CAPPELLO, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPPELLO, Carlo

Angelo Ventura

Nato il 5 giugno 1492 da Francesco di Cristoforo e da Elena Priuli di Piero, in famiglia patrizia veneziana, ricevette assieme al fratello, Bernardo, il poeta, una raffinata educazione umanistica. Conosceva il latino e il greco ed aveva studiato l'ebraico.

Il migliore maestro del C. fu senza dubbio Marco Musuro, cui si legò di profonda amicizia. Sono del 1511 alcuni versi che l'umanista greco scriveva in lode dell'allievo su un codice di Euripide in greco, posseduto dal C. e passato poi tra i codici Pio di Modena (ora Palat. gr. 287 della Vaticana); e nello stesso anno Marin Sanuto ricorda i due insieme tra gli accompagnatori di Alberto Pio da Carpi, venuto a visitare il suo studio. Lasciando Venezia alla fine del 1516 con la speranza di ritornarvi, il Musuro affidava in custodia al giovane amico alcuni libri e due suoi codici già appartenuti al Bessarione.

A differenza del fratello Bernardo, il C. si dedicò principalmente alla politica e alla diplomazia, ma dei suoi interessi letterari restano testimonianza alcuni sonetti in lode di Veronica Gambara, pochi epigrammi latini composti nel 1529 per celebrare la gloria di Firenze nell'assedio posto alla città da Carlo V e nel 1531 in morte dell'amata moglie Serena Loredari di Paolo, che aveva sposato nel 1515, e l'orazione latina detta nelle solenni esequie di Giorgio Cornaro.

Degli anni decisivi della sua formazione intellettuale ben poco possiamo dire, ma è lecito supporre una sua frequentazione dei circoli umanistici veneziani, nei quali doveva pur essere stato introdotto da Marco Musuro, vicino alle aspirazioni erasmiane di rinnovamento religioso del gruppo di Gasparo Contarini (di cui il Musuro era stato a Padova maestro di greco), di Tommaso Giustiniani, Paolo Canal e Giovanni Battista Egnazio. Questo ambiente gli offrì forse il primo approccio col mondo dell'umanesimo repubblicaneggiante fiorentino, con il quale proprio in quegli anni prendevano contatto diretto il Contarini (che nel 1515 si dichiarava "non piú venetiano ma thoscano") e Vincenzo Querini, che tra il 1511 e il 1512 veniva stringendo amicizia con i frequentatori degli Orti Oricellari. Legami questi che non trascurabile importanza avranno poi nella vita del C. e della sua famiglia, e la cui influenza si avverte anche più tardi, negli anni della maturità, quando il suo animo sembrerà volgersi con più intensa partecipazione all'esperienza religiosa.

Sono le appassionate discussioni nei cenacoli veneziani, e poi l'amicizia assidua col vescovo di Vienna Giovanni Fabri, il teologo controversista, durante la legazione alla corte imperiale, nel fervore del dibattito e delle speranze fioriti intorno alla convocazione del concilio, che ispirano al C. i due sermoni De iusta Dei contra nos indignatione et ira, dedicati nel 1537 a Girolamo Pesaro e all'umanista Lorenzo Bragadin, filosofo, maestro del Contarini e allora ambasciatore a Roma, opera che conobbe tre edizioni in quello stesso anno, a Vienna, a Roma e a Praga, auspice lo stesso Fabri.

I sermoni sono un'appassionata esortazione ad una severa riforma morale e ad una religiosità tutta interiore, nella quale avrebbe dovuto ricomporsi in unità il lacerato mondo cristiano, sotto un solo pastore ed una sola fede. Motivi spiritualistici questi che paiono più tardi sopraffatti da una più chiusa ansia controriformistica di restaurazione dell'autorità, in cui ciascuno sia ricondotto al proprio posto naturale, nell'ordine divino come in quello umano, assegnatogli dalla Provvidenza secondo una necessaria gerarchia, come i corpi celesti nel loro moto eterno.

