CAPILUPI, Camillo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPILUPI, Camillo

Gaspare De Caro

Nacque a Mantova, da Camillo e da Lucrezia da Grado, il 31 ag. 1531, in una tra le più cospicue famiglie della nobiltà cittadina, tradizionalmente assai legata ai Gonzaga. Settimo di undici figli, fu destinato sin dall'infanzia allacarriera ecclesiastica e, dopo aver studiato a Mantova ed a Padova, prese gli ordini minori, ottenendo un canonicato nella cattedrale mantovana. Non si inoltrò più di così, tuttavia, nella prelatura, poiché, assai più che alla vita religiosa, si sentiva inclinato verso quella degli "affari", nei quali i Capilupi vantavano una brillante tradizione di accortezza e di fedeltà agli interessi gonzagheschi: tra gli esempi più recenti di questa tradizione lo stesso padre del C., inviato mantovano alla corte imperiale nel 1544 e poi a quella pontificia due anni dopo, e lo zio paterno Ippolito, in quei medesimi anni sagace e zelante tramite tra i papi ed il governatore di Milano Ferrante Gonzaga.

Fu proprio Ippolito Capilupi a introdurre il giovane C. nella carriera diplomatica, chiamandolo a Roma dopo la morte del duca di Mantova Francesco I (1550), al cui servizio personale il C. era stato addetto per alcuni anni.

A quanto riferisce l'Intra, tra le prime incombenze affidate da Ippolito al nipote sarebbe stata una missione in Baviera, presso il cardinale Ottone Truchsess. Non si conosce la data di questa missione; secondo lo stesso biografo il porporato tedesco avrebbe richiesto gli uffici dell'agente mantovano presso il cardinale Ercole Gonzaga, perché questi garantisse il suo appoggio ad una eventuale candidatura dello stesso Truchsess in un prossimo conclave. In questi termini la notizia appare piuttosto improbabile, poiché il cardinale bavarese - uno dei maggiori esponenti del partito imperiale nel Sacro Collegio - avrebbe semmai potuto disporre di ben più autorevoli mediazioni. Più verosimile è invece che fosse Ippolito Capilupi, un vero inventore di intrighi, ad offrirsi al Truchsess. In ogni modo non pare che dalla missione del C. risultassero conseguenze importanti.Nell'autunno del 1552 il C. era comunque a Roma, poiché sin dal novembre corrispondeva con il cardinale Ercole Gonzaga, allora a Mantova, inviandogli varie notizie della corte papale. Il C. cominciava così la sua attività di corrispondente da Roma della famiglia ducale mantovana, attività che avrebbe continuato, con crescente acume e solerzia, per quasi mezzo secolo, offrendo una testimonianza di prim'ordine - e per certi aspetti e momenti (come il conclave in cui fu eletto Sisto V) pressoché insostituibile - della vita politica romana, oltre che del costume cortigiano, come era nelle tradizioni della diplomazia gonzaghesca.

Questa attività di informatore ausiliario, a fianco dello zio Ippolito, fu interrotta nel marzo del 1554, allorché il C. ottenne di far parte del seguito di Ferrante Gonzaga, chiamato presso la corte imperiale, a Bruxelles, a rendere conto del proprio operato nel governo di Milano e durante l'ultima guerra contro i Francesi ed i Farnese. A Bruxelles, tuttavia, il C. non si trattenne a lungo, indotto evidentemente dalla disgrazia di don Ferrante a cercarsi un altro, più felice protettore. In questa ricerca approdò a Parigi, presso Luigi Gonzaga, il futuro duca di Nevers, ma anche qui le sue speranze furono deluse, poiché il clima della corte francese non era allora così propizio - come sarebbe diventato di lì a poco, con la reggenza di Caterina de' Medici - alle fortune degli Italiani, ed in particolare a quelle del giovane capostipite del ramo francese dei Gonzaga.

