CAPITALISMO

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

CAPITALISMO

Ugo Spirito

(VIII, p. 847).

La crisi del capitalismo.

Il problema della crisi del capitalismo comincia a porsi nella letteratura socialista francese della prima metà del secolo scorso e poi in forma sistematica nel Capitale di Marx. Ma soltanto nei primi decennî di questo secolo, e più precisameme dalla guerra mondiale in poi, esso è riuscito a superare i limiti di una particolare ideologia politica per imporsi all'attenzione di tutti gli studiosi e degli uomini di governo. Le ragioni di questo rapido e quasi improvviso ampliarsi dell'orizzonte vanno cercate in alcuni mutamenti tecnici e politici determinatisi all'inizio del secolo e accentuatisi durante il periodo bellico e postbellico.

Il carattere fondamentale della trasformazione della vita economica è dato dall'ingigantirsi degl'istituti che sono proprî del regime capitalistico (grande industria, banca, società anonima). A sua volta, la necessità di aumentarne le proporzioni è data dall'ingrandirsi e dal collegarsi dei mercati regionali e nazionali fino a giungere all'unità del mercato mondiale. L'accresciuta velocità dei trasporti, e soprattutto la possibilità di contrattare telegraficamente e telefonicamente senza limiti di spazio, hanno modificato sostanzialmente le condizioni dei mercati, sottoponendoli a un regime di concorrenza estremamente più difficile e complesso. I vecchi organismi economici, specie per i prodotti di più largo consumo, si sono trovati inadeguati alla nuova lotta e hanno dovuto cedere il posto alle grandi anonime e ai trusts, di carattere nazionale e internazionale. Ma la grande società anonima non può non differenziarsi sostanzialmente dalla vecchia impresa capitalistica e non porre problemi che trascendono i limiti dell'azienda. Essa implica un processo di burocratizzazione interna che a poco a poco cambia la natura dei rapporti che legano gl'individui che fanno parte dell'azienda e tende a sprivatizzare l'organismo senza tuttavia poter giungere a una vera e propria statalizzazione. Allorché, infatti, un'impresa raggiunge proporzioni di una certa entità e gl'individui che ne fanno parte diventano molto numerosi, i criterî dell'iniziativa privata non rispondono più alle nuove esigenze. Una prima trasformazione riguarda il capitale, il quale, frazionato fra tanti azionisti e sottoposto alla speculazione delle borse, perde il legame diretto con l'azienda e molte volte viene ad avere una sorte diversa, se non addirittura opposta, a quella dell'azienda. Una trasformazione analoga subisce l'imprenditore il quale stacca anch'esso più o meno la sua sorte da quella dell'impresa, perché, date le proporzioni di essa, non può avere la forza di assumerne i rischi ed è indotto a distinguere l'interesse dell'amministratore da quello della cosa amministrata. Né diverso è il mutamento che avviene nel lavoratore, il quale non è più in grado di legarsi all'azienda attraverso il vincolo di solidarietà e di simpatia con la persona che la individua, e d'altra parte vede sempre più meccanizzarsi il suo lavoro ridotto al singolo e minuscolo elemento di un prodotto che gli sfugge nella sua unità, così come nella sua unità gli sfugge l'azienda alla quale dovrebbe interessarsi.

Per questo distinguersi più o meno accentuato degli interessi dei singoli da quello della società, l'anonima tende a diventare un istituto ibrido in cui l'elemento privato e quello pubblico non soltanto non s'identificano, ma si trovano spesso in insanabile opposizione. E quando le proporzioni vanno al di là di un certo limite e la crisi diventa insuperabile o si determina il crollo generale con il sacrificio e la rovina di tante famiglie o si impone l'intervento dello stato che acceleri il processo di sprivatizzazione.

Un'altra conseguenza dell'ingrandirsi dell'impresa è dovuta al vincolo di solidarietà che viene a instaurarsi nella massa operaia, legata dalla stessa consuetudine di vita e dagli stessi interessi economici. Il movimento operaio acquista nuovo impulso e le forme di organizzazione diventano più potenti e più ricche di mezzi per la lotta contro il capitalismo. L'operaio non si sente più solo né inerme, perché sa di avere alle spalle una forza sindacale che comincia a far sentire la sua voce e la sua volontà, anche se non ha il coraggio e la preparazione sufficienti per imporsi in modo decisivo.

Tutte queste conseguenze delle mutate proporzioni degli organismi economici possono in sostanza ridursi a una sola: la necessità di spostare i problemi dal piano individualistico dell'economia liberale a quello di un'economia programmatica. I problemi dell'organizzazione seguono le sorti dei mercati e, come questi, diventano necessariamente nazionali e internazionali. Ed è chiaro che per tale ampliarsi dell'orizzonte diventano a poco a poco attori economici prevalenti le nazioni stesse nella loro unità e cioè gli stati, in cui le forze economiche privatistiche si risolvono in modo assoluto o relativo. E anche là dove sembra continui a sussistere la piccola azienda a carattere privato, in realtà essa è legata in mille modi alla disciplina delle grandi e vive nell'orbita di una volontà politica superiore che la regola e la controlla.

