CANZONE

Enciclopedia del Cinema (2003)

Canzone

Gianni Borgna

La canzone e i suoi usi cinematografici

Uno dei più attenti studiosi dell'argomento, Ermanno Comuzio (1987), ha classificato almeno cinque tipi possibili di uso della c. nel film, con alcune varianti, secondo uno schema già suggerito da un importante saggio di L.-J. Calvet e J.-C. Klein (1987).

Il primo, il più semplice, si realizza quando la c. coincide con il titolo del film, in un rapporto che rafforza ambedue i contraenti dello scambio. Gli esempi sono infiniti: da Stormy weather (1943), la c. di Harold Arlen e Ted Kohler inclusa nel film di Andrew L. Stone, a Three coins in the fountain, interpretata da Frank Sinatra nell'omonimo film di Jean Negulesco (1954; Tre soldi nella fontana), che nel 1955 valse l'Oscar a Sammy Cahn e Jule Styne; da Laura (1944; Vertigine), il cui tema, composto da David Raksin per il film di Otto Preminger, diventò (con le parole di Johnny Mercer) una classica ballata statunitense, a Yellow submarine (1968) di George Dunning, uno dei titoli della filmografia dei Beatles iniziata con A hard day's night (1963; Tutti per uno) e Help! (1965; Aiuto!) di Richard Lester. Sia nel caso in cui la c. dà origine al film (Yellow submarine) sia nel caso opposto (Laura), è da essa che viene il nucleo di ispirazione primaria. Uno degli esempi in tal senso è il celebre Singin' in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia) di Gene Kelly e Stanley Donen, tra i più bei musical mai realizzati. La sequenza in cui Gene Kelly danza con l'ombrello sotto la pioggia, in un empito di vitalismo e di joie de vivre, è entrata di diritto nella storia del cinema, come peraltro tutto il film, che di quella storia è, a suo modo, una rilettura, oltreché una ricostruzione, ironica e divertita, del passaggio dal muto al sonoro. Un altro caso significativo è offerto da Je t'aime, moi non plus, c. che Serge Gainsbourg compose nel 1969, suscitando grande scandalo, e da cui trasse un film nel 1975, naturalmente con Jane Birkin nei panni della protagonista. Una storia d'amore romantica e disperata, che non raccolse i favori della critica ma fu difesa da François Truffaut.

Il secondo uso possibile si verifica quando la c. sostiene i titoli di testa o di coda. In questo caso può anche essere estranea al contenuto, ma il più delle volte si rivela profondamente legata al senso del film. Ne sono un esempio i titoli di testa di uno dei capolavori di Roberto Rossellini, Viaggio in Italia (1953), opera che ha ben poco di musicale. In un continuo campo/controcampo, che registra il rapporto tra la realtà esterna e il punto di vista dei personaggi, Rossellini narra le vicende di una coppia di inglesi in crisi (Ingrid Bergman e George Sanders), i quali, estranei ormai l'uno all'altra, ritrovano, nella Napoli misera e dolente, ma insieme vitale e 'panica' dell'immediato dopoguerra, un senso, se non il senso, della loro unione. Tutto questo è in qualche modo già racchiuso nella c. che, dai titoli di testa, si prolunga fino alla prima sequenza, una lunga soggettiva sul paesaggio meridionale osservato dai due personaggi. La c., nell'esecuzione accorata di Giacomo Rondinella, è 'O paese d' 'o sole. Oppure si possono citare gli originalissimi titoli di testa di Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini, cantati da Domenico Modugno su un'inquadratura fissa che mostra una bianca e sperduta 'luna di giorno' tra nuvole in corsa: "Alfredo Bini / presenta / il vecchio Totò / il triste Totò / l'allegro Totò, / nella storia / UCCELLACCI E UCCELLINI / raccontata da Pier Paolo Pasolini…".

