TARELLO, Camillo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TARELLO, Camillo

Salvatore Ciriacono

– Nacque a Lonato, nel Bresciano, «non prima del 1513, non dopo il 1523» (come argomenta in modo filologicamente ineccepibile Berengo, 1975, p. IX); dalle fonti non si ricavano notizie sull’identità dei genitori.

«Di famiglia agiata e austera» (Marani, 1941a, p. 25; ma «di origini umili, certo non nobili» secondo Lucchini, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 107), ebbe una giovinezza burrascosa, «tanto che nel 1542 fu persino bandito dalla città di Brescia e suo territorio per dieci anni» (ibid.); all’agiatezza economica raggiunta nella maturità contribuì probabilmente la dote ricevuta dalla moglie Barbara, anch’ella originaria di Lonato.

Da lì, la famiglia si trasferì molto presto nella borgata di Gavardo sul fiume Chiese, dove Tarello si dedicò alla conduzione di una cascina, la Marcina (abbattuta nel 1981; Pisani, 1984-1985), la quale rappresentò il suo laboratorio di idee e studi confluiti poi nel Ricordo d’agricoltura, unica sua opera conosciuta, stampata per la prima volta a Venezia nel 1567 per i tipi di Francesco Rampazetto con dedica al doge Girolamo Priuli (Casali, 1901, p. 12).

L’opera sarebbe stata riedita diverse volte a Mantova già prima della fine del XVI secolo (nel 1575; nel 1577 appresso Giacomo Ruffinello; nel 1585 per Francesco Osanna) e poi a Treviso nel 1601 e nel 1731; a Venezia nel 1609, 1622, 1629, 1772 e 1811; a Bergamo nel 1756; a Milano nel 1816 con annotazioni del botanico Paolo Sangiorgio; e infine nel 1900, in occasione delle onoranze tributate a Tarello dal Comune di Lonato (per la descrizione delle edizioni, si veda Casali, 1901, pp. 79-82; per la fortuna del testo, ibid., pp. 20-23).

Sebbene alcuni studi riportino che «possedeva» il podere (ibid., p. 11), nella Marcina di Gavardo Tarello risultò fra i «forastieri», ininterrottamente dal gennaio del 1539 sino al 1573 (Lucchini, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 103).

Con l’ambiente di Gavardo tutto lascia concludere che avesse dei rapporti conflittuali e che in definitiva le sue teorie non fossero accettate, ma anzi giudicate stravaganti e non praticabili in quel contesto. Nella sua stessa proprietà si trovò a dover superare la diffidenza del fattore e del massaro, né il suo carattere difficile e testardo facilitò l’applicazione delle sue teorie, che nelle pratiche agronomiche di quel territorio e nella temperie culturale dell’epoca dovevano apparire di difficile realizzazione (Baldoni, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 77).

D’altro canto, più che uno sperimentatore concreto, conoscitore dei meccanismi economici legati all’agricoltura, egli ci appare come uomo di cultura («che fosse cresciuto a buoni studi, che avesse grande erudizione ne fanno fede le numerose citazioni, nel Ricordo, che riguardano il Petrarca, il Boccaccio, il Bembo», Casali, 1901, p. 11), «sentitamente religioso» (p. 12), lettore degli antichi georgici e intellettuale che con una punta di malcelato orgoglio non si peritava di considerarsi, per le sue teorie innovative, una sorta di «Colombo genovese» (così, infatti, egli definisce sé stesso nel trattatello).

Risulta dalle fonti che fu in stretti rapporti di amicizia con il condottiero Sforza Pallavicino marchese di Cortemaggiore (1519-1585), che lo volle come padrino del figlio naturale Fulgenzio, avuto con una donna lonatese di nome Elisabetta e battezzato il 1° gennaio 1549 (Lucchini, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, pp. 104 s.).

Oggettivamente l’ambiente ristretto di Gavardo dovette spingerlo da un lato a stabilire dei contatti più stretti con Lonato, dall’altro a cercare in quella che è stata definita «la più antica Accademia agraria del mondo, forse» (Stringher, 1905, p. 125) un terreno ricettivo delle sue riflessioni agronomiche. È stata questa l’Accademia di Rezzato, fondata, secondo quanto riferisce Agostino Gallo (Le vinti giornate dell’agricoltura..., 1569), nel 1540 dall’agronomo Giacomo Chizzola, nella quale operarono sperimentatori e scrittori, fra i quali non solo Tarello e Gallo – indubbiamente fra i più noti –, ma figure non meno significative come Giacomo Lanteri e Giuseppe Milio Voltolina (Grasso Caprioli, 1982).

