Cacciaguida

Enciclopedia Dantesca (1970)

Cacciaguida

Fiorenzo Forti

. Antenato di D. (Pd XV 28, 88-89), padre di Alighiero bisavo del poeta (vv. 91-97), appare nel cielo di Marte (vv. 19-21). Battezzato in S. Giovanni, nella Firenze della cerchia antica, tanto diversa, nella sua semplicità, dalla corrotta città del Trecento, ebbe due fratelli, Moronto ed Eliseo, e consorte una donna di Val di Pado, da cui derivò il cognome Alighieri. Fu seguace dell'imperatore Corrado III che lo rimeritò del ben ovrar facendolo cavaliere; seguì l'imperatore anche contro gl'infedeli e subì il martirio in Terrasanta (vv. 97-148). D. gli rivolge quattro domande: chi furono i maggiori suoi; qual anno del Signore si segnava alla sua nascita; quanti erano allora gli abitanti di Firenze; e quali le famiglie degne dei più alti uffici nella città (XVI 22-27). C. risponde anzitutto alla seconda: quando egli nacque il pianeta Marte, dal giorno dell'Annunciazione, era tornato 580 volte sotto la costellazione del Leone; dei suoi maggiori si limita a dire che abitavano nel centro di Firenze, nel punto in cui i corridori del palio entravano nel sestiere di Porta S. Piero, dove egli stesso vide la luce.

Dichiara poi che il numero dei cittadini atti alle armi era allora un quinto di quello del 1300; soggiunge però che la popolazione cittadina non aveva subito infiltrazioni dal contado e lamenta l'ingresso in Firenze, favorito dalle insidie ecclesiastiche all'autorità imperiale, del villan d'Aguglion, di quel da Signa, pronti alla baratteria, di faccendieri il cui avo ‛ andava alla cerca ' a Simifonti, e degli stessi nobili inurbati da Montemurlo, da Acone, da Val di Greve, perché le mescolanze infirmano la compattezza delle città, e il numero di per sé non è forza (vv. 34-72). All'ultima risposta premette che, come decadono le città, così le schiatte; anche se la brevità della vita umana non consente di avvedersene, la Fortuna muta le sorti come il volgere della luna alterna le maree. Né Firenze può sottrarsi a questa legge: l'avo evoca infatti i nomi di tante illustri casate già in declino durante la sua vita, di altre in fiore e poi perdute dalla loro superbia, come gli Uberti e i Lamberti, di famiglie allora appena sul crescere, come gli Adimari, e di altre grandi, come i Della Pera, che dettero il nome a una porta cittadina, ora già spente; adesso fra le antiche famiglie che Ugo di Toscana privilegiò con la sua insegna c'è persino chi ‛ col popol si rauna '. Onorati erano allora gli Amidei dal cui giusto sdegno contro Buondelmonte derivarono le divisioni di Firenze: certo sarebbe stato meglio per i Fiorentini che Dio avesse lasciato affogare il giovane fedifrago nell'Ema al suo primo venire in città, ma conveniesi che Firenze chiudesse la sua pace con una vittima alla mutila statua di Marte del Ponte Vecchio. Prima di allora l'insegna del giglio non era mai stata capovolta per sconfitta o tramutata per divisione (vv. 73-154). D. chiede poi all'avo di chiarirgli gli oscuri presagi che gli sono stati fatti durante il viaggio e C., leggendo nel cospetto etterno (XVII 39), gli predice senza ambagi che egli dovrà staccarsi dalla città natia, innocente, ma calunniato da chi già trama contro di lui presso la curia di Roma, e solo la giustizia celeste potrà ristabilire il vero. Gli parla poi dei dolori e delle umiliazioni dell'esilio, dell'amara rottura coi compagni fuorusciti, del primo rifugio presso gli Scaligeri, dove D. Vedrà, fanciullo novenne, Cangrande, destinato a grandi cose (vv. 31-93). Esorta infine il nipote a non portare odio ai concittadini, essendo certo l'infuturarsi della sua vita oltre la punizione della loro perfidia. Al dubbio di D. se, con suo nuovo rischio, dovrà ridire tutto ciò che ha visto nell'oltretomba, così amaro per tanti, risponde di far manifesta tutta la vision, senza curarsi di chi ne sarà meritamente ferito: la voce del poeta sarà come vento, che le più alte cime più percuote; gli sono stati presentati esempi insigni proprio perché solo da essi l'animo umano può ricevere vital nodrimento (vv. 94-142).

