DELCROIX, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DELCROIX, Carlo

Albertina Vittoria

Nacque a Firenze il 22 ag. 1886 da Giuseppe e da Ida Corbi.

I nonni paterni erano l'uno belga e l'altra lorenese. Il nonno Nicola, dopo aver partecipato ai moti del 1848 in Belgio e in Francia, si era trasferito in Italia, lavorando come appaltatore dapprima in Calabria, poi in Puglia, Basilicata, Sicilia, e stabilendosi infine a Firenze. La madre era di Castelluzzo, figlia di un artigiano.

Studiò a Livorno - dove si era trasferita in un primo tempo la famiglia -, quindi al collegio dei salesiani di Firenze, e infine al liceo "Michelangelo". Nel 1914 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, e frequentò la scuola allievi ufficiali di Modena. Dopo aver partecipato alle manifestazioni interventiste, partì volontario alla fine del 1915 nel 3° reggimento bersaglieri. Nel grado di aspirante ufficiale partecipò alla conquista del Col di Lana (aprile 1916), e come sottotenente a quella del monte Sief (maggio); tra l'agosto e il settembre comandò una sezione di lanciatorpedini presso il forte La Corte; nel gennaio 1917 diresse i lavori di sgombero delle valanghe, e successivamente comandò una sezione pistole mitragliatrici a monte Mesola. Promosso tenente nel febbraio 1917, fu istruttore dei reparti di arditi per il lancio delle bombe a mano, e a Malga Ciapela, durante un periodo di esercitazioni, avvenne l'incidente che gli costò la perdita delle mani e della vista e per il quale gli fu conferita la medaglia d'argento al valor militare (fu decorato successivamente anche dell'Ordine civile dei Savoia, del gran cordone della Corona d'Italia, dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e della Legion d'onore francese).

La sera del 12 marzo 1917, "informato che un bersagliere, avventuratosi nel poligono di tiro era saltato in aria urtando in una bomba inesplosa, mentre gli stessi portaferiti esitavano ad arrischiarsi nella zona pericolosa, egli accorreva da solo nella speranza di salvare il bersagliere e, constatatane la morte, provvedeva, con i soldati e con gli ufficiali sopravvenuti, a trasportarne il cadavere. Poi dovendosi procedere allo sgombero del poligono dalle granate inesplose, il tenente C. Delcroix dispensò la squadra di servizio per non esporla al rischio grave e, fatti allontanare tutti i presenti, rimase solo a provvedere alla bisogna: una bomba, nascosta sotto la neve, esplodendo gli troncò le braccia spengendogli gli occhi per sempre". Così lo stesso D. raccontò l'episodio (in La Nazione, 24 ag. 1921) quando fu accusato dal consiglio direttivo della sezione fiorentina dell'Associazione nazionale dei mutilati e invalidi di guerra (ANMIG) - a seguito di alcune polemiche sorte con il comitato centrale della medesima, del quale faceva parte il D. - di non essere un autentico mutilato di guerra. Nelle polemiche tra i mutilati fiorentini venne anche ventilata l'ipotesi - come scrive R. Cantagalli - che l'incidente fosse avvenuto durante una pesca in un borro a colpi di bomba. Il D. fu espulso dalla sezione fiorentina dell'associazione e la medaglia d'argento tramutata in bronzo, ma in seguito all'intervento del segretario generale dell'ANMIG, R. Romano, e del segretario amministrativo, A. Mammalella, che pose fine ai contrasti interni alla sezione, il consiglio direttivo che aveva lanciato le accuse venne espulso e il D. reintegrato e decorato nuovamente della medaglia d'argento.Uscito dopo un lungo periodo di cure dall'ospedale, il D. si dedicò attivamente alla propaganda bellica tra i soldati e i feriti, pronunciando numerosi discorsi in ospedali e scuole fiorentine: tornò - come egli stesso scrisse nella serie di articoli autobiografici, apparsi su Il Tempo nel 1946, intitolati Il dramma di una generazione - "con la parola all'azione". Nel frattempo, all'ospedale "Villa Pisa" a San Domenico di Fiesole, aveva conosciuto Cesara Rosso, "colei che in me vive la passione dell'opera e mi presta le mani per compirla" - così la dedica di Sette santi senza candele (Firenze 1925) -, con la quale si sarebbe sposato nel gennaio 1921.

