel 1801.

Il breviario misura mm. 275 × 215 e consta di 831 fogli membranacei scritti su due colonne: il testo è quello all'uso dei frati minori francescani, secondo l'edizione stampata a Roma nel 1477. Oltre i fregi e i riquadri miniati, che ornano ogni pagina, vi sono 86 miniature nel testo e 24 che accompagnano il calendario; i soggetti sono scelti dall'Antico e dal Nuovo Testamento e dalle vite dei santi. Nella ornamentazione marginale, ispirata a riproduzioni realistiche della natura, ma ricca anche d'elementi desunti della vita privata e dal costume fiammingo del Quattrocento, sono nettamente distinguibili tre mani: i quaderni furono dunque assegnati a tre artisti diversi, dopo che già vi era stato scritto il testo, in un piccolo gotico probabilmente di mano di calligrafi italiani, allora numerosi specialmente a Bruges.

Gli artisti del breviario vanno ricercati fra quelli della scuola che fiorì particolarmente a Gand e a Bruges nell'ultimo quarto del sec. XV e nella prima metà del XVI, e che da quelle città prende il nome; scuola che si distingue dalle precedenti fiamminghe per una fattura più morbida, per le maggiori proporzioni delle figure, per la grazia e la libertà di tocco, per la predilezione degli aspetti più gai della natura, e per i caratteristici orli, su fondo d'oro o di colore, seminati di fiori, di frutta, d'insetti, d'uccelli, d'oreficerie, di ceramiche, di medaglie e monete, d'architetture, tutti tracciati con grande maestria di modellato e di chiaroscuro, sì da dar quasi l'illusione del rilievo. Di questa scuola il maggior rappresentante è Alexander Bening, e a lui forse si deve la maggior parte dell'illustrazione del breviario; quasi sicuramente vi lavorò anche Simon Bening che adoperò forse abbozzi, oggi perduti, di Jean Gossaert. La decorazione del breviario fu opera di varî artisti, diversi per valore, tendenze ed epoca, a giudicare dalla varia qualità delle miniature, dal carattere eminentemente naturalistico d'una parte di esse, dai costumi e dal disegno di altre, posteriori al primo ventennio del sec. XVI.

Nella rilegatura in velluto cremisi i fregi d'argento cesellato e dorato sono forse opera di Vittore Camelio; al centro dei piatti vi è un medaglione, col ritratto del cardinal Grimani in quello anteriore, e con quello del padre suo doge Antonio Grimani nell'altro: quattro borchie stanno agli angoli del fregio che inquadra i due piatti della coperta; le targhette e gli stemmi furono applicati più tardi. V. tavola a colori.

Bibl.: G. Còggiola, Il Breviario Grimani della Biblioteca Marciana di Venezia: ricerche storiche ed artistiche, Leida 1910 (unito alla riproduzione integrale del manoscritto, a cura di S. Morpurgo e S. de Vries, Leida 1904-1910); P. Durrieu, Alexandre Bening et les peintres du Breviario Grimani, in Gazette des beaux-arts, Parigi 1891; id., La miniature flamande au temps de la Cour de Bourgogne, Bruxelles 1921, p. 64 segg. e tavv. LXXVII-LXXIX; F. Winkler, Die Flämische Buchmalerei des XV. und XVI. Jahr., Lipsia 1925.

TAG

Costituzioni apostoliche

Frati minori francescani

Repubblica di venezia

Cesarea di cappadocia

Antonello da messina