La persona storica. - L'esistenza storica di un C. padre di Alighiero è accertata da due documenti conservati nell'Archivio di Stato di Firenze: il primo, del 9 dicembre 1189, in cui i fratelli Preitenitto e Alaghieri, " filii olim Cacciaguidae ", promettono a Tolomeo, prete della chiesa di S. Martino, di tagliare un fico presso il muro di proprietà della chiesa stessa; il secondo, del 14 agosto 1201, in cui Alighiero di Cacciaguida e un suo figliolo son testimoni a una quietanza rilasciata da Iacopo di Rosa, protomaestro di Venezia, per tutto ciò che egli poteva richiedere al podestà di Firenze. Il Davidsohn, inoltre, segnalò fra le carte strozziane dell'Archivio di Stato di Firenze uno strumento del 28 aprile 1131 dove interviene come testimone un C. " filius Adami " (cfr. Geschichte 1449) e M. Barbi, che ristudiò la carta, si mostrò favorevole all'identificazione, anche perché il nome di C. non risulta comune. Tuttavia il Piattoli non affianca questo documento ai due precedenti nel Codice perché non è certo che il figlio di Adamo e il padre di Alighiero siano la stessa persona. Bastano, però, le date dei due primi strumenti per collocare la vita di C. nel secolo XII, ai tempi di Lotario II e Corrado III, a escludere, cioè, che l'imperador Currado seguito dal trisavolo di D. alla crociata possa essere Corrado II di Franconia (1024-1039) anche se questi, come dice il Villani (IV 9), " si dilettò assai della città di Firenze quando era in Toscana, e molto l'avanzò e più cittadini si feciono cavalieri di sua mano e furono al suo servizio ", allorché andò a combattere i Saraceni in Calabria. Eppure tali notizie e la possibile confusione dei numerali - Corrado III di Hohenstaufen (1138-1152), terzo come re di Germania, fu secondo come imperatore - fecero sorgere qualche incertezza fra gli antichi commentatori, a cominciare da Pietro, il quale confuse la crociata di Corrado III con la spedizione in Calabria del Salico, asserendo che C. seguì " Corrado de Soapia, cum in Calabria contra Saracinos ivit et bellavit ". Nell'ultima redazione del suo commento Pietro si corresse (cfr. " Bull. " XI [1904] 9), ma l'incertezza sopravvisse nel Buti: " questo Currado per quello che io posso comprendere per le croniche fu Currado primo ", nel Landino: " questo... fu Currado I negli anni del Signore millequindici ", e in altri. Alcuni moderni attribuirono la confusione a D. stesso, ritenendo che Corrado m non fosse mai sceso in Italia (Casini, Steiner, Pompeati, Pietrobono, Donadoni, Cosmo, ecc.); ma, se pure non ancora imperatore, Corrado venne in Italia nel 1128 al tempo della sua lotta con Lotario II di Suplimburgo, fu anche in Toscana, dove trovò consensi e seguaci, e tornò poi una seconda volta nella penisola. Secondo un'ipotesi del Porena, con Poi seguitai C. potrebbe alludere al suo farsi seguace in Italia di Corrado " pugnante contro i Papi e il partito avverso, e allora sarà stato in compenso della sua devozione armato cavaliere ", e con Dietro li andai al suo unirsi alla spedizione dell'imperatore in Terra Santa, come è accertato che fecero altri italiani (cfr. W. Bernhardi, Konrad III, Lipsia 1883, 601). Non sussistono, comunque, ragioni storiche che si oppongano al racconto del poeta e la morte di C. va posta prima del settembre 1148, quando Corrado III abbandonò la Terra Santa; forse avvenne nell'anno precedente, allorché l'esercito imperiale fu quasi completamente distrutto dai Mussulmani.

Quanto alla nascita del trisavolo, D. fornisce un'indicazione astronomica che ha dato molto da fare agl'interpreti: dal giorno dell'Annunciazione a quello della nascita di C. il pianeta Marte tornò 580 volte sotto il segno del Leone. Il Lana spiegò: " altro non è a dire che 580 rivoluzioni di Marte che comprende çascuna dui anni solari, sì ch'è quel numero 1160 ", e fu seguito dall'Ottimo, dal Buti, dal Landino e da molti altri. Ma nel 1595 gli accademici della Crusca fecero notare che in tal modo C. sarebbe morto prima della nascita: si accordarono perciò a Pietro, che aveva revocato in dubbio la lezione di Pd XVI 37-38 cinquecento cinquanta / e trenta fiate (" scriptum corrupte 30 vicibus, ubi debet dicere tribus vicibus ") e, ridotto il numero delle rivoluzioni di Marte a 553, aveva fissato la data di nascita del suo antenato al 1106. L'edizione critica della vulgata ha ribadito la lezione e trenta; ma su questa stessa lezione già Benvenuto aveva rettificato il calcolo osservando: " Mars... non stat per biennium completum ad peragendum cursum suum, immo aliquanto minus, unde facta computatione restat anni 1054 ". D., infatti, accenna alla rivoluzione di Marte (Cv II XIV 16) fondandosi sui dati di Alfragano (c. XVII), per cui il periodo siderale di quel pianeta è solo di giorni 686,94. Ma questi, moltiplicati per 580 e poi divisi per 365,2466 (durata dell'anno solare secondo Tolomeo), porterebbero al 25 gennaio del 1091 (Scartazzini, Vandelli, Steiner). I più si riferiscono prudentemente al solo anno 1091 (Casini, Torraca, Pompeati, Pietrobono, Grabher, Fassò, Casella), e il Porena osserva che anche in tal modo si presuppone Marte sotto il Leone sia al tempo dell'Annunciazione sia al tempo della nascita di C., altrimenti il calcolo potrebbe variare fino a tre anni. E infatti non mancano divergenze per il mese: luglio (Lubin), gennaio (Antonelli), marzo (Fallani), e per l'anno: 1090 (Ferretti), 1095 (Antonelli), 1099 (Zingarelli). Conviene ricordare che la lezione di Pietro è sostenuta modernamente dal Federzoni il quale, dubitando che D. potesse conoscere l'esatta data di nascita del trisavolo, mentre, come si sa, ignora la data di morte del bisavolo (Pd XV 92), pensa che il poeta abbia posto sulle labbra di C. una locuzione apparentemente precisa, ma in realtà approssimativa, come la intesero gli antichi che facevano coincidere la rivoluzione di Marte con due anni terreni. In appoggio ad analoga ipotesi A. Pézard cita ora (D.A., Oeuvres complètes, Parigi 1965, 1503-1504) anche Onorio di Autun (Imago mundi, I CXXXIX) e suppone che Pietro abbia potuto giovarsi di memorie familiari. In tal modo cadrebbero più difficoltà: il numero spezzato in modo innaturale (cinquanta / e trenta); fiate bisillabo, mentre D. l'usa quasi sempre trisillabo, e infine l'eccezionale partenza per la crociata a cinquantasei anni. A tale semplificazione osta, però, non solo la tradizione testuale più autorevole, ma anche la puntigliosa precisione astronomica dantesca, che legittima i tentativi di calcolo esatto; onde nuove rettifiche, come quella di R. Benini, per cui non si sarebbe tenuto conto che il Leone, secondo quel che si credeva al tempo di D., si sposta verso oriente di un grado ogni secolo, sicché Marte per allinearsi a quella costellazione impiegherebbe un certo tempo in più, che, calcolato su 580 rivoluzioni, sposterebbe la nascita al 1110. Ma G. Horn D'Arturo su precisi calcoli astronomici ha confermato la data 1091 e a questa oggi si attengono generalmente gl'interpreti (Sapegno, Gmelin, Chimenz).