Il Ricordo d’agricoltura si proponeva di incrementare la produzione, frumentaria innanzitutto, in un’area caratterizzata da un’agricoltura di sostentamento. La crescita demografica e la caduta tendenziale del saggio di profitto rappresentavano in effetti le coordinate generali di un Cinquecento certamente in espansione, ma anche carico di contraddizioni, specialmente socioeconomiche. Tarello si proponeva di raggiungere tali obiettivi attraverso l’attento avvicendamento delle colture agricole proiettato nel tempo e nello spazio, nonché la scoperta delle capacità rigeneratrici delle foraggere nel ciclo agricolo.

A tal uopo suggeriva di introdurre per ben due anni la coltivazione delle leguminose da foraggio nella rotazione quadriennale, permettendo queste la fissazione dell’azoto, che è poi trasformato in sali minerali e quindi in nitriti e nitrati (nitrificazione). L’impiego soprattutto delle foraggere in alternanza al maggese aveva i ben noti vantaggi nella stabulazione del bestiame, oltre che nell’accresciuta fertilità dei suoli. In tal modo sarebbero raddoppiati i raccolti «ed avanzar due terzi dell’usata semenza di biava, con assai minor fatica del solito». Consigliava perciò una riduzione della superficie a frumento per fare più largo posto al trifoglio e al riposo, nell’ambito di una precisa rotazione quadriennale, la quale avrebbe previsto la coltivazione per due anni delle leguminose, un anno di riposo a maggese lavorato e un anno a frumento. In un altro schema consigliava un lungo periodo a foraggio (15 anni), seguito da un quinquennio a frumento, avvicendato con altre colture, il tutto ripartito equamente sulla superficie aziendale in modo da avere ogni anno gli stessi raccolti dalle varie colture. Contraddittoriamente, considerava però dannosa un’intensa irrigazione del terreno, al fine di incrementare le rese di erbe e fieno. Il trifoglio «che nascerà della terra non adacquata – osservava – avvenga ch’esso nasca in minor quantità di quello che nascerà dell’adacquata, esso sarà migliore e più saporito» (Berengo, 1975, p. 100). Di conseguenza il prato cui guardava Tarello era quello asciutto, e non tanto quello irriguo della vicina Lombardia, dove mediante le marcite e le ripetute irrigazioni si ottenevano molteplici raccolti di fieno durante tutto l’anno, tali da fornire il necessario foraggio a un fiorente allevamento. In effetti l’agricoltura che Tarello proponeva era ancora di sostentamento, di piccole dimensioni e in lotta per la sopravvivenza, fondata sulle secolari colture granarie, le sole che potessero nutrire una popolazione in rapida crescita.

Considerato da alcuni addirittura «l’antesignano del moderno progresso agrario» (Casali, 1901, p. 4), il trattato di Tarello occupa un posto di rilievo nell’agronomia italiana ed europea del XVI secolo, ed è visto come un punto di riferimento, almeno sotto il profilo teorico, degli sviluppi agricoli dell’intera penisola italiana, oltre che della Repubblica di Venezia, che svolse certamente un ruolo fondamentale – per numero delle opere e rilevanza dei temi affrontati – nell’ambito della trattatistica italiana (come si può rilevare analizzando i dati proposti da Beutler, 1973).

Tarello riuscì a fare esaminare il suo trattatello dalle autorità veneziane (circostanza di non poco conto) e ottenere una sorta di ‘brevetto’ (concetto teorizzato per la prima volta proprio dalla Repubblica di Venezia) che comportava una ricaduta di carattere economico. Il Senato, infatti, con deliberazione del 29 settembre 1566, concesse un privilegio speciale – esteso anche a Milano, Mantova, Ferrara e Firenze – per lui, i suoi figli e i suoi discendenti, di riscuotere un tributo dagli agricoltori che avessero applicato i suoi metodi (Marani, 1941a, pp. 37-39). Tuttavia, le sue massime non trovarono il successo sperato fra i suoi concittadini, i quali le recepirono quale «matteria e pazzia» (così egli stesso riferisce nel Ricordo). Né sembra che, dal privilegio accordatogli dalla Repubblica, egli fosse riuscito a guadagnare un diretto vantaggio economico, considerato che non sappiamo in definitiva quanti contratti agrari fossero stati stipulati sulla base delle sue ‘scoperte’ agronomiche. E, d’altronde, «con la vita pubblica non ebbe alcuna consuetudine, rimanendo uno sconosciuto: di lui non si era mai fatto parola nelle sale del Consiglio di Brescia, e persino il tanto meno indaffarato Consiglio della sua Lonato lo ignorava costantemente, non avendo egli mai occupato una carica né urbana né rurale» (Berengo, 1975, p. VIII).