Alla fine della guerra si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Siena, avendo deciso di tornare agli studi poiché - scriveva - "mi era sembrato di non avere altro da dire": ma "mi si cercava da ogni parte... non mi ritrassi". Proseguì quindi nella sua attività di oratore e propagandista entrando nell'ANMIG della quale sarebbe divenuto presidente nel luglio 1924.

L'ANMIG era stata fondata a Milano il 29 apr. 1917, con lo scopo - come avvertiva lo statuto approvato al I congresso di Roma, nel marzo 1918 - di "mantenere fra gli invalidi della guerra il sentimento di fratellanza, ed in omaggio della patria il ricordo e la tradizione della guerra antitedesca", di "venire in aiuto morale e materiale" ai propri membri, di "intervenire presso i pubblici poteri e le amministrazioni pubbliche a sostegno dei diritti e degli interessi dei propri aderenti", di "adoperarsi per procacciare" loro lavoro, di "servire da intermediaria gratuita nelle relazioni fra principali e operai, fra impiegati e aziende". Dopo una prima fase in cui l'associazione si impegnò soprattutto nella propaganda per la vittoria, tra il 1920 e il 1921 diede vita a numerose agitazioni in varie province per l'ottenimento delle pensioni di guerra.

Caratteristica dell'associazione, ribadita anche al II congresso di Palermo nell'aprile 1919 (dove veniva confermato il gruppo dirigente composto da D. Dall'Ara, G. Mira, E. Sanguineti, P. Brunazzi), fu la "apoliticità" e l'impossibilità di tramutarsi in partito; pur se il congresso si augurava, nella mozione finale, la costituzione di un "movimento politico purificatore, estraneo alle diverse vecchie divisioni e concezioni". Già il 4 nov. 1918, d'altronde, l'ANMIG aveva lanciato un manifesto dove esprimeva l'esigenza di un rinnovamento della "vita politica della Nazione" e di un mutamento del "costume politico", dato che "tutti i vecchi partiti sono morti" e lo "Stato quale lo concepivano i nostri padri è trapassato".

Al III congresso di Firenze, nel giugno 1920, sorsero vivaci contrasti all'interno del gruppo dirigente: Dall'Ara e Mira furono accusati dal D., I. Simoni e G. Neri (che sarebbe divenuto presidente al posto di Dall'Ara) per la loro gestione e per aver tenuto rapporti troppo stretti con il governo. Pur se veniva ancora mantenuto il criterio dell'apoliticità (ribadito anche al IV congresso di Zara del maggio 1922), la nuova direzione, della quale faceva parte lo stesso D., assieme, tra gli altri, a R. Romano, A. Mammalella, T. Madia, operò uno spostamento a destra e mirò a tenere buoni rapporti con il fascismo.

Come membro dell'associazione il D. fu impegnato largamente nell'attività oratoria e propagandistica: tra il 1917 e il 1929 pronunciò complessivamente, in Italia e all'estero, 253 discorsi, i primi dei quali furono pubblicati nei volumi I dialoghi con la folla (Firenze 1922) e Il sacrificio della parola (ibid. 1924). Tra il marzo e il giugno 1921 fu impegnato in un giro di conferenze in Brasile, Bolivia, Argentina, Uruguay.

Questa attività, e il successo che gli procurava, attirò su di lui l'attenzione riguardosa dei fascisti: egli stesso riconobbe a posteriori, pur senza "ritrattare una delle parole allora pronunziate", che "certamente le mie invettive contro i sobillatori del popolo, che richiamavo alla pietà per i vivi e per i morti, avranno giovato al fascismo".

