CAPITELLO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

Vedi CAPITELLO dell'anno: 1959 - 1994

CAPITELLO (v. vol. Il, p. 321)

B. Wesenberg; P. Pensabene; C. Barsanti

Egitto. – È verosimile che il c. egiziano derivi da un effettivo impiego di decorazioni con piante e fiori nell'architettura premonumentale o di breve durata (verande, leggeri baldacchini).

Nel recinto funerario di Djoser a Saqqāra si riscontra una monumentalizzazione a forma di semicolonna di uno stelo di papiro con infiorescenza aperta. L'infiorescenza di papiro aperta, come vero e proprio c. di colonna, si trova all'inizio (XVIII dinastia) del Nuovo Regno (Tebe E/Luxor: Tempio di Ammone-Mut-Khons; Karnak: Tempio di Ammone). La terminologia non è unitaria: il c. a infiorescenza di papiro viene spesso definito anche c. a campana. Il piccolo abaco non è visibile dal basso a causa della sua sezione ridotta, in modo che l'architrave sembra sospeso al di sopra dell'infiorescenza di papiro.

Anche il c. a palma, creato già durante l'Antico Regno (V dinastia), ha un abaco molto piccolo, nascosto alla vista dal basso. Il c. non è costituito da un'unica pianta, o da un fascio di piante, ma da otto o nove grandi rami di palma, che sporgono lievemente in fuori, e circondano, come una corona decorativa, l'estremità superiore del fusto della colonna. Un nodo della legatura, pendente dal fusto, sottolinea l'effetto artistico dell'insieme (Abu Sir: Tempio funerario di Sahu-Ra; Edfu: Tempio di Horus).

Ugualmente a partire dalla V dinastia è noto il c. a fascio di papiro, che tanto si diffonderà in seguito, costituito da sei-otto infiorescenze di papiro ancora chiuse, collegate a un c. slanciato, che si assottiglia leggermente verso l'alto. La forma scolpita può essere ridotta a un elemento tornito liscio (Abu Sir: Tempio funerario di Ne-User- Ra; Abido: Tempio di Seti I; Tebe: Tempio funerario di Ramesse II).

Molto simile al c. a fascio di papiro è, a prima vista, il c. a fiore di loto, che consiste in un mazzo di boccioli di loto, in numero variabile da quattro a sei. Anch'esso creazione già della V dinastia, fu preferito soprattutto nell'architettura funeraria (Benī Ḥasan: Tomba di Kheti; New York: modello di casa da Deir el-Baḥrī).

Gli architetti di età tolemaica ampliarono il repertorio dei c. vegetali egiziani con numerose varianti elaborate di rigoglioso fogliame e dei più diversi fiori, i cosiddetti c. compositi (occasionalmente definiti anche c. a fiore). Il tipo modificato in questo modo è di regola il c. a infiorescenza di papiro (Edfu: Tempio di Horus; Kōm Ombo: Santuario di Sukhos e Haroeris).

Accanto ai c. con motivi vegetali, vengono utilizzate come c. - prevalentemente su colonne scanalate, le c.d. colonne protodoriche - anche semplici lastre prive di decorazione (Benī Ḥasan: Tomba del principe Amenemḥet; Deir el-Baḥrī: Tempio di Ḥatshepsut). Le singolari colonne di Thutmosis III, rastremate verso il basso (XV sec. a.C.) nel Tempio di Ammone a Karnak sono, in genere, considerate imitazioni di sostegni in forma di pali da tenda che vengono usati per sostenere leggeri baldacchini; ma le foglie dipinte su alcuni di questi c. non si accordano a una loro interpretazione come coronamento di pali di tenda.

C. figurati possono trovarsi sia come forma indipendente, sia in collegamento con c. vegetali: presentano per lo più la testa di Ḥatḥor, più raramente un Bes (Dendera: Tempio di Ḥatḥor; Edfu: Casa della Natività).

Tra i modelli usati dagli scultori egizi, conservati in gran numero, se ne trovano anche alcuni di c., sia vegetali, sia figurati (Berlino-Charlottenburg: Museo Egizio).

Antico Oriente. - Soltanto l'architettura dei piccoli principati della Siria settentrionale permette una ricostruzione soddisfacente dei c. di colonna che venivano impiegati. Alla base della ricostruzione sono essenzialmente riproduzioni e rappresentazioni nelle arti minori (modellino di casa di Tell Ḥalaf; modello di colonna da Zincirli; decorazioni di avorio di suppellettile da Zincirli e Nimrud). Come il fusto della colonna nord-siriana è rastremato verso il basso al pari di quello minoico-miceneo, così anche il c. nord-siriano è affine al normale c. minoico- miceneo. Al collarino, anch'esso suddiviso in tre parti, segue regolarmente una gola a foglie; al posto del toro si incontra di regola una corona di foglie fortemente ripiegate, seguita dall'elemento intermedio arretrato, così come presumibilmente da un abaco. Come per i c. minoico-micenei, nell'architettura vera e propria gli elementi decorativi del c. dovevano essere applicati a un nucleo portante, probabilmente il fusto stesso della colonna, che ininterrottamente proseguiva fino all'abaco. A differenza di quelli tuttavia, nei c. nord-siriani il nucleo portante era a vista non solo immediatamente sotto l'abaco, ma anche tra la gola e la corona di foglie. Una stele di pietra, con il nucleo del c. privato delle applicazioni metalliche, fu probabilmente trasportata, già nell'XI sec. a.C., dalla Siria settentrionale ad Assur e qui reimpiegata come stele reale. Altre testimonianze sulla forma dei c. nord-siriani vanno dal IX al VII sec. a.C. La successione degli elementi decorativi del c. architettonico si ripete sui c. dei supporti dei calderoni di bronzo che vennero esportati dalla Siria settentrionale e che nel VII sec. si diffusero fino in Grecia e in Italia (Olimpia; Palestrina, Tomba Bernardini). Per i c. delle colonne assire non è possibile giungere a una ricostruzione basata su documenti affidabili. Le rappresentazioni a rilievo dell'architettura a colonne assira di Ninive e Khorsābād (Londra, British Museum; Chicago, Oriental Institute) sono troppo poco chiare per permettere di trarne delle conclusioni attendibili a proposito dei capitelli. Giacché le basi di colonna assire sono riprese direttamente dall'architettura nord-siriana, non si può escludere che anche la forma dei c. assiri derivi dalla Siria settentrionale.

Per la Babilonia, il documento di fondazione del Tempio di Šamaš di Sippar, con l'immagine della divinità sotto il baldacchino, testimonia per il IX sec. la presenza di un c. a volute. Resta poco chiaro se si tratti effettivamente di un elemento di colonna portante, o di un coronamento terminante liberamente, come compare, in forma analoga, sulle stanghe di baldacchini mobili dell'esercito assiro (ripetutamente sulle porte di bronzo di Balawāt).

Il tipo di c. dell'Oriente Antico meglio documentato, il c. a volute palestinese, è un c. di pilastro; non sembra affatto sicuro, come è stato supposto, che un c. da Sichern appartenga a una colonna indipendente. Nella maggior parte dei casi soltanto il lato anteriore del c. di pietra, che può essere largo fino a 2,50 m, è scolpito (solo cinque dei trentaquattro c. noti presentano anche il lato posteriore scolpito). In nessun caso risulta chiara la funzione architettonica di questi c.: possibilmente si tratta per lo più del coronamento di stipiti di porte (alcuni esemplari scolpiti su entrambi i lati appartengono probabilmente a un pilastro, che sorgeva libero al centro del vano di passaggio di una porta). I c. presentano, a basso rilievo, una coppia di volute che si erge in senso verticale, e non si svolgono a forma di spirale, ma dopo una sola curva spariscono sotto i loro steli sorgenti. Nel tipo «Ḥazor» le volute nascono una accanto all'altra e il loro interstizio è riempito con una foglia a linguetta (nota solo a Ḥazor stessa). Nel tipo «Megiddo» le volute posano sui lati obliqui di un triangolo isoscele (Megiddo; Samaria); in una variante di diffusione più meridionale (Ramat Raḥel; Gerusalemme; anche Meḍeibi' in Transgiordania) l'interstizio tra il triangolo e ciascuna voluta è riempito con un occhio circolare e, in aggiunta, si trova di regola anche un abaco, che spesso manca nel c. del tipo «Megiddo». I più antichi c. risalgono verosimilmente all'XI sec. a.C.; gli esemplari più recenti si datano al VII sec. a.C. Il c. a volute palestinese è stato imitato a Cipro, all'ingresso delle tombe a camera di Tamassos (VI sec. a.C.), e sovente come c. di stele. Non prima dell'età ellenistica la forma si ritrova su rilievi fenici (Umm el-'Amed), ma già in precedenza era attestata su stele puniche rinvenute in luoghi diversi (Cartagine, Sulcis).

I c. dell'architettura achemenide sono sempre figurati. Sono costituiti infatti da una coppia di protomi divergenti in posizione araldica (soprattutto animali, ma anche animali con teste umane, cavalli, leoni con corna, grifi), tra le quali è un elemento portante trasversale (riproduzioni complete in rilievo sulle facciate delle tombe reali di Persepoli e Naqš-e Rostam; elementi architettonici a tutto tondo nei palazzi di Pasargade, Persepoli e Susa, così come anche a Sidone). Il c. a doppia protome viene utilizzato isolatamente o anche come elemento di coronamento di una composizione a più parti: (dal basso verso l'alto) una corona di foglie pendenti, una di foglie dritte e un sostegno quadro con decorazioni a volute sui quattro lati. Una derivazione dei singoli elementi da determinati modelli finora non è stata dimostrata con soddisfacente chiarezza. La corona di foglie pendenti ricorda il c. a foglie del tempio di Neandria (vedi sotto «capitello eolico» e «capitello a foglie»), la corona di foglie dritte ricorda invece il c. a palma egiziano e anche il c. greco del tipo «Arkades».

Creta minoica e Grecia micenea. - Non si è conservato nemmeno un c. di colonna lignea minoica o micenea. I c. dei palazzi di Creta e dei palazzi micenei nel continente, in cui le colonne abbondavano, dovevano infatti essere di materiale deperibile (legno o lamina di bronzo). Numerose raffigurazioni o riproduzioni su facciate di tombe in pietra, nel rilievo monumentale e, soprattutto, nell'arte minore permettono tuttavia di ricostruirne l'aspetto con sicurezza. Il c. minoico-miceneo nella sua forma tipica è costituito da cinque elementi: (dal basso in alto) un collarino per lo più suddiviso in tre parti, una gola sporgente, un toro aggettante, un elemento intermedio arretrato, privo di una forma definita, un abaco quadrato. Nelle colonne lignee perdute dell'architettura vera e propria, l'elemento di separazione tra toro e abaco era la parte visibile del nucleo portante del c. (probabilmente il fusto stesso della colonna che continuava ininterrottamente fino all'abaco), sul quale venivano applicati gli elementi decorativi del capitello. Questi elementi, vale a dire collarino, gola e toro potevano essere lisci (c. di una suppellettile da Zakro; Micene, rilievo della Porta dei Leoni; modellini di colonna di avorio da Archanes, Micene e Spata), o scolpiti con elementi decorativi, il collarino di regola con perle, la gola con foglie, mentre il toro poteva essere decorato con soggetti svariati (Micene, thòlos di Atreo e thòlos di Clitennestra; modelli di colonna da Micene e Delo). L'uso del c. a Creta è sicuro a partire dal Medio Minoico III, nel continente miceneo dal Tardo Elladico I. Non si può escludere che accanto a quella tradizionale siano state utilizzate anche forme atipiche di questo tipo di c. (cfr. diversi modellini di colonne da Micene, tra cui una gola a foglie senza toro).