C'è poi il terzo uso, la 'canzone-leitmotiv', che può essere proposta già nei titoli di testa o configurarsi nel corpo della vicenda, e in questo caso assolve una funzione drammaturgica evocando una situazione o un personaggio. È il caso, per es., di San Francisco (1936) di W.S. Van Dyke, o di Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, in cui la c. omonima sottolinea l'impossibile conversione del pistolero alla chitarra, o, ancora, di Casablanca (1942) di Michael Curtiz, dove il rimpianto, la nostalgia e l'evocazione dei ricordi scattano puntualmente ogniqualvolta Sam, il pianista di colore, intona al pianoforte la struggente As time goes by di Herman Hupfeld. Una variante della c.-leitmotiv è la 'canzone-sintesi', catalizzatrice dell'atmosfera del film, o anche del suo significato complessivo. Tra gli infiniti esempi, risulta emblematico (sia perché legato al nome di un autore che amava il risvolto sentimentale della 'cattiva musica', sia perché film che s'identifica con una c. che, a sua volta, ne sostiene i titoli di testa e di coda) Baisers volés (1968; Baci rubati), di F. Truffaut, terzo episodio delle avventure di Antoine Doinel, alias Jean-Pierre Léaud. La c. è la magnifica Que reste-t-il des nos amours? di Charles Trenet, di cui baisers volés è un verso quanto mai significativo e perciò insistito, nonché una delle cose che il poeta rimpiange e nel ricordo trasfigura, insieme ai "rêves mouvants" e ai "billets doux" presi di peso dai Fleurs du mal di Ch. Baudelaire. Anche in New York, New York (1977) di Martin Scorsese, sorta di rilettura del musical come genere, il brano musicale coincide con il titolo del film. Le vicende parallele del sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) e della cantante Francine Evans (Liza Minnelli), il cui matrimonio entra irreparabilmente in crisi, sono la spia del conflitto tra le ragioni creative del jazz e quelle consolatorie della canzone. Il tema di New York, New York, c. di Fred Ebb e John Kander, ritorna spesso nella narrazione, talvolta con risvolti amari (come quando è il personaggio di De Niro, doppiato al sax da Georgie Auld, a proporlo), fino all'apoteosi del finale, nell'indimenticabile versione di Liza Minnelli, che ne restituisce il travolgente vitalismo e l'intima disperazione.

La 'canzone-azione', il quarto tipo, è invece quella che fa progredire il racconto, e che Comuzio contrappone a quella 'interlocutoria', che ha funzione di pausa, di interruzione dell'azione, e caratterizza il cattivo musical. Si rivela c.-azione la scatenata Rock around the clock, del leggendario Bill Haley e dei suoi Comets, fin dalle prime immagini di The blackboard jungle (1955; Il seme della violenza) di Richard Brooks. Haley la incise nell'aprile del 1954, ispirandosi a un vecchio motivo rhythm and blues di Sonny Dae, senza ottenere alcun successo. Ripescato per la colonna sonora del film di Brooks, che descrive, con toni allarmistici e scandalistici, le gesta di un gruppo di teppisti minorenni, il brano, con il suo ritmo scatenante, produsse fenomeni di eccitazione collettiva. Di Rock around the clock si sarebbero venduti negli anni venticinque milioni di copie. Non a caso George Lucas aprirà nel 1973 il suo American graffiti proprio con questa c., che nel tempo era diventata una vera e propria bandiera. Un altro esempio di c. in funzione drammaturgica, pur se in tutt'altro contesto storico e culturale, viene offerto dal film di Agnès Varda Cléo de 5 à 7 (1962; Cléo dalle 5 alle 7), uno dei capolavori della Nouvelle vague. La protagonista (Cléo, appunto, interpretata da Corinne Marchand) è una cantante relativamente celebre, la cui vita essenzialmente frivola e inconsapevole viene sconvolta dal sospetto di avere un male incurabile. Il film racconta in tempo reale le due ore in cui Cléo attende l'esito delle analisi, passeggiando quasi macchinalmente e in preda a un'angoscia crescente per le vie di Parigi. Una promenade anche mentale che viene interrotta quando l'artista si sottopone nella sua casa a una seduta di prova con l'autore di una nuova c. (che è poi lo stesso Michel Legrand, compositore di questa come di molte altre celebri colonne sonore). Nel tentativo di rincuorarla, musicista e paroliere scherzano prima di cominciare a farle sentire la loro creazione, Sans toi. Si tratta di una c. drammatica che Cléo sussurra come cogliendone via via il significato che la riguarda da molto vicino: e di cui l'ultimo "sans toi" è quasi un presentimento di morte. Tornando al cinema statunitense un altro esempio significativo in questo senso è offerto da Raindrops keep fallin' on my head, c. famosissima, che portò a Burt Bacharach (altro importante autore di musica popolare che molto ha dato al cinema) un Oscar. In Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969; Butch Cassidy) di George Roy Hill (film di cui sempre Bacharach compose la colonna sonora, premiata anch'essa con l'Oscar nel 1970) la c. accompagna la sequenza in cui Butch (Paul Newman) ed Etta (Katharine Ross) vanno in bicicletta, come a fissare l'ultimo momento di spensierata felicità vissuto dal trio di fuorilegge, prima del tragico finale.

