CARLO EMANUELE IV di Savoia, re di Sardegna

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO EMANUELE IV di Savoia, re di Sardegna

Giusepe Locorotondo

Primogenito di dodici figli, C. E. nacque a Torino il 24 maggio 1751 da Vittorio Amedeo III, allora principe ereditario, e da Maria Antonietta Ferdinanda, figlia di Filippo V, re di Spagna.

Già gli anni dell'infanzia misero in luce i tratti del suo temperamento timido, malinconico ed introverso ("ipocondriaco" lo chiamavano per dileggio gli irriguardosi cortigiani) e soprattutto i malanni di un fisico destinato ad essere travagliato tutta la vita da ricorrenti crisi nervose somiglianti "tout bonnement", come scriveva nel suo Journal il fratello Carlo Felice (v. Lemmi, passim), ad attacchi epilettici. Questi - prerogativa del resto di quasi tutti i figli di Vittorio Amedeo III, con il loro quadro clinico di dolori locali, strane ubbie e crisi depressive - in lui avrebbero mantenuto forma più grave e si sarebbero manifestati con tanta maggiore virulenza quanto più le circostanze avrebbero richiesto lucido impegno e piena capacità e responsabilità di supreme decisioni. Ad un principe così naturalmente sprovveduto fu assegnato come precettore ed educatore (su consiglio di Benedetto XIV che per il battesimo di C. E. aveva concesso l'ambitissimo onore delle cosiddette "fasce benedette") il barnabita p. Sigismondo Gerdil. L'opera, però, dell'insigne pedagogista, indiscutibilmente efficace sul piano gnoseologico e metodologico generale (il padre s'impegnò a far ben "saisir" la differenza tra "le sentiment et la connaissance" e a non far mai delle impressioni di quello "la règle de nos jugemens") non ha meritato elogi unanimi ed anzi è parsa a taluni critici inadeguata per quanto riguarda il contenuto dell'insegnamento profano (ritenuto troppo elementare e riduttivo rispetto all'esigenza di un principe destinato al trono) e addirittura controproducente per quanto riguarda l'educazione religiosa.

Indirizzandosi questa ad un temperamento dalle tendenze mistico-ascetiche e fatalistico-remissive, il risultato fu eccesso di devozione, provvido forse sul piano individuale in quanto rifugio in mezzo alle violenze e alle mortificazioni di cui fu tessuta la sua vita di re, ma certamente fuorviante sul piano della pubblica responsabilità, in quanto tendente a favorire quell'accasciamento nella rassegnazione e nel fatalismo rinunciatario ed inerte.

Anche se, come notò il Bianchi, C. E. non poté "fare una seria applicazione" allo studio, è comunque un fatto che mostrò di saperne trarre discreto profitto. Sono infatti da considerare indubbia testimonianza di profitto e di ingegno (ove non si vogliano sospettare manipolazioni e mistificazioni cortigiane) le Réponses [del principe di Piemonte] à questions de droit naturel et de morale e soprattutto i suoi studi sulla storia romana. Essi consistono in un tableau da Romolo a Pompeo di 31 carte, apparso ad un ministro di Stato, nel 1819, degno di essere dato alle stampe, e in un riassunto della Histoire des Empereurs depuis César jusqu'au dernier Empereur d'Orient (vol.ms. di 79 pp., diviso in 78 capitoli, calligrafia di due mani diverse, l'una corretta e l'altra piena di errori) che, secondo la Relation des premiéres études avrebbe "surpris des Personnes eclairées" restie a supporlo frutto esclusivo del talento storiografico del giovane principe.

Il 5 (o 6?) settembre 1775 C. E. sposò a Chambéry la principepa Maria Clotoilde Adelaide, figlia di Luigi XV, re di Francia, e sorella dei futuri re Luigi XVI, Luigi XVIII e Carlo X, la quale, ornata di virtù assai più che di bellezza, in 26 anni di matrimonio non gli avrebbe dato eredi, ma sarebbe stata, nella prospera e nell'avversa fortuna, compagna affettuosa e accorta consigliera.

