FEDERIGHI, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FEDERIGHI, Carlo

Vanna Arrighi

Nacque a Firenze nel 1380 da Francesco di Lapo e dalla sua prima moglie, Bice di Domenico Rucellai.

La famiglia Federighi, originaria di Sovigliana, piccolo borgo sulla riva destra dell'Arno, presso Empoli, era immigrata a Firenze alla fine del sec. XIII e nel corso del secolo successivo aveva acquisito una solida posizione economica ed una certa preminenza politica, soprattutto dopo il 1382, anno che segna la riscossa delle arti maggiori, cui essa apparteneva, dopo alcuni anni di predominio delle arti minori. In particolare il padre del F. era stato per due volte gonfaloniere di Giustizia e aveva condotto a termine importanti missioni diplomatiche.

Negli anni 1410-11 è documentata la presenza del F. all'università di Padova, ove presumibilmente di lì a poco si addottorò in diritto canonico. Subito dopo la laurea si dedicò all'insegnamento: nel 1415 leggeva diritto civile allo Studio bolognese, da cui la Repubblica fiorentina lo richiamò in patria l'anno dopo. A Firenze insegnò almeno fino al 1420. La sua iscrizione all'arte fiorentina dei giudici e notai risale al 1415.

La sua carriera politica ebbe inizio nel 1417, con l'elezione al priorato; dopo di allora ricoprì numerose altre cariche pubbliche: ancora dei Priori nel 1424, ufficiale dei pupilli nel 1429, dei Dieci di balia nello stesso anno, dei Sei della mercanzia nel 1433, finché nel bimestre novembre-dicembre 1444 raggiunse la carica più alta dell'ordinamento politico fiorentino: quella di gonfaloniere di Giustizia.

A questi incarichi pubblici all'interno si accompagnarono importanti missioni diplomatiche. La prima ebbe luogo dal 9 al 12 sett. 1420, quando il F., insieme con altri sette cittadini, scortò fino ai confini dello Stato di Siena papa Martino V, di ritorno a Roma dopo il soggiorno fiorentino, che si era protratto per un anno e mezzo.

Nel 1422 fu inviato a Lucca come oratore della Repubblica fiorentina. Dopo pochi mesi, nel giugno di quello stesso anno, fu incaricato di un'importante ambasceria presso il sultano d'Egitto, in compagnia di Felice Brancacci, noto mercante e uomo politico e d'arme.

Tale missione si collocava nel quadro degli sforzi fatti da Firenze in questo periodo per assurgere al ruolo di potenza marinara, tale da reggere il confronto con quegli Stati italiani che tradizionalmente monopolizzavano i traffici marittimi sul Mediterraneo. Le aspirazioni dei Fiorentini poggiavano sulla conquista di Pisa (1406) e sul recente acquisto di Livorno (1421). Nello stesso anno della missione diplomatica erano uscite dai cantieri le prime due galere che, insieme con altre due imbarcazioni "da mercato", costituivano l'intera flotta della Repubblica.

Su una delle due galere sottili il F. ed il Brancacci si imbarcarono il 12 luglio 1422, diretti in Egitto.

L'accoppiata di un mercante e di un giurista era funzionale allo scopo principale di questa ambasceria: la stipulazione di un trattato commerciale che riconoscesse ai Fiorentini gli stessi privilegi di cui godevano i due Stati marinari di Genova e Venezia, la possibilità di stabilire un consolato ad Alessandria d'Egitto e uno a Beirut e, soprattutto, il riconoscimento del fiorino come moneta di scambio internazionale, accanto al ducato veneziano.

Il viaggio, condotto interamente lungo le coste, fu complicato da una tempesta, che li costrinse ad approdare a Corfù, tanto che giunsero ad Alessandria soltanto il 19 agosto. Neppure la permanenza nella città egiziana fu tranquilla, perché sorsero tra la delegazione fiorentina ed i notabili egiziani numerosi incidenti, equivoci ed incomprensioni. Il 29 agosto si imbarcarono su una nave messa a loro disposizione dal sultano e, risalendo il Nilo, giunsero al Cairo, residenza del sultano Malik-al Ashraf Barsbay.

Intanto la galere fiorentine avevano ripreso il mare per tornare in patria. I due diplomatici ebbero una buona accoglienza e, nonostante le difficoltà incontrate ad Alessandria, la loro missione fu coronata dal pieno successo: riuscirono infatti a far accogliere tutte le loro richieste, compreso il corso legale del fiorino; tuttavia dovettero fermarsi molti giorni per la difficoltà di tradurre il trattato nelle due lingue. Il 28 settembre ripartirono per Alessandria, ove molti membri della spedizione si ammalarono di febbre terzana. Anche il viaggio di ritorno, effettuato su un secondo convoglio di navi fiorentine, fu reso difficile dalle condizioni atmosferiche, tanto che soltanto l'11 febbr. 1423 poterono giungere a Porto Pisano. Da qui raggiunsero Firenze, dove i due ambasciatori ricevettero festose accoglienze, dato il pieno successo della missione e le difficili condizioni in cui era stata portata a termine. Di essa il Brancacci redasse un dettagliato diario.