Da parte sua il D. riteneva che Mussolini fosse colui che "meglio di ogni altro" interpretava "la volontà" e rispondeva "al bisogno dei combattenti": "Io ero - scriveva ne Il dramma di una generazione - fraquei giovani che si sentivano l'anima del giustiziere, che dopo aver vinto si proponevano di vendicare, presi da un impeto di ribellione, da un'ansia di rinnovamento, come se veramente un'altra vita dovesse cominciare dalla distruzione e dalla morte". Come scrisse G. Volpe presentando il volume Quando c'era il re (Milano 1959), nel fascismo il D. vide "quasi un ringiovanimento della Nazione, un apporto ad essa di nuove energie e di qualche spunto dottrinario nuovo, oltre che volontà di avvaloramento della guerra vittoriosa" (p. 7).

Nell'ottobre 1919 partecipò, "da spettatore", come scrisse, alla I adunata nazionale dei Fasci di combattimento a Firenze; pur sollecitato da Mussolini, non si recò, tuttavia, alla II adunata di Milano, adducendo motivi di salute, e rifiutò altri inviti di fascisti di partecipare a loro manifestazioni.

La sua posizione nei confronti del fascismo non era del tutto chiara. Nel 1922, infatti, fu coinvolto - chiamato da A. Rossini, come ha scritto il D. stesso - nel progetto della manifestazione che D'Annunzio avrebbe dovuto tenere assieme ai mutilati a Roma in occasione del 4 novembre. Per trattare l'iniziativa, si recò con R. Romano a Gardone, quando tuttavia D'Annunzio aveva già rinunciato a parteciparvi: "trovammo la porta del Vittoriale inesorabilmente chiusa e fu vano ogni tentativo di avvicinare il poeta. Avemmo la spiegazione l'indomani quando si apprese che l'insurrezione [la marcia su Roma] era cominciata". Anzi - come egli scrisse ne Il dramma di una generazione - "alla notizia... Mussolini, interrompendo bruscamente il congresso dei fasci a Napoli, anticipò il colpo di Stato, previsto ma non deciso, allo scopo di precedere il poeta a Roma". Sempre in questo periodo, inoltre, sembra che il D. - secondo quanto scrisse M. Soleri nelle sue Memorie (Torino 1949, p. 151) - si fosse recato, come altri mutilati e combattenti, al ministero della Guerra chiedendo "l'onore di comandare i reparti dell'esercito che avrebbero dovuto fronteggiare i fascisti il 27 ottobre".

Se la sua posizione nei confronti del fascismo sembrava ancora incerta, l'ANMIG invece, il 31 ott. 1922 lanciò un manifesto nel quale, dichiarandosi "al servizio della Patria", sosteneva che i fatti stavano attuando "quello che è sempre stato un pensiero forte e chiaro della nostra associazione": l'"ora forte" che batteva per l'Italia essa l'aveva o presentita e preparata" con il progetto della manifestazione di D'Annunzio (snaturato da "subdole manovre di Governo"). Invocava per questo "non un governo di vendetta; ma un governo di uomini nuovi, un governo di uomini forti che chiamino le sane energie nazionali a lavorare per il bene supremo della Patria": "Dopo quattro anni dalla vittoria - vi si affermava - i mutilati vedono che il Governo d'Italia è finalmente nelle mani di chi ha fatto la guerra e si appresta oggi a compiere la nuova ardua prova".

Mussolini era cosciente del seguito che personalmente aveva il D. e del peso politico e organizzativo dell'ANMIG che, a quella data, contava - come disse il D. in un'intervista al Popolo di Trieste del 6 dic. 1922 - circa mezzo milione di iscritti, divisi in 250 sezioni e 2.500 sottosezioni.