Le manifestazioni della crisi del capitalismo, se nella sostanza possono ridursi allo schema ora delineato, hanno poi acquistato una specifica fisionomia a seconda dei paesi e del loro grado di sviluppo. La trasformazione tecnica e sociale è stata naturalmente accelerata dalla guerra, la quale, facendo prevalere gl'interessi comuni su quelli individuali, ha costretto per anni a una collaborazione e ad un'organizzazione statale e internazionale senza precedenti. Finita la guerra e delineatasi un po' dappertutto una reazione alla psicologia da essa determinata, si credette di poter tornare alle forme antecedenti, spezzando i vincoli e distruggendo gl'istituti del periodo bellico.

Il ritorno all'anteguerra si dimostrò tuttavia impossibile e gli ibridi compromessi tra il vecchio e il nuovo aprirono un periodo di squilibrî, che ancor oggi non accenna a finire. Quelle che sembravano esigenze transitorie si rivelarono ben presto realtà ormai imprescindibili, ma d'altra parte sono mancate le possibilità politiche e la capacità tecnica e scientifica di inquadrarle e di facilitarne l'organico sviluppo. Gli squilibrî interni influirono su quelli internazionali e la disorganizzazione del mercato e della finanza internazionale aggravò a sua volta le crisi interne fino a indurre gli stati a una politica tendenzialmente autarchica.

La gravità del problema e della situazione si rivelò a un tratto in modo impressionante nella crisi mondiale iniziatasi negli Stati Uniti alla fine del 1929.

L'economia liberale aveva sempre fatto oggetto delle sue analisi il fenomeno delle crisi economiche e aveva cercato di spiegarne la necessità e di determinarne il ciclo. Ma la nuova crisi assumeva aspetti diversi da quelle precedenti e la sua estensione di carattere mondiale fece a un certo punto dubitare del valore scientifico della vecchia diagnosi. Tanto più che la nuova crisi a differenza delle altre non poteva isolarsi nel tempo, ma si dimostrava soltanto una fase della più grande crisi iniziatasi con la guerra e non più terminata. Cominciò a venire il sospetto che tutte le crisi teorizzate dall'economia scientifica non fossero punto fatali, bensì espressioni di una radicale deficienza del sistema capitalistico a base individualistica e perciò necessariamente disorganica. In una economia organica, invece, in cui l'interferenza dei fenomeni della produzione e del consumo fosse disciplinata e tutte le aziende fossero sistematicamente coordinate, le crisi sarebbero eliminate in modo definitivo. Vero è che nella vita economica continuerebbero a sussistere fenomeni di crisi dovuti a condizioni naturali o a trasformazioni tecniche che non potrebbero escludersi, ma un'organizzazione statale di carattere nazionale e internazionale avrebbe la possibilità di ripartire nello spazio e nel tempo gli effetti degli squilibrî inevitabili e di garantire, attraverso un processo di assicurazione collettiva, la continuità progressiva del benessere. Sorgeva così il bisogno scientifico e politico di escogitare un'economia programmatica (v.), che segnasse il superamento dell'economia individualistica impostata sul principio dell'assenteismo statale. Lo stato che era divenuto il principale attore economico durante la guerra, tornò a estendere le sue funzioni e a penetrare soprattutto nella vita delle grandi società anonime, in cui la crisi aveva condotto ai fenomeni più gravi e più rovinosi per la collettività.

Le forme dell'intervento progressivo dello stato hanno variato da paese a paese, a seconda dei diversi regimi politici e delle diverse strutture economiche, ma nessun paese ha potuto sottrarsi alla necessità della trasformazione. I tentativi più organici e più rispondenti al principio dell'economia programmatica sono stati naturalmente compiuti negli stati a regime autoritario (U.R.S.S., Italia, Germania), ma anche nei paesi più liberali e democratici non sono mancate innovazioni ardite e rivoluzionarie. Si pensi alla politica della N. R. A. degli Stati Uniti, attenuata e quasi scomparsa nei primi tempi della ripresa economica, ma oggi vòlta, sia pure con altri criterî, a soluzioni più organiche e permanenti. Si guardi, poi, alla trasformazione avvenuta in Francia specialmente dopo la salita al potere del fronte popolare, che ha segnato una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, del credito, della grande industria e dei servizî pubblici.

Un processo così vasto e così profondo di trasformazione della vita economica non può lasciar dubbî circa l'avvenire: la crisi del capitalismo, inteso come regime a iniziativa privata senza interventi o col minimo intervento statale, è giunta a tale grado da non consentire un ritorno all'antico. Ma quali forme tecniche e politiche assumerà la nuova economia non è dato ancora prevedere in modo sistematico. Nella fase di transizione che caratterizza l'attuale momento storico, bisogna riconoscere che se le forze anticapitalistiche sono vive ed operanti e guadagnano ogni giorno terreno, le forze capitalistiche si ostinano in una difesa a oltranza delle loro posizioni e riescono spesso a sfruttare e a volgere in senso a loro favorevole lo stesso processo rivoluzionario.

Bibl.: La crisi del capitalismo, Firenze 1933; 3ª ed., 1934, volume pubblicato dalla Scuola di scienze corporative di Pisa, con scritti di G. Pirou, W. Sombart, E. F. M. Durbin, E. M. Patterson, U. Spirito e app. bibliografica di G. Bruguier. Cfr. inoltre U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, Firenze 1933; 3ª ed., 1934.

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