Si arriva infine alla 'canzone-esposizione', quella, cioè, che si può considerare emblematica di un personaggio e può coincidere con la sua entrata in scena o definirlo nel contesto di una sequenza particolarmente significativa. Nel primo caso si pensi a un film come As you desire me (1932; Come tu mi vuoi) di George Fitzmaurice, in cui è una c. a introdurre la protagonista, Greta Garbo, che però si rivela allo spettatore solo alla conclusione del brano, quando si ritira dietro le quinte. Nel secondo, invece, ritorna alla mente la Gilda dell'omonimo film di Charles Vidor (1946); all'apice della storia, sono la musica, le parole, nonché i lunghi guanti neri sfilati lentamente e le movenze sinuose, a definire pienamente il personaggio di Rita Hayworth, mentre canta Put the blame on mame, firmata da Doris Fisher e Allan Roberts (al pari dell'altra c. compresa nel film, Amado mio), in un crescendo di sensualità e di erotismo.

Fin qui le principali tipologie. Ma il rapporto tra le c. e i film è complesso e vasto e attraversa tutta la storia del cinema, fino a costituire, talvolta, l'essenza stessa del racconto cinematografico. È il caso, per es., del musical (v.) a cominciare da quello che viene anche considerato il primo film sonoro, The jazz singer (1927; Il cantante di jazz) di Alan Crosland, in cui Al Jolson canta e parla (molto poco), sia pure entro coordinate linguistiche e narrative ancora legate ai cliché del muto. Il film (presentato in prima mondiale il 6 ottobre 1927) salvò dal fallimento la Warner Bros., imponendo sul mercato il sistema Vitaphone (con il sonoro inciso su dischi); ma come sottolineato da P. Rotha e R. Griffith (The film till now, 1949; trad. it. 1964, p. 353), esso sarebbe passato inosservato (se muto o anche con una colonna sonora sincronizzata), per finire nella corrente di opere mediocri e senza storia. Se non che, verso la fine, Jolson, truccato da negro, canta due canzoni. Per ascoltarle e per cogliere le battute che le introducevano, i newyorkesi e i cittadini del mondo intero fecero la fila per mesi. Da allora il musical è passato dall'abilità scenografica di Busby Berkeley (inventore negli anni Trenta di straordinarie macchine spettacolari) ai numeri spumeggianti della coppia Ginger Rogers-Fred Astaire (il miglior interprete cinematografico, quest'ultimo, delle c. di George e Ira Gershwin, di cui va citata almeno la splendida They can't take that away from me tratta da Shall we dance, Voglio danzare con te, di Mark Sandrich del 1937), fino alle già ricordate performances di Gene Kelly e Stanley Donen (di cui non si può dimenticare On the town, 1949, Un giorno a New York), alle eleganti esecuzioni di Bing Crosby, per arrivare alla Marilyn Monroe di Let's make love (1960; Facciamo l'amore) di George Cukor, in coppia con Yves Montand, alla Barbra Streisand di Hello, Dolly! (1969) di Gene Kelly, alla Julie Andrews di Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson o, su tutt'altro piano, di Victor/Victoria (1982; Victor Victoria) di Blake Edwards, alla Liza Minnelli del già citato New York, New York e prima ancora di Cabaret (1972) di Bob Fosse, nei panni della spregiudicata Sally Bowles la cui amoralità è perfettamente espressa nel numero musicale Money, money, money, cantato dalla Minnelli e da Joel Grey, maschera maligna e perversa dell'ambiguità.