Caratteristiche diverse ebbe la missione affidata al F. il 16 giugno 1434. A questa data egli, insieme con altri sette cittadini, tutti esponenti delle maggiori famiglie fiorentine, fu inviato a Pisa, ove era arrivato per mare papa Eugenio IV, costretto a fuggire da Roma in seguito a disordini fomentati dai Colonna e da agenti del governo milanese.

La Repubblica fiorentina, che perseguiva una politica di amicizia col papa in funzione antiviscontea, aveva fatto al pontefice calorosi inviti a rifugiarsi sul suo territorio e l'ambasciata del F. aveva appunto lo scopo di congratularsi con lui per lo scampato pericolo e di accompagnarlo a Firenze, ove il papa fece il suo ingresso solenne il 23 giugno 1434.

Il 6 ott. 1438 il F. fu di nuovo impegnato in un'importante missione diplomatica, che lo condusse alla corte di Alberto II, re dei Romani, insieme con Bernardo Giugni e Giuliano Davanzati. Durante il tragitto essi sostarono a Ferrara, ove si trovava il pontefice, impegnato nei lavori del concilio. gli ambasciatori dovevano ossequiarlo e nel contempo rassicurarlo sul carattere meramente onorifico e protocollare della loro missione.

Occasione dell'ambasceria era stata infatti l'elezione di Alberto, ma i delegati fiorentini dovevano approfittare della circostanza per favorire in ogni modo il trasferimento a Firenze del concilio, mettendo l'accento sulla sicurezza, ricchezza e comodità della capitale toscana. Alberto II rimase favorevolmente impressionato dagli oratori fiorentini, tanto che li decorò, delle insegne di cavaliere dello Spron d'oro e li creò conti palatini, con il privilegio, trasmissibile ai propri discendenti in linea maschile, di creare nuovi notai, legittimare i figli, e così via (J. F. Böhmer, Regesta Imperii, XII, Albrecht II, a cura di G. Hödl, Wien-Köln-Graz 1975, p. 137 n. 536, da Breslavia).

Parallelamente e contemporaneamente agli uffici pubblici all'interno dello Stato e delle missioni diplomatiche, il F. fu tra i più frequenti consultori della Signoria, partecipando a quasi tutte le consulte e pratiche indette nell'arco cronologico della sua attività.

Questi Consigli venivano convocati quando se ne presentava la necessità, per avere pareri sulle principali questioni, tanto di politica intema che estera. Vi partecipavano i componenti delle magistrature principali ed un certo numero di "arroti", scelti direttamente dalla Signoria tra i cittadini più autorevoli. In un sistema politico come quello fiorentino, caratterizzato dalla veloce rotazione di tutte le cariche, la partecipazione a questi Consigli rappresentava l'unico mezzo per influire durevolmente sulla linea politica dello Stato. Nel periodo compreso tra il 1426 e il 1434, quando avvenne lo scontro decisivo tra le due principali fazioni che si contendevano la supremazia a Firenze, le consulte e pratiche divennero un mezzo per la fazione provvisoriamente al potere di conseguire i propri obiettivi, superando l'eventuale opposizione dei Consigli istituzionali: quando questi ultimi rigettavano una proposta caldeggiata dal gruppo dominante, si nominava un Consiglio di esperti, possibilmente amici della parte proponente; il parere di questi esperti era considerato preponderante su quello dei consigli.

Il F., nella sua qualità di giurista, categoria professionale sempre molto stimata a Firenze, ma particolarmente in questo periodo, che vide la rinascita degli studi giuridici, fu designato numerosissime volte a far parte delle consulte: negli anni 1429-1434 i suoi interventi furono più di sessanta, ma erano destinati a non diminuire neppure nel periodo successivo, che vide la vittoria ed il definitivo consolidamento della fazione medicea.

Egli infatti non si schierò mai decisamente né con la fazione albizzesca né con quella medicea, cosa del resto comune a molti altri giuristi a lui contemporanei. La loro preparazione in campo giuridico-amministrativo li rendeva particolarmente apprezzati in un regime come quello fiorentino, dove il veloce ricambio cui erano soggetti quasi tutti gli uffici pubblici impediva la formazione di una burocrazia efficiente e fornita di competenze tecniche adeguate. Ai giuristi si richiedevano pareri tanto su concreti problemi di pratica amministrativa, quanto su astratte questioni procedurali, ambiti entrambi lontanissimi dalla sfera di azione delle singole fazioni.