A questo concetto fondamentale s'ispira il De observanda et secundum Deum colenda divina ecclesiastica maiestate,ex Sanctorum Apostolorum constitutionibus et decretis (Venezia 1544: altre edizioni Anversa 1545; Ingolstadt 1546), dedicato a Paolo III: un breve compendio in latino delle pseudo Costituzioni apostoliche, fino allora ignote in Occidente, e ritrovate dal C. in un codice greco raccolto a Candia quando fu inviato dalla Repubblica a governare l'isola. I genealogisti gli attribuiscono anche due dialoghi perduti: De varietate scientiarum e De vera et perfecta philosophia christiano homine digna.

Ma nella vita del C. nella sua stessa esperienza culturale, la nota dominante fu certo quella politica, in affinità di spirito con l'umanesimo civile fiorentino. E qualche relazione anche personale doveva intrattenere con i frequentatori degli Orti Oricellari, se Luigi Alamanni e Zanobi Buondelmonti, fuggiti da Firenze dopo la scoperta della congiura contro il cardinale Giulio de' Medici, furono proprio da lui accolti con grande calore ed ospitati nella sua casa, nel luglio del 1522.

Racconta Benedetto Varchi che quando successivamente gli stessi furono arrestati sul territorio della Repubblica (non, come scrivono taluni, nella stessa estate del 1522, a Padova, appena intrapreso il viaggio verso la Francia, ma nel settembre del 1523 a Brescia, mentre al seguito del conte Ugo Pepoli cercavano di raggiungere a Reggio il duca di Ferrara e Renzo da Ceri), il C. "operò di maniera, che furono, non sappiendo i Veneziani, o infingendo di non sapere chi eglino si fussono, liberati, e mandati via". Sennonché questo presunto intervento del C. non sembra corrispondere alla verità storica, dal momento che l'ordine di liberare in forma "secretissima" il conte Pepoli (dei suoi accompagnatori nel documento non si parla come di persone non importanti, forse perché non riconosciute) fu immediatamente impartito dal Consiglio dei dieci, non appena ricevuta la notizia dell'arresto da parte dei rettori di Brescia: e certo il giovane e poco autorevole patrizio non aveva l'autorità nonché di influire sull'"eccelso Consiglio", neppure di essere informato di vicenda tanto delicata e segreta. Ma che questa convinzione circolasse poi tra gli esuli fiorentini è significativa conferma d'una amicizia e solidarietà politica ben nota.

Con i fuggiaschi della congiura riparati a Venezia era anche Antonio Brucioli, pure lui forse ospite del C., la cui amicizia e protezione ricambiò introducendolo, assieme a Nicolò Dolfin, tra gli interlocutori del dialogo Dellaclementia. Venezia diveniva allora un centro di raccolta e un punto di riferimento ideale dell'emigrazione antimedicea. L'incontro con i circoli intellettuali veneziani ravvivava un fervido dibattito in cui la cultura umanistica si apriva con crescente intensità ai grandi temi del rinnovamento religioso, nel solco dell'insegnamento erasmiano, e della difesa delle tradizioni repubblicane, con una passione civile acuita dal senso della minaccia incombente dopo il crollo della Repubblica fiorentina. È lecito immaginare il C. in qualche misura partecipe di quei cenacoli, come le adunanze che tra il 1523 e il 1527 si facevano nel convento di S. Giorgio Maggiore, cui intervenivano Antonio Brucioli e Alessandro Soderini, o le discussioni che più tardi vedranno la presenza di Iacopo Nardi e di Benedetto Varchi, per non parlare del soggiorno veneziano di Donato Giannotti. La passione repubblicana degli esuli fiorentini s'incontrava qui con i fermenti antioligarchici che animavano una parte del patriziato veneziano, sempre più insofferente del crescente potere delle grandi famiglie senatorie arroccate nel Consiglio dei dieci e nel Collegio. Idee e suggestioni che circolavano nella famiglia Cappello, ispirando al fratello Bernardo, eletto nel 1540 capo della Quarantia criminale - tradizionalmente la carica più autorevole espressa dal patriziato intermedio del cosiddetto ordine giudiziario - una proposta antioligarchica intesa a impedire l'ininterrotta presenza degli stessi uomini ai vertici dello Stato, "acciò non mai contaminato o guasto / della mia patria il buon libero stato / esser potesse": proposta che doveva costare a Bernardo l'esilio perpetuo fulminatogli dal Consiglio dei dieci.