I due musical forse più arditi della storia del cinema, certamente i più sperimentali ed 'estremi', sono però francesi. Il primo è Les parapluies de Cherbourg che, nel 1964, fruttò al suo autore, Jacques Demy, la Palma d'oro al Festival di Cannes e un grande successo di pubblico. Un film interamente cantato, come un'opera lirica, in cui, secondo i dettami della migliore Nouvelle vague, tutto diventa cinema, a cominciare dall'autentica Cherbourg che viene reinventata e ricolorata, per corrispondere nello stile agli sviluppi sentimentali della storia. Al centro di tutto sono una Catherine Deneuve giovanissima e in stato di grazia e le musiche sempre pertinenti e talora struggenti di M. Legrand, scritte direttamente per il cinema, come i testi del regista. Il secondo è On connaît la chanson (Parole, parole, parole…) di Alain Resnais, altro regista della Nouvelle vague che nel 1997 ha girato questo musical sui generis (o forse sarebbe più giusto definirlo un anti-musical), per metà parlato e per metà cantato, in cui la c., in una scelta di celebri esempi, esplode improvvisamente nel racconto per esprimere, in forma straniata, il senso della situazione. Sorretta dalle splendide prove di Pierre Arditi, Sabine Azéma, Jane Birkin e Agnès Jaoui, l'opera è forse discontinua ma, a tratti, s'impone per la maestria con cui il regista costruisce una sorta di geometria dei sentimenti e un surrealismo dell'iperrealismo.

Uno sguardo all'Italia

Anche in Italia, sin dalle origini, cinema e c. formarono un binomio indissolubile. Persino nel periodo del muto i film si rifacevano, fin nel titolo, a celebri c.: Torna a Surriento (1919), Core furastiero (1924) e Napule ca se ne va (1926) di Ubaldo Maria Del Colle, Voce 'e notte (1919) di Oreste Gherardini. Ma con l'invenzione del sonoro la tendenza si impose ancor più prepotentemente. Nel 1930 Mario Almirante realizzò, nei nuovi impianti di Pittaluga, Napoli che canta, film cantato ma non parlato. Immediatamente dopo Gennaro Righelli firmò La canzone dell'amore, che, a differenza del primo, fu anche un grande successo. Liberamente tratto da una novella di L. Pirandello, fu pubblicizzato con lo slogan: "Un'apoteosi d'amore in tre lingue", essendo stato girato contemporaneamente in versione italiana, tedesca e francese, e fu consacrato da Alessandro Blasetti, sulla rivista "Cinematografo" (30 ottobre 1930) come "un avvenimento base nella storia del cinematografo italiano". Il film ha tra gli altri meriti quello di rendere popolarissimo il suo leitmotiv musicale: "Solo per te, Lucia, va la canzone mia…". Ne sono autori i celeberrimi Cesare A. Bixio e Bixio Cherubini. Del 1932 è Pergolesi, di Guido Brignone, con Dria Paola ed Elio Steiner nella parte del grande musicista. Ma l'avvenimento di quell'anno fu l'uscita del film di Mario Camerini Gli uomini, che mascalzoni…, in cui poté finalmente eccellere l'eleganza e il garbo di un giovane attore: Vittorio De Sica. La sequenza in cui, teneramente abbracciato a Lia Franca, sospira e danza il romantico motivo di Bixio e Ennio Neri, Parlami d'amore Mariù, è diventata leggendaria, tanto che le note di quella c. furono usate persino per fare da colonna sonora al capolavoro di Jean Vigo L'Atalante (1934), sia pure, sembra, contro il parere del regista.