Ma, se le fortune di Tarello sotto il profilo biografico apparvero difficili, non per questo l’ambiente in cui egli operava risultava forzatamente refrattario a ogni riforma. Il Bresciano rappresentava infatti, tra la ben irrigata ed evoluta Lombardia e la Repubblica di Venezia, una provincia fra le più dinamiche sotto il profilo economico, non solo per le sue miniere e la sua produzione siderurgica, ma anche per quella agricola – e vinicola in particolare –, per i suoi raccolti e per le intense irrigazioni. È in tale contesto che si sviluppò un dibattito teorico vivacissimo, al quale portò il suo contributo un altro agronomo, quell’Agostino Gallo che ci appare quasi un alter ego di Tarello, rappresentando entrambi le voci più originali tese a uno sviluppo più avanzato in agricoltura (che si potrebbe dire, con qualche riserva, ‘capitalistico’).

Il prato artificiale e quello irriguo rappresentavano il punto nodale di ogni elaborazione teorica dei due personaggi. Scriveva infatti Gallo: «Lodo poi che più tosto si pigli la possessione dotata di acqua, che altramente. Percioche, adacquandosi abondantemente [...] è quasi impossibile, che non se ne cavi il doppio di quello, che si fà di tutte le altre» (Le vinti giornate dell’agricoltura..., cit., p. 6). Vero è che non mancava dal mettere in guardia da un eccessivo dilavamento del terreno, osservando che «dando ad ogni campo quell’acqua, che vi conviene, egli l’accetta sempre per buona madre; ma quanto più la tien’addosso, tanto maggiormente la prova per pessima matrigna» (p. 7). E tuttavia, anche le colture specializzate, quelle ottenibili attraverso un’intensa irrigazione (riso, lino, canapa) venivano poste al centro della sua indagine.

La differenza sostanziale è che Gallo si rivolgeva ai medi e grandi proprietari del basso e fertile Bresciano piuttosto che a un ceto agricolo sostanzialmente tradizionale, come nel caso di Tarello; il primo «viveva, infatti, nella bassa pianura irrigua», mentre il secondo «nella pianura asciutta, dove un’altissima densità di popolazione poneva di fronte a grossi problemi in termini di sussistenza» (Roveda, 2012, p. 52).

Sottrarre terreni preposti alle colture cerealicole poneva il problema di una necessaria quanto immediata erogazione di grano, fattore alimentare di primaria importanza nei consumi dell’epoca. Indurre i contadini ad abbandonare pratiche colturali secolari e a innovare in profondità, accollandosi un sicuro rischio nella conduzione della proprietà, appariva impresa difficile se non disperata. Ed era probabilmente questo il quadro storico che impediva al messaggio di Tarello di scendere in profondità nelle strutture sociali del mondo agricolo veneto e modernizzare veramente in termini economici le aziende agricole dell’epoca. Non si deve dimenticare, infatti, che l’evoluzione del settore primario – in qualsiasi epoca lo si voglia considerare – prevede l’azione diretta dell’imprenditore agricolo, non coartata da contratti quali la mezzadria o la colonia parziaria. Al contrario, lo stesso Tarello guardava certamente al conduttore quale figura centrale del rinnovamento delle potenzialità dell’azienda agricola, e tuttavia ne faceva una figura quasi passiva, almeno in termini contrattuali, rispetto al dominus.

Gli stessi canali di informazione, per l’obiettivo di una diffusione dell’agronomia quale Tarello perseguiva, ci appaiono deboli. Egli puntava molto sul ruolo dei parroci (auspicava, infatti, che si facesse «leggere e dichiarare» il suo Ricordo «dai preti d’ogni villa, castello e terra pubblicamente ogni mese una volta, per beneficio et intelligenza degli agricoltori») e meno su altri mediatori e istituzioni culturali, quali ad esempio i periti dipendenti dalla magistratura dei Beni inculti, i quali avrebbero potuto favorire un insieme di competenze vincente. In conclusione, sembra che facesse affidamento «soltanto sulla spontanea adozione della novità da parte della gente dei campi» (Tortoreto, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 143). Tutto ciò contribuisce a spiegare i motivi per i quali il Ricordo tarelliano rimase ristretto a una dimensione teorica, testimoniata dalle molteplici edizioni a stampa (nel corso del Seicento e del Settecento era senz’altro conosciuto dagli agronomi tedeschi, quali Wolf Helmhard von Hohberg e Carl Gottlob Rössig, come ci informa Güntz, 1977, p. 82) ma con limitate ricadute nel settore produttivo, soprattutto italiano.