La Grecia fino alla fine dell'ellenismo. - La terminologia specialistica dell'architettura greca usa parole diverse per c.: κιόκρανον, κιονόκρανον, έπίκρανον o semplicemente κεφαλή (IG I3, 474 l. 29; II, 22, 1668 l. 44-45; Didyma II, n. 39, l. 26; Diod. Sic., V, 47)· Vitruvio usa esclusivamente capitulum.

Come fino allora soltanto l'architettura egiziana, quella greca aveva a disposizione un certo numero di tipi diversi di c., che variarono a seconda dei tempi e dei luoghi, così come variò la loro diffusione. I loro nomi antichi ci sono noti soltanto in parte.

Tipo Arkades. - La denominazione più comunemente usata di «c. a palma» presuppone un'erronea derivazione dal c. a palma egizio e deve quindi essere evitata, così come il non meno usuale nome di «c. eolico» che è stato già attribuito a un altro tipo (vedi sotto). Il c. del tipo «Arkades» è costituito da una corona di foglie dritte, in numero da sedici a trentadue, lievemente sporgenti in fuori e da un abaco quadrato, talvolta molto largo. L'esemplare che dà il nome al tipo, rinvenuto ad Arkades (Creta) (v. vol. I, p. 661) reimpiegato in una tomba del VII sec. a.C., è il più antico c. greco in pietra, datato in base a elementi esterni; probabilmente si tratta di un sostegno per un dono votivo.

Gli esemplari più recenti, di età arcaica (Focea; Delfi: thesauròi di Marsiglia e di Clazomene) fanno parte di edifici ionici. In età ellenistica il tipo conosce una pur circoscritta rinascita nell'Asia Minore occidentale, soprattutto nell'architettura pergamena (Belevi, interno del mausoleo; Pergamo, portico settentrionale del Santuario di Atena, propileo del Santuario di Demetra; Atene, stoài di Attalo e di Eumene; Assos, stoà sud).

C. dorico. - Il nome, tramandato solo indirettamente da Vitruvio (IV, 1,12), è confermato da IG, II, 22, 1665, I.21. Vitruvio definisce il collo del c. dorico hypotrachelium, il corpo echinus (proprio nel senso di «calderone»), e gli anelli che circondano in basso il corpo del c. anuli; chiama inoltre plinthus (IV, 3,4) la lastra di copertura detta altrimenti abacus.

Secondo Vitruvio, il primo tempio dorico fu l'antico Tempio di Hera ad Argo (iv, 1,3), dunque nel cuore della cultura micenea. In effetti la creazione del c. dorico si riconnette, in una fase ancora premonumentale (se non prima, sicuramente almeno nel VII sec. a.C.) al normale c. minoico-miceneo, la cui conoscenza si è protratta ben oltre la fine del mondo miceneo grazie ad alcuni monumenti conservati (Micene, thòlos di Atreo e Porta dei Leoni) e all'arte minore (Delo, modellini di colonne). Le scarse testimonianze di quella fase sono limitate alla rappresentazione di due esemplari sui frammenti di uno skyphos protocorinzio da Perachora e ad alcune lamine bronzee da Olimpia. Sui primi c. in pietra (intorno al 600 a.C.), l'elemento intermedio del c. miceneo sparisce mentre il toro è trasformato nell'echino; l'anello sul collo per lo più è spostato al fondo della scanalatura. Più a lungo si è conservata in varí luoghi la gola a foglie (Corfù, Tempio di Artemide e capitello di Xenvares; Tegea, Tempio di Artemide Knakeatìs; Sparta, Amiklàion; Paestum, Basilica e Tempio di Atena), mentre altrove è già scomparsa precedentemente (Tirinto; Argo; Egina; Delfi). Un cerchio nastriforme, che manca nel c. minoico-miceneo normale, serve ad accentuare, già nei primi c. in pietra, l'orlo inferiore dell'echino.

In un primo momento l'echino è molto aggettante; il suo profilo comincia quasi orizzontalmente piegando poi in senso verticale verso l'abaco da cui è distinto mediante un incavo a spigolo vivo (Delfi, Tempio di Atena Prònaia I; Corfù, c. di Xenvares); l'aggetto dell'echino diminuisce sempre di più fino all'età ellenistica. Già nel corso del VI sec. a.C. l'echino forma un profilo obliquo in salita, con spalla arrotondata; il cerchio presso l'orlo inferiore dell'echino si trasforma negli anuli, e l'anello intorno al collo in una serie di rigature sul fondo della scanalatura (Corinto, Tempio di Apollo; Egina, Tempio di Aphaia). Durante il V sec. la curva dell'echino diventa più tesa, avvicinandosi alla linea retta e la spalla si fa più stretta; del gruppo di rigature al collo non ne resta che una, appena visibile (Atene: Partenone, Propilei, Hephaistèion); a partire dal IV sec. l'echino diventa sempre più piatto e la spalla scompare (Ilion, Tempio di Atena; Pergamo, Santuario e Tempio di Atena; Magnesia sul Meandro, agorà; Delo, portico di Filippo V di Macedonia). Questa evoluzione non avviene in modo unitario e regolare, ma attraverso variazioni individuali e regionali (così p.es. i c. dorici della Magna Grecia conservano caratteristiche antiche più a lungo dei contemporanei c. della Grecia stessa). L'Heràion di Olimpia, nel quale le colonne, in origine di legno, furono a poco a poco sostituite con colonne di pietra, ci offre un ampio campionario di forme di c. dorici nell'arco di più secoli. In origine limitato per lo più alla madre patria greca e alle colonie della Magna Grecia (eccezioni: Tempio di Atena ad Assos e Tempio di Zeus a Cirene), il c. dorico trova un'ampia diffusione in età ellenistica, anche nella Ionia orientale. Peculiarità tipologiche regionali mostrano i già ricordati c. arcaici della Magna Grecia con gola a foglie o semplice sull’hypotrachèlion (Paestum, basilica, Tempio di Atena; Metaponto, Tavole Palatine; Siracusa, Tempio di Apollo; Selinunte, Tempio G; Agrigento, Tempio A) o alcuni capitelli dell'Oriente ellenistico con kymàtion sullo spigolo superiore dell'abaco (Priene, portico Ν e portico S dell'agorà; Aigai, portico del tempio di NO; Lindos, Tempio di Atena Lindia), questi ultimi della forma descritta da Vitruvio (iv, 3,4). A Pergamo l'echino presenta in vari casi un profilo piegato a forma di «S» (tempio del mercato, portici della terrazza del teatro).

C. eolico. - Il nome è moderno. Si è giustamente imposto contro la definizione coniata in un primo momento di c. protoionico. Il c. eolico non è una «protoforma» del c. ionico né può d'altra parte derivare da precedenti orientali. Caratteristiche del tipo sono due volute indipendenti, che si sviluppano perpendicolarmente una accanto all'altra, con l'interstizio a forma di V, occupato da una palmetta; un collarino a forma di toro divide il c. dal fusto della colonna. I rinvenimenti più importanti sono stati effettuati a Larissa, Smirne arcaica, Neandria e Klopedhi nell'isola di Lesbo. Gli esemplari più antichi (Larissa) non risalgono oltre il secondo venticinquennio del VI sec. a.C. Nel corso della successiva evoluzione i c. eolici diventano più piatti e bassi, nell'insieme più massicci: le volute si avvicinano, il collo diviene più breve, la palmetta si ingrandisce (Klopedhi). Le varianti con volute piccole (Smirne arcaica, Alazeytin in Caria) potrebbero essere state influenzate da c. ciprioti (v. sopra «c. a volute palestinese»).

C. «eolizzanti» e forme miste ionico-eoliche si incontrano numerose su sostegni di doni votivi (Attica e Delo). L'uso di tali c. su edifici è rappresentato frequentemente nella pittura vascolare attica, ma in realtà è estraneo all'architettura monumentale. Influenze del c. eolico in Etruria sono circoscritte all'architettura delle tombe rupestri e all'arte minore.

È controverso se le corone di foglie rinvenute a Neandria e a Smirne arcaica debbano essere collegate a c. eolici, in una composizione a due o tre registri. Nel caso di quelle di Smirne, si tratta più verosimilmente di basi per colonne, mentre per quelle rinvenute a Neandria si deve operare una distinzione tra basi di colonne e c. a sè stanti.

C. a foglie e c. a ovoli. - Se nel tempio di Neandria si dovesse distinguere la serie delle grandi corone di foglie dai c. eolici, si dimostrerebbe automaticamente l'esistenza del c. a foglie. Mancano finora sicure testimonianze architettoniche per questa forma di capitello. In discussione sono, come c. a foglie, altre due corone di foglie da Focea e probabilmente un esemplare inedito di Assos. Vengono considerati c. a foglie taluni c. dell'architettura arcaica cicladica, che presentano alcune foglie non scolpite, ma solo dipinte (Sangrì a Nasso, Tempio di Demetra). Non si può escludere che in realtà qui si tratti di una variante regionale del c. dorico. Fuori di dubbio è l'uso di c. a ovoli. L'esempio più antico lo offre il tempio policrateo di Hera a Samo, il cui c. a ovoli si ê voluto erroneamente restaurare come ionico. Un secolo più tardi il c. a ovoli è stato ripreso per le cariatidi dell'Eretteo. In età ellenistica esso può essere associato non solo all'ordine ionico, ma anche a quello dorico (Mileto, magazzino bouleutèrion).

C. ionico. - La definizione la forniscono Diodoro Siculo (XVIII, 26) e Vitruvio (III, 5,5; IV, 1, 1) che chiama il c. ionico anche capitulum pulvinatum, c. con pulvino. Lo stesso Vitruvio menziona più avanti i seguenti elementi del c. ionico: il cymatium «ovolo» (la definizione di «echino» più volte utilizzata è falsa), poi il canalis, infine la voluta con l’oculus «occhio», pulvinus «pulvino» con balteus «cintura», abacus. In greco viene definito semplicemente οφθαλμός «occhio» (IG, I3, 476, I.301).