Ancora una sua lettera al cardinale Ercole Gonzaga attesta che il C. sin dal febbraio del 1555 aveva fatto ritorno a Roma, in tempo per assumere il ruolo di principale informatore della corte mantovana durante i due conclavi tenutisi in quell'anno, in sostituzione di Ippolito Capilupi, entrava in ambedue in qualità di conclavista dello stesso cardinale.

Depone certamente a favore della prudenza del C. il fatto che non ci sia invece traccia di lui alla corte pontificia durante il periodo della contesa tra Paolo IV e Carlo V, che costò allo zio Ippolito, accusato di connivenza con il duca d'Alba, un non breve periodo di prigionia. Per perorare la causa del suo congiunto e protettore il C. si recò nuovamente a Bruxelles, presso Carlo V, quando questi - dopo aver abdicato ai suoi titoli e Stati - era ormai in procinto di partire per il definitivo ritorno in Spagna: ed il vecchio imperatore accondiscese alle sue richieste accordando ad Ippolito Capilupi, a titolo di risarcimento, una pensione di 400 scudi annui sull'arcivescovato di Cuenca.

Il C. ritornò a Roma probabilmente alla fine del 1557, dopo che, nel settembre, stipulata la pace di Cave tra Paolo IV ed il duca d'Alba, Ippolito Capilupi fu liberato ed il partito spagnolo non ebbe più nulla da temere dal pontefice. Sotto migliori auspici si iniziò per il C. il nuovo pontificato di Pio IV: egli infatti ottenne la carica di cameriere segreto del papa e nel 1561, quando Ippolito Capilupi fu nominato nunzio a Venezia, ne ereditò le incombenze di agente a Roma del cardinale Ercole Gonzaga.

Nel 1564 lo zelo riformatore di Carlo Borromeo, intenzionato ad una drastica riduzione delle cariche curiali, costò al C. il suo modesto ufficio: per breve tempo, tuttavia, poiché esso gli fu restituito nel 1566 da Pio V.

Questo pontefice professava personali motivi di riconoscenza verso il padre del C., il quale, esercitando la carica di governatore del Monferrato, aveva protetto il Ghislieri ed il suo convento di Casale: di qui una particolare benevolenza che, se nel rigido clima riformatore del pontificato non si concretò in cariche e prebende come avrebbe voluto la tradizione curiale, consentì tuttavia al C. di vivere continuamente al fianco del pontefice, esercitando di fatto le mansioni di suo segretario e confidente, e di farsi attivo tramite tra la corte mantovana e la Curia in alcune importanti circostanze del pontificato: così tra il 1567 ed il 1568, allorché i rapporti tra il papa ed il duca Guglielmo si inasprirono a causa dell'eccessivo zelo dell'Inquisizione a Mantova; così, qualche anno dopo, quando, in preparazione della lega di Lepanto, il C. si prodigò per guadagnare all'iniziativa cristiana i contributi in uomini ed in denaro delle corti gonzaghesche di Mantova, Sabbioneta e Guastalla.

Nel 1568 Pio V inviò il C. ad Innsbruck, ufficialmente per presentare all'arciduca Ferdinando d'Asburgo l'omaggio tradizionale dello stocco benedetto, e più propriamente per esprimere il punto di vista del pontefice sulle questioni giurisdizionali pendenti tra la contea del Tirolo ed il vescovo-principe di Trento: le esortazioni evangeliche alla moderazione ed alla rinunzia formulate dal C. in nome del papa non ebbero tuttavia risultati troppo brillanti.