Da queste strette relazioni del C. con gli ambienti repubblicani fiorentini, dalla sua aperta consonanza di orientamenti politici con questi, trasse origine la designazione da parte del Senato alla sua prima importante missione diplomatica, che lo pose quasi all'improvviso in primo piano sulla scena politica, dopo un periodo giovanile del quale si possono ricordare pochi episodi degni di nota. Fu precocemente eletto nel 1515 savio agli Ordini, quando era ancora ben lontano dall'età minima prescritta di trenta anni, ottenendo assieme ad altri colleghi di sanare l'irregolarità prestando 200 ducati alla Repubblica; e poi ancora alla stessa carica, nel 1516 e 1518. Nel settembre 1518 entrò nella Quarantia criminale; nel 1520 fu auditore nuovo; nel dicembre 1523, mentre ricopriva l'ufficio di giudice del Proprio, intraprese con altri patrizi un viaggio a Roma accompagnando l'ambasciatore Marco Foscari; nel 1527 era della Quarantia civile; il 1º febbr. 1528 assumeva l'ufficio di capo della Quarantia: insomma una carriera che dopo un promettente e fin troppo precoce esordio nel cursus honorum tipico dei giovani dell'aristocrazia senatoria, lo vedeva presto ricacciato nella grigia routine degli uffici giudiziari, consueto appannaggio della nobiltà intermedia.

Dovendo quindi il Senato, il 9 genn. 1529, nominare in luogo di Antonio Surian un nuovo ambasciatore a Firenze, nessuno parve meglio indicato del C. per rassicurare l'alleata Repubblica della ferma volontà di Venezia di condurre senza tentennamenti la guerra contro gli Ispano-pontifici, confortandola a restar salda in quella che per la Serenissima, al di là delle invocazioni più o meno sincere alla "libertà d'Italia", era innanzi tutto la lotta contro la soffocante egemonia asburgica. Partito da Venezia il 5 apr. 1529 giunse a Firenze il 25, e vi rimase sino alla metà d'ottobre del 1530, assistendo e prendendo parte politica attiva al momento eroico della difesa, dall'assedio alla caduta della Repubblica e alla restaurazione medicea.

I suoi dispacci, pubblicati dall'Alberi, cui sono da affiancare le lettere private scritte dal suo segretario Vincenzo Fedeli, conservateci nei Diarii del Sanuto, costituiscono, oltre che documenti di primaria importanza per la storia di quegli avvenimenti, un'eloquente testimonianza della passione repubblicana con cui il C. visse quella vicenda. L'ambasciatore nostro, scriveva il segretario il 25 sett. 1529, "fa da Cesare et non solo da orator ma da proveditor", spronando e consigliando i Fiorentini che organizzavano la difesa. "Io non manco - aveva scritto il C. una settimana prima - di animarli a conservar la libertà loro come si conviene, e a far più conto di quella che della vita, e per quanto in me sarà dimostrerò con ogni opera, che quelli che escono dal seno della serenità vostra non sanno se non generosamente vivere, o morire". "E stante la cose come stanno. - gli faceva eco il Fedeli nella lettera citata - qui è reduta la libertà de Italia... L'oratore non ha mandato via cosa alcuna, et ha voluto tener suo' figliol qui, contra la opinion di tutti, mostrando di non temer, per non dar suspetto a gli altri et haver causa di far animo a questi Signori".

La libertà, il "vivere libero", che ritornano con insistenza nelle lettere del C., non sono orpelli letterari, ma corrispondono a un ideale politico intimamente vissuto, anche se filtrato attraverso motivi culturali umanistici e reminiscenze classiche, che poi suggerivano all'ambasciatore - certo personaggio per parte sua non privo d'una certa letteraria bizzarria - atteggiamenti poco opportuni nella gravità del momento, come quella sua pretesa, cui il perplesso governo fiorentino dovette ovviamente far buon viso, di seppellire il proprio cavallo in riva all'Arno con solenni esequie, ponendo sulla sepoltura un epitaffio latino da lui composto, scolpito nel marmo (marzo 1530). Anche la sua azione diplomatica, nel particolare vigore con cui applica le istruzioni del suo governo intese a dissuadere i Fiorentini dal trattare con Carlo V, e soprattutto nel calore tutto personale con cui si rende interprete presso il proprio governo delle richieste d'aiuto da parte degli assediati, rivela una convinzione politica ben precisa. Anche dopo la conclusione della pace tra Venezia e l'imperatore, che segnava l'isolamento e la definitiva condanna della Repubblica fiorentina (23 dic. 1529), il C. rimase nella città assediata, testimone ammirato e partecipe dell'ultima resistenza.