I filoni cinematografici che, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, risultano legati alle c. appaiono così delineati. Uno è appunto quello legato alla tradizione melodrammatica, affidato generalmente a cantanti lirici, che talvolta si trasformano in attori, spesso un po' goffi ma popolarissimi. L'altro è quello della commedia borghese, più o meno sofisticata, qua e là contrassegnata da agrodolci notazioni di costume, in cui cominciano a cimentarsi, anche come cantanti, gli stessi divi. Si tratta di film che anticipano tanto la commedia all'italiana quanto un certo 'neorealismo rosa', e il cui dominatore incontrastato è, come detto, Vittorio De Sica. Con il dopoguerra le cose non cambiarono. Il filone operistico, in cui continuava a eccellere Carmine Gallone, proponeva, tra gli altri, Il Trovatore (1949), La forza del destino (1950), Puccini ‒ Vissi d'arte, vissi d'amore (1953; primo nella classifica degli incassi nella stagione 1952-53), Casa Ricordi (1954); ma anche Il cavaliere del sogno (1947) di Camillo Mastrocinque, Enrico Caruso, leggenda di una voce (1951) di Giacomo Gentilomo, Giuseppe Verdi (1953; secondo per incassi nella stagione 1953-54) di Raffaello Matarazzo, Aida (1953) di Clemente Fracassi, con una giovanissima Sophia Loren. Il genere commedia annoverava titoli come Botta e risposta (1950) di Mario Soldati (protagonista, tra gli altri, il grande Louis Armstrong), Il microfono è vostro (1952) di Giuseppe Bennati, Ci troviamo in galleria (1953) di Mauro Bolognini. Iniziavano comunque a manifestarsi alcune novità. In primo luogo il fatto che certi film non si servivano più delle c. solo pretestualmente, ma invece le facevano assurgere a un ruolo di primo piano. Si pensi, in particolare, a Canzoni di mezzo secolo (1952) e Canzoni, canzoni, canzoni (1953), due film diretti da Domenico Paolella in cui i brani musicali (proposti di volta in volta da attori celebri con esiti spesso esilaranti: basti ricordare l'esecuzione di Io cerco la Titina da parte di un apparentemente serio Alberto Sordi) costituiscono il vero soggetto del film, nel tentativo, solo parzialmente riuscito, di ricostruire la storia recente italiana attraverso le canzoni. Impresa comunque interessante, almeno nelle intenzioni, se è vero che, più di ogni altra cosa, la c. ha il potere di restituire in un attimo il profumo di un'epoca, come accade nel ben altrimenti riuscito Carosello napoletano (1954) di Ettore Giannini, tratto dall'omonima rivista teatrale dello stesso autore. L'opera, che racconta le vicende di una povera famiglia di saltimbanchi, traccia anche la storia di Napoli, dalle invasioni medievali dei pirati saraceni (Michelemmà è la prima c.) fino al secondo dopoguerra.