La strage degli ugonotti, nel 1572, e i dibattiti politici che il clamoroso avvenimento produsse in Curia offrirono al C. l'occasione, perseguita per tutta la vita, di uscire dall'oscurità del suo modesto ruolo di segretario e di agente subalterno, e di godere di un momento di straordinaria, anche se effimera, notorietà. Fu il cardinale di Lorena, Carlo di Guisa, ad ispirare al C. una ricostruzione del tutto tendenziosa degli avvenimenti conclusisi con la notte di s. Bartolomeo, nel tentativo di approfondire il solco che divideva la Corona di Francia dagli ugonotti e di impedire così per il futuro un riaccostamento tra la Corona e gli eretici, che l'esperienza del passato rendeva, malgrado l'orripilante massacro, ancora verosimile. Il C. si prestò diligentemente al compito, fornendo, nell'opuscolo Lo stratogema di Carlo IX re di Francia contro gli Ugonotti rebelli di Dio et suoi (Roma 1572), una interpretazione in chiave "eroica" - nel senso del machiavellismo, controriformista - del comportamento del sovrano.

Le lunghe perplessità di Carlo IX, le sue relazioni di amicizia con il Coligny, il fascino indubbio che il capo degli ugonotti aveva esercitato sino alla fine sul giovane monarca con le sue proposte di una prestigiosa politica internazionale di potenza, sono deliberatamente ignorati, così come ignorato è il ruolo in definitiva marginale giocato dal re, rispetto a quello di Caterina de' Medici. Al contrario, il C. si propone di dimostrare la coerenza e la lungimiranza del sovrano, "governato (come si deve presumere) dalla mano del grand'Iddio": e gli stessi accordi con gli ugonotti del 1570 sono spiegati come un espediente dilatorio per la preparazione di un disegno repressivo già allora compiutamente definito, poiché Carlo sin da allora aveva "quel suo pensiere altamente fisso nella mente, di poter con questo mezzo della pace trovar più facilmente il modo d'estinguere le forze loro". E puntigliosamente seguendo gli oscillanti atteggiamenti del re, tutti li piega alla sua interpretazione, che gli sembra infine comprovata dal fatto che Carlo IX aveva ordinato qualche anno prima ai cappuccini "caldissime preghiere a Dio: acioché gli facesse succedere un gran disegno, che haveva in anima a gloria sua, et a beneficio del suo Regno". Non era - quest'ultimo - un grande argomento, e dimostrava semmai la sostanziale ingenuità dell'interprete troppo astuto. Ma nel clima infocato del momento la ricostruzione tendenziosa del C. appariva sin troppo verosimile, e come tale fu accolta comunque nei paesi protestanti, dove l'operetta ancora manoscritta ebbe una larga diffusione, e specialmente tra gli ugonotti, i quali nelle loro polemiche le riservarono la particolare fortuna che spettava ai documenti della nequizia cattolica.

Ma se il cardinale di Lorena poteva considerarsi soddisfatto di questi risultati, il giudizio della Curia nei riguardi di una interpretazione che in definitiva attribuiva ai massacratori cattolici anche l'aggravante di una lunga premeditazione, non poteva essere altrettanto cordiale: comunque al momento non si giudicò opportuno a Roma avallare esplicitamente l'interpretazione capilupiana degli avvenimenti francesi; di qui le iniziali difficoltà che il C. incontrò per la pubblicazione del suo scritto e le molte amarezze che gliene derivarono. Un tentativo del C. di aggirare gli ostacoli che la Curia frapponeva alla pubblicazione, incaricandone sul finire del 1572 l'editore veneziano Gabriele Giolito, non ottenne successo. Nonostante un favorevole parere dell'inquisitore veneto, infatti, il Senato intervenne sospendendo la stampa "per rispetto della Maestà della Reina Madre et del Re" (Intra, p. 710), e ciò malgrado le assicurazioni del C. che lo scritto era stato letto ed approvato sia dai sovrani, sia da vari altri influenti personaggi della corte francese. Il libro ottenne finalmente di essere pubblicato a Ronta nel 1574 e, anche in virtù di una versione francese uscita insieme all'originale, confermò largamente il successo ottenuto nella sua prima circolazione manoscritta.