La caduta della Repubblica, descritta nella lunga lettera del 13 ag. 1530, confortava però il suo giudizio critico (implicito già nei tentativi di mediazione attuati da lui tra le diverse fazioni, di chiaro segno moderato) verso l'evoluzione in senso "popolare" con cui il regime fiorentino nella sua ultima fase si era andato allontanando dal modello di repubblica aristocratica caro all'ideologia politica veneziana: "nondimeno - osservava alludendo all'energica iniziativa dei Malatesta per imporre la resa - nel spatio di due hore si vide quanto vagliono li arditi fatti et quanto sia mutabile et falaze il stato populare...". È facile, tra l'altro, cogliere in questo richiamo agli "arditi fatti", come in tante altre sue frasi, l'eco di concetti ed espressioni che circolavano nella letteratura politica del tempo, specie fiorentina, tanto ricca già allora di risonanze machiavelliane (così per esempio nella lettera del 24 giugno 1529 riferiva di aver ammonito i Fiorentini, dopo la notizia della disfatta di Landriano, "che come li successi delle guerre erano dubbiosi e nella maggior parte posti in libertà dalla fortuna, così però non era tolto agli uomini di usare le virtù loro").

La simpatia per i cittadini di Firenze e l'atteggiamento negativo nei confronti dello "stato popolare" si ritrovano nella relazione che fece al Senato il 1º dic. 1530 (era partito da Firenze subito dopo averne ricevuto l'ordine, il 17 ottobre, ma aveva poi dovuto fermarsi in quarantena a Chioggia), di cui il Sanuto ricorda solo che dopo aver narrato diffusamente i memorabili eventi, concluse: "il tradimento di Malatesta Baion à fatto perder quella città, et che fiorentini non sono homini di governo" (Diarii, LIV, col. 151).

Il 1º genn. 1531 il C. assune l'ufficio di savio di Terraferma, e dopo una settimana venne eletto ambasciatore in Inghilterra, per rimpiazzare Ludovico Falier. La sua partenza verso la nuova sede fu ritardata al 25 maggio, anche perché una parte del Senato avrebbe preferito lasciarla vacante per non suscitare sospetti nell'imperatore ed evitare il rischio di coinvolgere in qualche modo la Repubblica nella spinosa questione del divorzio del re. Partito infine il C. per la via di Milano e Lione, arrivò in agosto in Inghilterra, dove lo raggiunse la notizia della morte della moglie. Durante la lunga missione, protrattasi per quasi quattro anni, due furono le questioni di maggiore importanza che occuparono l'ambasciatore: i rapporti commerciali tra i due paesi e la richiesta di Enrico VIII di far difendere presso il papa la sua causa di divorzio dai dottori dello Studio di Padova.

Il primo anno il C. ottenne facilmente che le galee veneziane del convoglio di Fiandra, giunte in Inghilterra nel settembre 1531, potessero acquistare fino a 1.600 sacchi di lana, anche prima che fossero aperti i termini per le compere da parte di stranieri; ma subito dopo gli Inglesi cominciarono a sollevare difficoltà d'ogni genere al viaggio delle galee venete per l'anno successivo, dal momento che non portavano più spezie, ma vetrerie e altre merci di scarso interesse. Al che il Senato faceva rispondere che la colpa non era di Venezia "ma dil mondo mudado, che le specie che venivano a Venetia vanno in Portogallo, et che li mandemo di vini, cargando le galie lane, stagni e panni, con utile di soa maestà". Il Consiglio regio decise però di negare per il 1532 la licenza di approdo e di commercio ai mercanti veneti, col pretesto che le lane scarseggiavano. Ma la verità era, secondo il C., che in tal modo Enrico VIII intendeva manifestare il suo risentimento per il divieto del Senato ai dottori dell'università di Padova di assumere la difesa del re d'Inghilterra. Le ragioni politiche e religiose, che dettavano in proposito alla Repubblica la sua prudente condotta, erano però preminenti anche sugli interessi mercantili, sicché il ricatto inglese non sortì alcun effetto, e per gli anni seguenti l'oratore veneto poté ottenere agevolmente la riconferma del privilegio quinquennale del 1530 che regolava i rapporti commerciali tra i due paesi, grazie anche all'interesse dell'Inghilterra per la neutralità della Repubblica di fronte all'alleanza tra il papa e l'imperatore.