Quando infatti C. M. De Vecchi elaborò verso la fine del 1922, in qualità di sottosegretario per l'Assistenza militare e le pensioni di guerra, un progetto di legge che provocò forti polemiche dei mutilati - data la divisione che veniva compiuta fra feriti di fronte al nemico e infortunati di guerra -, Mussolini, dopo aver ricevuto il D. e R. Romano, gli scrisse facendo chiaramente presente come appunto "non sarebbe opportuno né conveniente ignorare politicamente" l'associazione e sottolineando la necessità di accoglierne le richieste. De Vecchi invece riteneva - come scriveva in risposta a Mussolini - che vi fossero "profonde ragioni per tenere in sospetto i capi dell'Associazione", sia per il recente tentativo dannunziano, sia per il timore che "l'offensiva che essi scatenano ora contro di me è strettamente legata a quella generale in atto contro il governo fascista" (Roma, Arch. centr. d. Stato, Segreteria particolare del Duce. Carteggio riservato, fasc. 47R, sottof. 3). Mentre De Vecchi veniva nel marzo 1923 trasferito al sottosegretariato per le Finanze, la legge per le pensioni approvata il 12 luglio di quell'anno rispecchiava le richieste dei mutilati; e, d'altra parte, Mussolini stesso provocò un voto del Gran Consiglio - il 13 genn. 1923 - col quale veniva approvata l'erezione in enti morali dell'ANMIG e dell'Associazione nazionale combattenti (ANC; poi istituzionalizzata il 24 giugno 1923) e veniva suggerita al governo una maggiore utilizzazione dei loro soci nell'amministrazione statale. Nell'aprile dello stesso anno, infine, un'altra legge demandava all'associazione dei mutilati l'esclusiva rappresentanza della categoria.

Presentato nella lista nazionale per la Toscana alle elezioni dell'aprile 1924, il D. venne eletto deputato con più di 48.000 voti: sarebbe stato riconfermato per le due successive legislature e come consigliere della Camera dei fasci e delle corporazioni. Dopo un primo intervento alla Camera - il 6 giugno - di pieno appoggio al governo, il D., in seguito al delitto Matteotti, tornò nuovamente in una fase di incertezza e di critiche, manifestando in diverse occasioni il suo dissenso.

Al V congresso dell'ANMIG di Fiume, nel luglio 1924, dal quale - anche se in misura minore del congresso dell'ANC che si sarebbe tenuto ad Assisi poco dopo - pervenne l'esortazione a Mussolini a mettersi sulla via della legalità, lo stesso D. intervenne affermando che se il fascismo avesse seguito "la via della legge, tutti i mutilati, tutti gli italiani, saranno con voi"; altrimenti, "ricordatevi che l'Italia è un grande popolo capace di tutti gli ardimenti" e che "la Nazione troverà nella sua coscienza la forza di combattere ancora la sua ultima battaglia per vincere ancora la sua ultima guerra". Più tardi - mentre l'ANMIG era divenuta oggetto di accuse da parte dei fascisti per non aver dato la propria adesione alle celebrazioni del 28 ottobre - intervenendo al comitato centrale dell'associazione il 17 ottobre espresse forti critiche al regime, tanto che venne immediatamente convocato da Mussolini: sul Popolo d'Italia apparve, dopo il colloquio, un comunicato in cui si negava l'autenticità del discorso (stenografato da un membro della federazione napoletana e pubblicato su La Nazione e Il Mattino), ma il D. non smentì mai in prima persona. Ai primi di novembre, il D. e l'associazione furono nuovamente polemici - pur se in forma minore dell'ANC - con il regime, a seguito delle violenze che erano state commesse dai fascisti contro i combattenti nelle manifestazioni per l'anniversario della vittoria. Il 12 dello stesso mese, inoltre, dopo un altro colloquio con Mussolini, il D. dichiarò a La Nazione di avergli chiesto di non essere incluso nel comitato di maggioranza anche se solo per "motivi di ordine personale", "senza considerazioni politiche".

In questi mesi, inoltre, il D. era stato al centro dell'attenzione pubblica in seguito alle proteste scaturite per un articolo sulla Rivoluzione liberale del 2 sett. 1924, in cui P. Gobetti aveva scritto come fosse un'illusione "liquidare il fascismo con giochetti parlamentari, con le combinazioni della maggioranza, con lo Stato maggiore, con la rivolta dei vari Delcroix e simili aborti morali". La frase, interpretata pretestuosamente, provocò il pestaggio di Gobetti da parte di alcuni fascisti, e diede vita alle vertenze cavalleresche di Gobetti stesso con R. Nardi, vicedirettore della Gazzetta del popolo che pubblicò violenti attacchi contro di lui, con V. Cian, primo firmatario di un telegramma di solidarietà al D. da parte dei deputati fascisti torinesi, e con G. Baccarini, segretario dell'ANMIG, che gli aveva telegrafato di ritenersi schiaffeggiato. Al D. invece pervenne la solidarietà dei mutilati, di vari esponenti fascisti, del Popolo d'Italia e numerosi giornali, dello stesso Mussolini, e di democratici come Amendola.