Le rotazioni fra cereali e foraggere proposte da Tarello appaiono comunque di grande modernità, non trovandosene traccia né negli antichi scrittori latini né fra gli agronomi contemporanei – tanto meno fra quelli inglesi. Sarebbe stato necessario, per trovarne di simili, attendere quella che si definisce la rivoluzione agricola del Settecento, la quale in effetti è stata attribuita alla sola Inghilterra, con i vari schemi fra i quali quello più conosciuto è la rotazione di Norfolk, con i complessi avvicendamenti colturali che si distendevano per ben sette anni.

A Tarello venne anche attribuito nel 1566 un brevetto del Senato veneto «per una macchina da semina che assicurava alte rese risparmiando semente» (Slicher van Bath, 1960, trad. it. 1973, p. 420); la tesi, già formulata in precedenza («invero l’idea prima della seminatrice l’ebbe Tarello, e coloro che la svilupparono furono il bolognese Cavallina ed il bresciano padre Francesco Lana, mentre Bono d’Arezzo la perfezionò chiamandola Carro di Cerere», Rosa, 1883, pp. 286-288), fu tuttavia contestata per forzatura della fonte (Poni, 1964, p. 456).

Indubbio è però il merito riconosciuto da più parti a Tarello di aver spianato la strada all’invenzione della seminatrice meccanica, intorno al 1701, da parte dell’agronomo inglese Jethro Tull (1674-1741), soprattutto per quanto riguarda la tecnica della semina in righe («previene Ietro Tuli pel sistema della semina in fila», Rosa, 1883, p. 258); a tal proposito, nel corso di una missione di industriali bresciani recatasi nel 1862 all’esposizione di Londra per studiare l’agricoltura inglese, il direttore della delegazione, l’agronomo trentino Angelo Monà (1864), rilevò che in Inghilterra erano già note le teorie di Gallo e Tarello («gli Inglesi [...] confessano d’aver imparato dal nostro Tarello di Lonato la teoria delle ruote agrarie coll’alternanza dei foraggi annuali e temporari», p. 8).

Certamente innovative apparivano anche le sue prescrizioni nella tenuta del bestiame al fine di avere una concimazione naturale all’interno delle rotazioni programmate. Tarello dettava norme correlate al bosco, ma soprattutto prescriveva la coltivazione di alberi da frutto e di viti, da cui trarre le regalie a carico dell’affittuario o del mezzadro. Tra di esse figuravano «una sicchia di vin cotto bono», «una soma de maroni», «due quarte de farro fronzuto», molti carri di vino «puro et bono» (Tortoreto, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 144). La coltivazione della vite risultava in effetti una pratica nella quale Tarello da un lato profondeva le sue proprie letture – che derivavano da una ricca tradizione bibliografica risalente ai classici e agli antichi georgici –, e dall’altro rifletteva le sue osservazioni e conoscenze della pratica quotidiana del mondo contadino che lo circondava. Impartiva precetti sui tempi e sulle stagioni più adatte a intraprendere alcune coltivazioni; né trascurava la potatura della pianta e la zappatura, la quale doveva seguire il movimento delle stagioni e quindi le trasformazioni che il terreno stesso subiva. Ovviamente Tarello non poteva conoscere l’evoluzione di carattere chimico che ha accompagnato e combattuto le varie malattie della vite negli ultimi secoli (fillossera, peronospora, oidio); e in effetti le soluzioni che egli poneva al problema risultano talvolta eccentriche se non fantasiose, inducendoci tuttavia a un attento confronto fra le pratiche contemporanee e quelle che avevano caratterizzato i secoli trascorsi (Milesi, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980).

Morì nel 1573, probabilmente a Lonato (secondo la tradizione fu «sepolto nella chiesetta a porto Corlo», Casali, 1901, p. 74).

La vedova Barbara, quattro mesi dopo la morte del marito, vendette la cascina della Marcina e si ritirò a Brescia (Berengo, 1975, p. 15). Tuttavia volle tornare infine nella città natale: la sua morte è infatti annotata nel primo registro dei morti della parrocchia di Lonato in data 12 agosto 1582 (Lucchini, in Atti del Convegno su Camillo Tarello..., 1980, p. 107).