L'altra novità è offerta da quei film, spesso firmati da Vittorio Metz e Marcello Marchesi, che introdussero una nota di surrealismo nella nostra commedia rosa, ancora troppo dominata, anch'essa, dagli stereotipi melodrammatici. Ne è un esempio "Lo sai che i papaveri…" (1952), con Walter Chiari e Annamaria Ferrero, che trae spunto da una c. del Festival di Sanremo di quello stesso anno, Papaveri e papere. Proprio film come questo sono, per alcuni aspetti, gli immediati progenitori dei vari I ragazzi del jukebox (1959), Urlatori alla sbarra (1960), I teddy-boys della canzone (1960), che all'inizio degli anni Sessanta svecchieranno radicalmente l'intero genere, inaugurando la stagione del musicarello (v.). Anzi, i primi due, entrambi di Lucio Fulci (il terzo è di D. Paolella), assieme a Sanremo, la grande sfida (1960) di Piero Vivarelli, costituiscono un vero e proprio trittico che ha per argomento la rivoluzione musicale e, di conseguenza, dei costumi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Sono film che non entrano certo nella storia del cinema, ma che mantengono un livello qualitativo superiore rispetto a quelli immediatamente successivi, diretti, tra gli altri, da Ettore Maria Fizzarotti, Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi, esageratamente rivalutati in seguito e che, pur presentando a volte la struttura della commedia sentimentale o del film comico, ripropongono l'impianto patetico dei film musicali degli anni Cinquanta. Suscitano comunque qualche interesse in quanto costituiscono, per certi versi, un tentativo di costruzione seriale del racconto, come nel caso della famosa trilogia di Fizzarotti, con Gianni Morandi e Laura Efrikian, ispirata a tre successi discografici del giovane cantante emiliano: In ginocchio da te (1964), Non son degno di te (1965), Se non avessi più te (1965). In realtà, più che ai teenager di allora, questi film sembrano indirizzati ancora una volta alle sterminate platee della provincia.

Ma sarà proprio il cinema d'autore, in quegli stessi anni, a fare un uso 'testuale' della c. e a mettere definitivamente in chiaro quanto importante sia la musica come elemento costitutivo della narrazione filmica. A parte importanti sodalizi (come, per es., quello tra Gino Paoli e Bernardo Bertolucci per Prima della rivoluzione, 1964), in film come Il sorpasso (1962) e L'ombrellone (1965) di Dino Risi, La Parmigiana (1963) e Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, La voglia matta (1962) di Luciano Salce, la musica, lungi dall'essere relegata al rango di colonna sonora, è spesso la protagonista. C'è una sequenza di Il sorpasso in cui un gruppo di giovani balla in uno stabilimento balneare, sulle note di Don't play that song, diffuse da un jukebox. Quei magnifici primi piani di giovani vagamente attoniti, sottolineati dalla musica, rabbiosa e dolente, del brano di Ben E. King, spezzano all'improvviso il clima da commedia all'italiana e preludono al tragico finale. L'ombrellone va ancora oltre: tutto il film si svolge come in un 'acquario sonoro', composto dalle c. allora in voga, che Risi sceglie e seleziona con sorprendente competenza. Anche qui i brani non svolgono tanto una funzione di quinta sonora, quanto di componenti strutturali della narrazione. Risi, infatti, parla con un velo di malinconia della futilità degli amori estivi, effimeri al pari dei tanti successi discografici che fanno loro da sottofondo. In un acquario sonoro si muove anche, come nel suo elemento naturale, la Stefania Sandrelli di Io la conoscevo bene, per la quale le c. sono la vita stessa e dal momento che non si può sempre vivere come in una c., alla fine non le rimane che uccidersi. Anche in questo film più brani musicali si succedono in una stessa sequenza con l'intento di commentare i mutamenti d'umore e di stato d'animo che gli sviluppi di singole azioni comportano. È una tecnica che Pietrangeli aveva già usato in La Parmigiana, interpretato da Catherine Spaak, per es. nella sequenza in cui il suo giovane amante fugge dall'albergo lasciando Dora sola e senza un soldo a fronteggiare una situazione disperata. Inizialmente, quando la donna delle pulizie bussa alla porta, la musica è solo, naturalisticamente, un rumore di fondo che proviene forse da una radio lontana. Ma quando Dora resta nella stanza sola, di fronte a sé stessa, la musica, pur apparentemente spensierata, di Cuando calienta el sol, riacquista di colpo il suo spessore narrativo, mimando lo stato d'animo insieme di leggerezza e di disperazione della ragazza. Sempre la Spaak è la protagonista di La voglia matta. "Estate, profumo di te / estate, amore con te", dice la c. con tono triste e carezzevole, ma il sentimento che la persuade a cedere è completamente diverso da quello provato dalla Sandrelli di Io la conoscevo bene. La Spaak-Francesca è infatti una giovane borghese annoiata che guarda alla vita, e all'amore, con assoluto disincanto. Anche in questo film di Salce, nel quale compare forse per la prima volta l'espressione matusa, la colonna sonora è ricca di successi dell'epoca (da Brigitte Bardot a Yo tengo una muñeca). Ma i momenti più significativi sono quelli in cui, ancora una volta, la musica assume un valore non estrinseco, come nella sequenza dove tutta la comitiva, nella villa sulle dune di Sabaudia, balla sulle note di Sassi, famoso brano di Gino Paoli, che mette a nudo il carattere dei personaggi svelandone nello stesso tempo le interazioni reciproche.