Si deve ancora ricordare di questa legazione l'aspra contesa che il C. ebbe con un altro patrizio veneziano, Maffeo Bernardo, mercante in Inghilterra, che accusato dall'ambasciatore di aver denigrato pubblicamente il governo veneziano, e condannato perciò all'esilio, reagì propalando la voce che il C. durante la legazione fiorentina aveva ricevuto sovvenzioni da quel governo. Per provare la sua innocenza il C. chiese un'inchiesta.

Agli inizi del 1535, preoccupato per l'acuirsi della crisi dello scisma, il Senato ordinò al C. di prendere congedo adducendo motivi privati, e di rimpatriare, lasciando a reggere la rappresentanza diplomatica il segretario Girolamo Zuccato. Nella sua relazione - breve, come egli dichiarò, per le sue cattive condizioni di salute - esposta al Senato il 3 giugno 1535, e della quale ci resta soltanto un sommario, si soffermò con insistenza su un giudizio negativo rispetto alle "molte cative lege et constitutione" dell'isola, "non si regendo per lege imperial ma per leze a suo modo". Tra le quali cattive leggi due in particolare lo colpivano: il diritto di preda ai danni delle navi naufragate, e quella per cui "tuto quello regno è in feudo" sicché le terre appartenenti a feudatari morti senza eredi tornavano in libera disposizione della Corona.

Il 9 ott. 1535 il C. fu designato per una nuova missione diplomatica presso Ferdinando re dei Romani. Partito il 7 marzo 1536, arrivò ad Innsbruck il 30 di quel mese, succedendo a Francesco Contarini. Suo compito era di migliorare i rapporti tra i due Stati in vista della necessità di fronteggiare l'attacco turco, preparando il terreno alla lega antiturca che verrà stipulata l'8 febbr. 1538 tra Venezia, il papa, Ferdinando e Carlo V. Con diploma pubblicato a Praga il 27 genn. 1538, l'imperatore lo investiva del titolo cavalleresco.

Tornato in patria, fu nel 1538 avogador di Comun e il 21 genn. 1540 venne eletto alla legazione di Francia, ove avrebbe dovuto dare il cambio al fratello Cristoforo. Sennonché, prima che partisse per la nuova sede, il 23 maggio il Maggior Consiglio lo designò all'importante ufficio di duca di Candia, che egli assunse nel novembre di quell'anno e tenne fino all'anno 1542. Con questa elezione il patriziato veneziano intendeva protestare contro l'oligarchia di governo, e manifestare anche solidarietà alla famiglia Cappello colpita dalla dura condanna al bando perpetuo inflitta a Bernardo dal Consiglio dei dieci. Ed è significativo che, pubblicando nel 1544 il suo compendio delle Costituzioni apostoliche, il C. lo dedicasse, come s'è visto, al papa Farnese, presso la cui famiglia il fratello Bernardo aveva trovato rifugio e protezione. È pure probabile che per tramite del fratello alcune copie dei dispacci della legazione di Firenze, introvabili a Venezia, abbiano circolato invece, sia pure limitatamente, nelle biblioteche fiorentine.

Eletto nel 1545 luogotenente di Cipro, morì in quest'isola l'8 giugno 1546. Aveva avuto cinque figli maschi: Piero, Lorenzo, Paolo, Francesco e Alvise, e due femmine, di cui una, Elena, gli era morta a Creta.