C. tace sui suoi maggiori e gli antichi biografi e commentatori mostrano di non saper nulla di più di quanto D. fa dire al trisavolo; tuttavia si può ritenere certo che questi appartenesse alla nobiltà, giacché " alla dignità di cavaliere non poteva aspirare chi non fosse di stirpe feudale, de genere militum " (Salvemini); nobiltà cittadina', in gran parte costituita da quei minori feudatari che cercarono nelle città una difesa alle prepotenze dei grandi (cfr. " Bull. " VI [1898] 20). Infatti il Sesto di Porta S. Piero (in realtà, a quei tempi, il Quarto) dove C. pone la sua casa, secondo il Villani (III 2) " sempre aveva la migliore cavalleria e gente d'arme della città anticamente ". Il Bruni, pur " derogando " da tutte le fantasie del Boccaccio sulla discendenza del trisavolo di D. da un Eliseo romano, fa notare che C. abitava " nelle case che ancora oggi si chiamano degli Elisei perché a loro rimase l'antichità ": discendessero questi dal fratello di C. (Zingarelli) oppure no, il trisavolo di D. fu probabilmente loro consanguineo. Quanto alla moglie, la vaga indicazione di C., val di Pado, ha stimolato le indagini dei dantisti i quali, sulla scorta di Pd XV 138 e quindi il sopranome tuo si feo, si son dati a ricercare fra le casate di Ferrara, di Parma, di Bologna, di Verona che si avvicinano per nome agli Alighieri: si è formata così una tradizione prevalente dal Boccaccio al Del Lungo, al Catalano, che vuole ferrarese la consorte venuta a C. da val di Pado.

In parte attinente alla storia è la questione della lingua di C., che D. dichiara diversa dalla moderna favella (XVI 33): gli antichi commentatori o sorvolano (Lana, Pietro, Landino) o si mostrano incerti, come l'Ottimo, secondo il quale D. si espresse così " o a dare ad intendere che gli antichi nostri non ebbono del tutto il nostro idiomate, o vero a dimostrare che nell'altro regno è una sola lingua partita dalla nostra "; l'Ottimo fu seguito da Benvenuto e da altri. Il Daniello, invece, chiosò: " non con questo parlare fiorentino d'oggi, ma con l'antico latino ". L'opinione che C. parli una lingua ultraterrena è modernamente seguita solo dal Momigliano; la tesi che tutto il discorso di C. continui in latino come le prime parole da lui pronunciate, accolta dal Tommaseo perché " il latino era comune alla gente non rozza del secolo XII ", è stata ripresa, su altra base, dal Porena, il quale osserva che, secondo Pd XVII 34-35, C. si esprime per chiare parole e con preciso / latin; inutile ripetizione se si desse a ‛ latin ' il generico senso di linguaggio; mentre le parole non con questa moderna favella, inserite fra l'esordio latino del trisavolo e la chiosa sul suo preciso latin non possono avere un senso contrastante. Del resto la nobiltà (Cv I V 7) del latino e il parallelismo dell'episodio dantesco con quello virgiliano di Anchise rendono plausibile l'uso eccezionale della lingua di Roma da parte del personaggio e giustificano l'avvertimento del poeta circa la sua versione, mentre inesplicabile rimarrebbe il mutar lingua di Cacciaguida. Oggi prevale tuttavia l'opinione di chi, appoggiandosi alle riflessioni di D. sul rapido mutarsi delle lingue (Cv I V 9 e VE I IX 6), pensa che la favella non moderna di C. debba intendersi come " fiorentino arcaico " (Casella). Il Porena stesso riconosce che D. non poteva certo credere che nel secolo XII si parlasse comunemente latino; d'altronde il Viscardi invita a riflettere che per D. " non il latino è più antico delle parlate volgari, ma queste sono più antiche del latino ", e il Casini aveva già osservato che il discorso del trisavolo " non era una trattazione dottrinale cui convenisse il linguaggio della scienza ". Ora il Pézard scorge nell'accenno dantesco alla lingua di C. addirittura un'intenzione polemica: l'avo parla secondo la più pura tradizione cittadina, non come " Si compiacciono di fare certi moderni; diciamo: i modernisti " (op. cit., pp. 1489-1490 e 1503). Fra i non pochi ritratti linguistici della Commedia rientrerebbe così, per via indiretta, anche il discorso di C., intonato alle cose e alle persone dei tempi che egli rammemora.