Dal punto di vista più strettamente politico, e proprio per il suo atteggiamento incerto, fu oggetto di attenzione da parte dell'opposizione, tanto che si parlò di un suo inserimento in un governo, presieduto da Giolitti, che avrebbe dovuto succedere a Mussolini. Venne anche contattato - come scrisse egli stesso - da personaggi vicini al regime: A. Rossini lo invitò a "far saltare le ultime difese di una posizione destinata a cadere"; il ministro della guerra A. Di Giorgio gli fece presente come molte armi erano state precedentemente consegnate alla milizia e come fosse per questo necessario "evitare qualunque atto che avrebbe avuto per conseguenza di far soffocare l'opposizione nel sangue".

A Firenze ebbe un colloquio con D. Perrone Compagni, che si premurò di far arrivare a Mussolini - tramite il suo segretario particolare - le proprie impressioni sul presidente dei mutilati dato il "grandissimo seguito" che aveva in Toscana e l'utilità che avrebbe avuto "un suo reciso atteggiamento in favore del fascismo": in una lettera del 5 nov. 1924 ad A. Chiavolini, affermava infatti che il D. "può diventare, basta che il Presidente lo voglia e lo valorizzi, uno strumento nelle sue mani"; che egli "ha una grande ambizione più spirituale che materiale"; che "non è antifascista ma lo potrebbe diventare se il fascismo gli muovesse addebiti o colpe, che dice di non avere"; e che "è mal circondato e viene spinto a mettersi contro di noi mentre è adescato con ogni allettamento dall'Italia libera, dalla Lega Italica e personalmente da Amendola", anche se aveva dichiarato allo stesso Perrone Compagni di "respingere ogni allettamento perché egli riconosce che il fascismo ha delle grandi benemerenze, sia acquisite sia altre ancora e che il Duce è insostituibile" (Roma, Arch. centr. d. Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 5, fasc. 94R, sottof. 1).

Il 16 nov. 1924, ponendo fine a ogni incertezza e lasciando stupefatta l'opposizione, il D. intervenne alla Camera, per motivare il proprio voto di "piena fiducia" dato al governo il giorno precedente, con un discorso di totale appoggio e consenso al regime.

Nei suoi articoli autobiografici, Il dramma di una generazione, a proposito di quello che venne definito un "voltafaccia", il D. scrisse che "passando all'opposizione non avrei mutato il corso degli eventi e forse avrei provocato subito... l'atto di forza che si riprodusse più tardi", sostenendo come "anche a me sarebbe stato facile e comodo assentarmi, se fossi stato solo, ma ero a capo dei mutilati dei quali dovevo tutelare gli interessi". Probabilmente, come ha sostenuto L. Pivano, al tempo rappresentante dei combattenti di Alessandria, e secondo il quale ancora alla vigilia del discorso alla Camera il D. era "affiancato all'opposizione", fu ventilata la minaccia di togliergli la presidenza dell'ANMIG e di essere sostituito con un "successore cieco di guerra autentico e fascista di sicura fedeltà": ricatti che, secondo l'allora presidente dell'ANC, E. Viola, provenivano, "sempre più serrati", da R. Farinacci.Nonostante che ai primi di gennaio del 1925, a causa della sua assenza dalla seduta della Camera del 3 e delle voci che correvano sulla formazione di un gruppo di deputati mutilati (che il D. smentì in una lettera ai giornali del 6 gennaio), la sua posizione politica fosse sembrata di nuovo poco chiara, da quel momento il suo consenso al regime fu costante, a cominciare, tra l'altro, con l'appoggio alla mozione Turati, presentata alla Camera il 9 nov. 1926, che dichiarava decaduto il mandato parlamentare dei deputati dell'Aventino.