Fonti e Bibl.: A. Gallo, Le vinti giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa, in Venetia, appresso Gratioso Percaccino, 1569; G.M. Voltolina, De hortorum cultura libri III, Venetiis, ex officina Iosephi Zenari, 1573.

A. Monà, L’agricoltura inglese paragonata all’italiana, Bologna 1864; G. Rosa, Storia dell’agricoltura nella civiltà, Milano 1883; U. Papa, C. T.: agronomo bresciano del secolo XVI, in Rassegna nazionale, XXI (1899), pp. 16-28; A. Casali, Agricoltura: messer C. T. da Lonato, Bologna 1901; V. Stringher, Organizzazione agraria in Italia, in L’iniziativa del re d’Italia. L’Istituto internazionale d’agricoltura. Studi e documenti, a cura di A. De Viti De Marco - M. Pantaleoni - M. Montemartini, Roma 1905, pp. 123-277; C. Marani, C. T. e gli inizi della scienza agronomica moderna, in Rivista di storia economica, VI (1941a), 1, pp. 25-42; Id., L’agronomo del Rinascimento C. T., Bologna 1941b (estr. da Annali della Reale Accademia di agricoltura di Bologna, n.s., I (1939), pp. 179-213); E. Sereni, Spunti della rivoluzione agraria europea nella scuola bresciana cinquecentesca di Agostino Gallo e di C. T., in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, II, Roma 1958, pp. 113-128; B.H. Slicher van Bath, De agrarische geschiedenis van West-Europa (500-1850), Utrecht 1960 (trad. it. Torino 1973, p. 420); E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961, pp. 132-138; C. Poni, Ricerche sugli inventori bolognesi della macchina seminatrice alla fine del secolo XVI, in Rivista storica italiana, LXXVI (1964), 2, pp. 455-469; Id., Un privilegio d’agricoltura. C. T. e il Senato di Venezia, in Rivista storica italiana, LXXXII (1970), 3, pp. 593-610; C. Beutler, Un chapitre de la sensibilité collective: la littérature agricole en Europe au XVIe siècle, in Annales. Économies, sociétés, civilisations, XXVIII (1973), pp. 1280-1301; M. Berengo, Introduzione a C. Tarello, Ricordo di agricoltura, Torino 1975; M. Güntz, Handbuch der landwirtschaftlichen Literatur, Vaduz 1977; Atti del Convegno su C. T...., Lonato... 1979, s.l. 1980 (in partic. R. Baldoni, C. T. e l’avvicendamento agrario, pp. 77-81; L. Lucchini, C. T. e Sforza Pallavicino generalissimo della Repubblica veneta (Notizie inedite sulla personalità del grande agronomo lonatese), pp. 103-109; O. Milesi, M. C. T. da Lonato e la tecnica vitivinicola del XVI secolo, pp. 117-121; E. Tortoreto, C. T., le istituzioni e un contratto agrario, pp. 143 s.); P. Lanaro Sartori, Gli scrittori veneti d’agraria del Cinquecento e del primo Seicento tra realtà e utopia, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori. Atti del Convegno..., Trieste... 1980, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1981, pp. 261-310; F. Grasso Caprioli, C. T. - Agostino Gallo - Giacomo Chizzola e l’Accademia di Rezzato, in Rivista di storia dell’agricoltura, II (1982), pp. 37-122; F. Pisani, Distrutto un monumento/documento di storia dell’agricoltura: la cascina Marsina di C. T., in Acta Museorum Italicorum Agriculturae, IX (1984-1985), pp. 230 s.; S. Ciriacono, Trattati di agricoltura, di idraulica e di bonifica, in Trattati di prospettiva, architettura militare, idraulica e altre discipline, a cura di V. Fontana, Venezia 1985, pp. 45-60; Agostino Gallo nella cultura del Cinquecento. Atti del Convegno..., Monticelli Brusati... 1987, a cura di M. Pegrari, Brescia 1988; M. Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari. Botanica e agricoltura nell’Europa occidentale, Torino 1992; S. Ciriacono, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea, Milano 1994; E. Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del Convegno..., Monticelli Brusati... 2001, a cura di G. Archetti, Brescia 2003, pp. 715-750; E. Roveda, Uomini, terre e acque: studi sull’agricoltura della Bassa lombarda tra XV e XVII secolo, Milano 2012.

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