Il personaggio poetico. - I critici si sono interessati moltissimo all'episodio di C., ma assai poco al personaggio. È quasi un luogo comune che C. " non è se non la voce del poeta " (Cosmo); l'incontro col trisavolo è la drammatizzazione di un soliloquio (P. Baldelli), un espediente escogitato a conferire oggettività a una professione di fede. Eppure non è mancata negl'interpreti un'avvertenza importante: il mutato disegno del poeta (ma vedi la tesi conciliante del Pézard, op. cit., pp. 1527-1528), che, come risulta da If X 130 e XV 90, aveva progettato come deuteragonista della scena Beatrice. Se l'interlocutore non avesse nessun rilievo, perché il mutamento? Il dire che Beatrice, sia nella veste dell'angiola della Vita Nuova, sia nella personificazione dottrinale della verità rivelata era inadatta al compito (Cosmo, Grabher), significa riconoscere implicitamente un diverso rilievo alla figura di Cacciaguida. Ma gli stessi critici che sottolineano la ‛ convenienza ' del discorso intorno all'antica Firenze sulle labbra dell'avo che vi trascorse la vita, spiegano poi la sostituzione di C. a Beatrice sulla scorta del palese, anzi ostentato richiamo del poeta all'episodio di Anchise che accoglie Enea agli Elisi, come un felice calco virgiliano, sottolineato da altri sparsi richiami (O sanguis meus... " Tu ne cede malis ") al poema del maestro. Anche per questa via C., come personaggio, impallidisce: se non scompare, assorbito dalla coscienza di D., viene coperto da un'immagine classica, della quale sarebbe un riflesso depauperato d'affetto. Di recente uno studioso impegnato a mostrare che l'episodio di .C. è il " pernio del disegno ispiratore del poema ", in quanto produce un'illuminazione retrospettiva di tutto il viaggio, ha presentato l'incontro come l'ultima tappa di una progressiva conquista di sé. All'inizio del poema il poeta non offre a giustificazione del suo viaggio se non la sua redenzione personale di peccatore toccato dalla Grazia: il dubbio di D. io non Enëa, io non Paulo sono (If II 32) non istituisce un'analogia, suggerisce, invece, una distanza incolmabile. Soltanto da C. il viaggio di D. e i suoi incontri con le anime pur di fama note vengono proiettati in un ordine universale secondo un fine messianico (Figurelli). Tale interpretazione conserva al protagonista un forte rilievo personale come ‛ agens ', nei termini dell'Epistola a Cangrande; a C., però, affida un compito rituale che ne stilizza impersonalmente i contorni: egli è il sacerdote che conferma al pellegrino la sua missione. D'altronde una schematicità agiografica farebbe della sua vita una sequenza " da sacra rappresentazione " (Vallone). Eppure per riconoscere l'individualità poetica del vecchio Fiorentino basta osservare come alcuni temi ricorrenti nel poema assumano, sulle labbra del trisavolo, una modulazione diversa da quando investono altri personaggi, che pure si dicono ‛ voce del poeta ' e di cui nessuno nega la consistenza poetica; si pensi all'esilio e a Romeo di Villanova, all'umiliazione e a Provenzan Salvani, alla cortesia e a Marco Lombardo. Ma ancor più importante è il fatto che nella voce stessa del poeta quei temi hanno una risonanza diversa: non c'è commentatore che non richiami, a chiarimento della

degenerazione di Firenze lamentata da C., le parole che D. a faccia levata grida ai tre alti fiorentini in If XVI 73-75: La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni. Nell'identità del concetto e del sentimento risulta più nitida la diversità dell'accento: nel discorso dell'avo c'è un tono patriarcale e insieme un senso religioso dell'eterno che legano indissolubilmente le parole alla figura di chi le pronuncia.

Vicino e nello stesso tempo alto su quella Firenze antica, C. appare il franco e schietto cittadino di un piccolo comune dalla vita severa e dolce, raccolta nella sua modestia, eppur capace, come ha rilevato opportunamente il Binni, di accogliere ideali universali. Attraverso il suo racconto, intimamente domestico, C. ci appare immagine poetica di quella singolare convivenza di particolarismo e universalismo che caratterizza il pensiero civile di D.: cittadino esemplare della sua piccola patria, della quale ama il vivere modesto, le semplici virtù della sobrietà e della pudicizia, C. vive, però, i supremi ideali del suo tempo; è cavaliere del suo imperatore, è crociato della sua Chiesa, è insomma un degno milite della Sancta Romana Respublica. Sotto questo profilo perfino le annose disquisizioni sul conservatorismo dantesco (Mattalia) assumono, oltre le intenzioni, un significato estetico: sottolineano in C. l'energica personificazione della vecchia nobiltà cittadina, arroccata nelle case turrite, al centro della più antica cerchia delle mura, legata in consorterie familiari, implacabilmente avversa alla nuova civiltà mercantile. Se è vero, cioè, che l'atteggiamento di D., in ultima analisi, obbedisce al suo universalismo religioso e morale, gli accenni, spesso mordenti, del trisavolo appaiono legati all'età sua, alle memorie terrestri, alle antiche consuetudini feudali, come il giusto sdegno per l'offesa a un membro della consorteria, e perfino alle superstizioni tradizionali, come le leggende intorno alla pietra scema del ponte Vecchio. Simili tratti incidono nitidamente una figura che nella pace luminosa del Paradiso corrisponde a quelle incontrate fra i tormenti dell'Inferno: a Farinata, a Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, i venerandi Fiorentini che D. avrebbe voluto abbracciare se non fosse stato trattenuto dalla pioggia di fuoco; anzi C. è il compimento ideale di quei personaggi a noi noti solo per un'ammirazione offuscata dal loro peccato.