Continuava tuttavia a rimanere in sospetto presso alcuni fascisti, venendo accusato - come si legge in uno stralcio contenuto nel fascicolo che lo riguarda della Segreteria particolare del duce - di "servirsi dell'Associazione per lo smercio di suoi volumi", di "essere antifascista" soprattutto in relazione alle trattative con D'Annunzio del 1922, e di "aver venduto il suo appoggio al Governo". Una informazione della polizia fiorentina del gennaio 1929 - probabilmente in relazione, dato che di poco successiva, alla lettera anonima di un "fascista ortodosso" che protestava contro un articolo elogiativo sul D. di G. Rispoli apparso nella rubrica "scrittori fascisti" di Bibliografia fascista (n. 10, ottobre 1928) - rassicurava invece la segreteria di Mussolini che del "Grande Mutilato, del valoroso combattente, dello scrittore, del patriota niente è da dirsi di men che corretto di men che deferente di men che devoto. È ammirato e stimato dalla generalità anche per l'azione svolta negli interessi del Fascismo e della Patria dopo il delitto Matteotti".

Gli anni tra il 1925 e il 1935, a detta dello stesso D. (ne Il dramma di una generazione), furono quelli "del mio entusiasmo per Mussolini": ne scrisse una biografia, Un uomo e un popolo (Firenze 1928), definita nell'introduzione, "un atto di fede" e "una prova di nobiltà" (p. VII). Il libro fu consegnato a Mussolini il 12 marzo 1928 dal D., e dai suoi editori, i fratelli Vallecchi, che nell'occasione chiesero al duce, dati i "propositi fascisti" della casa editrice e il proprio programma di "portare alla rivoluzione politica il contributo della rivoluzione intellettuale", di "affidare a noi qualcosa tra le più importanti pubblicazioni d'indole statale". Proprio allora gli venne conferita, per decreto di Mussolini, la nomina a caporale d'onore della milizia, per essere stato - motivava il Foglio d'ordini del 28 ott. 1928 - "attivo collaboratore dell'opera del Regime nella sua qualità di deputato e di presidente" dell'ANMIG: "con il vostro riconoscimento - scriveva il D. a Mussolini per ringraziarlo - sento di ricevere l'investitura formale di una milizia che fu sempre la mia divisa interiore". Ancora in questo stesso anno, il D., assieme ai mutilati, entrava nel Partito nazionale fascista (PNF).

Molteplici le sue attività politiche e culturali durante il ventennio. Come presidente dell'ANMIG (era inoltre presidente onorario dell'Unione italiana ciechi, della Federazione interalleata, del Comitato internazionale dei combattenti, cariche che gli furono tolte all'indomani della Liberazione) si adoperò per il potenziamento dell'associazione, per il miglioramento della sua legislazione e per la costruzione di case del mutilato. Nel 1938 l'ANMIG passò alle dipendenze del direttorio del PNF e nel dicembre 1939 Mussolini dispose che ai mutilati ammessi al partito venisse riconosciuta l'anzianità a partire dal 16 nov. 1924, data del discorso del D. alla Camera.

Consigliere comunale a Firenze tra il 1920 e il 1928, fece parte dal 1923 del consiglio di amministrazione dell'Ente per le attività toscane; dal 1929 divenne presidente dell'Ente fascista di cultura fiorentino, organizzazione sorta per iniziativa della federazione del PNF e che riuniva varie istituzioni culturali della città; dal 1931 divenne presidente dell'Ente autonomo del Regio Politeama fiorentino Vittorio Emanuele II, nato nel 1929 come Stabile orchestrale fiorentina per iniziativa della federazione provinciale fascista, che nel 1933 (anno in cui fu sostituito da L. Ridolfi) diede vita al Maggio musicale fiorentino: dal 1931 fu nel comitato della Fiera nazionale dell'artigianato fiorentino che era presieduto da G. Bottai.

Fu inoltre membro del Consiglio nazionale delle Corporazioni e del direttorio della Federazione degli artisti e professionisti.

Collaboratore del Corriere della sera, della Nazione, dell'Illustrazione italiana, dell'Ente italiano audizioni radiofoniche (EIAR) - che dal 1926 trasmise vari suoi discorsi -, direttore dal 1939 de La Vittoria, organo ufficiale dell'ANMIG, il D. proseguì anche nella sua attività di poeta e scrittore, pubblicando, sempre presso Vallecchi, I miei canti (1932) e il volume La parola comeazione (1936), vincitore del premio Viareggio. Ricevette inoltre le lauree honoris causa dalla facoltà di giurisprudenza di Perugia e da quella di lettere dell'università di Bologna; e numerose cittadinanze onorarie sia italiane sia straniere.