Origine e formazione del c. ionico non sono chiare. Dal momento che non può derivare da tipi più antichi di c. greci 0 extragreci, deve trattarsi di una creazione originale greca del tardo VII sec. o del VI sec. a.C. Secondo Vitruvio (IV, 1,7) e Plinio (Nat. hist., XXXVI, 179), il c. ionico fu utilizzato per la prima volta dai coloni ioni per costruire l’Artemìsion di Efeso. Volute e kymàtion (questa è la spiegazione, sicuramente tarda, fornita da Vitruvio) dovevano ispirarsi a una acconciatura femminile. I più antichi c. ionici a noi noti, non si trovano in un contesto architettonico, ma appartengono a sostegni di doni votivi (Egina, Delfi, Delo, colonne delle sfingi). I primi c. ionici architettonici possono essere ricostruiti per il Tempio di Iria a Nasso, per il tempio inferiore di Myus, per l’Artemìsion arcaico di Efeso (tra il secondo venticinquennio e la metà del VI sec. a.C.). Significativo per la forma originaria è il fatto che il kymàtion non era ancora parte integrante del c., ma era costituito da una corona indipendente di foglie protese a forma di ombrello. C. e, quando c'è, abaco, sono estesi in lunghezza, le volute sporgono oltre i limiti del fusto della colonna, lo spessore del pulvino è inferiore al diametro del fusto della colonna. Nel corso del processo evolutivo lo spessore del pulvino raggiunge e supera il diametro del fusto, la distanza tra le volute diminuisce fino a che queste si innestano nel profilo del fusto, mentre l'abaco si avvicina alla sezione quadrata. Il kymàtion riceve profilo e struttura a ovoli e viene a essere come innestato nel c. vero e proprio, a tal punto da essere ridotto a non più di un riempimento dello spazio compreso tra le volute.

Il c. ionico presenta numerose varianti e peculiarità locali e regionali. Tra i c. arcaici si distingue una forma samia senza abaco e una forma efesia, con abaco; mentre i più antichi c. ionici orientali hanno per lo più un canale convesso, il canale dei c. cicladici, come sarà in seguito normale anche nella Ionia orientale, di solito è concavo. Ad Atene e in Attica, in età arcaica, il c. ionico è spesso utilizzato come sostegno di doni votivi, ma a partire dalla prima meta del V sec. a.C assume una maggiore importanza come elemento architettonico. Qui si sviluppa un nuovo tipo, nel quale tra kymàtion e canale si inserisce un elemento supplementare; questi c. sono caratterizzati in genere da superfici lisce, poco scolpite (Delfi, Portico degli Ateniesi; Sunio, Tempio di Atena). Il c. dell'Eretteo, con un toro sopra il kymàtion decorato con un motivo a treccia e con il canale suddiviso da fasce parallele, è stato spesso imitato (Xanthos, monumento delle Nereidi; Delfi, monumento a colonne; Atene, Tempio di Roma e Augusto). I c. ionici dei propilei, del Tempio di Atena Nike e del tempio sull'Ilisso appartengono a una serie peculiare attica, più vicina ai c. ionici orientali e cicladici. Una peculiarità peloponnesiaca è rappresentata dal c. diagonale a quattro lati con canale ripiegato in su; la struttura - con ulteriori modanature tra kymàtion e canale - e la plasticità molto contenuta della superficie lo pongono nella tradizione dei c. attici (Epidauro, àbaton, proscenio del teatro; Perachora, portico; all'inizio della serie stanno i c. delle colonne ioniche della cella del Tempio di Apollo a Bassae-Figalia).

In Magna Grecia i c. ionici costituiscono delle eccezioni (templi ionici di Locri e Metaponto) e derivano da modelli diversi. Per l'ellenismo ionico orientale è stato significativo un modello standard che sembra risalire al c. del Mausoleo di Alicarnasso. Uno schema fisso di semplici regole numeriche (p. es. rapporto tra altezza delle volute, spessore del pulvino, larghezza totale del c. uguale a 1:2:3) Può variare a seconda dei casi e delle necessità (Magnesia, Tempio di Artemide, agorà·, Atene, Stoà di Attalo). In questa tradizione si inserisce anche lo schema di un c. ionico, tramandato da Vitruvio (III, 5, 5-7), molto vicino a quello della Stoà di Attalo.

La frontalità del c. ionico impone la creazione di uno speciale c. angolare con due lati frontali collegati tra loro ad angolo retto (Atene, Tempio di Atena Nike, Eretteo; Priene, Tempio di Atena). Il più antico esemplare noto fu rinvenuto a Delo e attribuito al «Pòrinos Naòs».

C. corinzio. - Oltre a Strabone (IV, 4,6), Ateneo (v, 205 c) e Flavio Giuseppe (Ant. lud., XV, 11,5), anche Vitruvio (IV, I, 11-12) ci tramanda il nome del c. corinzio, insieme alla denominazione di molti singoli elementi: imum folium per la fila di foglie inferiore, secundum folium per la fila di foglie superiore, coliculus per lo stelo, dal quale si dipartono la voluta (verso l'esterno) e Vhelix (verso l'interno); abacus per la lastra di copertura, e flos per il fiore dell'abaco. Al c. corinzio si riferiscono anche le definizioni di kàlathos, hèlikes e phylla trachèa usate da Ateneo (v, 206 b) nel corso della descrizione di un c. composito tolemaico. Il termine «corinzio» deriva probabilmente da «bronzo corinzio» (Plin., Nat. hist., XXXIV, 5, 12, 48) e potrebbe indicare un'origine dall'arte toreutica.

L'origine vera della forma del c. corinzio resta tuttavia oscura. Il più antico c. corinzio finora noto, dalla cella del Tempio di Apollo di Bassae-Figalia, risale all'incirca al 400 a.C. Perduto tranne pochi frammenti, deve essere ricostruito in base ai disegni di C. Haller von Hallerstein e di altri antichi viaggiatori. Le file di foglie sono poco sviluppate, le elici non sono più piccole delle volute, punte di freccia tra le foglie accennano al carattere bellico della divinità venerata nel tempio.

Presente inizialmente nel Peloponneso, ad Atene e nella Grecia centrale, durante l'ellenismo il c. corinzio si diffonde dapprima in Asia Minore e ad Alessandria, e in seguito in tutto il mondo antico. La sua collocazione preferita è in origine lo spazio interno; all'esterno si incontra in edifici funerari, monumenti, propilei, edifici rotondi, tempietti, ecc. Un utilizzo di importanza pari a quella dei c. dorici e ionici nelle peristasi dei templi è riscontrabile solo a partire dalla prima metà del II sec. a.C. (Atene, Olympièion). I c. corinzî del IV sec. sono ancora molto poco omogenei dal punto di vista tipologico (Delfi; Epidauro, thòloi·, Tegea, Tempio di Atena; Nemea, Tempio di Zeus; Atene, monumento di Lisicrate). Nel corso del III sec. si viene formando in oriente (Samotracia: Ptolemàion) a poco a poco un tipo canonico che trova nel II sec. la sua espressione definitiva: circondano la parte inferiore del kàlathos due file di otto foglie di acanto; le volute e gli elici, che giungono all'abaco, si sviluppano dai caules; foglie a calice uscenti da questi ultimi sostengono le volute, e al centro di ciascun lato del c. uno stelo lungo e sottile sostiene il fiore dell'abaco (Atene, Olympièion). Accanto a questo c.d. c. corinzio normale, che intorno al 100 a.C. raggiunge anche Roma (Tempio Rotondo sul Tevere), restano in uso anche forme diverse, come alcuni c. di acanto, così lontani dal c. corinzio tradizionale, che è meglio definirli «corinzieggianti» (c. figurati in Etruria e in Italia meridionale, c. dell'arte funeraria tarantina, alcuni c. della pittura parietale pompeiana). Tra le manifestazioni tipiche regionali è degno di menzione soprattutto il c. siceliota- corinzio che, come quello repubblicano-corinzio, domina l'architettura ellenistica soprattutto del Lazio e della Campania.

C. atipici e c. figurati. - Accanto ai c. codificati in tipi, si trovano occasionalmente varianti dalle forme singolari. Basti ricordare il c. di una cariatide arcaica da Delfi (già considerata pertinente al thesauròs degli Cnidì), il c. dorico con applicata mensola a volute dell'Amyklàion di Sparta, il c. ibrido dorico-ionico di Selinunte.

In modo altrettanto sporadico si incontrano c. figurati su colonne greche. Il c. decorato con una scena di combattimento tra animali, su una cariatide del thesauròs dei Sifni a Delfi, è senza confronti; c. con animali sulle tombe rupestri della Paflagonia imitano i grandi c. dell'architettura dei palazzi achemenidi. Il collegamento di c. corinzieggianti con figure, busti o teste rimane circoscritto all'arte funeraria tarantina e all'architettura ellenistica dell'Italia.

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(B. Wesenberg)

C. ROMANO. - Nell'affrontare lo studio di qualsiasi c. di età imperiale, è necessario innanzitutto esaminare se esso appartenga alla sfera dell'architettura ufficiale o, altrimenti, quale sia il rapporto con questa; parallelamente si deve rilevare se la tipologia permetta l'attribuzione a una produzione orientale od occidentale, tenendo conto, per quanto riguarda la decorazione architettonica, dei rapporti tra centri artistici guida e le zone periferiche da essi dipendenti. Tali distinzioni preliminari sono necessarie poiché molto spesso il contesto originario dei c. non è più noto. Per questo motivo e per l'appariscente sviluppo dell'apparato decorativo, si è determinata una tradizione di studi (Weigand, Kahler, Kautzsch, Börker, Strong, Heilmeyer, Deichmann, Pensabene, Herrmann, Harrazi, Sodini) che tende a privilegiare il punto di vista formale piuttosto che quello della funzione architettonica.

Per quanto riguarda le Provincie occidentali, il punto di riferimento è costituito dai c. utilizzati a Roma nell'edilizia pubblica. In questo caso il modello predominante deriva dai tipi architettonici creati in età augustea rielaborando modelli attici, probabilmente con l'intervento diretto anche di maestranze greche come avvenne in particolare per il Tempio di Marte Ultore e il Foro di Augusto. Già a partire dal tardo II sec. a.C., dopo la conquista delle provincie orientali, a Roma era stata abbandonata la tradizione decorativa derivante dall'ellenismo italico (c. ionico-italici e corinzio-italici ritrovati sul Palatino), a favore di tipologie riprese direttamente da Atene, da Pergamo e da altri centri orientali (Alessandria): ciò determinò l'introduzione del c. corinzio canonico nell'architettura pubblica, e l'utilizzo con varianti libere dell'ordine corinzio, che definiamo corinzieggianti, soprattutto negli interni di edifici sia pubblici, sia privati. In età tardo-repubblicana e augustea, e ancora nei primi due secoli dell'impero, in Italia e nelle provincie occidentali, la munificenza imperiale o delle classi abbienti è spesso rivolta al finanziamento e alla costruzione di edifici pubblici: ciò determina talvolta l'invio di maestranze, modelli architettonici e materiali da Roma (p.es. in età augustea e giulio- claudia a Cherchel e in molti centri della Gallia meridionale, e in età flavia e traiano-adrianea a Merida, Italica, Tarragona e altri centri della Penisola Iberica), e più spesso l'adozione di forme architettoniche proprie dell'arte ufficiale romana (il caso più noto è quello dell'Africa romana nel II sec. d.C. e in tutta l'età severiana).