II C. se ne, sentì incoraggiato ad intraprendere un'opera storica di più vaste proporzioni, sulla Origine e cause delle eresie, un vastissimo affresco del movimento ereticale in tutta Europa, per il quale utilizzò i documenti vaticani a lui largamente accessibili e le sue relazioni epistolari con osservatori estremamente informati come il gesuita Antonio Possevino. L'opera rimase incompleta ed è scarsamente conosciuta. Se ne conservano soltanto i manoscritti delle sezioni relative alla diffusione dell'eresia in Germania, Francia, Paesi Bassi e Scozia.

Alla morte di Ippolito Capilupi, nel 1580, il C. ne ereditò la carica di agente in Roma di Giovanni III, re di Svezia, alla quale peraltro egli era già stato associato dallo zio negli anni precedenti; un incarico di non grande importanza, poiché comportava essenzialmente la cura degli interessi economici che la famiglia reale svedese aveva a Roma e, soprattutto, nel Regno di Napoli. Più rilevante l'incombenza affidata al C. da Gregorio XIII, nel maggio 1580, di una missione alla corte del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga, per frapporre al crescente attrito con la Repubblica di Venezia la mediazione pontificia, nel quadro della politica di pace tra i principi italiani perseguita da Gregorio.

Negli stessi anni il C. continuò, senza contraddizioni con le sue incombenze curiali, la sua opera di rappresentante ufficioso del duca di Mantova alla corte pontificia, chiamato più volte a smussare gli angoli nelle contese originate dalle rivendicazioni giurisdizionali di Guglielmo: così a proposito delle resistenze del duca ad introdurre a Mantova i gesuiti; in occasione della sua difesa della setta mantovana dei sacramentari; e nella polemica sul diritto di nomina dei vescovi nello Stato di Mantova e nel Monferrato. Una parte di rilievo il C. ebbe anche nelle trattative del 1584 per il matrimonio tra Eleonora de' Medici e Vincenzo Gonzaga.

Le relazioni del C. alla corte mantovana dell'aprile 1585, alla vigilia del conclave seguito alla morte di Gregorio XIII, costituiscono i documenti più probanti della sua non comune conoscenza del mondo politico romano. Perfettamente informato delle inclinazioni del collegio cardinalizio egli era infatti in grado, sin da dieci giorni prima dell'inaugurazione del conclave, di valutare con sorprendente approssimazione gli orientamenti e le preclusioni dei vari partiti, di smentire le preoccupazioni gonzaghesche sulla possibilità di elezione del cardinale Alessandro Farnese, tradizionale avversario dei signori mantovani, e di prevedere con sicurezza il successo del cardinale di Montalto, Felice Peretti.

Nel 1585 il C. ottenne da Sisto V la carica di protonotario apostolico, che costituì il culmine della sua modesta carriera curiale.

Anche durante questo pontificato il C. fu l'attento osservatore della vita di corte per i suoi corrispondenti mantovani e con la solita lucidità seppe vedere sin dal principio nelle energiche iniziative riformatrici del papa una risposta finalmente adeguata alle antiche esigenze dello Stato romano: "siamo per avere - scriveva sin dal 1º maggio 1585 - unprincipe giusto et conforme alla qualità de' tempi che corrono et alla corruttela, nella quale era scorso il governo temporale dello stato ecclesiastico" (Pastor, X, p. 594).Di fondamentale importanza sono anche le relazioni del C. sulla politica francese di Sisto V, che egli seguì con l'animo intollerante naturale in chi aveva esaltato la strage degli ugonotti: tuttavia esse sono essenziali alla ricostruzione dei dibattiti curiali e degli oscillanti atteggiamenti del pontefice, indotto dapprima ad una totale condanna di Enrico di Navarra e dei suoi fautori anche cattolici e poi, sul finire del pontificato, incline ad una politica di accordi col Borbone.

Negli ultimi anni della sua permanenza a Roma il C. andò accentuando, rispetto alla sua attività di agente gonzaghesco, l'opera sua in Curia, di cui necessariamente rimangono tracce assai più limitate che non di quella diplomatica, e soprattutto quella storiografica, sollecitata dalla partecipazione diretta a tante eminenti vicende contemporanee. Sua suprema ambizione sembra essere stata quella di rendere conto in un'opera monumentale "delle cose notabili de' nostri tempi": non andò più in là, tuttavia, di una imponente raccolta di materiali, condotta, con un accentuato gusto dell'aneddoto, sino 1592 e spaziante delle corti e delle vicende europee del secolo XVI.