A partire dalla fine degli anni Trenta, constatando - scrisse aposteriori - che "la forza diventava peso e si aggravava in proporzione del consenso, che il potere non era un mezzo ma un fine, che la disciplina si traduceva in costrizione e in remissività. Era il dispotismo", passò tra i critici del regime, dando sfogo, dopo l'entrata in guerra a fianco della Germania nazista (anche se ancora nel 1938 definiva alla Camera la politica estera "il capolavoro di Mussolini"), al proprio "livore antigermanico" e parlando "liberamente anche del Duce", poiché "da qualche anno in qua non ne azzecca più una" (così G. Ciano, il 22 ott. 1941, nel suo Diario, Milano-Roma 1946, p. 76). Si avvicinò ulteriormente a casa Savoia ed ebbe, soprattutto nel 1943, alcuni colloqui con il re. Al generale P. Puntoni, da cui si era recato nel giugno di quell'anno per chiedere udienza con Vittorio Emanuele III, dichiarò di essere "un tenace, spietato avversario di Mussolini" e di ritenere "indispensabile che la Corona si muova": "Occorre - disse - che il Sovrano sia però tempestivo. Se dovesse arrivare tardi, il crollo del Regime finirebbe per trascinare nella propria rovina anche l'istituto monarchico" (P. Puntoni, Parla VittorioEmanuele III, Milano 1958, pp. 134 s.). Per questo suo atteggiamento fu anche inserito, in rappresentanza dei fascisti monarchici, nell'elenco di ministri redatto da D. Grandi per il re, per un "governo di unità nazionale", composto da uomini di tutte le tendenze purché non compromessi personalmente con la dittatura.

Caduto il fascismo, lanciò il 26 luglio un messaggio ai mutilati nel quale elogiava la "missione" che il sovrano aveva adempiuto "assumendo le responsabilità delle decisioni supreme": ma nonostante il tentativo di rifarsi una parvenza di antifascista, fu accusato di essere un "trombone guerrafondaio" e un "corifeo del regime". Da Mussolini per il suo nuovo atteggiamento politico e come "traditore" fu fatto arrestare nell'ottobre 1943 e confinato dapprima in un albergo di Brunate e quindi in uno di Miralago di Cernobbio.

Dopo la Liberazione, il D. entrò nelle fila del partito monarchico, per il quale fu eletto deputato, alle elezioni del 1953, per la circoscrizione Bari-Foggia, raccogliendo più di 23.000 preferenze. Ripresentato alle successive elezioni, risultò il primo dei non eletti. Alle elezioni del 1963 si presentò per il gruppo Stella e corona senza successo, e si ritirò dalla vita politica. I suoi discorsi per il partito monarchico vennero raccolti nel volume del 1959 Quando c'era il re (Milano). Collaboratore de Il Tempo dal 1946, proseguì nella sua attività letteraria pubblicando la raccolta di poesie La strada (Firenze 1947). una loro riedizione nel 1968 intitolata Val di Cordevole (intr. di F. Perrina, Bologna) e i Sonetti fiorentini nel 1971 (Pisa).

Morì a Roma il 26 ott. 1977.