A Roma, nel II sec., è attestata anche la presenza di c. ionici, corinzî e compositi di importazione asiatica (S. Alessio, S. Nicola in Carcere) ed è ora noto il caso particolare del Tempio di «Giove Toro» a Canosa, in cui lavorarono maestranze asiatiche. Si tratta di fenomeni isolati, anche se non rari, che non modificano nella sostanza lo stile locale: frequente comincia a essere invece, rispetto all'epoca flavia, l'importazione di marmi orientali bianchi e non solo colorati, spesso anche sotto forma di manufatti semilavorati.

Nel caso delle provincie orientali i punti di riferimento sono costituiti dai centri principali dell'Asia Minore (Efeso, Pergamo), da scuole artistiche con forte produzione scultorea in città per lo più prossime a cave di marmo (Atene, Afrodisia) o da officine legate direttamente alle grandi cave (Proconneso, Docimio). In queste provincie la committenza imperiale, e anche privata, nel campo dell'edilizia è caratterizzata dall'uso di elementi architettonici sempre mutuati dall'architettura ufficiale, ma definibili come orientali per stile e tipologia. I modelli predominanti derivano dall'ellenismo microasiatico, anche se sono fortemente rielaborati (c. con acanto spinoso). Solo ad Atene si conserva in modo più radicato la tradizione tardo- ellenistica dei c. corinzî (con zone d'ombra circolari tra i lobi in foglie ancora carnose).

In età tardo-imperiale e bizantina Costantinopoli eredita e trasforma la tradizione decorativa e architettonica dell'architettura ufficiale microasiatica precedente, anche se parallelamente si verificano fenomeni di riprese «classicistiche» nei c. corinzî (p.es. il ritorno delle zone d'ombra circolari tra i lobi nell'acanto «a grossi dentelli»). Le contemporanee grandi scuole artistiche locali della stessa Asia Minore, della Siria e di Alessandria sono ora influenzate dalle forme architettoniche costantinopolitane, come è visibile nell'adozione dei c.-imposta, polilobati e bizonali.

In Occidente invece l'età tardo-imperiale e bizantina per ciò che riguarda soprattutto i c. corinzi, ma anche altri elementi architettonici, è caratterizzata dal fenomeno delle importazioni in grande scala di manufatti, del tutto o quasi del tutto rifiniti, dalle cave imperiali dell'Oriente (Proconneso).

Tale fenomeno si contrappone al frantumarsi della tradizione dell'architettura ufficiale, in auge nei primi due secoli dell'impero e in età severiana, in tante tradizioni locali, sempre più svincolate dal modello canonico: si interrompe la continuità della trasmissione delle tradizionali iconografie decorative, anche se frequente è la ripresa «classicistica» di queste, all'interno tuttavia di un nuovo linguaggio definibile appunto come tardoantico (v. oltre i c. compositi a foglie lisce di Roma).

Sempre più disinvolto può essere quindi l'abbandono o la ripresa di modelli canonici, che solo apparentemente si traduce in un'incomprensione nei confronti della tradizione, situandosi invece nella storia delle nuove tendenze artistiche che si creano nel periodo tardo (p.es. nei centri interni dell'Africa, nella penisola iberica visigota, ecc.).

Tale premessa sembrava indispensabile, in quanto le differenti situazioni storico-geografiche sono caratterizzate da specifiche tipologie, che differenziano il panorama, solo apparentemente monotono, della continuità d'uso dei tradizionali ordini architettonici.

In età imperiale il c. prevalentemente usato è quello corinzio, con trabeazione quasi sempre ionica, spesso con cornici sorrette da mensole: è composto da due corone di foglie d'acanto e da caulicoli da cui si originano le volute esterne e interne (queste ultime dette anche elici per comodità di definizione); dalle foglie centrali della seconda corona si originano calicetti e steli desinenti in un fiore al centro dei lati dell'abaco. Questi ultimi sono modanati con un sottile ovolo superiore e un leggero cavetto. Le spirali delle volute hanno l'apparente funzione architettonica di sostegno dell'abaco, data la loro collocazione sotto gli spigoli di questo (v. Atlante dei complessi figurati, tav. 357).

Dal punto di vista tipologico l'età tardo-repubblicana si caratterizza, in Occidente, per le foglie d'acanto di tradizione ellenistica greco-orientale, plasticamente articolate al centro in costolature e suddivise lungo il contorno in lobi, distinti a loro volta in piccole foglie e separati da zone d'ombra circolari. Nel periodo del secondo triumvirato queste ultime assumono la forma a occhiello chiuso, cui seguono uno o più spazi triangolari mentre le foglie e gli altri elementi vegetali sono resi in modo piatto (Tempio di Apollo Palatino, Tempio di Saturno). Un evidente ritorno «classicistico» (nel senso di ripresa diretta di modelli greci) e a uno pseudonaturalismo si manifesta in età augustea, quando le costolature delle foglie sono a sezione convessa e i lobi concavi al centro, con fogliette ovali, mentre le zone d'ombra assumono forme ogivali e oblique, rese più nettamente per mezzo dell'urtarsi delle fogliette adiacenti dei lobi contigui. I caulicoli sono spesso obliqui, con orlo arrotondato, e in luogo del calicetto è possibile trovare una piccola foglia acantizzante o liscia (Tempio di Marte Ultore, Tempio del Divo Giulio).

In età flavia viene abbandonato il plasticismo a favore di effetti chiaroscurali: le foglie d'acanto sono piatte, ma percorse al centro da profonde scanalature parallele per distinguere le costolature. Le zone d'ombra tra i lobi rese ora dal sovrapporsi delle fogliette dei lobi contigui,

sono a forma di goccia e verticali. I caulicoli si presentano scanalati, con orlo a sepali rovesciati, e le cime delle piccole foglie lisce di profilo che compongono il calicetto sono fortemente ricurve in basso e verso l'esterno (Domus Flavia). In età traiano-adrianea, se da una parte continua la tradizione flavia (Villa Adriana, Capitolium di Ostia), dall'altra è frequente un revival di forme augustee (Foro di Traiano). Lo stesso si verifica per l'età antonina, mentre in età severiana, accanto a forme più classicistiche (Portico di Ottavia), si riscontrano evidenti riprese degli esuberanti modelli flavi fortemente chiaroscurati (Terme di Caracalla).

Durante tutta l'età imperiale il principale centro di produzione è Roma, ma si devono considerare anche tutti quei centri dove per particolari ragioni storiche si sia verificata un'intensa attività edilizia in collegamento con la capitale (Ostia, Villa Adriana e, fuori d'Italia, Cartagine, Cherchel, Nîmes, Arles, Lione, ecc.).

In Oriente i c. corinzî, che definiamo «asiatici» sulla base della collocazione geografica dei centri produttori, sono caratterizzati da foglie d'acanto spinoso, separate negli esemplari più antichi e decisamente unite, in modo da formare figure geometriche per l'urtarsi delle fogliette, in quelli più tardi. I lobi, divisi in lunghe fogliette appuntite e a sezione angolare, si accostano in modo da lasciare solo stretti spazi intermedi, allungati e obliqui, come zone d'ombra. Nella corona superiore i lobi mediani delle foglie, al di sotto della cima, tendono a ridursi (negli esemplari più antichi, del II sec. d.C. presentano ancora tre fogliette, mentre a partire dalla prima metà del III sec. ne conservano solo una o due). I caulicoli sono distinti come elemento vegetale autonomo ancora per buona parte del II sec., mentre sono ridotti a semplici protuberanze angolari del kàlathos a partire dall'età severiana. Le cime delle foglie esterne dei calici sorreggono le spirali delle volute, mentre quelle delle foglie interne, fortemente ricurve, vengono a ricoprire il calicetto, che frequentemente non compare; ugualmente è spesso omesso lo stelo per il fiore dell'abaco, probabilmente perché non era ritenuto visibile. Anche elici e volute subiscono un processo di riduzione, fino ad arrivare a una resa schematica che ne cancella del tutto la funzione strutturale di sostegno dell'abaco: nelle volute si perde la parte verticale dello stelo e le spirali stesse sono poco pronunciate, mentre una variante prevede la sostituzione delle elici con una semipalmetta stilizzata di profilo.

Un'altra particolarità che definisce insieme agli elementi citati le serie tipologiche è il contorno e l'ampiezza della sagoma liscia di sfondo alle cime delle foglie della prima Corona, che varia a seconda della maggiore o minore riduzione dei lobi mediani delle foglie della seconda corona. Questa sagoma evidentemente non era visibile dal basso perché nascosta dalle cime fortemente ricurve delle foglie inferiori: il modo in cui è risolto il suo rapporto con le foglie laterali indica tecniche di lavorazione indirizzate a una produzione sempre più rapida e standardizzata, per la quale era essenziale ridurre le superfici da rifinire con l'intaglio dei particolari vegetali. Questo metodo di lavorazione finisce per eliminare l'originaria struttura naturalistica, favorendo l'introduzione di soluzioni disorganiche nel collegamento fra i singoli elementi vegetali (perdita di significato dei caulicoli, trasformazione delle volute e delle elici in semplici viticci, separazione in due zone distinte delle foglie della prima e della seconda corona). Indizio di una produzione diversa è la trasformazione delle elici in viticci giraliformi, che si uniscono al centro dei lati dell'abaco, formando il relativo fiore con l'unione delle estremità fogliformi. I c. in cui si trova questo nuovo elemento si diversificano dagli altri anche per la forma dell'acanto che ha lobi a fogliette più larghe (Weichakanthus) e, negli esemplari più tardi, per il fatto di essere privi dei calici e delle elici.

L'uso dell'ordine corinzio si accompagna nelle Provincie orientali all'affermazione dell'architettura ufficiale romana, caratterizzata da grandi edifici pubblici legati alla politica di propaganda imperiale e contrassegnati negli elevati e nell'ornato architettonico, da un costante classicismo. I modelli sono quelli stereotipati in uso nei grandi centri urbani (Traianeo di Pergamo, Terme di Faustina a Mileto, Serapeo di Efeso). Contemporaneamente va segnalato lo sviluppo di centri specializzati nella produzione in serie di manufatti marmorei (elementi architettonici, ma anche ritratti imperiali, statue e sarcofagi: a Docimium, Afrodisiade, nell'isola del Proconneso e in centri attici). L'ampiezza dell'attività raggiunta si spiega da un lato con il significato di ricchezza e di prestigio che accompagna l'uso del marmo nell'edilizia privata e il suo impiego tradizionale negli edifici pubblici, dall'altro con il risparmio nelle spese di trasporto consentito dall'acquisto di manufatti del tutto o in parte lavorati già nella cava.