Scarse le notizie sulla vita privata e pubblica del principe nel ventennio successivo, fino alla salita al trono. Si sa però che l'impatto della Rivoluzione francese e il successivo scontro con la Francia rivoluzionaria non soltanto scossero dalle fondamenta i pilastri su cui si reggeva lo Stato subalpino, ma seminarono "divisions", "soupçons" ed "esprit de parti" perfino all'interno della stessa famiglia reale (Journal, 28 ag. 1790). Le vicende di quegli anni aprirono, e quelle successive approfondirono, una specie di frattura tra l'erede al trono e i suoi più giovani fratelli, i quali, proprio per marcare, con evidente intenzione polemica, la loro differenziazione nei confronti del principe di Piemonte e la loro riconosciuta omogeneità di vedute e di intenti, diedero vita, sotto il nome di "fradlanza", a una sorta di conventicola raccolta intorno al generoso, ma impulsivo, duca d'Aosta. Il contrasto, principalmente politico in quanto verteva sulla gestione degli affari di Stato (prudente ed esitante l'orientamento di C. E., più attivo e audace quello dei fratelli), sconfinava nella sfera del comportamento privato. C'è da dire però che, già poco "propenso ad intavolare trattative" per l'armistizio di Cherasco, quando - dopo la pace di Parigi - venne in discussione l'"argomento scabroso" dell'alleanza con la Francia, C. E. si schierò dalla parte dei fratelli nel manifestare la propria opposizione (Carutti).

Per nulla smanioso di cingere la corona, dissuase nella stessa circostanza il demoralizzato Vittorio Amedeo III dal mandare ad effetto il concepito proposito di abdicare. Forse questo suo atteggiamento fece nascere la voce (raccolta e diffusa dai rappresentanti diplomatici di Venezia e di Genova) che Vittorio Amedeo III, deciso ad abdicare, intendesse chiamare a succedergli, al posto di C. E. recalcitrante e disadatto, il duca d'Aosta. Comunque sia, Vittorio Amedeo restò sul trono fino alla morte avvenuta il 16 ott. 1796 e lasciò a C. E., quarto di questo nome, "un regno servo", "un erario povero", "un esercito vinto" (Botta cit. in C. Tivaroni, L'Italia durante il dominio Francese [1789-1815], I, Torino 1889, p. 30).

Effettivamente, dopo la "incredibile viltà" di Cherasco, i Francesi, già padroni di Nizza e della Savoia, si erano impadroniti anche delle principali fortezze, mentre, con la loro benedizione, proliferavano in ogni angolo del Regno clubs di giacobini, rivoluzionari e repubblicani.

Non avrebbe potuto molto, in quelle condizioni, un sovrano audace soldato e consumato politico; poco e quasi nulla poté fare e fece C. E., privo del tutto di spirito guerriero e nient'affatto versato nelle sottili arti della politica, e per di più con il fisico sempre in preda a spasmi nervosi debilitanti.

Appena sul trono C. E. dovette prendere posizione sulle proposte francesi per un'alleanza offensiva e difensiva. Le negoziazioni già avviate da Vittorio Amedeo III furono portate avanti dal segretario per gli Affari Esteri Clemente Damiano di Priocca, personalmente persuaso dell'utilità dell'alleanza, mentre C. E., più che della sua utilità, sembrava convinto - dopo Cherasco e la pace di Parigi - della sua ineluttabilità. Un quadro chiaro e compiuto dello status dei rapporti franco-sardi in quella particolare fase storica è offerto dalle lunghissime istruzioni di C. E. al suo ministro a Parigi Prospero Balbo, datate 21 ott. 1796.

Esse, dopo aver delineato le direttive della politica estera sarda verso la Francia fino alla Rivoluzione francese "source de tous les malheurs", trattano varie questioni pendenti tra i due Stati; soprattutto quelle collegate all'interpretazione e all'applicazione di vari articoli del trattato di Parigi, ed infine consigliano al Balbo i passi opportuni per guadagnare simpatie ed appoggi e soprattutto il massimo impegno nel tentare di "démêler" gli orientamenti del governo francese "tant au dedans qu'au dehors" per adattarvi la sua condotta volta a distruggerne la "défiance" verso i Sardi e a ottenerne "quelques indémnisations pour les pertes et les sacrifices" sopportate dal Piemonte. Più particolarmente al progetto di alleanza si riferiva la successiva istruzione al Balbo del 5 novembre nella quale C. E. definiva di quella finalità, limiti e contropartita (pace in Italia e carattere esclusivamente antiaustriaco per non coinvolgere in alcun modo l'Inghilterra e lo Stato della Chiesa, e adeguato risarcimento territoriale anche in relazione al ventilato scambio della Sardegna).