Altri scritti: Fiore di sacrificio (Firenze 1919), La notte. Discorso inaugurale al primo congresso nazionale dell'Unione nazionale dei ciechi tenuto il 18 dicembre 1921nel Salone dei Cinquecento a Firenze (ibid. 1921), Il secondo olocausto. In commemorazione dell'avv. F. Giordani nel trigesimo della morte, Bologna 21 dic. 1920 (Bologna 1921), Il medagliere della grande guerra (Firenze 1922), Guerra di popolo (ibid. 1923), Il IV concilio della sventura: S. Slataper (Roma 1923), La leggenda di Roma, a cura di F. Agnoletti (Roma 1923), Per una maggiore cultura italiana (in collab. con G. Prezzolini, Firenze 1924), Il nostro contributo alla vittoria degli Alleati (ibid. 1931), Mutilati e invalidi di guerra, in Dizionario di politica, a cura del PNF (Roma 1940, III, pp. 226 s.), Il dramma di una generazione, in Il Tempo, 1946 (I: Dalla guerra alla politica, 21 luglio; II: Sdegno dei combattenti, 23 luglio; III: Non si può calpestare il sacrificio del popolo, 24 luglio; IV: L'incomprensione delle sinistre favorì lo sviluppo del fascismo, 25 luglio; V: Suicidio del Parlamento, 27 luglio; VI: Infausta dittatura, 1° agosto; VIII, Così arrivammo al 18 giugno, 3 agosto).

Fonti e Bibl.: A quanto già indicato si aggiungano: Roma, Arch. centr. d. Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 62, f. 371R, Del Croix on. Carlo; F. Virgili, C. D., Roma 1925; F. Agnoletti, C. D. L'espugnatore di anime, Firenze 1926; O. Bianchi, Un mago della parola: D., Trieste 1929; Perondino, Messe di vita. C. D., Firenze 1929; G. A. Chiurco, Storia d. rivoluzione fascista 1919-1922, Firenze 1929, I, pp. 196 ss.; II, p. 61; III, pp. 522 s.; IV, p. 147; Antologia d. scrittori fascisti, a cura di M. Carli-G. A. Fanelli, Firenze 1931, pp. 248 s.; I. Corbi Delcroix, Ricordi di una mamma, Firenze 1937; A. Josia, Eroismo e poesia di C. D., Milano 1937; L. Gasparotto, Diario di un deputato. Cinquant'anni di vita pol. ital., Milano 1945, pp. 195, 197, 203 s., 211, 216, 221, 322; A. Tamaro, Venti anni di storia 1922-1943, Roma 1953, I, pp. 112, 120, 248, 404, 424, 460; II, pp. 38, 65, 214, 407; C. M. De Vecchi di Val Cismon, Mussolini vero, in Tempo [Milano], 15 dic. 1959; F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, VI, Il delitto Matteotti e l'Aventino (1923-25), a cura di A. Schiavi, Torino 1959, pp. 180, 183 n., 214, 216, 283 n., 286 e n., 289, 292, 307 e n., 308 s., 372; P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1960, pp. 622 n., 764 e n., 769-80, 788 s., 793, 801, 808, 840, 852, 897; G. Bianchi, 25 luglio. Crollo di un regime, Milano 1963, pp. 14, 379 s., 434, 749, 816 n., 817 n.; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1964, pp. 235, 308, 327 s., 340, 347, 973; R. De Felice, Mussolini il fascista, I, Torino 1966, pp. 516, 586, 629, 685; L. Pinzauti, Il maggio musicale fiorentino dalla prima alla trentesima edizione, Firenze 1967, pp. 12, 17, 30 s., 39; A. Repaci, La marcia su Roma, Milano 1972, pp. 371, 448; R. Cantagalli, Storia d. fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze 1972, pp. 76, 109, 112, 306, 348 ss., 359, 367 n., 368 n., 407; L. Pivano, La XXVII legislatura. L'opposizione nell'aula, Roma 1974, pp. 57, 62, 69, 107 s., 116, 132, 152; G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari 1974, pp. 97, 368, 379 n.; E. Viola, Combattentismo e Mussolini dopo il congresso di Assisi, Firenze 1975, pp. 22 s., 25 s.; G. Bianchi, Da piazza San Sepolcro a piazzale Loreto, I, Dissoluzione dell'Italia post-risorgimentale 1919-1924, Milano 1978, pp. 200 s., 291 s., 317-21; M. Palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934), Firenze 1978, pp. 147, 238, 247 n., 253 s.; G. Amendola, L'Aventino contro il fascismo. Scritti politici (1924-1926), a cura di S. Visco, Milano-Napoli 1981, pp. [47], 147, 165-68, 366; G. Bergami, Guida bibliogr. d. scritti su P. Gobetti 1918-1975, Torino 1981, pp. 73-95, 97, 180, 186, 192, 414.

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