In particolare il tipo di c. sopra descritto, derivato da trasformazioni in senso sempre meno naturalistico del c. corinzio «normale» di età tardo-ellenistica (v. Atlante dei complessi figurati, tav. 362) e largamente in uso nel II sec. d.C. in centri come Efeso e Pergamo, acquista definitivamente una forma stereotipata in età severiana, quando le officine operanti presso le cave del Proconneso ne adottano il modello e ne iniziano la produzione in serie, caratterizzata da un alto livello qualitativo, legata soprattutto alla committenza pubblica. Per tutto il III sec. e per i primi decenni del IV, fino alla fondazione di Costantinopoli che per alcuni decenni ne monopolizza le attività, le officine del Proconneso continuano a produrre lo stesso tipo di c. corinzio sostanzialmente immutato negli elementi strutturali essenziali, anche se piccole modifiche vengono apportate nei particolari, soprattutto dovute alla necessità di accelerare sempre più i modi di lavorazione, introducendo semplificazioni o accentuando la resa schematica degli elementi vegetali in funzione di una maggiore produttività.

L'esportazione di c. corinzî asiatici, se è già documentata in età antonina (Terme del Foro di Ostia), assume proporzioni rilevanti soprattutto nel periodo severiano (in connessione con l'inizio della produzione del Proconneso), fino a circa la metà del III sec. d.C. (c. con foglie inferiori separate e foglie superiori con i lobi laterali ancora intagliati), quando è documentata ovunque nel Mediterraneo (Leptis, Cirene, Tiro, Bosra). Ancora più diffusi in Occidente appaiono i tipi del tardo III sec. - primi decenni del IV, con foglie inferiori unite e ridotto apparato delle foglie superiori, rispetto ai quali sono da definire le eventuali imitazioni locali (Roma, Ostia, Piazza Armerina).

Solo qualche decennio dopo la fondazione di Costantinopoli si verificò l'abbandono del tradizionale c. corinzio asiatico e l'adozione invece di un tipo di c., contraddistinto da un acanto spinoso piuttosto esuberante e a larghe fogliette, e dalla frequente mancanza di elici e calici: ciò in relazione con i programmi edilizi iniziati da Costantino e condotti a termine dai suoi diretti discendenti (Foro di Costantino, prima fase di S. Sofia).

Diffuso, ma in misura minore, è il c. composito, usato in alternativa al corinzio: esso è utilizzato soprattutto nell'architettura civile (Archi di Tito e di Settimio Severo, Terme di Caracalla a Roma, Biblioteca di Celso a Efeso, ecc.) e nei portici dei fori (foro di Tarragona) e dei santuari (Asklepièion di Pergamo), mentre non è quasi mai impiegato nei templi (poche le eccezioni, p.es. il tempio centrale del Capitolium di Sbeitla). Pure essendo noti c. ionici con collari decorati da motivi vegetali già in età classica (Eretteo di Atene) ed ellenistica, l'invenzione del c. composito si deve considerare avvenuta a Roma in età augustea (c. reimpiegati nel mausoleo di S. Costanza, teatro di Ostia). Alcuni esempi sono documentati anche in età giulio-claudia, ma l'uso si diffonde soprattutto a partire dall'età flavia.

A Roma e in Occidente, durante i primi tre secoli dell'età imperiale le sue componenti sono: la parte corinzia, costituita da un kàlathos rivestito da due corone di foglie d'acanto, con viticci fioriti tra le foglie della seconda - questi tuttavia costanti solo a partire dall'età flavia, mentre precedentemente possono anche mancare -, e la parte ionica, costituita da un echino intagliato dal kỳma ionico sovrastante un astragalo a fusarole e perline, e da quattro volute angolari collegate dal canale; questo è percorso da una fronda vegetale distinta dalle semipalmette nascenti dalle volute.

Il fiore dell'abaco nasce da un calice al centro del canale della voluta, da cui nascono anche gli altri elementi vegetali. Delle produzioni provinciali citiamo soltanto quella africana, dove, soprattutto a partire dal tardo II sec. d. C. sono frequenti varianti, come la sostituzione delle spirali delle volute con un fiore 0 la riduzione delle corone di foglie, talvolta con foglie d'acanto alternate a foglie d'acqua (foro di Ippona).

In Oriente il kàlathos è avvolto da due corone di foglie d'acanto spinoso, come nei c. corinzî asiatici, e, a differenza dei tipi occidentali, presenta raramente i viticci fioriti tra le foglie (p.es. teatro di Myra, c. reimpiegati nella basilica A di Afrodisiade, presso il teatro). Più spesso la parte del kàlathos al di sopra delle foglie è del tutto liscia (c. microasiatici di importazione a S. Alessio, a S. Stefano sulla Via Latina a Roma, ninfeo di Traiano, ginnasio orientale e terme del porto a Efeso), oppure rivestita da strette e alte foglie lanceolate che con la cima toccano l'orlo del kàlathos (di importazione ad Aqui- leia, Asklepièion di Pergamo, Biblioteca di Celso ad Efeso). Nella parte ionica inoltre il canale delle volute non è mai percorso da tralci vegetali e i lati dell'abaco si presentano più frequentemente decorati (Asklepièion di Pergamo).

L'ordinamento tipologico si fonda soprattutto sulla resa delle foglie d'acanto, per cui si rimanda ai c. corinzî. Va notato che nel kyma ionico in Occidente, in analogia a quanto si verifica per i c. ionici, l'elemento di separazione tra gli ovuli si trasforma da «lancetta» a «freccetta» in età flavia, e ancora che l'impoverimento dell'apparato vegetale comincia a essere più frequente soprattutto dal III sec. in poi. In generale sia in Occidente, sia in Oriente, la riduzione e la scomparsa del canale delle volute e la resa disorganica del kỳma ionico si riscontrano più comunemente in epoca tarda.

All'interno della produzione di c. compositi va distinta quella tardo-antica, ossia del composito a foglie lisce. Si tratta di un c. privo dell'ultima rifinitura, con le foglie e l'elemento ionico lisci, senza cioè l'intaglio dei particolari. L'area di diffusione di questa tipologia riguarda soprattutto Roma e il Lazio, la Campania, la Toscana e ancora l'Africa, ma il centro produttore principale fu Roma: è ancora da chiarire il significato della parallela produzione in Africa, dove si riscontrano elementi tipologici simili, inseribili però nella storia delle produzioni locali africane affermatesi nel corso del III e IV sec. d.C.

Il prevalente impiego di questi c. non rifiniti proprio nella seconda metà del IV-primi decenni del V sec. d.C. (erano attestati anche precedentemente, ma in un numero esiguo rispetto all'impiego di quelli lavorati) dovette essere determinato da esigenze di risparmio di tempo nella loro lavorazione in un momento di grande richiesta da parte di una committenza per lo più privata: questa non poteva rivolgersi a grandi officine, d'altronde quasi scomparse a Roma o occupate soltanto nell'edilizia pubblica di committenza imperiale e del praefectus urbi. Determinante fu anche la diminuita possibilità di importazione dalle cave del Proconneso, impiegate soprattutto nei lavori di Costantinopoli. Anche se i c. compositi a foglie lisce finirono per diventare una forma decorativa indipendente, che la loro origine sia dovuta a ragioni tecniche legate ai modi e ai tempi di produzione, lo prova l'esistenza nello stesso periodo di c. compositi del tutto rifiniti nei particolari vegetali e decorativi (basilica cristiana e sinagoga di Ostia, area SO del Palatino): questi rappresentano dunque l'aspetto che avrebbero assunto i c. compositi a foglie lisce qualora avessero subito l'ultima fase della lavorazione.

I dati principali che hanno permesso di definire la cronologia e la classificazione tipologica di questi capitelli sono forniti dal loro impiego nelle domus tarde di Ostia e in alcune chiese paleocristiane di Roma nelle quali è precisabile la fase edilizia in cui furono messi in opera: così S. Paolo fuori le mura, S. Vitale, S. Sisto Vecchio, S. Clemente, tutte ascrivibili al tardo IV o ai primissimi decenni del V sec. d.C. Vi è una scarsa evidenza che provi la continuità del loro impiego dopo la metà del V sec.; l'ultimo edificio sicuramente databile, che impieghi c. compositi a foglie lisce, è S. Stefano sulla Via Latina, costruito sotto papa Leone I (440-461), mentre a S. Stefano Rotondo (468-486) vengono impiegati rozzi c. ionici lisci.

Caratteristica di questa classe di c. sono dunque le foglie lisce disposte in una o due corone più spesso di otto foglie, ma anche di quattro soprattutto nel periodo più tardo. Sono gli esemplari di maggiori dimensioni a presentare due corone di foglie (S. Paolo fuori le mura) pur non mancando c. notevoli con una sola corona (S. Clemente, Ostia, nei pressi del teatro). Le foglie possono essere tutte uguali, con la cima notevolmente ricurva e staccata dal kàlathos; oppure, più spesso nel caso di c. a una sola corona, è comune la variante della foglia più piccola al centro di ogni lato, a forma lanceolata, se non triangolare, e appiattita sul kàlathos, quasi senza incurvare la cima. Inoltre, come si ricava da alcuni c. di questo tipo, rifiniti anche nei particolari vegetali, le più piccole foglie centrali lanceolate hanno questa forma perché rappresentano la schematizzazione di una foglia d'acqua, mentre le altre più grandi, con la cima ricurva, mostrano la schematizzazione di una foglia d'acanto. La suddivisione tipologica è basata sulla maggiore o minore semplificazione dell'elemento ionico e dell'abaco. Si è osservato dunque che in un certo numero di c. più antichi di questa classe si conserva ancora il significato strutturale: dell'echino, distinto dalle semipalmette che si originavano dalle volute nella parte superiore; del canale delle volute, dentro il quale era sagomato un elemento tubolare liscio rappresentante la decorazione vegetale del canale; dell'abaco modanato secondo la tradizionale forma «classica», con sottile ovolo liscio superiore e con cavetto inferiore e con al centro di ogni lato un disco sporgente, nel quale si sarebbe potuto intagliare il fiore dell'abaco. Se esemplari lisci con queste caratteristiche erano ancora noti nel III sec. d.C., con il IV, e soprattutto con la sua seconda metà, si verificò un'ulteriore schematizzazione, o meglio semplificazione degli elementi citati. Ciò mostra come gli scalpellini abbiano perso la comprensione del loro significato strutturale e come quindi si sia impoverita la tradizione artistica vigente nelle loro officine a favore comunque di nuove forme espressive e di cui sarà interessante ricostruire le varie componenti, talora anche di provenienza esterna a Roma. Le conseguenze di questa semplificazione sono visibili nelle semipalmette che si fondono con l'echino, di cui anzi divengono un prolungamento che raggiunge le volute, distinto da queste quando sporge sulla loro superficie, o invece fuso anche con le volute quando coincide con il loro margine superiore; la scomparsa delle semipalmette e la giustapposizione meccanica del disco delle volute all'echino costituisce un gradino cronologicamente successivo e coerente alla perdita di comprensione del significato funzionale delle semipalmette. Parallelamente il canale delle volute non conserva più la decorazione interna e tende ad appiattirsi e ad assottigliarsi, fino a scomparire del tutto fondendosi con l'echino, mentre l'abaco si riduce ad una tavoletta con protuberanza semicilindrica o parallelepipeda al centro dei lati.

I c. ionici sono nel complesso meno utilizzati rispetto ai corinzî in età imperiale (a Roma sono finora documentati solo tre templi ionici: quello di Portunus al Foro Boario, forse il Tempio di Augusto, noto però esclusivamente in base a monete, e il Tempio di Saturno), mentre maggiore è la loro diffusione in età tardo-antica e bizantina. In Asia Minore viene scelto l'ordine ionico nei casi della ricostruzione di grandi templi più antichi dove esso era già utilizzato (Artemìsion di Sardi, Tempio di Dioniso a Teos), mentre, sia in Oriente, sia in Occidente, frequente ne è l'uso negli edifici con più ordini architettonici sovrapposti: così nei frontescena dei teatri, negli ordini esterni degli edifici per spettacolo (Teatro di Marcello, Colosseo), nei ninfei. Inoltre l'ordine ionico è utilizzato in portici (témenos del Serapeo di Alessandria) e in strade colonnate (Perge).

In Italia e in Occidente, dopo la conquista romana dei regni orientali, sono più o meno lentamente abbandonati i varí tipi locali nati dall'adattamento di forme greche; in particolare con la fine del II sec. a.C. non sono più usati i c. ionico-italici, con palmette verticali, di lontana tradizione peloponnesiaca, sostituiti dal tipo classicistico in auge ad Atene nel II sec. a.C. e di cui una buona documentazione è offerta dai materiali rinvenuti nella nave naufragata a Mahdia (v. Atlante dei complessi figurati, tavv. 339, 341, 343). In Oriente continua ad essere in vigore il tipo ermogeniano, che subirà nel complesso variazioni poco rilevanti nel corso dell'età imperiale, al contrario di quanto avviene a Roma.

In Occidente vanno distinti il periodo augusteo e giulio-claudio, da quello flavio e post-flavio: nel primo (v. Atlante dei complessi figurati, tav. 344) i c. ionici, nella tradizione tardo-ellenistica, presentano l'echino intagliato con un kỳma piuttosto plastico a ovuli e lancette, con volute unite da un ampio canale rettilineo, quasi sempre senza decorazione vegetale, anche se non mancano eccezioni. Nello stesso periodo perdurano i tradizionali rapporti proporzionali, in quanto il margine inferiore dell'echino coincide con la linea immaginaria che unisce gli occhi delle volute. Le volute sono collegate sui fianchi del c. da pulvini (o rocchetti) che si restringono fortemente al centro, tenuto stretto da un bàl- teo. Nel secondo periodo invece, in luogo del plasticismo, si ha un forte colorismo, dovuto al marcato uso del trapano e all'esuberanza della fronda vegetale che percorre il canale delle volute. Le lancette tra gli ovuli del kỳma ionico sono sostituite da freccette, che non nascono libere, bensì da un festoncino steso tra gli sgusci degli ovuli contigui (ciò si trova solo nei c. e non nei kỳma ionici delle cornici). I pulvini sono meno smanciati e tendono ad assumere una forma cilindrica; sono avvolti, come nel primo periodo da foglie acantizzanti alternate a foglie d'acqua.

Soprattutto a partire dal II sec. d.C. comincia a diventare frequente l'uso di intagliare i c. insieme a un collarino avvolto da foglie acantizzanti, mentre dal tardo III sec. in poi, ma spesso anche prima, comincia a essere frequente la mancata coincidenza tra il margine inferiore dell'echino e la linea immaginaria che passa tra gli occhi delle volute, spesso leggermente spostata in alto, anzi il rispetto di questo tradizionale rapporto proporzionale è spesso un importante indizio di classicismo nei varí periodi.

Va rilevato che in Asia Minore, dove, come si è detto, continuarono a prevalere i tipi di tradizione ellenistica (grande fortuna ebbero, p.es., le proporzioni e la forma alla base dei c. ionici del Didymàion di Mileto), vennero prodotti presso le cave, in officine specializzate in manufatti architettonici, anche c. ionici, esportati al di fuori delle provincie asiatiche (p.es. ad Alessandria, a Piazza Armerina e in altre località italiane, come testimoniano i c. ionici di un carico naufragato vicino a Punta Scifo presso Crotone). Un altro carico di un battello che trasportava pure c. ionici è stato rinvenuto nel Mar Nero, presso Sile; in età tardo-antica e bizantina una produzione di c. ionici semilavorati e destinati all'esportazione è stata riscontrata nel Proconneso e a Thasos. In epoca sempre tarda, ma a cominciare dal III sec. d.C. in Africa e, in minore quantità, anche altrove, è spesso attestata la ripresa dell'ordine ionico in forme che variano liberamente quelle tradizionali, con assenza del canale delle volute, kỳma molto ridotto, o eccessivamente allungato, ovvero sostituito da altri elementi decorati (Mactar, Timgad, Tipasa, ecc.).

Il c. dorico nella sua formulazione tardo-ellenistica, caratterizzata da un echino troncoconico molto rigido e da tre anuli (carico della nave naufragata a Mahdia), se è ancora abbastanza usato in età tardo-repubblicana e augustea anche a Roma e nel Lazio (Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, Tempietto di «Ercole» a Cori, tempietto dorico nel complesso della Casa di Augusto sul Palatino), è tuttavia sempre meno utilizzato con il progredire dell'età imperiale, anche se ritorna in alcuni tipi edilizi, come i portici delle vie colonnate (Antinoe).

A Roma, in Italia e altrove, gli vengono preferite ben presto alcune varianti, con echino rigonfio, che devono considerarsi influenzate dal c. tuscanico (teatro romano di Verona). Spesso c. semplificati, che possiamo definire dorico-tuscanici, sono impiegati nei portici interni di specifici tipi edilizi, quali i peristili delle domus o degli horrea (horrea di Ortensio e grandi horrea di Ostia). Come tuscanici sono definibili i c. con abaco modanato superiormente, con echino ad arco di cerchio o a gola diritta, separato tramite sottili modanature (tondino e listello, ovvero listello e cavetto, ecc.) da un collare, che a sua volta presenta alla base un altro tondino sporgente ed un altro collare, che costituiscono il sommoscapo della colonna. In particolare questo c. è spesso impiegato negli edifici a più ordini sovrapposti, p.es. all'esterno degli edifici per spettacolo (Teatro di Marcello, Colosseo, anfiteatro di Capua), e la sua diffusione si riscontra anche in Africa e altrove.

Come particolare variante del c. dorico possiamo definire i tipi impiegati, p.es., nell'Arco di Augusto del Foro Romano, caratterizzato dall'echino intagliato con un kỳma ionico. Il motivo, di origine classica (Eretteo, c. delle Cariatidi, ripresi nel Foro di Augusto), e testimoniato anche in età ellenistica (ordine interno del bouleutèrion di Mileto), trova specifiche formulazioni a Roma e in Italia, dove spesso l'echino è sagomato a gola diritta e inferiormente presenta un alto collare con motivi vegetali; inoltre la sua decorazione con un kỳma ionico può essere sostituita da un kỳma di foglie (Foro delle Corporazioni, di Ostia). Altre formulazioni di questo tipo sono note in Asia Minore (Magnesia sul Meandro), in Egitto, ecc.

Infine tutte le forme di c. ora citati possono presentare come varianti, elementi figurati in accordo con l'arredo architettonico del luogo di impiego e il relativo programma simbolico e ideologico.

Si tratta di un'elaborazione dell'ordine ionico, corinzio e anche del c. «a sofà», che ha origine soprattutto nell'ambiente ellenistico orientale (Mileto - Didymàion, area siro-palestinese, Alessandria, Tolemaide - Palazzo delle Colonne) e nella Magna Grecia (Canosa, Brindisi, Padula, Pompei), dove sembra che la forma fosse inventata a Taranto e dove sono diffusi non solo protomi di divinità, ma anche figure intere. In Grecia invece la forma è piuttosto rara, limitata soprattutto all'ambiente neoattico, dove quasi esclusivamente domina il c.d. «c. a chimera» (c. del naufragio di Mahdia, di Atene, Eleusi, Corinto): il tipo è anche noto in Italia, dove è importato e imitato fino alla prima e media età imperiale.

Nei c. corinzî di età imperiale l'elemento figurato

più frequentemente compare in luogo del fiore dell'abaco e delle spirali delle elici, ovvero sostituisce le volute. Tra i motivi più comuni: aquile, maschere teatrali, cornucopie, delfini, leoni, kàntharoi, ecc.. Sempre nel periodo imperiale alcuni ambienti sono caratterizzati da forme particolari, come mostrano i c. corinzî e compositi con figure di divinità intere o i c. ionici con busti di divinità delle Terme di Caracalla (gli ionici ora reimpiegati a S. Maria in Trastevere) e ancora i c. con Vittorie alate, piuttosto diffusi in Italia. Meno frequenti sono c. formati da elementi figurati, come mostrano i c. reimpiegati nel Portico degli Dei Consenti a Roma, con trofei di armi.

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(P. Pensabene Perez)

C. bizantino . - Nel corso del IV e del V sec. si assiste a una graduale trasformazione della morfologia strutturale e ornamentale dei c. che condusse, sul volgere del V sec., a un netto e definitivo distacco dai modelli di tradizione classica che fino a quel momento avevano rappresentato un costante punto di riferimento, e quindi alla creazione di quei c. che possiamo, a pieno titolo, definire bizantini.

Le premesse di tale metamorfosi si devono individuare nelle nuove tendenze stilistiche della scultura architettonica di età dioclezianea, delle quali si fecero principali interpreti e diffusori gli opifici che lavoravano il marmo proconnesio. Ed è proprio la produzione di questi ultimi, ai quali le riforme dioclezianee avevano attribuito le dimensioni di una grande organizzazione che operava sotto il controllo dello stato, e che a partire dal 324 cominciarono a gravitare nell'orbita della «Nuova Roma» sul Bosforo, a offrire la più attuale e ampia documentazione dell'evoluzione delle forme dei capitelli. A questa progressiva mutazione contribuirono del resto anche i diversi sistemi di lavorazione adottati per adeguarsi a una produzione in serie di un rilevante numero di c. che comportò l'elaborazione di versioni semplificate dei modelli di tradizione classica nei quali, per ridurre evidentemente i tempi di manifattura, fu via via soppresso ogni elemento per così dire ridondante; tali semplificazioni acquisirono ben presto valore di sigla stilistica, nella quale il naturalismo cedette il posto alla simmetria e al puro effetto ornamentale. Ed è appunto all'interno di queste tipologie sostanzialmente semplificate che si codificarono le differenziate categorie dei c. del IV-VI secolo.