L'azione del Balbo divenne presto vana. Nello stesso novembre le negoziazioni dell'alleanza furono affidate al generalissimo in Italia ed infatti ripresero a Torino tramite il Poussielgue, segretario della legazione francese in Genova. Entrarono nella fase conclusiva sotto la duplice spinta degli strepitosi successi dell'"Armée d'Italie" (gennaio-febbraio 1797) e delle macchinazioni interne giacobine e repubblicane culminate nei falliti attentati alla vita del re del 22 gennaio e della prima domenica di febbraio. Il 4 aprile veniva sottoscritta a Torino dal cav. Priocca e dallo stesso Clarke una "Convenzione segreta e preliminare" al trattato di alleanza offensiva e difensiva che prevedeva, a pace raggiunta, lo scambio della Sardegna con un non ben definito territorio nell'Italia continentale. Il giorno dopo, sulla base di un "disegno" sottoscritto a Bologna il 25 febbraio, veniva conclusa la lega che sanciva la neutralità con l'Inghilterra e fissava in 8.000 fanti e 1.000 cavalli l'entità del contingente che il Regno sardo s'impegnava a mettere a disposizione dell'armata francese. Restava nel vago la questione dei compensi territoriali. Firmato all'insaputa del duca d'Aosta (che espresse la sua irata opposizione), la lega fu giudicata dal duca di Monferrato "une chose mauvaise et mal faite" e fu in effetti una alleanza capestro. Il 18 aprile il Bonaparte poteva scrivere al Direttorio: "Le Roi [di Sardegna] se trouve désormais être à notre disposition" (cfr. Correspondance de Napoléon Ier, II, p. 500).

Intanto sul piano interno le acque si agitavano sempre e di più. In giugno fu sventato un attentato a C. E. durante a trasferimento dal castello di Veneria a quello di Rivoli (cfr. lett. 16 ott. 1816 dettata da C. E. a P. C. Rossoni). Nella seconda metà di luglio scoppiarono disordini e sedizioni in varie città e villaggi (Asti fu repubblica per un giorno) e tra i ceti rurali esasperati per la carestia di grano dovuta alla scarsità del raccolto e all'incetta a favore dei soldati francesi. La repressione fu spietata in tutto lo Stato. Nonostante un indulto (che però escludeva i capi delle sommosse) e l'intervento dell'ambasciatore francese Miot a favore di alcuni imputati (giunto peraltro tardivo o disatteso), tra agosto e settembre furono eseguite 65 sentenze capitali che fecero gridare alla carneficina regia e provocarono il biasimo inorridito del Bonaparte.

Per prevenire altri disordini C. E. prese vari provvedimenti. Con decreti del 23 e 24 luglio nominò reggente della segreteria degli Interni (retta ad interim sin dal 10 gennaio, giorno della morte del conte Graneri, dal segretario per gli Affari Esteri, cav. Priocca, vero factotum della politica piemontese in quel periodo) il conte Cerruti, e governatore di Torino il marchese C. F. Thaon, conte di Sant'Andrea. Con editto del 29 luglio rese veramente incisive quelle misure di eversione dei privilegi e delle banalità feudali timidamente accennate con il precedente editto del 7 marzo. Per fronteggiare la gravissima crisi economica adottò misure monetarie (svalutazione della moneta eroso-mista, sostegno e contenimento degli inflazionati biglietti di credito) e, previa autorizzazione pontificia, intervenne sempre più pesantemente sul patrimonio ecclesiastico (editti di luglio, ottobre e dicembre 1797 e 13 ott. 1798: cfr. Chiuso, II, pp. 14, 17). Pesanti contributi furono imposti anche ai laici (negozi, patrimonio, lusso) con i decreti del 6 ott. 1797 e 13 ott. 1798. Come era giusto anche la corte si sottopose a severe privazioni.

Tuttavia, come le riforme sociali non portarono la calma (scontentarono i ceti colpiti e non disarmarono i "patrioti" ormai volti a repubblica), così i sacrifici finanziari non risollevarono l'economia. La barca faceva acqua da tutte le parti e per di più la burrasca cresceva. Si accanivano contro la monarchia i patrioti repubblicani e francofili (tra i più noti, oltre il Ranza, l'abate Morardo e Modesto Piroletti), i fuorusciti piemontesi a Parigi (il ballerino A. Rus e suo figlio), a Milano (G.M.I. Serassi) e a Genova (Pellisseri) i rappresentanti diplomatici a Torino delle repubbliche francese, ligure e cisalpina. Particolarmente attivi, tra questi, nel corso del 1798, il cisalpino L. Cicognara e il francese "cittadino" P.-L. Ginguené.

In primavera corpi franchi cisalpini e liguri entrarono in azione. Rinforzati da disertori dell'esercito regolare e più tardi da truppe regolari delle due repubbliche, penetrarono in territorio piemontese. La colonna cisalpina, comandata dal Serassi, si accampò in Val d'Ossola e pose il quartier generale a Ornavasso. Quella ligure ("l'armata infernale") occupò Carosio in una delle enclaves piemontesi in territorio ligure. Sconfinati i Sardi, per riprendere Carosio, nel territorio della Repubblica ligure, questa dichiarò guerra. Benché il 27 giugno il Direttorio avesse imposto la cessazione delle ostilità, "l'armata infernale", decisa a realizzare il piano concordato con Ginguené di rivoluzionare Alessandria, entrò lo stesso, il 5 luglio, in Piemonte. Ma, come già la colonna cisalpina, subì una grave disfatta, che originò le invettive dei patrioti contro i Francesi "ingannatori dei popoli e complici dei tiranni". In realtà, in un'altalena di docce calde e fredde, il Direttorio, a seconda che gli apparissero efficaci o avventati anche in relazione alla mutevole situazione interna e internazionale, ora appoggiava ora bloccava gli attacchi alla dinastia sarda, alla quale, intanto, addossava la responsabilità dei torbidi e imponeva umiliazioni e rinunce destinate inesorabilmente ad affrettarne la caduta. Così il 28 giugno il gen. Brune, che era succeduto al Bonaparte nel comando generale in Italia, costrinse il governo piemontese a firmare una convenzione che prevedeva la consegna ai Francesi per due mesi, salvo accordi ulteriori, della cittadella, effettivamente occupata il 3 luglio dal gen. Collin con 1.000 soldati. Era, come pensò il Priocca, il prologo irreversibile della capitolazione. Intanto il Ginguené si scatenava (il Carutti contò, nelle "Carte Ginguené", 55 note da lui indirizzate, in agosto e settembre, al Direttorio e principalmente al governo piemontese) e diveniva arrogante e prepotente.

Ma il fatto più singolare del settembre fu la carnevalata del corteo con vivandiere e ufficiali francesi travestiti da dame e da dignitari di corte destinata, nelle intenzioni degli organizzatori, a provocare la reazione del popolo per giustificare l'intervento dei Francesi e far maturare nel sangue e nel terrore le condizioni per la proclamazione della repubblica.

La trama fallì per l'intervento dell'ignaro gen. Ménard, poi biasimato dal Brune, ma l'atmosfera andò sempre più riscaldandosi. Il governo piemontese si muoveva con prudenza. Anche quando si seppe che si stava preparando una lega contro la Francia, il re e il suo Consiglio approvarono le idee esposte dal Priocca in un Memorandum (con i Francesi vincitori, il Piemonte avrebbe potuto prolungare la sua esistenza, con i Francesi vinti, gli alleati avrebbero riconosciuto la sua impossibilità di muoversi). Il calcolo si dimostrò errato. La lega indusse il Direttorio, che nel frattempo aveva, uno dopo l'altro, sostituito i suoi uomini in Italia con altri più prudenti (Collin con Ménard e poi con Grouchy, Ginguené con A. M. Eymar, Brune con Joubert), a forzare i tempi e a sbarazzarsi dell'imbelle, ma ingombrante Carlo Emanuele IV. Il 29 novembre l'Eymar chiese al Priocca il contingente militare previsto dal trattato di alleanza, il vettovagliamento per quattro mesi delle fortezze e la consegna dell'arsenale di Torino. Poi lo Joubert scrisse a Parigi accusando Torino di disattendere le richieste di negare la consegna dell'arsenale e perfino di trepararsi a collegarsi con l'Austria e con il re di Napoli. Senza attendere risposta (che fu poi una dichiarazione di guerra al Piemonte) ordinò a Grouchy di agire. La sera del 5 dic. Eymar si ritirò nella cittadella e la mattina del 6 sugli spalti di questa apparvero le bocche dei cannoni rivolte verso la città. C. E., preda più che mai dei suoi attacchi di nervi, convocò in permanenza il Consiglio, al quale intervennero i cinque principi reali Aosta, Monferrato, Genevese, Moriana e Chiablese. Questo deliberò di non cedere e dispose misure di sicurezza. Ma la sera stessa e il giorno dopo giunsero notizie dell'occupazione di vari centri del Piemonte da parte dei Francesi. Il Consiglio reale approvò la proposta di una protesta solenne e di una lettera del re a Joubert. Questa fu inviata aperta al Gruchy, il quale commentò brutalmente che non era più tempo di indugi.

Dal Rapport da lui poi scritto sull'"abdicazione" di C. E. si apprende che l'unica preoccupazione francese consisteva ormai solo nel far apparire volontaria e non estorta (era in corso il congresso di Rastadt e si volevano evitare i contraccolpi di un atto di violenza) l'ineluttabile rinuncia al trono. Con minacce ed intimidazioni e grazie a buoni uffici e connivenze di taluni personaggi dello stesso entourage del re, l'intento fu raggiunto.

Il duca d'Aosta propose la resistenza ad oltranza, ma C. E., memore del tragico destino del cognato Luigi XVI e dimentico degli esempi di fierezza e di sprezzo del pericolo presenti nella tradizione della dinastia, additando pusillanimemente la regina esclamò: "Volete dunque mandare al patibolo me e questa santa donna?". Così alle due della notte sull'8 dic. 1798 sottoscrisse gli articoli della capitolazione negoziati per nove ore tra il generale francese Clausel e il balivo Raimondo di San Germano, sconfessò la protesta del 7 dicembre, sacrificò il generoso Priocca (più monarchico del re nel volere salvaguardare l'onore e la dignità della corona) permettendogli di consegnarsi ostaggio nella cittadella e ordinò all'esercito di obbedire al generalissimo francese e a tutti i sudditi di obbedire al costituendo governo provvisorio. La sera del 9 dicembre, fatto testamento e presi i conforti religiosi, partì da Torino con tutta la famiglia reale, scortato da 80 dragoni piemontesi e altrettanti francesi.

La scena della partenza, avvenuta in presenza dei generali francesi Grouchy e Clausel, fu - come si apprende dal diario di Maurizio Biandrate di San Giorgio (cfr. Lemmi, p. 33) - "vraiment lugubre: une nuit des plus obscures, la neige tombant a gros flocons, les gens de service en pleurs".

Dopo un lungo e disagevole viaggio via Voghera, Parma (dove sostò per circa tre settimane e da dove notificò al vicerè di Sardegna la decisione di andare a dimorare nell'isola), Modena e Bologna, il 17 genn. 1799 giunse nell'amena residenza di Poggio Imperiale a Firenze, posta a sua disposizione dal granduca Ferdinando III. Di là andò a prostrarsi ai piedi dell'ottantenne papa Pio VI, tenuto prigioniero alla Certosa dopo essere stato anch'egli sbandito dalla sua sede (cfr. G. Sforza, Pio VI alla Certosa di Firenze, in Arch. stor. ital., s. 5, VI [1890]) pp. 311 ss.).

Là ricevette in udienza Vittorio Alfieri, il poeta tirannicida ormai colmo di sdegno per le prepotenze francesi in Europa. "Fui ad inchinarlo come di doppio dover mio, sendo egli stato mio re, ed essendo allora infelicissimo" - raccontò l'astigiano che, commosso, sentì "una certa voglia di servirlo, vedendolo sì abbandonato" (Vitascritta da esso, epoca IV, cap. XXVIII).

A interrompere la permanenza a Firenze intervennero le pressioni del commissario francese Chipault e quelle dei ministri toscani timorosi di fornire pretesti alle cupidigie francesi. Dopo alcuni giorni di sosta a Livorno, dove ricevette l'omaggio dei deputati eletti dagli Stamenti sardi per recargli i sentimenti di devozione dei sudditi isolani, il 24 febbr. C. E. simbarcò in quel porto sulla fregata toscana "La Rondinella" e all'alba del 3 marzo giunse a Cagliari, accolto con grandi feste dalla folla riversatasi sulle banchine del porto. Appena sbarcato pubblicò una protesta contro la forzata abdicazione o, meglio, contro la forzata rinuncia "all'esercizio di qualunque potere" e contro le altre estorsioni e denunciando il comportamento perfido e sleale degli agenti e dei generali francesi.

Nell'isola, dopo le sedizioni antifeudali capeggiate dall'Angioy nel 1795 e 1796, c'era tregua, non pace sociale per le gravi sperequazioni economiche tra le classi dominanti e la popolazione più umile. Le zone rivierasche erano infestate da ricorrenti incursioni barbaresche. Su tutta l'isola incombeva il pericolo di attacchi della flotta francese. Contro i mali interni, nei sei mesi di permanenza in Sardegna, C. E. non pose mano a "niente di sodo e di stabile" (Bianchi, IV, p. 461). Concesse un'amnistia generale per i reati politici e graziò i reati comuni meno gravi (Lippi). Distribuì quindi le più importanti cariche tra i fratelli e lo zio cognato, duca del Chiablese. Per tutelare la sicurezza dell'isola chiese protezione all'ammiraglio Nelson che, dopo il trionfo di Abukir, si riposava a Palermo con la bella lady Hamilton. L'attenzione di C. E. era in verità rivolta alle sorti della guerra in Italia che volsero presto a favore degli alleati. Il 26 maggio, infatti, gli Austrorussi entrarono trionfalmente in Torino. Arresasi quindi la cittadella, il gen. Suvarov d'ordine di Paolo I, spedì a C. E. l'invito a rientrare nei suoi Stati di terraferma. Il re, pur impaziente di farlo, ritardò la partenza, e intanto giunse un secondo dispaccio del Suvarov con l'invito a non lasciare la Sardegna e comunque a non entrare in Piemonte. Paolo I si era dovuto piegare ai voleri contrari dell'Austria impersonati dal ministro Thugut. C. E., che non aveva mai sposato l'idea di fissare in Sardegna la sede del governo, decise di lasciare ugualmente l'isola. Dopo aver nominato Carlo Felice viceré, il 18 settembre (l'impaziente duca d'Aosta, nominato "reggente" e comandante generale delle truppe, era salpato il 15 agosto, soffocando nel cuore lo strazio per la perdita dell'unico figlio maschio, avvenuta appena sei giorni prima) s'imbarcò sul vascello inglese il "Thunderer" per Livorno, donde proseguì per Firenze per stabilirsi a Poggio Imperiale. In Piemonte, partito il Suvarov, spadroneggiavano gli Austriaci del gen. Melas che contestavano e contrastavano poteri e decisioni del luogotenente generale del Regno, marchese Thaon, nominato il 4 luglio. Così C. E. non ebbe il coraggio di sfidare il veto austriaco al suo rientro in Piemonte. I Piemontesi sentirono ugualmente la sferza inclemente di provvedimenti punitivi (epurazione della pubblica amministrazione e dell'esercito, persecuzioni e multe ad ebrei e valdesi, chiusura dell'università, procedimenti economici contro i giacobini: v. Registri Commissione d'inchiesta, rif. in Bianchi, III, p. 340, e G. Vaccarino, L'inchiesta del 1799 sui giacobini in Piemonte, in Riv. st. it., LXXVII[1965], pp. 27-77).

Non paga delle prepotenze in Piemonte l'Austria controllava i movimenti dei principi (aveva contrastato i propositi del duca d'Aosta di combattere agli ordini del Suvarov) e soprattutto della corte sarda. Tentando di imporle l'isolamento diplomatico, ne contrastò la velleità di formare un esercito piemontese e di partecipare alla lega e rifiutò perfino lo scambio di rappresentanti diplomatici. Francesco II propose a C. E. un carteggio confidenziale diretto, ma il Thugut raccoglieva informazioni tramite agenti segreti. Nonostante la promessa della restituzione di tutti gli Stati, ai primi di giugno si conobbe un progetto di spartizione del Piemonte.

Più chiari i rapporti con Pietroburgo, dove C. E. aveva mandato, come proprio rappresentante, Gaetano Balbo, rivelatosi peraltro inadatto al compito (detto il "cavallo di Russia" per il suo fare impetuoso e grossolano, nel marzo 1800 spinse la sua insolenza al punto di chiedere le dimissioni del conte di Chialamberto, suo diretto superiore - reggeva la segreteria degli Esteri dai primi del 1799 - ritenendolo responsabile degli indugi alla negoziazione di una alleanza con la Russia, che invece era il re a non vedere con entusiasmo sia per la volubilità di quella corte, sia per l'inopportunità "de n'avoir que cet appuis": C. E. al duca d'Aosta, 13 maggio 1800). All'opposto il rappresentante russo presso C. E., principe Adamo Czartoryski, il quale "parait pas mettre de l'importance à sa commission" (Chialamberto) ed anzi riconosceva egli stesso di non provare "que de l'indifference" per quello che si esigeva da lui (cfr. i suoi Mémoires, Paris 1887, I, pp. 198 ss., dove è tracciato un interessante schizzo di C. E. rassomigliante a Giacomo I d'Inghilterra, restio ad occuparsi di politica, eccellente nella narrazione di "anecdotes joviales" e addirittura "enclin à la bouffonerie"). Il diplomatico doveva assicurare C. E. della protezione dello zar, ma nella difficile situazione finanziaria in cui la corte sarda si trovava allora (gli Stamenti sardi avevano ridimensionato il donativo votato all'arrivo della corte nell'isola e dal Piemonte giungevano rendite e sussidi insufficienti alle necessità annue valutate in complessive 450 mila lire), fu particolarmente apprezzato il contributo di 300 mila rubli con il quale, come pensava la regina, lo zar aveva voluto far ingoiare la "furieuse pillule" del famigerato contrordine.

La battaglia di Marengo, riaprendo le porte della penisola agli eserciti francesi, pose fine a quella specie di dominio a mezzadria austro-sardo sul Piemonte (e da C. E. esercitato pure "per legatos") e costrinse quest'ultimo ad abbandonare l'amena dirnora di Poggio Imperiale a Firenze.