Di intenzioni più circoscritte e storiograficamente più rilevante una sua storia Delle guerre turchesche, alla quale il C. apportò la diretta conoscenza degli aspetti politici e diplomatici dell'impresa di Lepanto e le confidenze e testimonianze di cui gli furono munifici vari protagonisti dell'episodio, tra i quali, soprattutto, Marco Antonio Colonna. Anche quest'opera rimase tuttavia inedita. Venne pubblicata invece nel 1898 a Ferrara dal Prinzivalli una relazione del C. sulla devoluzione della città di Ferrara alla Chiesa, dal titolo Trattato come il ducato di Ferrara tornasse sotto la Sede Apostolica per la linea finita della casa estense legitima nel Pontificato di Papa Clemente VIII.

Anche in questo caso l'atteggiamento del C. è nettamente partigiano: egli non ha il minimo dubbio, infatti, sulle ragioni della Chiesa e le resistenze di Cesare d'Este sono apertamente riprovate come una caparbia opposizione al buon diritto. Ma ancora una volta la testimonianza del C. è di grande importanza, sia perché egli poté seguire da vicino i tentativi operati presso Gregorio XIV e Clemente VIII dal duca Alfonso II d'Este e dall'imperatore Rodolfo II per assicurare a Cesare la successione; sia perché essa esprime nelle loro varie fasi gli orientamenti del pontefice e della Curia sulla delicata vertenza. Non pubblicata è invece una appendice del 1597, dal titolo Ragioni che ha la sede apostolica sul feudo di Ferrara, interessante anche perché suggerisce quali dovettero essere le incombenze del C. in Curia in questo periodo: si tratta infatti di una relazione sulle vicende storiche della signoria ferrarese redatta per informazione della commissione cardinalizia che deliberò in quell'anno intorno all'annessione.

Nel 1599 il C. si ritirò a Mantova, dove trascorse gli ultimi suoi anni, circondato dagli splendidi oggetti d'arte che egli e lo zio Ippolito avevano appassionatamente collezionato in tanti decenni di soggiorno romano: quadri del Titano, del Costa, di Giulio Romano, arazzi, argenterie e preziosi codici di Terenzio, di Virgilio e di Stazio. Morì a Mantova il 4 dic. 1603.

Fonti e Bibl.: I manoscritti delle opere inedite del C. sono conservati dal 1930 nella Biblioteca nazionale di Roma; per le singole collocazioni, cfr. T. Gasparrini Leporace, I manoscritti Capilupiani della Bibl. nazionale centrale di Roma, Roma 1939, passim; per l'abbondantissima corrispondenza diplomatica e privata del C., conservata soprattutto nel fondo Gonzaga dell'Archivio di Stato di Mantova, ma anche, in quantità meno cospicue, in altri archivi e biblioteche italiane, cfr. P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, ad Ind.; La devoluzione di Ferrara alla Santa Sede secondo una relaz. inedita di C. C., a cura di V. Prinzivalli, in Arti della Deput. ferrarese di storia patria, X (1898), pp. 1-217; A. Bertolotti, Artisti in relazione coi Gonzaga signori di Mantova, Modena 1885, pp. 19, 118 s.; G. B. Intra, Di C. C.e del suo tempo, in Arch. stor. lomb., XX (1893), pp. 695-735; L. Rebaschi Carotti, Il conclave di Sisto V e i primi mesi del suo pontificato, Mantova 1919, passim;L. v. Pastor, Storia dei papi, V-X, Roma 1924-1928, ad Indices; P.Pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna 1948, p. 447; Mantova. Le lettere, II, Mantova 1962, pp. 470 s.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE