SALUSTRI, Carlo Alberto Camillo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

SALUSTRI, Carlo Alberto Camillo

Gabriele Scalessa

(Trilussa). – Secondogenito di due figli, nacque a Roma il 26 ottobre 1871 da Vincenzo, cameriere, e da Carlotta Poldi, sarta.

Dopo la prematura scomparsa di sua sorella Elisabetta, di soli tre anni, per una difterite nel 1872, e quella del padre nel 1874, la famiglia si trasferì da via del Babuino, dov’era nato, a via Ripetta, e poi, meno di un anno dopo, in una nuova abitazione in piazza di Pietra.

Svogliato e negligente a scuola, decise di non proseguire gli studi allorché nel 1886 la madre, che aveva allestito un atelier di sartoria con l’aiuto del marchese Ermenegildo Del Cinque (presso cui Vincenzo aveva lavorato come cameriere), volle iscriverlo all’istituto tecnico Angelo Mai. Mostrò tuttavia un interesse precoce per la poesia, componendo a dodici anni una breve lirica in italiano e leggendo i versi romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli e Giggi Zanazzo.

Inviò il suo primo sonetto in romanesco, L’invenzione della stampa, proprio a Zanazzo, che lo pubblicò nel Rugantino – di cui era direttore – del 30 ottobre 1887. Il testo recava già la firma Trilussa (anagramma del suo cognome), con cui fu conosciuto e pubblicò poi tutta la produzione successiva.

Fra le circa novanta poesie e prose romanesche accolte dal Rugantino tra il 1887 e il 1889, quando cessò di collaborarvi, vi erano le Stelle de Roma: trenta madrigali per le donne più belle della città, venti dei quali riuniti successivamente in un volumetto per i tipi di Cerrone e Solaro (Roma 1889), con dedica a Zanazzo (di cui si avvertiva l’influenza) e prefazione e glossario di Francesco Sabatini. Il libro ottenne un notevole successo di pubblico, ma anche qualche critica da parte di puristi del romanesco, come Filippo Chiappini, che ne condannava i temi leggeri e il dialetto italianizzato.

Compilò quindi gli almanacchi del 1890 e del 1891 Er Mago de Bborgo, lunari annuali «in der parlà romanesco», inserendovi poesie per ogni mese e i pronostici per l’anno. Collaborò alle testate Il Ficcanaso, Il Cicerone, La Frusta e, dal 1891, al Don Chisciotte della Mancia, fondato e diretto da Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo), su cui pubblicò fino al 9 ottobre 1899: in tutto vi comparvero 70 sonetti, 12 favole in versi (la prima, La Cecala e la Formica, sul numero del 29 novembre 1895) e 42 prose in italiano (con dialoghi in romanesco), alcune fra le quali firmate Marco Pepe, dal nome dell’antagonista di Meo Patacca nel poema di Giuseppe Berneri. Nel 1895, anno in cui traslocò con la madre in un appartamento in via Nazionale preso in affitto dal barone Sidney Sonnino, uscirono i Quaranta sonetti romaneschi, che raccoglievano testi apparsi nel Don Chisciotte, con illustrazioni di Gandolin, per i tipi di Enrico Voghera, inaugurando così una collaborazione con l’editore romano destinata a protrarsi per più di un ventennio.

La ‘ripresa’ della tradizione poetica romanesca comportava un adeguamento alla nuova realtà socioculturale di Roma: non più quella papalina di Belli, né quella delle rievocazioni risorgimentali di Pascarella di Villa Gloria, ma una Roma piccolo-borghese e fin de siècle, disinteressata alla storia passata e recente, che viveva anche grazie al turismo nord-europeo (L’ingresi) e risentiva dell’igienismo mantegazziano (L’arte di prender moglie); una Roma di conti, nobildonne e servette, di cafés-chantants, ottobrate e gite ‘for de porta’, di borghesi che parlano ‘ciovile’, fattucchiere e freaks quali donne barbute e gigantesse. I sonetti, dialoghi o monologhi, mai apertamente volgari e scritti in un romanesco accessibile, concentravano il loro umorismo nella classica boutade finale.

Seguirono gli Altri sonetti nel 1898 per i tipi romani di Folchetto, preceduti da una lettera ironica a Isacco di David Spizzichino, lo strozzino cui Trilussa avrebbe tardato a restituire del denaro per via del protrarsi della data di uscita del libro. Nello stesso anno accompagnò Leopoldo Fregoli a Berlino e collaborò con Il Giorno, nato dalla fusione fra il Don Chisciotte e il Fanfulla, con 22 sonetti e 11 favole.

Dopo aver cambiato più volte abitazione assieme alla madre, si trasferì in piazza in Piscinula, dove visse sino al 1899. Presenziò con assiduità salotti letterari, caffè-concerto e teatri, intento a declamare i suoi versi. Ebbe una relazione sentimentale con Lina Cavalieri, cantante lirica, e frequentò Gabriele D’Annunzio.

Nel settimanale umoristico Il Travaso delle idee pubblicò una lettera a puntate attribuita a Maria Tegami, sorta di cocotte intellettuale, a partire dall’8 aprile 1900, poi nel volume Maria Tegami intima per i tipi romani della Cooperativa Sociale (1903).

Il 1901 è l’anno delle Favole romanesche (Roma), con illustrazioni di Giuseppe Garibaldi Bruno, che includevano sia le Favole rimodernate (che risalivano alla tradizione esopiana e fedriana) sia le Favole moderne, di invenzione trilussiana. Affidati ad animali parlanti, anche insoliti (Er pipistrello, La purce, Er bacillo) o a cose (Er bijetto da cento lire, Li cappelli), gli apologhi erano ispirati a una filosofia morale di buon senso, che postulava la perpetuità di taluni atteggiamenti come la ricerca del proprio tornaconto e l’arrivismo, a dispetto dell’estrazione sociale e delle tinte politiche di ciascuno, e guardavano con sospetto all’estremismo dei socialismi rivoluzionari. Diede inoltre alle stampe i sonetti di Caffè-concerto (Roma 1901), accompagnati da una riedizione della produzione sonettistica precedente, e cominciò una serie di tournées di letture poetiche che dall’Italia lo avrebbero condotto a Parigi.

Nel 1903 firmò un contratto, mai onorato, con Treves, impegnandosi a inviare un libro di favole e un romanzo umoristico. Nello stesso anno, sempre per i tipi di Voghera, uscì a Roma Er serrajo, storia composta in sestine di un tentativo fallito di rivoluzione da parte di un gruppo di bestie circensi, e partecipò a Milano al Torneo dialettale italiano con Salvatore Di Giacomo, con cui era in corrispondenza epistolare.

Al gennaio del 1906 risale la sua collaborazione con Il Messaggero e con il Corriere della sera, il direttore del quale, Ottorino Raimondi, lo invitò a inviare poesie con cadenza settimanale in cambio di un compenso di cinquanta lire a testo, intendendo così farsi perdonare per aver riprodotto senza autorizzazione Er venditore de pianeti.

Trasferitosi in una nuova abitazione in via della Lungarina, ripubblicò le Favole romanesche (nuova ed. accresciuta, Roma 1908), aggiungendovi alcuni testi, fra cui l’antimilitarista La guerra, cui si legava una diffidenza verso la modernità tecnologica (rappresentata dalle prime automobili), e l’anticlericale L’editto. L’anno dopo uscirono a Roma I sonetti romaneschi, per Voghera, riedizione di testi con qualche aggiunta, come il dittico Li burattini, metafora dell’esistenza come teatro animato. Nuovi erano pure alcuni sonetti politici, come la corona Er principe rivoluzzionario, che metteva alla berlina l’ipocrisia dei nobili che si atteggiano a socialisti, e il dittico Er prete spretato, satira dei religiosi traviati dal ‘libbero pensiero’. La raccolta fu stroncata nella Stampa del 28 giugno 1909 da Giuseppe Antonio Borgese, che negò valore poetico a quei versi e definì quella trilussiana una Roma «in pantofole».

Fra le Nove poesie, uscite nel 1910, c’erano Spiritismo (già lodata da Francesco D’Ovidio), con cui Trilussa ironizzava sulla moda medianica dei suoi tempi, A Villa Medici, che adattava il topos della passeggiata nel giardino, già del D’Annunzio paradisiaco, e il poemetto La porchetta bianca.

Persa la madre, colpita da paralisi, nel 1912, pubblicò l’anno successivo Le storie: testi di carattere narrativo, che scoprivano ancor più l’influenza della poetica crepuscolare (Ricordi d’un comò, ma anche il gozzanismo di L’ideale, adattamento di Totò Merumeni), con la lamentela nazionalistica di L’aquila romana.

Mentre veniva rappresentato il suo personaggio di Buzzichetto al Teatro dei Piccoli, Trilussa portava avanti, con Ommini e bestie (Roma 1914), la sua satira contro la nobiltà dei valori e la politica, giudicate insincere e ridotte alla mera ricerca del potere o alla soddisfazione delle esigenze dello stomaco. Emblematico l’ultimo componimento, con la similitudine della morale che è come un vaso sul fondo di uno specchio d’acqua che si intorbida allorché si cerchi di tirarlo fuori.

Trasferitosi in una nuova abitazione in via Reggio Emilia, iniziò una relazione con Giselda Lombardi, che lanciò nel mondo dello spettacolo come Leda Gys e accompagnò in Egitto per le riprese del film Christus (1916) di Giulio Antamoro. La fine delle riprese, durante le quali Trilussa aveva recitato suoi versi al cospetto del principe ereditario d’Egitto, vide anche la fine della relazione con l’attrice e il trasferimento del poeta in una nuova dimora.

Durante la prima guerra mondiale intensificò la sua attività di autore e declamatore, sentendosi attirato dal cinema muto, come attesta la scrittura di soggetti per film quali Il romanzo di un cane povero (1916) di Gennaro Righelli e L’ultimo dei Cognac di Mario Caserini nel 1918, anno in cui apparvero anche una nuova edizione non autorizzata delle Stelle de Roma con il titolo ...a tozzi e bocconi. Poesie giovanili e disperse per i tipi romani di Carra e Le finzioni della vita, con note e aneddoti sul poeta narrati da Edmondo Corradi, per i tipi di Licinio Cappelli di Rocca San Casciano. Seguirono Lupi e agnelli, per Voghera, in cui spiccavano le poesie antimilitariste La ninna-nanna de la guerra e Natale de guerra, e Favole, con prefazione di Ferdinando Martini e disegni di Duilio Cambellotti, per i tipi romani di Modernissima, entrambi del 1920. Il 23 luglio fu nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia da Benedetto Croce, allora ministro dell’Istruzione. Nel 1921 scrisse il soggetto per il film Maschietta di Arturo Ambrosio jr.

A partire dal 1922 l’editore Mondadori principiò la ripubblicazione di tutte le sue opere, accogliendo di buon grado il successo che il poeta ottenne durante la sua tournée in Sudamerica nel 1924. Dopo qualche traversia editoriale e la parentesi delle Favole fasciste del 1925, presso la Tipografia dell’Urbe (pubblicate con questo titolo più per tenere a bada il regime, che guardava con sospetto alla sua satira, che per una reale adesione), uscì la raccolta La gente (Milano 1927), nello stesso anno in cui si recò al Vittoriale per assistere alle prove della dannunziana Figlia di Jorio.

Tre anni dopo la voce poetica dei sonetti di Libro n. 9 (Milano 1930), veicolo di una laus temporis acti, osservava il progressivo svuotarsi di senso della religione (Er consumo della fede), delle società segrete (Li frammassoni d’oggi), e fustigava bonariamente i costumi (L’amore d’oggigiorno, Le donne mezze nude) e talune usanze, ormai sempre più di facciata (Er duello de jeri), registrando la caducità delle nuove realtà storico-politiche (La terza Roma). Anche se non apertamente antifascista, la raccolta, che ottenne un buon successo, non era certamente schierata a favore del regime e fu perciò biasimata in un articolo sul Tevere del 29 novembre, in cui si considerava inaccettabile la critica ai costumi di uno che non era fascista. Seguirono Giove e le bestie (Milano 1932), altra raccolta di successo, illustrata da Bruno Angoletta, e Libro muto (Milano 1935), in cui la lirica d’apertura (a proposito di un libro in cui non c’è scritto niente) si poneva come riflessione interrogativa sulla felicità. Nella raccolta, la poesia Soffitta poteva leggersi come contrasto fra la moda crepuscolare e le avanguardie, simboleggiato da quello fra la nonna che si abbandona alle memorie del passato e il nipotino futurista che ne fa piazza pulita. Stesso tema che si riaffacciò in Acqua e vino (Roma 1945 ma 1944), silloge composta per lo più da favole, in cui la satira sulle nuove e meno nuove tendenze artistico-letterarie (Pappagallo ermetico e l’accenno al futurismo in Soffitto) era come confermata dal gusto ancora crepuscolare di Cammera ammobbijata.

Alla morte di Cesare Pascarella, con cui non era mai stato in amicizia, nel 1940, non ne prese il posto all’Accademia d’Italia, come qualcuno aveva ipotizzato. Pur conducendo una vita sempre più appartata, a Trilussa non mancarono omaggi e riconoscimenti, in virtù della sua fama, sia in Italia sia all’estero, nonché lodi per non aver mai appoggiato il fascismo. Nel 1947 rifiutò la candidatura di sindaco di Roma, per cui era stato proposto.

Nominato senatore a vita il 1° dicembre 1950, fu assegnato poco dopo alla commissione Difesa del Senato, nonostante la riluttanza che aveva sempre mostrato a prendere parte alla vita politica.

Morì venti giorni dopo, il 21 dicembre 1950, a Roma, nella sua casa museo di via Maria Adelaide, dove si era trasferito nel 1915, assistito dalla governante e segretaria Rosa Tomei. Fu sepolto al cimitero del Verano, e su una lapide davanti alla sua urna furono incisi i versi della sua poesiola Felicità.

L’opera poetica di Trilussa è stata riunita per Mondadori dapprima nei Classici contemporanei italiani (Tutte le poesie, a cura di P. Pancrazi e con note di L. Huetter, Milano 1951, e successive edizioni), e quindi nel Meridiano con l’identico titolo di Tutte le poesie, progetto editoriale, saggi introduttivi, cronologia e commento a cura di C. Costa - L. Felici (Milano 2004); si vedano inoltre Le prose del Rugantino e del Don Chisciotte e altre prose, a cura di A.-Ch. Faitrop Porta, I-II, Roma 1992.

Fonti e Bibl.: M. dell’Arco, Lunga vita di Trilussa, Roma 1951; P.P. Trompeo, Note biografiche su Trilussa, in Studi romani, I (1953), pp. 187-191; L. Jannattoni, Roma fine Ottocento. Trilussa dal madrigale alla favola (1871-1901), Roma 1957; G. D’Arrigo, Trilussa, Roma 1977; Cronologia, in Trilussa, Tutte le poesie, cit., pp. LXXV-LXXX.

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