LAMBARDI, Carlo Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LAMBARDI (Lambardo), Carlo Francesco

Enrico Parlato

Figlio di Bernardino di Fabiano, ricco merciaio, nacque ad Arezzo, dove fu battezzato nella pieve il giorno 11 febbr. 1545 (Arezzo, Arch. della Fraternita dei laici, 766, c. 142). La famiglia apparteneva al patriziato aretino, e il padre è documentato tra i riformatori della Fraternita dei laici.

Il rinvenimento dell'atto di battesimo, che anticipa di un decennio la data tradizionalmente accolta della nascita del L., rende più problematica la ricostruzione dei suoi esordi, fase che rimane ancora inesplorata. A seguito della mutata cronologia, la formazione toscana, per quanto ignota, deve avere avuto un peso maggiore di quanto si sia fino a ora pensato e, in via del tutto ipotetica, il cantiere del palazzo delle Logge ad Arezzo, progetto vasariano cui fu dato avvio nel 1573, sembra essere un possibile riferimento.

Dal 1583 il L. risulta abitare a Roma. A partire da quell'anno, gli stati d'anime della parrocchia di S. Maria in Via lo registrano a piazza S. Silvestro con la moglie Laura e un giovane garzone (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Maria in Via, Anime, 17, c. 39); e in questa zona il L. continuerà ad abitare fino al termine dei suoi giorni. Bertolotti (1884) ne segnala l'attività nei cantieri promossi da Sisto V, in quel quinquennio di serrata attività costruttiva dominata da D. Fontana. Testimonianza fondamentale per conoscerne vicende e opere rimane la biografia di Baglione (1642), fonte quasi sempre attendibile.

Dal settembre al dicembre 1588 si trasferì a Mantova, dove era stato convocato per sostituire il prefetto delle Fabbriche ducali, il fiorentino F. Traballesi, pittore e architetto, morto il 21 aprile di quello stesso anno.

Il 17 giugno 1588 il L. era stato segnalato alla corte mantovana in una lettera inviata dal cardinale Scipione Gonzaga; e il 16 settembre la sua presenza è positivamente registrata in una missiva inviata da Mantova a Roma. Da subito risulta essere impegnato nella progettazione del nuovo mausoleo gonzaghesco nella chiesa di S. Francesco e della tribuna con la reliquia del Sangue di Cristo a S. Andrea. Il primo era fortemente voluto da Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova dal settembre dell'anno precedente; il secondo riguardava una delle chiese più importanti della città. A tali incoraggianti premesse non seguì tuttavia un radicamento presso la corte dei Gonzaga. Al contrario, forse per motivi di salute, il 21 dic. 1588 ottenne licenza per tornare a Roma. Da qui il 4 febbr. 1589 comunicava che aveva dato inizio ai disegni di S. Andrea e che si apprestava a realizzare anche quelli della cappella di S. Francesco (Bertolotti, cit. in Maroni - Perina, pp. 89 s., 115), progetti che non ebbero seguito.

A Roma nel 1590 la sua presenza è attestata nel cantiere dei Ss. Apostoli diretto da D. Fontana, dove stimava i lavori effettuati nel convento. Il 1░ apr. 1593, insieme con Bernardino Valperga, è nominato da Clemente VIII estimatore generale degli edifici pubblici, una carica affidata al L. ancora nel 1606 e che rese più solido il legame con la Camera apostolica, nonché con la famiglia Aldobrandini, per la quale nel 1604 e nel 1605 stimava i lavori compiuti dallo scalpellino Stefano Buzzi (Buzio) sia nella villa tuscolana sia nella cappella in S. Maria sopra Minerva (D'Onofrio; Hibbard, 1971).

Nel 1593 Giacomo Della Porta definì il L. "mesuratore et non architetto" (Hibbard, 1967). Di grande importanza per comprendere quale fosse il suo profilo professionale è la vicenda relativa alla costruzione del palazzo Iacobilli in platea Trinitatis, edificio che qualche decennio dopo sarebbe diventato la stabile residenza degli ambasciatori spagnoli a Roma.