I deputati sardi gli ricordarono che aveva nel proprio regno, e cioè in Sardegna, quel rifugio sicuro che andava mendicando in terra straniera, ma C. E., adducendo la necessità di più facili relazioni diplomatiche con gli alleati, decise di trasferirsi negli Stati romani. Incontrato a Foligno Pio VII, eletto papa nel conclave di Venezia, entrò con lui a Roma il 5 luglio, e dopo alcuni giorni di riposo nel palazzo Doria, si trasferì nella villa Conti, poi Torlonia; a Frascati. Non fu un soggiorno tranquillo.

Fu agitato soprattutto dal contrasto con il duca d'Aosta circa i negoziati che Napoleone aveva proposto a C. E. e a Pio VII quand'erano a Foligno. C. E., sull'esempio e forse per consiglio del pontefice, aveva inviato a Parigi il marchese di San Marzano. Il duca d'Aosta, supponendo respinte le proposte napoleoniche, aveva scritto una lettera al Chialamberto "fort impertinente par rapport au Roy" (lett. di Maria Clotilde al San Marzano, 29 luglio). Una quindicina di giorni dopo, convintosi della cattiva fede del Bonaparte ed ignorando che il re aveva già interrotto ogni entretien, si era dato a proporre, "tandis qu'on traite avec Buonaparte", di "lever des troupes au nom du Roy". Poiché risultava che il duca avesse esposto le sue idee al diplomatico Jackson e all'ammiraglio Keith mettendo a repentaglio i buoni rapporti con la corte inglese, la regina comunicava al San Marzano il desiderio di C. E. di informare quei signori "de ne pas aller après à tout ce que d'Aosta et sa femme leur diront". Se la sfiducia, che C. E. riservava al fratello, presunto crede, era eccessiva, quella che entrambi i fratelli nutrivano per Napoleone era ben fondata. Il 7 settembre, infatti, fu decretato il trasferimento dal Piemonte alla Cisalpina del Novarese, del Vigevanese e della Lomellina. Ciò nonostante C. E. si lasciò indurre ad accogliere l'invito del Talleyrand ad inviargli il San Marzano per riprendere i negoziati. Questi, condotti con la mediazione di Kalitscheff, ministro di Paolo I a Parigi, non portarono però ad alcun risultato. Giunta, anzi, a Parigi la notizia della tragica fine dello zar, avvenuta il 24 marzo 1801, il primo console decretò (12 apr. 1801) l'annessione del Piemonte alla Repubblica francese. Da allora, verso C. E. si dichiarò disponibile solo per compensi pecuniari. Per le pressioni, tuttavia, del nuovo zar, Alessandro I, indispettito dall'annessione del Piemonte alla Francia ed intenzionato ad assicurare al "malheureux" sovrano un "établissement convenable", si acconciò a riprendere in esame ipotesi di risarcimenti territoriali. Ma non se ne fece nulla, né allora, né poi, e il risentimento di C. E. verso gli spogliatori francesi si trasformò in odio. ("Le pape même, depuis qu'il fit le concordat, - scriveva la duchessa d'Aosta - n'est plus guère sur sa liste, en haine des Français"). Intanto aveva continuato a peregrinare tra Roma e Napoli. Giunto a Roma da Frascati il 20 ott. 1800, ospite del principe Colonna, sposato ad una Savoia-Carignano, ne era ripartito il 19 novembre alle voci dell'avvicinarsi dei Francesi, ed era giunto il 25 seguente a Napoli. Qui, pochi giorni dopo, lo raggiunse il duca d'Aosta.

Scriveva la duchessa di Aosta a Carlo Felice che a corte "les quérelles et disputations sont sans nombre et sans fin". La stessa regina (a Carlo Felice, 19 giugno 1501) parlava di "discorde" e di "différences d'opinions et de volonté". Il 23 marzo 1801, per ragioni non chiare, i reali lasciarono improvvisamente Napoli e il 28 giunsero a Roma, dove ancora una volta furono ospitati nel palazzo Colonna. Ma eccoli il 19 maggio nuovamente di partenza. Questa volta vi aveva influito il timore di una nuova occupazione francese, ma soprattutto "l'avis très-prononcé que les Français se proposaient de se saisir de la personne sacréè de S. M." (lettera del 2 luglio del Chialamberto). L'informazione sull'"horrible conjuration" sarebbe stata portata (lett. del conte di Vallesa, 10 luglio) personalmente a C. E. dal generale russo comandante le truppe a Napoli. Costretta, per la "disette extrême", a "emprunter du prince Colonna la somme de 1.500 ducats", la corte provò a Napoli un'altra mortificazione. Dopo 15 giorni di permanenza a Caserta, per le difficoltà frapposte dal governo e dalla nobiltà a fornirle, per timore di suscitare i sospetti dei Francesi, un alloggio, dovette "se contenter de retoumer a une auberge".

Ma una prova ben più dura attendeva a Napoli Carlo Emanuele IV. Il 7 marzo 1802, dopo alcuni giorni di malattia, spirava la regina Maria Clotilde, "la lumière" dei suoi occhi, ciò che aveva "de plus chèr dumonde" (lettere del 19 dicembre 1802 e dell'11 febbraio 1803). Non nascosero, invece (rispetto per la morte a parte), un po' di sollievo i duchi d'Aosta, i quali, convinti da sempre che "la Reine est celle qui fait tout" e che "la Reine fait le ministre", avevano in particolare fatto risalire alla sua influenza sul sovrano buona parte della diffidente riservatezza di C. E. nei loro confronti, nonché il rientro del suo ricorrente proposito di alleggerirsi del fardello della corona, chiamata "corona di spine". In verità, benché il ruolo, già della regina, di guida negli affari e di opposizione all'abdicazione apparentemente venisse assunto dalla conventicola di corte composto dal confessore don Tempia, dall'ex gesuita sardo p. Senes e, primusinter pares, dall'ambiguo e discusso medico Penthené, la scomparsa di Maria Clotilde spianò la strada all'attuazione del disegno di rinuncia al trono tante volte formulato. Rimaste vane le pressioni della "camarilla" e perfino un tentativo di dissuasione attribuito al pontefice, il 4 giugno 1802, nella sala d'udienza del palazzo del principe Filippo Colonna, gran conestabile del Regno di Napoli, alla presenza del conte di Chialamberto, nella veste di notaio della Corona e di altri quattro testimoni, C. E. lesse l'atto solenne dell'abdicazione, sottoscritto subito dai presenti e ratificato quattro giorni dopo dal nuovo re Vittorio Emanuele I.

Si riservò il titolo e la dignità regia e un assegno annuo vitalizio di 200 mila lire, trovato eccessivo - date le circostanze - dall'erede che si vedeva condannato a "être un roi mourant de faim". Dovendo venire a Roma, in casa Colonna, il nuovo re, il 15 giugno C. E. si trasferì nel "vicino palazzo Cenci, ossia Bolognetti" con una corte di "poche e scelte e necessarie persone" (Manzotti). Visse modestamente e riservatamente ora a Roma, ora a Frascati (ma fece qualche viaggio a Napoli e a Loreto) frequentando più le chiese che i teatri e intrattenendosi più con Dio che con gli uomini. Benché inoffensivo fu ugualmente "l'objet des suspicions" del Bonaparte.

Ma il Cacault, ambasciatore francese presso la S. Sede, scriveva al Talleyrand di non credere alla pericolosità dell'ex sovrano (Vidal). In effetti C. E. non s'occupò mai più di politica e fu sempre più tormentato da acciacchi e malanni di ogni sorta, peraltro sopportati con rassegnazione, culminati nella cecità completa (primi del 1816). A partire poi dagli inizi del 1804 e almeno fino alla fine del 1813 fu travagliato da una miseria crescente; finì per accettare di buon grado una pensione da Napoleone dal momento che il fratello era nell'impossibilità di "lui faire tenir une pension" o poteva inviargli soltanto "une somme assez modique" (lett. a Napoleone, 23 maggio 1810).

Il rapporto di amicizia col gesuita p. Pignatelli (1806-1811) servì a rinsaldare le simpatie di C. E. per la Compagnia di Gesù, di cui aveva sollecitato più volte al fratello Carlo Felice il ristabilimento in Sardegna. Giunse, tuttavia, inattesa la decisione presa nei primi mesi del 1815, di entrare addirittura a farne parte. Entrato l'11 febbraio nella casa di noviziato di S. Andrea al Quirinale ("esiglio nell'esiglio" lo disse il Perrero), per farvi gli esercizi spirituali vi rimase, vanamente dissuaso e contrastato. Dopo il noviziato prese i voti semplici (di povertà, castità e obbedienza), ma non fu consacrato sacerdote. Viveva, vestendo abito nero, ma secolare, in appartamenti separati con propria mensa con il francescano p. Mariano Postiglione, suo confessore, il medico Penthené, Tommaso Ferrero della Marmora, suo affezionato ciambellano e alcuni altri.

Colpito ai primi di ottobre da febbre terzana, morì a Roma il 6 ott. 1819 e fu sepolto con l'abito di S. Ignazio nella chiesa di S. Andrea al Quirinale.

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