Verso la fine degli anni Sessanta i film musicali cominciarono a scomparire. I motivi sono numerosi. Tra questi, il mutato clima sociale, così come, su tutt'altro piano, i cambiamenti avvenuti nel mondo della c. (grandi affermazioni dei cantautori, supremazia sempre più netta degli album, e dei 'concept album', rispetto ai 45 giri, progressivo affermarsi di nuove modalità della produzione e del consumo musicali), che spinsero inesorabilmente sullo sfondo quelle che da allora saranno chiamate, un po' sprezzantemente, canzonette. Ma è indubbio anche il peso esercitato sul fenomeno dalla crisi del cinema italiano (sia sul piano della produzione sia dell'esercizio) e dal ruolo via via egemone assunto dalla televisione (con la sua continua, martellante offerta di evasione, anche di tipo musicale). E così sarà solo all'inizio degli anni Ottanta, in tempi di 'riflusso', di revival e di 'febbre del sabato sera', innescata dall'omonimo film con John Travolta, che il film musicale tornerà a riproporsi. Saranno in particolare due film, Sapore di mare (1983) e Sapore di mare 2 ‒ Un anno dopo (1983), che daranno il via a una serie infinita di varianti, un po' come era già accaduto negli anni Cinquanta e Sessanta. Il primo, dei fratelli Vanzina, contribuirà a creare il mito dei 'favolosi anni Sessanta', mentre il secondo, dell'esordiente Bruno Cortini, avrà maggiori ambizioni, tra cui quella, tipicamente da cinéphile, di destrutturare dall'interno gli elementi del genere. Anche l'opera di Cortini è infatti infarcita di evergreen degli anni Sessanta (da Sapore di sale a Tous les garçons, da C'era un ragazzo a E se domani), ma ci vuol poco a intuire che, in questo caso, le vicende dei protagonisti, pur svolgendosi nella Versilia di venti anni prima, parlano in realtà dei giovani degli anni Ottanta, con le loro confusioni, seguite alla crisi delle ideologie. Il film di Cortini (come in precedenza quello dei Vanzina) è interessante anche perché sembra contenere una sorta di catalogo ragionato dei possibili usi della c. nel cinema: Sapore di sale di Gino Paoli, che contemporaneamente si identifica con il titolo del film e sostiene i titoli di testa e di coda; Ritornerai di Bruno Lauzi, tipico esempio di c.-esposizione, che sottolinea in una scena particolarmente forte, sul piano stilistico e narrativo, la solitudine della protagonista; L'immensità di M. Detto, Don Backy e Mogol, nella più bella sequenza del film, che svolge il ruolo di c.-azione, assumendo una precisa funzione drammaturgica e, contemporaneamente, il ruolo di c.-sintesi, catalizzatrice dei destini dei diversi personaggi.

Bibliografia

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La musique à l'écran, éd. F. Porcile, A. Garel, in "CinémAction", 1992, 62, nr. speciale.

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