La costruzione iniziata nel 1592 fu portata a termine nel 1601: il L. ne fu progettista e impresario (Anselmi). L'aspetto originario della fabbrica, prima delle trasformazioni borrominiane, è documentato da un'acquaforte di Claude Lorrain (1637), dalla quale si intuisce un palazzo di forte nitore plastico, sottolineato dalle bugne angolari, con le quali si marcava anche l'ingresso principale, secondo una consolidata tradizione sangallesca. Di maggiore interesse è il meccanismo finanziario adottato per portare avanti i lavori che, proprio per questa ragione, si protrassero a lungo. Come è stato dimostrato (Anselmi), diversi affittuari di Iacobilli (compreso il L.) erano coinvolti nell'impresa, ovviando così alla difficoltà di reperire capitali per la nuova costruzione attraverso il baratto di materiali o di competenze tecniche. Nel 1592 parte del canone di locazione del L. veniva commutata in disegni, misure e altri lavori; lo stesso principio si applicava a uno scalpellino o ad altri locatari che erano mercanti di legnami e di materiale edile. Attraverso tale meccanismo le parti coinvolte acquisivano il godimento di proprietà immobiliari a fronte di un moderato esborso di denaro.

Tra le prime opere romane va annoverata anche la vigna Vitelli al Quirinale: se l'intervento in quella che nel 1601 sarebbe diventata villa Aldobrandini non è più riconoscibile, il portone con la loggia, citato da Baglione, va senza dubbio identificato con la struttura disposta allo spigolo sudovest del giardino.

La datazione al 1575 proposta a suo tempo da P. Colini Lombardi è probabilmente troppo alta. Essa si basava sull'anno riportato nell'epigrafe dedicatoria un tempo murata sull'edificio, di cui dà notizia una silloge pubblicata da Lanciani. La struttura, però, non è riportata nella pianta di Mario Cartaro (1576), né in quella di Étienne Dupérac (1577), mentre è ben visibile nella veduta prospettica di Antonio Tempesta (1593) che, come è noto, eseguì le necessarie rilevazioni negli anni 1590-91 che costituiscono così un sicuro termine ante quem. Sembra più ragionevole pensare - anche sulla base dei dati biografici del L. - che la costruzione possa risalire allo scorcio del nono decennio del Cinquecento, quando, tra l'altro, il committente monsignor Giulio Vitelli ricoprì il prestigioso incarico di prefetto dell'Annona. L'ingresso monumentale a due piani mette in comunicazione la strada pubblica e il giardino, disposti su livelli diversi e nel superare tale difficoltà il L. coniugò la tipologia del portale d'ingresso del palazzo di città con quella del belvedere della villa suburbana, creando così una struttura del tutto originale.

In seguito il L. continuò a lavorare per il Vitelli. Tra il 1592 e il 1594 disegnò il soffitto ligneo di S. Marcello al Corso e ne seguì la messa in opera come risulta dal capitolato del contratto stipulato il 15 giugno 1594 con il pittore G.B. Ricci da Novara cui venne affidata la decorazione pittorica, contratto dove il L. è qualificato come "architetto di Monsignore". Con i suoi rilievi e le sue figurazioni di soggetto sacro, il cassettonato di S. Marcello riprendeva sia quello della navata di S. Giovanni in Laterano (1562 circa), sia quello di S. Maria in Aracoeli (1572-86) ed era molto vicino a quello di S. Eligio dei Ferrari (1604), per il quale è stato anche avanzato il nome del L. (Parlato, 1989).

Il 7 febbr. 1594 il L. lavorava al palazzo del Quirinale. Il 16 ottobre dello stesso anno la congregazione dei Fiumi lo incaricò di realizzare un nuovo canale scolmatore che sostituisse il vecchio e ponesse fine agli straripamenti del lago Trasimeno, lavoro in cui dimostrò la propria abilità imprenditoriale (Arch. di Stato di Roma, Notai segretari di Camera, Lucius Calderinus, 370, cc. 450-451, 791-795). Il L. fu coinvolto anche in altre opere di ingegneria: nel 1598 si occupò del ponte sul Tevere a Borghetto (Orbaan), impresa iniziata al tempo di Sisto V, ma nella quale erano emersi errori di progettazione. Al cardinale camerlengo, Pietro Aldobrandini, il L. dedicò il Discorso… sopra la causa dell'innondatione di Roma… (edito a Roma nel 1601), dove proponeva cinque interventi sul corso del fiume.