La prima sistemazione tipologica e cronologica della multiforme documentazione relativa ai c. del IV-VI sec. della pars orientate dell'impero si deve al Kautzsch il quale, nel 1936, propose una classificazione che costituisce ancora oggi un fondamentale punto di riferimento, mentre nei più recenti studi, alla luce dei nuovi materiali scoperti e attraverso nuovi criteri metodologici, si tende soprattutto a porre l'accento sui sistemi di lavorazione, sul ruolo monopolistico degli opifici che lavoravano il marmo proconnesio e quindi sul fenomeno delle esportazioni. Aspetto quest'ultimo che, al di là di una sua primaria importanza commerciale, coinvolge implicazioni propagandistiche collegate alle istanze della politica della corte costantinopolitana nelle diverse province dell'impero.

Ne risulta pertanto integrato e aggiornato il catalogo del Kautzsch, con un censimento dal quale risaltano le tipologie più ampiamente prodotte e quindi diffuse.

È la tipologia corinzia quella più largamente documentata nelle sue diverse accezioni, dai primi esemplari prodotti tra la metà del IV e la prima metà del V sec. che mostrano ancora foglie di acanto di tradizione classica microasiatica, come p.es. un c. rinvenuto nello scavo dell'atrio di Santa Sofia a Costantinopoli, databile plausibilmente alla metà del IV sec., con fogliette lunghe e risentito effetto plastico, ovvero quei c. caratterizzati da un modello piuttosto morbido nei quali si nota la scomparsa dei caulicoli o delle elici interne, che preludono le più accentuate semplificazioni dei c. del maturo V secolo.

Senz'altro più semplificata è infatti la forma di quei c. caratterizzati dalla c.d. «maschera d'acanto», una sorta di formula schematica che rende con un disegno essenzialmente geometrico le foglie di acanto, delle quali viene peraltro ridotto il numero (dalle canoniche 8 diventano infatti 7 o 6) e contenuto il plastico aggetto, determinando quindi una tettonica più compatta, che attenuò sensibilmente l'eleganza dei modelli di tradizione classica.

Tale formula, strettamente connessa a un tipo di lavorazione meccanica e ripetitiva, recuperata da prototipi classici di ambito microasiatico o ellenico, che fece la sua apparizione a Costantinopoli alla fine del IV sec. (i c. dell'Arco di Teodosio I nel Forum Tauri, inaugurato nel 393), non è tuttavia completamente priva di una sua peculiare eleganza formale come dimostrano i c. e le imposte del protiro della Santa Sofia teodosiana (405-410 c.a) e della Porta d'Oro (412-413), nei quali le simmetriche trascrizioni di gusto geometrizzante delle foglie di acanto generano una composizione di notevole effetto ornamentale. Lo stesso dicasi per il grande c. della Colonna di Marciano (450- 457), che mostra tra l'altro un elaborato apparato di caulicoli e di elici, mutuato forse da modelli romani di tradizione siriaca, e per un analogo esemplare, rinvenuto nel Topkapi Sarayi, sul cui abaco sono scolpite protomi umane, forse pertinente alla colonna onoraria di Leone I (547-474).

La maschera d'acanto diventa invece vera e propria sigla standard nei capitelli con le volute a nastro (il tipo IV del Kautzsch, classificato con la definizione mit Lederblättern, «con foglie di cuoio»), la cui produzione si colloca nella seconda metà del V sec., e nei c. con volute a «V» o «a lira» (che includono una croce, un rametto, un fiore o una foglia rovescia), tra i più diffusi nelle diverse regioni dell'impero in un periodo compreso tra la fine del V (i primi esemplari datati sono quelli in opera nella Basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna) e l'età giustinianea. Tali c., che presentano per lo più due corone con 4 grandi foglie di acanto, non furono delle invenzioni originali, bensì delle elaborazioni di modelli classici del II-III sec., ed esattamente di esemplari con volute a «S» 0 «lireggianti» di tradizione microasiatica.

Nell'ambito delle differenti tipologie dei c. corinzî prodotti dalle botteghe costantinopolitane nel corso del V sec., solo gli esemplari del tipo «a medaglione» possono essere infatti annoverati tra le novità, per le loro forme decisamente anticlassiche. Questi c., classificati dal Kautzsch come varianti ridotte di quelli di tipo II (mit weichzackigem Akanthus, «con acanto a dentellatura morbida»), sono infatti caratterizzati da una sola corona di 8 o 4 foglie di acanto, al di sopra della quale emerge dal kàlathos una sorta di protuberanza o di medaglione ovale delimitato da pseudocalici con lobi a tre fogliette allungate, dai quali fuoriescono le volute di forma contratta. In assenza di esemplari metropolitani datati, la produzione e la diffusione di questo particolare tipo di c. corinzio può essere cronologicamente circoscritta alla seconda metà del V sec. in rapporto agli esemplari in opera nella chiesa di San Barnaba a Cipro, fondata dall'imperatore Zenone (474-491).

Nel percorso evolutivo del c. corinzio, l'ultima tappa della sua mutazione è configurata dagli esemplari che il Kautzsch riunì nel gruppo VII, classificandoli con la definizione mit Abdachung der Kernmasse, «con pendenza della massa interna». Negli esemplari appartenenti a questa tipologia notevolmente semplificata, tra i quali quelli recuperati nel relitto della nave naufragata presso Marzamemi, sulle coste orientali della Sicilia, che configurano ormai motivatamente il tipo standard del c. corinzio prodotto su scala industriale dagli opifici costantinopolitani tra la fine del V e la prima metà del VI sec., vediamo infatti le foglie di acanto molto aderenti al kàlathos, qualificate da una trascrizione grafica dei morfemi vegetali, accentuata anche dalle sottili incisioni che riproducono le coste e le nervature, mentre le volute sono suggerite da spigoli emergenti dal kàlathos, del quale è peraltro scomparso anche l'orlo. Sotto la bugna o fiore d'abaco viene inoltre ricavato un semplice piano a spiovente, oppure un prolungamento di forma approssimativamente cilindrica. In alcuni esemplari, come quelli rinvenuti nella basilica A di Latrun in Cirenaica, datata all'età giustinianea, le due corone di foglie di acanto presentano inoltre una lavorazione a giorno.

Oltre a questi c. che forse furono gli ultimi c. corinzî prodotti in area costantinopolitana, caratterizzati, come si è detto, da una sensibile riduzione della struttura e dell'apparato decorativo, e, parallelamente, da una tendenza verso un'astratta bidimensionalità, meritano infine una pur breve menzione quegli esemplari che mostrano l'inserto di una grande foglia di acanto sotto gli angoli dell'abaco. Documentati da un numero piuttosto esiguo di pezzi e quasi completamente assenti tra quelli di esportazione, la loro datazione si orienta tra la fine del V e l'età giustinianea, come attesterebbero gli esemplari in opera nella Yerebatan Sarayi, la Cisterna Regia, ricostruita appunto da questo imperatore.

Per quanto riguarda i c. compositi, in epoca protobizantina si ebbero al contrario solo due distinte formulazioni: una semplice, di gusto antichizzante, che conservò sostanzialmente immutati la struttura e il lessico ornamentale degli esemplari classici, e una seconda che appare invece innovativa.

I c. del primo tipo presentano infatti due corone di foglie di acanto a grossi dentelli nella zona corinzia, la quale è separata da una fusarola o da un filo di perle dalla sovrastante zona ionica dove viene conservato il kymàtion ionico, talora però sostituito da un fregio di edera stilizzata. La produzione di questo tipo di c., iniziata molto probabilmente nei primi anni del V sec., proseguì fino alla metà del VI sec.; e se gli esemplari del V mostrano ancora plastiche foglie di acanto, come testimoniano due esempi nel Museo Archeologico di İznik-Nicea (inv. nn. 656-657), quelli del VI sec. sono invece qualificati da una decisa stilizzazione delle foglie di acanto le quali, perduta ogni plastica naturalezza e non più nettamente individuate, creano una sorta di involucro bidimensionale lavorato a giorno: si vedano tra gli altri gli esemplari di manifattura costantinopolitana in opera nelle gallerie del San Vitale a Ravenna e quelli della basilica eufrasiana di Parenzo.

Il secondo tipo di c. corinzio composito prodotto dagli ateliers metropolitani nel corso del V sec. si rivela al contrario più innovativo del precedente rispetto ai modelli classici, anche se da essi derivò il ritaglio a fini dentelli delle foglie di acanto e degli elementi ornamentali. Ne offre una splendida testimonianza una serie di c. di età severiana a Side e a Perge in Panfilia.

I prototipi degli esemplari prodotti nella capitale sono stati comunque riconosciuti nei c. della Basilica di San Giovanni di Studio, fondata nel 453 o nel 463, così come un c. «misto» di Delfi, nel quale una metà composita con foglie di acanto finemente dentellato è abbinata a una metà corinzia del tipo VII, ne può documentare la prolungata manifattura fino all'età giustinianea.

Attraverso l'esame degli elementi ornamentali, che, con svariatissime combinazioni, caratterizzano questa categoria, si arriva senza dubbio a isolare delle costanti le quali, tuttavia, non permettono di mettere completamente a fuoco le connotazioni di uno o più opifici specializzati nella loro lavorazione, né consentono di stabilire una sequenza cronologica per l'incredibile numero di esemplari esportati in tutte le regioni dell'impero.

Singolare variante di questi c. è rappresentata da quegli esemplari che presentano le foglie di acanto, trasformate in pure trame decorative lavorate a giorno, incorniciate da un sottile listello; esemplari nei quali le volute furono sovente sostituite, come nel caso dei c. in opera nelle finestre absidali della Basilica di San Demetrio a Salonicco, con colombe.

Questo particolare tipo di foglie ricorre anche nelle più semplici imposte, come attestano alcuni pezzi costantinopolitani (riutilizzati nel muro perimetrale esterno della Yediküle), in rapporto ai quali è peraltro plausibile ricondurre alla capitale anche la loro ideazione. Si ricollegano a questa variante anche i cosiddetti c. trizonali nei quali la decorazione di elementi vegetali è scandita in tre zone sovrapposte, lasciando spazio, sotto gli angoli dell'abaco, a colombe o altri volatili simili. Questo originalissimo tipo di c., documentato a Costantinopoli dai due pezzi riutilizzati nel protiro della Porta d'Oro, può essere datato al terzo quarto del V sec. in rapporto agli esemplari emersi dallo scavo della c.d. Kuppelkirche di Meryemlik, la cui fondazione è legata al nome dell'imperatore Zenone.

Altra particolare tipologia di c. creati in età protobizantina sono i c.d. bizonali. La zona inferiore può presentare una corona di foglie di acanto normale, come nel magnifico c. rinvenuto nell'Ippodromo costantinopolitano che reca nella zona superiore mezze figure di cavalli alati, ovvero con foglie di acanto finemente dentellato, sulle quali trovano posto aquile 0 protomi di ariete, intercalate da cornucopie, cartocci foliari, piccoli uccelli e altri volatili.

In questo primo gruppo le due zone non sono nettamente divise, come invece accade in quegli esemplari la cui zona inferiore presenta un involucro a canestro vimineo o una decorazione a tralci vegetali 0 palmette lavorate a giorno, coronate in alto da un cordolo o da un sottile listello al quale si appoggiano o si artigliano gli animali scolpiti nella zona superiore. Tra gli esempi più raffinati si segnalano quattro c. rinvenuti a Salona.