Fonti e Bibl.: Per gli scritti del C., in aggiunta alle indicaz. fornite nel testo, vedi: In funere Georgii Cornelii Catharinae Cypri reginae fratris oratio, in appendice al volume Augustini Valerii Opusculum... de cautione adhibenda in edendis libris, Patavii 1719, pp. 213 ss., ripubblicata tradotta in Orazioni,elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi…, Venezia 1795, I, pp. 178-192. Profili biogr. e notizie particolarmente attinenti alla sua figura di letterato in P. A. Paravia, Della vita e degli scritti di C.C. patrizio veneziano. Discorso, in Mem. venez. di lett. e di storia, Torino 1850, pp. 203-246, del quale vedi pure Sui codici delle rime e sulla vera causa dell'esilio di Bernardo Capello,ibid., specie pp. 153-160; M. Foscarini, Della letter. veneziana, Venezia 1854, pp. 64, 384 s., 486 s.; M. E. Cosenza, Biographical and Bibliogr. Dict. of the Italian Humanists…, Boston 1962, I, pp. 844-845; V, ad vocem; E. A.Cicogna, Delle Inscrizioni venez., VI, 1, Venezia 18533, p. 307; G. Mercati, Codici latini Pico Grimani Pio e i codici greci Pio di Modena, Città del Vaticano 1938, pp. 72, 74; D. J. Geanakoplos, Greek scholars in Venice, Cambridge, Mass., 1962, p. 159. Per i suoi rapporti con gli esuli fiorentini: G. Spini, Tra Rinascimento e Riforma. A. Brucioli, Firenze 1940, pp. 39 s., 90 s., 140; A. Brucioli, Della Clementia, in Dialogi della morale philosophia, Venezia 1537, libro 1, dial. XVIII; B. Varchi, Storia fiorentina, Firenze 1838-1841, I, pp. 496-497; II, pp. 40-41, 309; C. Guasti, Docc. della congiura fatta contro il cardinale Giulio de' Medici nel 1522, in Giorn. stor. degli archivi toscani, III (1859), pp. 142-144, 190-192; Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci,Misti, reg. 46, c. 74r: "Rectoribus Brixiae", 22 sett. 1523. Sull'attività polit. del C. M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1902, XIII, XX-XXIII, XXV-XXVI, XXVIII, XXX-XXXVI, XLV-XLVII, XLIX-LVIII, ad Indices (nel volume LII, coll. 330-331, i due epigrammi latini composti dal C. nel 1529 a Firenze). I dispacci della legazione di Firenze sono stati pubbl. in Relaz. degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, I, Firenze 1839, pp. 97-319 (e nella stessa ediz. in volume separato col titolo Assedio di Firenze..., Firenze 1840); alcuni si trovano anche nei Diarii del Sanuto, ove conservano l'originale forma veneta, toscanizzata invece nell'edizione dell'Alberi; la commissione del Senato in Arch. di Stato di Venezia, Senato,Secreta, reg. 53, c. 144; vedi anche N. Barozzi, Lettera a C.C., Venezia 1864. Sull'azione svolta dal C. in questa missione ci si limita a citare C. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, Firenze 1929, in partic. pp. 335-336, 439, 479, 483; W. J.Bouwsma, Venice and the Defense of Republican Liberty, Berkeley-Los Angeles 1968, p. 102; G. Porciani, Il cavallo dell'ambasciatore, in Rass. nazionale, s. 4, XXVII (1939), pp. 525-528. Per l'ambasciata in Inghilterra: Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English Affairs... in the Archives... of Venice, III-V, a cura di R. Brown, London 1869-1873, ad Indices; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, I, Inghilterra, Torino 1965, p. XIV (e sulla legazione alla corte imperiale cfr. ibid., II, Germania (1506-1554), ibid. 1970, p. XVI); il sommario della relazione d'Inghilterra (pubblicato in inglese in Calendar..., V) ènella Bibl. naz. Marciana di Venezia, mss. Ital., cl. VII, 1231 (= 7458), cc. 248r-249r. Altre notizie biogr. in Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 279; Ibid., Segretario alle voci,Elezioni del Pregadi, reg. 1, c. 29v; Ibid., Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 1, cc. 163v-164r; F. Cornelius, Creta sacra, Venezia 1755, II, p. 425; G. Gerola, La iscrizioni cretesi di Desiderio del Legname, Venezia 1907, pp. 8, 18, nn. 15 s.

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