Al notevole successo professionale del F. ed alla grande influenza politica da lui acquisita non fece riscontro un'adeguata posizione economica: nella "portata" al Catasto del 1427 egli, che si autodefinisce "dottore in decretali", risulta quasi del tutto sprovvisto di proprietà immobiliari: abitava in una casa di proprietà dei frati di S. Pancrazio e disponeva di due modesti appezzamenti di terreno ricevuti a livello dal vescovo di Fiesole, Benozzo Federighi, suo fratello.

Per quanto riguarda i beni mobili, denunciò un patrimonio di 1500 fiorini, di cui 1350 investiti in buoni dei debito pubblico (luoghi di monte) ed il resto in libri.

Le cause di questa discrepanza tra posizione sociale e condizione economica vanno forse ricercate nel fatto che, a distanza di sedici anni dalla morte del padre, l'eredità era ancora rimasta indivisa, e forse anche nell'attitudine della famiglia Federighi ad avere una numerosa discendenza (il padre del F. aveva avuto otto figli ed egli stesso ne ebbe dieci), con conseguente parcellizzazione del patrimonio.

Occorre tuttavia sottolineare, sulla scorta degli studi del Martines, il fatto che nella società fiorentina di questo periodo la fortuna politica era abbastanza indipendente dalla situazione economica: essa era piuttosto legata ad una concomitanza di fattori, di cui nel caso del F. i principali erano l'appartenenza ad una famiglia tradizionalmente attiva in politica e la sua stessa qualifica di giurista.

A riprova del fatto che la carriera politica del F. non conobbe soluzione di continuità dopoil1434, anno della definitiva affermazione della signoria medicea, egli fu nel 1443e nel 1448 chiamato a far parte degli accoppiatori, organismo cui era demandato il delicatissimo compito di formare le liste dell'elettorato passivo. Come risulta dallo studio del Rubinstein l'adeguamento delle liste elettorali ai desideri del regime era uno dei mezzi principali usati dai Medici per esercitare il loro predominio, senza alterare apparentemente l'assetto istituzionale della Repubblica fiorentina.

Nel 1449 il F. fu inviato per sei mesi a Pisa ad esercitarvi l'ufficio di capitano. Era questo forse il più importante degli "uffici estrinseci" della Repubblica fiorentina, data anche la particolare situazione della città, incorporata da pochi decenni nel dominio fiorentino. Esso infatti si configurava come il massimo rappresentante del governo in periferia, dotato di giurisdizione civile e penale, nonché di importanti funzioni di ordine pubblico. Il F. non riuscì a portare a termine il suo mandato: morì durante l'epidemia che in quell'anno si abbattè sulla città. La Repubblica gli tributò solenni funerali di Stato.

Il F. si era sposato nel 1424con Daniella di Gabriello Panciatichi, da cui ebbe dieci figli; una delle figlie, Laura, andò sposa al famoso umanista e cancelliere fiorentino Benedetto Accolti.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Raccolta genealogica Sebregondi, ins. 2142; Ibid., Catasto, filza 76, c. 65; filza 42, c. 446; Ibid., Signori. Legazioni e Commissarie. Elezioni e istruzioni a oratori, reg. 7, c. 1; Firenze, Bibl. naz., Poligrafo Gargani, 790; Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze, I, Firenze 1867, pp. 267, 310; II, ibid. 1869, pp. 148, 174, 195, 197, 199, 202, 204, 207; Diario di F. Brancacci ambasciatore con C. F. al Cairo per il Comune di Firenze, a cura di D. Catellacci, in Archivio stor. ital., s.4, VIII (1881), pp. 157-188, 325-334; V. Gamurrini, Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane e umbre, II, Firenze 1671, pp. 246 ss.; A. Ademollo, Marietta de' Ricci. Vicende di Firenze al tempo dell'assedio, con note stor. di L. Passerini, IV, Firenze 1845, pp. 1492-1494; E. Cecconi, Studi storici sul concilio di Firenze, I, Firenze 1869, pp. LVI ss.;V. Chiaroni, Lo scisma greco e il concilio di Firenze, Firenze 1938, p. 116; N. Rubinstein, The government of Florence under the Medici, Oxford 1966, pp. 24, 237; M. E. Mallett, The Florentine galleys in the fifteenth century, Oxford 1967, adInd.; L. Martines, Lawyers and statecraft in Renaissance Florence, Princeton 1968, pp. 106, 196 s., 206, 208, 211, 242, 296, 375, 484; G. Brucker, The civic world of early Renaissance Florence, Princeton 1977, pp. 269, 398, 428, 454, 488, 489, 505; D. Kent, The rise of the Medici: faction in Florence, 1426-1434, Oxford 1978, pp. 182, 206, 231, 258, 261.

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