In quest'ordine di riflessioni viene a collocarsi la questione della scelta dell'avo invece del padre, come interlocutore nel solenne colloquio sul proprio destino. La critica storica ne ha cercato i motivi nella biografia del poeta ed ha aggiunto questo appiglio ai pochi, incerti, che i documenti ci offrono per insinuare nuovi sospetti sulla personalità del padre di D. (Donadoni, Porena). Non è il caso di riprendere qui gli argomenti che rendono dubbiosi quegl'indizi. Senza dire che il silenzio della poesia dantesca intorno ai suoi familiari più prossimi è totale e appare ispirato a un'intenzionale discrezione, converrà riflettere sulle ragioni d'arte che possono avere indotto D. a pensare al suo trisavolo. A parte la difficoltà, strutturale fin che si vuole, ma effettiva, di rappresentare già assunto in cielo per chissà quali meriti un uomo come il padre, morto da poco, è proprio un'intuizione poetica a suggerire alla fantasia di D. la figura dell'avo, e cioè la necessità di allontanare nel tempo il consanguineo eletto a dichiarargli il destino (Momigliano) e renderlo immagine viva di quella Firenze ideale, vagheggiata nei discorsi ascoltati da fanciullo dalle labbra dei vecchi, antitesi della moderna città corrotta. La stessa nobiltà di cui D. personaggio si compiace trova in C. un'immagine degna di venerazione: implicita rettifica del poeta, esperto dell'amara realtà della lotta politica nel mondo comunale, delle astratte esaltazioni giovanili della pura ‛ gentilezza ' guinicelliana contro la nobiltà di sangue (cfr. Mn II III). A parte l'origine ‛ romana ' che, d'altronde, è lasciata in un silenzio ‛ onesto ', l'avo nobile e cavaliere appartiene a quel ceto che non si è ancora mescolato ai cupidi mercanti, ai legisti arroganti, cui dovettero pur mischiarsi i suoi discendenti Alighieri, e ha nativo il rispetto delle virtù cavalleresche, il dono di quella cortesia della quale personaggi a lui affini poeticamente, come Marco Lombardo, piangono la scomparsa. Simili tratti, spiccatamente medievali, mostrano il limite del precedente virgiliano, che va ridotto in termini più precisi anche sotto un altro aspetto: mentre tutti gl'interpreti sottolineano il parallelo fra D. ed Enea, implicito nell'accostamento di C. ad Anchise, spesso sorvolano sul parallelo fra D. e Paolo, istituito subito dopo dall'esordio solenne del trisavolo e quindi connesso al precedente. Insieme al realismo del ‛ poeta del mondo terreno ', che spinge D. a dar colori storicamente precisi all'antenato scelto a dire della Firenze antica, è la visione medievale e cristiana che impone al personaggio prescelto di corrispondere, come ‛ exemplar ', al tipo del guerriero per le grandi istituzioni della Chiesa e dell'Impero. Una figura, dunque, come quelle che C. stesso indica fulgenti nella croce in cui lampeggia il Cristo: Carlo Magno e Orlando, che D. aveva imparato a conoscere da giovane leggendo le canzoni di gesta, o Guglielmo e Renoardo, che, ormai maturo, contemplava scolpiti nel portale del duomo di Verona. Da questo angolo visuale si prospetta in una luce diversa anche la questione, più volte sollevata, se il poeta abbia consapevolmente alterato i tratti della tradizione, confondendo i tempi e le imprese di Corrado il Salico con quelli di Corrado Svevo per potervi inserire C., e la connessa sdegnosa petizione di principio che D. non avrebbe mai potuto piegarsi a tali finzioni (Porena, Figurelli).

Abbiamo già detto che la storia consente a tutte le indicazioni dantesche; non bisogna, però, dimenticare le parole del Goethe al Manzoni: C. è un personaggio storico, ma il poeta gli " ha fatto l'onore " di chiamarlo alla poesia. A un dato punto del suo poema, certo dopo scritto il canto XV dell'Inferno, D. pensò a un personaggio che, legato a lui da un vincolo di sangue, come già Anchise rispetto ad Enea, possedesse tutti i titoli per investirlo di una missione insieme civile e religiosa, conforme agl'ideali dai quali, secondo lui, erano guidate l'Italia e l'Europa prima che Federigo avesse briga, e nelle memorie di famiglia trovò uno spunto di cui la sua fantasia s'impadronì. In questo senso fra la missione che D. si attribuisce e colui che è eletto a dichiarargliela c'è un rapporto di causa e d'effetto: il milite della ‛ renovatio ' dell'Impero e della Chiesa, poeticamente, ‛ doveva ' essere investito della sua milizia da un combattente per la Croce sotto le insegne dell'Aquila, da un ideale compagno di Orlando nella santa gesta di Carlo Magno. Ciò che importa è la verità ideale dell'avo, figura poetica della sognata Firenze antica, e la serietà della missione che D. si fa assegnare; e per questo si stenta a credere che il poeta non si riconoscesse tale missione all'inizio del poema e che essa gli sia divenuta chiara solo al tempo dei canti di Cacciaguida. La ‛ pusillanimità ', di cui Virgilio accusa D., appartiene al personaggio, non già al poeta: ed è appunto il personaggio che riceve l'investitura da C., non già il poeta che per essa ha ‛ inventato ' la figura più adatta. La rivelazione della trama nascosta che lega la sventura di D. alla sua missione, il disordine di Firenze al disordine dell'Impero, spetta a C. perché il poeta ha fatto che egli riunisca in sé il paterno affetto dell'avo, il severo costume dell'antico cittadino, la nobiltà del servitore dell'Impero, la santità del milite della Chiesa. La sua parola può così assumere il tono paterno dell'antenato, discendere con naturale nostalgia alle umili memorie domestiche, farsi ruvida nel biasimo schietto di chi ha corrotto quel costume incontaminato e, nel contempo, possedere il distacco del beato che sa l'opera incessante e misteriosamente benefica della Fortuna che rivolge le cose umane. L'accento eroico col quale il poeta contrappone l'altezza della sua missione e della sua gloria all'ingiustizia della sua sventura suona così schietto anche perché esce dalle labbra di C.: un ritratto indiretto, ma inciso con fermezza degna dell'arte di Dante.