Nei c. con canestro vimineo gli animali ricorrenti sono colombe o volatili simili; sono questi per lo più esemplari di piccoli dimensioni, evidentemente destinati all'arredo liturgico (cibori, recinzioni presbiteriali), funzione alla quale erano comunque molto spesso destinati c. decorati con una sola corona di quattro foglie di acanto di forme abbastanza schematiche.

Secondo il Kitzinger (1946) i c. bizonali deriverebbero da modelli ellenistico-romani, ispirati comunque a più lontani prototipi di ambito iranico, mentre invece il Deichmann (1965), escludendo eventuali collegamenti con le tradizioni achemenidi o sasanidi, ritiene piuttosto plausibile un riferimento a prototipi greco-romani, anche se, al di là di una serie di esemplari della prima età imperiale, non se ne può individuare il percorso fino alle soglie del V secolo. La datazione suggerita comunque per i c. bizonali si colloca tra la metà del V sec., quelli con le due zone tra esse coordinate, e la prima metà del VI sec., gli esemplari con le due zone nettamente divise e con ornamentazioni lavorate a giorno.

Di derivazione classica sono altresì i c. con foglie di acanto (per lo più a fini dentelli) disposte oblique sul kàlathos, ovvero con le punte rigirate (tutte in un senso o anche in senso opposto), i cosiddetti c. con foglie a colpo di vento, oppure con foglie contigue, ma con punte contrapposte designanti il c.d. acanto a farfalla (p.es. i c. di Ravenna con il monogramma di Teodorico e quelli in opera nella Basilica di Sant'Apollinare in Classe), documentati sia nella versione corinzia sia in quella composita, databili al maturo V sec. I prototipi di questi c., che ebbero tra l'altro ampia diffusione soprattutto nella Siria del Nord, attraverso eleganti variazioni caratterizzate dal finissimo ritaglio a dentelli delle foglie di acanto (Qal'at Sim'än, el- Bara; Aleppo; Strube, 1978), possono essere infatti individuati in età severiana.

Veniamo infine ai c. di tipo ionico, la cui produzione dal III al V sec. fa soprattutto collegata agli opifici attivi sull'isola di Thasos. Si tratta di esemplari estremamente semplificati che, a differenza dei manufatti del Proconneso, venivano per lo più esportati in uno stato di sommaria lavorazione.

I c. ionici, tuttavia, in conseguenza al fatto che negli edifici protobizantini l'ordine architettonico architravato cedette il posto a un sistema di archeggiature, furono ben presto sostituiti dai cosiddetti c. ionici a imposta che riunivano in una sola massa il ruolo e le forme del c. ionico e di imposta, in forma di piramide tronca rovescia. Del resto, anche ai c. corinzî e compositi venne sovente coordinato un pulvino che offriva evidentemente un piano di base più ampio per l'imposta dell'arco.

L'evoluzione dei c. ionici a imposta, dal 400 c.a (datazione di un c. di Skripou, il primo esemplare noto della tipologia), può essere delineata in rapporto alle proporzioni delle due zone e della multiforme morfologia decorativa. Dai c. caratterizzati da una larghezza superiore alla sovrastante imposta a quelli di uguale ampiezza e quindi agli esemplari nei quali la zona ionica occupa solo un terzo dell'altezza totale, si perviene alle tipologie prodotte nel VI sec. che annoverano gli esemplari più evoluti e innovativi, quali i c. delle fondazioni giustinianee a Costantinopoli (Santi Sergio e Bacco e Santa Sofia) con volute contigue, e infine ai pezzi più corsivi, con ridotto spessore dell'imposta e zona ionica estremamente contratta.

Svariata è la decorazione dei c. ionici a imposta, come del resto quella delle più semplici imposte: foglie di acanto a grandi dentelli o finemente dentellati che lasciano posto, sulla fronte dell'imposta, alla croce, girali di acanto, foglie d'acqua, serti con croci, con cristogrammi o monogrammi, cornucopie, figure animali o eleganti baccellature. Sull'echino della zona ionica ritroviamo invece, al posto del kymàtion ionico, fogliette trilobé giustapposte o generate dal medesimo stelo, tralci, palmette, rametti diagonali o contrapposti. I balustri, infine, conservano al contrario la loro tradizionale ornamentazione.

Accanto alle tipologie sin qui segnalate, tutte mutuate da c. di tradizione classica, di volta in volta modificati e attualizzati di riflesso alle contemporanee tendenze di gusto, si assiste, tra la fine del V e i primi anni del VI sec., alla creazione di c. che segnano una netta cesura con il passato. Ne offre al riguardo significativa testimonianza la decorazione scolpita del San Polieucto, la celebre chiesa constantinopolitana fondata dalla nobile Anicia Giuliana tra il 524 e il 527, nel quale è stata messa in evidenza l'assoluta originalità rispetto ai tradizionali repertori classici, esaltata anche dall'immissione di elementi morfologici di gusto sasanide e da una mutata concezione nell'organizzazione decorativa.

Sui c. a imposta di questo edificio, come del resto sugli altri elementi strutturali, si combinano infatti, in sintesi assolutamente inedite, nuovi disegni e nuove composizioni decorative, esaltate da una lavorazione interamente a giorno, in un continuum ornamentale decisamente anticlassico che preannuncia gli esiti dell'età giustinianea.

Nelle decorazioni della chiesa dei Santi Sergio e Bacco e in Santa Sofia si ricercò tuttavia una maggiore unità, riducendo la varietà dei motivi, soprattutto quelli esotici, che, proprio in Santa Sofia raggiunse la sua perfezione tecnica e unità stilistica.

S'inseriscono in questo mutato contesto artistico nuove tipologie di c., soprattutto i c.-imposta, con ornati impreziositi da una raffinatissima lavorazione a giorno. Svariato è il lessico ornamentale: composizioni fitogeometriche, trofei di cor-nucopie, tralci fuoriuscenti da vasi, elementi vegetali derivati dai repertori sasanidi I con molteplici variazioni sui medesimi temi decorativi.

Non meno eccezionali sono i c. polilobati creati per I la chiesa dei Santi Sergio e I Bacco con una raffinata ornamentazione fitomorfica ritagliata sulle superfici alternatamente concave e convesse che modulano la struttura del c. stesso. Un medesimo tipo di decorazione ricorre anche sui c. ionici a imposta con volute contigue in opera nelle gallerie di questo edificio e in Santa Sofia, dove si rammentano soprattutto i singolari c. pseudocompositi con abaco notevolmente espanso e il cui kàlathos è avvolto da un involucro di grandi foglie di acanto stilizzato lavorate a giorno, che recano al centro i monogrammi imperiali.

Ma se in età giustinianea si assiste a questa esuberanza ornamentale, parallelamente affiora invece una tendenza antitetica che, eliminando ogni ornato superfluo, privilegia piuttosto la nitida stereometria dei c. sui quali, come p.es. i c. ionici ad imposta della chiesa di Santa Irene o nei c.-imposta del c.d. tipo a pannelli, trovano posto solo dischi, croci, isolate foglie o i monogrammi imperiali che si stagliano isolati sui lisci piani di fondo.

Nel panorama sin qui delineato sono state motivatamente privilegiate le testimonianze costantinopolitane, poiché è proprio nella produzione scultorea metropolitana che si possono mettere a fuoco in coerente successione cronologica le più significative tappe dell'evoluzione delle forme e dell'ornamentazione dei c. dal IV al VI sec.

Nell'ambito di quell'eclettica circolazione di arte e di cultura che caratterizza il contesto socio-economico del Mediterraneo e del Mar Nero nel corso del IV-VI sec., la scultura costantinopolitana rappresentò del resto, attraverso il rilevante fenomeno delle esportazioni di manufatti marmorei, un fattore coinvolgente e uniformante sotto il profilo stilistico, sovente addirittura prevaricante le produzioni scultoree che si erano sviluppate autonomamente nelle diverse regioni dell'impero sulla scorta di antiche tradizioni locali.

Interessante al riguardo è la scultura di area siriaca che offre una vasta e differenziata documentazione relativa alle scuole locali alcune delle quali, durante il IV- VI sec., recuperarono e rielaborarono originalmente le forme e i repertori ornamentali del barocco severiano, rivelando nel contempo, all'interno di una mutata concezione tecnico-estetica, una sostanziale fedeltà alle tradizioni classicistiche, come attestano, p.es., i c. corinzî dell'inizio del VI sec. a Rhesapha.

Non meno ampia e significativa è la produzione scultorea dell'Egitto, dove le botteghe locali, pur accogliendo le nuove tendenze stilistiche costantinopolitane, palesano un certo conservatorismo ispirato evidentemente alle radicate tradizioni ellenistiche. In età giustinianea, tuttavia, si assiste a una più coinvolgente adesione alle mode costantinopolitane con una serie di originali traduzioni realizzate anche nel morbido calcare locale di modelli marmorei d'importazione.

Scuole scultoree locali, con sviluppi autonomi, sono documentate anche in diverse regioni dell'Asia Minore, specie in Frigia, in Licia, in Isauria e in Cilicia, il cui influsso verso Costantinopoli potrebbe essere peraltro oggetto di più approfondite indagini.

L'Africa settentrionale, interessata da un'intensa attività edilizia all'indomani della riconquista bizantina del 535 e quindi da una rilevante importazione di manufatti marmorei, mostra solo una parziale adesione alle mode della capitale e per lo più limitata a un aggiornamento nella lavorazione dei c. corinzî e compositi nei quali muta infatti soprattutto il modellato delle foglie di acanto.

In area palestinese, dove si diffusero e si elaborarono localmente fin dal IV sec. forme di c. esemplate da modelli marmorei d'importazione, si ebbero in età giustinianea esiti estremamente originali, documentabili, p.es., con i sorprendenti c. classificabili come pseudocompositi o pseu- dobizonali di marmo proconnesio, pertinenti forse alla Nea, la celebre chiesa fondata da Giustiniano a Gerusalemme.

Nelle regioni dell'entroterra balcanico, si segnalano invece produzioni scultoree nelle quali si rielaborarono nei materiali locali, con sintesi eclettiche, ma non prive di una loro dignità formale, modelli di diversa provenienza; mentre in Grecia, specie in Attica e nel Peloponneso, quelle scuole locali che fino a tutto il V sec. avevano dato vita a una produzione strettamente legata alle tradizioni locali, in età giustinianea furono pressoché prevaricate dai manufatti d'importazione metropolitana.

Se si eccettuano alcuni centri di produzione locale attivi nella Scythia Minor, in nessuna altra regione pontica si registrano, parallelamente al fenomeno delle importazioni dall'area costantinopolitana, sviluppi indipendenti stilisticamente.

Anche in Italia, infine, pur coinvolta fin dal IV sec. nel fenomeno delle importazioni convergenti verso Roma, ma soprattutto verso Ravenna dove si costituirono ben presto opifici locali, solo marginalmente si assiste a una elaborazione dei modelli costantinopolitani.

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(C. Barsanti)