L'episodio. - Il rilievo dell'incontro con C. nell'architettura del poema è universalmente riconosciuto: nel prologo all'Inferno D. ha rappresentato la sua crisi di coscienza; nell'epilogo del Purgatorio la sua purificazione; nel centro del Paradiso proclama la sua innocenza e la sua missione. Altri aspetti strutturali, dalla centralità del cielo di Marte (Vossler) ai rapporti coi canti XV e XVI dell'Inferno e XV e XVI del Purgatorio (Parodi), sono stati variamente illustrati dagl'interpreti (cfr. Figurelli). Meno concorde l'interpretazione poetica dell'episodio, in cui confluiscono alcuni dei più intensi temi della Commedia. L'esegesi antica accettò ingenuamente la densa sostanza autobiografica di questi canti: essa potrebbe assumere a insegna la chiosa dell'Ottimo alle parole di C. sulle pene dell'esilio: " questo è chiaro e amaro testo ". I pochi accenni che oltrepassano il chiarimento della lettera mostrano il commentatore intento a cercare nei fatti l'illustrazione del testo, onde l'imbarazzo di fronte a previsioni prive di riscontro negli eventi (XVII 53-54, 91-93), mentre vivacissimo è il consenso alla passione morale e civile di D., condivisa - e rimpicciolita - anche nei suoi aspetti di ‛ laudator temporis acti ', di partecipe al classismo cittadino, alla tradizione nobiliare, al costume consortile. La critica romantica, malgrado lo stupore del Quinet per il sussistere delle passioni terrene nel Paradiso (Les Révolutions d'Italie, I VII 5) e la contrarietà di F. Schlegel per la persistente " rabbia ghibellina " del poeta (Geschichte der alten und neuen Literatur, II, lez. IX), a parte gli opposti entusiasmi risorgimentali per l'esule politico, si compiacque del carattere personale di questi canti del Paradiso: il De Sanctis nelle lezioni zurighesi prese spunto proprio da questo episodio per riaffermare che " il poeta dee vivere in mezzo al particolare, dee sentirne le passioni ", e lodò, appunto, le " vivaci passioni di patria e di famiglia " e le scene di vita domestica, " vere pitture fiamminghe ", ripetendo più volte che C. dimentica il Paradiso e abita con D. nell'antica Firenze. Attraverso la critica storica tale lettura, arricchita di preziose indagini erudite (Del Lungo, Rajna, Torraca), giunse intatta al nostro secolo. Il Croce, a conferma della sua tesi generale che l'altro mondo non è il motivo poetico della Commedia, asserì che, nei canti di C., D. aveva manifestato " il suo complesso sentire per la patria " e l'amore delle memorie del luogo natio, " che fanno sentire l'aristocratico e il sacro dell'antico e in quell'antico ritrovare la propria radice, la propria nobiltà di sangue "; e il Momigliano, che nel 1927 dedicò un saggio particolare all'episodio, notava come il nostalgico " sospiro verso Firenze " interrompa l'ascesa mistica, ma affermava che, d'altra parte, la fiorentinità " è il movente più affettivo e più intimo del poema ". Gli pareva, infatti, che nella grande pagina idillica del canto XV D. ritrovasse la capacità ritrattistica che nel Paradiso sembrava perduta, capacità fin troppo cronisticamente adoperata dal poeta nella parentesi del canto XVI, eppure utile a suggerire al poeta l'alta solitudine e il " pathos virile " del canto XVII.

Al Parodi, invece, anche la rassegna delle famiglie fiorentine era sembrata " uno stupendo pezzo di poesia ". Svolgendo - se non andiamo errati - un accenno del Casini (XVI 33) e anticipando la tesi generale dell'Auerbach, egli osservava che la rassegna di C., di solito ricongiunta a quella virgiliana di Anchise, somiglia assai più a certe composizioni romanze " e si potrebbe chiamare il sirventese delle nobili schiatte di Firenze del primo cerchio: epico e satirico insieme, con una varietà di toni ch'era ignota alla poesia classica ed è propria invece della poesia nuova e propria soprattutto di D., e che mette a duro cimento le nostre artificiali e pedantesche divisioni di generi ". Non solo queste, si direbbe: infatti la grande varietà di toni che percorre l'episodio (Gmelin) consente a ognuno di trovare conferma alle sue preferenze. Così, mentre il Vossler, inteso alla sua idea della Commedia come Danteide, vede nella prima parte dell'episodio l'idillio che sempre precede le gesta dell'eroe, e nella seconda il poeta che si arma fieramente all'impresa innanzi all'avo, e trova qui " la fonte dalla quale si diffonde per tutta la Commedia il veleno della satira ", il Casella preferisce sottolineare l'affetto domestico per cui la città stessa è sentita come famiglia, e " la trama di ricordi, dove l'amor di patria irrompe spontaneo, confondendo insieme lo sdegno, il rimpianto e il dolore ". E mentre il Fassò e il Ferretti, muovendo naturalmente dal canto XVI, insistono sul contrasto fra la nobiltà, e l'orgoglio e la dismisura, storia di amori e di rancori che D. traveste in opposizione fra passato e presente, fra bene e male, e altri raccolgono nello stesso canto gli echi del motivo della ‛ cortesia ' (Maier, Vallone), il Porena al contrario sente nella Firenze rievocata da C., e anche nel discorso sulle antiche famiglie del canto XVI, " un contenuto pienamente francescano... espresso in veste del tutto francescana ". La nota comune di tali interpretazioni, come si è detto, consiste nella prevalenza concessa all'ispirazione autobiografica; però già un lettore romanticamente passionato come il Donadoni aveva avvertito, a proposito di tutto l'episodio, che in D., " per la superiore contemplazione di ciò che la vita morale ha di eterno ... i canti ... più autobiografici diventano... i più universali ". In tale prospettiva si pongono, appunto, le forti pagine del Cosmo, il quale riconosce nell'episodio la situazione " più intimamente personale di tutto il poema, perché senza adombramento allegorico di nessuna specie ",ma al tempo stesso sente che il poeta presenta la sua sventura come riflesso particolare di una vicenda universale. Perciò il " trovero degli alti Fiorentini " riesce anche l'elegiaco cantore della mondana caducità; e se il culmine dell'episodio è l'altera risposta al Libro del Chiodo, la proclamazione d'innocenza oltrepassa i piccoli avversari fiorentini e si colloca nel quadro di una restaurazione universale. La nota del Cosmo sull' " assenza di adombramenti allegorici " è indirettamente confermata dalla marginale importanza concessa all'episodio nei ‛ sistemi ' degli allegorizzanti, come il Pietrobono (per cui il cielo di Marte è contrapposto al cerchio dei violenti e C. si ricollega a Brunetto) e il Valli (che trova nei cieli di Marte e di Giove uno dei casi di simmetria fra i simboli della Croce e dell'Aquila). Ma il rilievo del carattere universale, religioso e civile, del mandato che il poeta si fa affidare dal trisavolo si richiama, anche se non esplicitamente, alle suggestive pagine del Pascoli sulla missione di D., Enea e Paolo, che nella critica odierna godono di una sottintesa reviviscenza. " Il mortale con i suoi orgogli e i suoi risentimenti, con i suoi amori e le sue angosce, si trascende nella messianica certezza di una superiore missione ": questa è, nel 1938, la conclusione del Grabher, e in tale orientamento si collocano i molti studi odierni che insistono sul carattere profetico della Commedia.

Per restringerci all'episodio di C., ricordiamo le pagine di R. Montano, al quale parrebbe " una grossa incongruenza poetica e religiosa " se nella Commedia, intesa come " Eneide cristiana ", la rappresentazione del Paradiso " fosse interrotta... per far posto a semplici affetti familiari e cittadini "; perciò l'incontro con C. assume carattere sacro e D. vi ritrova la " radice del proprio destino divino ". A tali vedute si accostano studiosi di varie tendenze: dal Fallani, per il quale solo la prospettiva teologica dà ai ricordi di D. " il tono poetico delle cose vedute dall'alto " (e già il Fatini aveva proposto di sostituire alla definizione " canto della nobiltà ", quella di " canto della caducità ", e sul medesimo tema insiste l'Allevi); al Rheinfelder, che fa gravitare tutto il ‛ viaggio ' intorno all'investitura del poeta nel canto XVII, a una missione poetico-profetica; al Guidubaldi, per cui l'etichetta " canti dell'esilio " nasconde la vera sostanza dell'episodio che sarebbe la " chiamata all'apostolato ", comprovata da precise formule teologiche; al Ramat, per cui la poesia non va cercata " nel carattere familiare del ritrovamento, ma nel significato che esso, predestinato, ha per la storia del mondo "; al Vallone, per il quale il " nucleo poetico " di C. non sta nei motivi biografici e familiari, ma nel senso messianico che percorre tutto l'episodio, del quale già si erano oscuramente avvisti Benvenuto e il Buti (chiose a XV 26, 39, 89). In verità chi legge la chiosa del Lana al luogo più significativo (XVII 121 ss.), " s'avedranno come lo to parlare è poetico fittivo e d'esempi fingitivo, sì che non prenderanno ira alcuna, imperço che ad exempificare non se prende fé per exempio, ma acquistase scientia della cosa exempificada ", e gli accenni paralleli dell'Ottimo, di Benvenuto, del Buti, pensa che gli antichi ravvisassero nel poeta più il moralista che il profeta, secondo certe definizioni dell'Epistola a Cangrande, riprese dal Lana stesso.

È questo, in definitiva, l'aspetto posto in rilievo dalla lettura del Vianello (c. XVII) e, ancor più energicamente, da quella del Binni (c. XV), per il quale l'episodio è tutto rivolto alla scelta tra valore e disvalore, il suo fondo non è nostalgico e idillico, ma epico ed eroico e vi splende la nuda e virile bellezza di una virtuosa comunità civile della quale C. è lo specchio fedele il suo martirio non è la negazione, ma il coronamento della vita civile, e perciò si compone spontaneamente in solenni accenti di tipo boeziano. Il Binni sottolinea il valore insieme " testimoniale e mitico " della rievocazione di C. e in questo ordine d'idee il Sapegno osserva, sinteticamente, che in tutto l'episodio " Si manifesta quella prepotente capacità... di svolgere parallelamente i due piani dell'idea e del reale, del simbolo e della cronaca, con la stessa intensità di convinzione, in modo che i valori morali si esplichino in una fitta rete di situazioni concrete e in cambio quest'ultime si arricchiscano di un profondo senso ideale ". Certo a chi ne ripercorre le linee, tutto il vasto episodio appare intonato a questo duplice registro: sul grandioso sfondo celeste descritto nel c. XIV (94-139), dopo momenti di religiosa aspettazione (XV 1-12), arcani trascorrimenti luminosi (vv. 13-27), sequenze solenni di parole e atti rituali (vv. 28-87), si espande, affettuosa e polemica, la rievocazione dell'antico comune (vv. 97-135), che, però, è presto allontanata dall'antitesi suprema tra il mondo fallace e la pace dei cieli. Allo stesso modo il fugace vanto nobiliare è subito coperto da un sorridente distacco (XVI 1-15), la curiosità delle memorie (vv. 46-66) è dominata dal senso dell'effimero (vv. 73-84), dalla dolorosa consapevolezza che la storia dissolve le cose belle e care del passato (vv. 88-114) e chiude oscuramente nel suo grembo lacrime e sangue (vv. 136-154). Di tale groviglio di vicende e di passioni, delle pene dell'esilio, della propria innocenza, il poeta fa il piedistallo alla propria solitudine magnanima di riformatore universale (XVII 106-142) e può infine placare la sua umana inquietudine nella religiosa meditazione delle parole dell'avo, specchio del verbo divino (XVIII 1-3). Così la figura dell'exul immeritus trapassa in quella del " cantor rectitudinis ".

Bibl. - Tra le biografie di D. che trattano, anche ampiamente, di C., si vedano soprattutto: G.L. Passerini, La vita di D. G. e F. Villani..., Firenze 1917, 14, 81, 183-184, 206, 238; Zingarelli, Dante 55-58; U. Cosmo, Vita di D., Bari 19492, 2-3. I documenti citati sono trascritti in Piattoli, Codice 1 e 2; in particolare, sulla data della nascita: R. Benini, Quando nacque C., ecc., in " Rendic. Ist. Lomb. " LXXXIII (1950) 3-33; G. Horn D'Arturo, L'età di C., in " Coelum " XIX (1951) 91 e 98. Sul nome: C. Battisti, Una congettura sul nome di C., in Studi in onore di A. Schiaffini (" Rivista di cultura classica e medioevale " 1-3, 1965) 102-113; per gli Elisei e la nobiltà di D., cfr. le tre recensioni di M. Barbi: a M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di D., in " Bull. " IV (1896) 1-2; a G. Capsoni, Se D. sia nato di nobile stirpe, ibid. VI (1898-99) 19-22; e al commento alla Commedia, di G.L. Passerini, ibid. XXV (1918) 71. Sulla data della crociata: M. Porena, C., in Studi su D., v, Milano 1940, 29-51. Sulla donna di val di Pado, oltre a Zingarelli, op. cit., 59, 69 note 11 e 12, si veda M. Catalano, La donna di Val di Pado, in Lezioni di letter. ital., Messina 1951, 11-41. Sulla lingua di C.: M. Porena, La lingua di C., in Questioni e questioncelle dantesche, Roma 1942; A. Viscardi, La favella di C., in " Cultura Neolatina " II (1942) 311-355. Sulla Firenze di C., oltre I. Del Lungo, La gente nuova in Firenze..., in D. ne' tempi di D., Bologna 1888, cfr. G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Firenze 1896 (rist. in Magnati e popolani..., Torino 1960, 341-482); I. Del Lungo, La donna fiorentina del buon tempo antico, Firenze 1906; R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, I, ibid. 1912-1921, cap. II; N. Ottokar, Il comune di Firenze alla fine del Dugento, ibid. 1927 (seconda ediz., Torino 1962); I. Del Lungo, I Bianchi e i Neri, Milano 19292; E. Cristiani, Sul valore politico del cavalierato nella Firenze dei secoli XIII-XIV, in " Studi Mediev. " III (1962) 409-455; e si vedano inoltre i diversi studi citati sotto l'esponente " Firenze ai tempi di D. " nell'indice analitico di " Studi d. " XX (1937). Sull'episodio dantesco, oltre alle importanti notazioni di F. De Sanctis (in Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli, Torino 1955, 501 ss.), di G. Pascoli (in Minerva oscura, Livorno 19172, 499 ss., e in Conferenze e studi danteschi, Bologna 1915, 259 ss.), di B. Croce (in La poesia di D., Bari 1921, 159 ss.), di L. Pietrobono (in Dal centro al cerchio, Torino 1923, 272 ss.), di L. Valli (in La chiave della D.C., Bologna 1925, 181-182), si vedano gli studi particolari: M. Longhi, Saggio di un commento filologico al Paradiso di Dante. Canti XV e XVI, Bologna 1907; P. Raina, D. e i romanzi della tavola rotonda, in " Nuova Antologia " (giugno 1920) 223-247; E. Bevilacqua, Enea, Paolo, D., in " Aurea Parma " V (1921) 268-286; N. Zingarelli, La nobiltà di D., in " Nuova Antologia " (agosto 1927) 409-425; U. Cosmo, L'ultima ascesa, Bari 1936, 204-244; A. Momigliano, La personalità di D. e i canti di C., in Dante Manzoni Verga, Messina-Firenze 19552, 232-247; H. Rheinfelder, Der Zentralgesang in Dantes Paradiso, in " Wissenschaft Zeitschrift der Univ. Jena " V (1955-56) 353-358; H. Gmelin, Kommentar alla versione tedesca della Commedia, III, Stoccarda 1957, 238-299; R. Montano, La poesia di D., III, Napoli 1959, 48-54; F. Figurelli, I canti di C., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 634-661; G. Fallani, D. poeta teologo, Milano 1965, 311-312; E. Guidubaldi, D. europeo, II, Firenze 1965, 168; infine le " Letture " di I. Del Lungo (Firenze 1903), A. Santanera (Torino 1918), L. Rocca (Firenze 1920), E. Donadoni (ibid. 1923), E.G. Parodi (ibid. 1934), C. Grabher (ibid. 1938), B. Maier (in Problemi e esperienze di critica letteraria, Siena 1950, 117-140), G. Ferretti (in Saggi danteschi, Firenze 1950, 187-211), M. Casella (in " Studi d. " XXXI [1953] 5-31), L. FASSò (in Dall'Alighieri al Manzoni, Firenze 1955, 116-136), O. Costanzi (Roma 1956), W. Binni (in " Studi Mediolatini e Volgari " V [1957] 31-37), G. Fatini (in " Convivium " XXIX 6 [1961] 648-665), G.B. Salinari (Roma 1964), A. Vallone (ibid. 1964), R. Ramat (Firenze 1965), F. Allevi (ibid. 1965), N. Vianello (ibid. 1966), A. Iacomuzzi, L'imago al cerchio. Invenzione e visione nella D.C., Milano 1969, 153-191.

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