La proposta più innovativa era quella di costruire una diga sul Tevere a monte di Orte; venivano suggeriti inoltre l'apertura di uno scolmatore tra ponte Milvio e Castel Sant'Angelo, l'utilizzazione dei fossati di quest'ultimo come canali di deflusso in caso di piena e, in generale, l'allargamento del tratto urbano dell'alveo.

Il 29 ag. 1609 la congregazione cardinalizia deputata alle Strade lo convocò insieme con altri tecnici - tra i quali vanno ricordati almeno G. Fontana, F. Ponzio, G. Rainaldi, G. De Vecchi - a dare la propria consulenza per apportare migliorie al sistema fognario di Roma (Fasolo). Il 3 marzo 1616 gli venne affidata in collaborazione con Rainaldi e De Vecchi la ricostruzione del ponte sul Liri a Ceprano (Hibbard, 1971).

Il L. fu pure al servizio dei Giustiniani, prima del cardinale Benedetto, titolare della chiesa di S. Marcello al Corso quando vi lavorava per Giulio Vitelli, e, in seguito, di Vincenzo a Bassano di Sutri. Per Benedetto, come ricorda Baglione, realizzò il "giardino fuori della Porta del Popolo" (via Flaminia) e "rifece la chiesa di S. Prisca con sua facciata e suo altare".

Il restauro della chiesa di S. Prisca fu iniziato dopo il marzo 1599, quando Giustiniani fu trasferito al nuovo titolo cardinalizio, e procedette con ritmi serrati in vista del giubileo del 1600, per il quale, come è noto, Clemente VIII aveva promosso un vasto piano di restauro e abbellimento delle chiese romane. Le dimensioni dell'edificio preesistente furono ridotte, si restaurarono navata, presbiterio, confessione e si ricostruì la facciata. In quest'ultima la cortina a mattoni e la voluta semplificazione delle forme con il portale affiancato da colonne ioniche, che sorreggono un semplice timpano triangolare, riflettono il carattere "oratoriano" (Antinori) che, del resto si ritrova nella decorazione pittorica dell'edificio, affidata al fiorentino A. Fontebuoni.

La villa di via Flaminia è quasi completamente scomparsa, ma il suo aspetto è documentato, sia pure in modo parziale, dalle incisioni della Galleria Giustiniana (1637, tavv. 153, 155, 156). Al momento non è stata rinvenuta la documentazione che offra una circostanziata cronologia dei lavori, che, secondo Battaglia, avrebbero avuto luogo nell'ultimo decennio del Cinquecento. Avendo presente che sul portone della villa campeggiava lo stemma cardinalizio di Benedetto Giustiniani, sembra logico pensare che l'intervento abbia avuto luogo solo quando questi ne divenne proprietario, alla morte del padre (9 genn. 1600) e dopo la spartizione dei beni immobili con il fratello Vincenzo (1601, 1604). Il portale, modellato con bugne rustiche di forte risalto plastico e accentuato dall'incombente chiave di volta, rivela non solo la lontana ascendenza sangallesca, ma riprende una tipologia del tutto consona a una residenza suburbana. Le colonne ioniche su insolite basi circolari sgusciate non inquadrano l'arco, che al contrario invade lo spazio destinato alla trabeazione, sottolineando l'enfasi verticale dell'insieme, soluzione che suscitò la severa censura di Francesco Milizia. Al centro del timpano spezzato si inserisce la torre dei Giustiniani, con lo stemma cardinalizio, sovrastata da tre torrette, sottolineatura araldica evidente anche nei capitelli in forma d'aquila. L'accostamento tra arco bugnato e colonne libere deriva da una riflessione tardocinquecentesca che prende avvio dal Vignola (G.B. Barozzi) e annuncia quanto verrà esperito durante il pontificato di Paolo V.

Nel settembre 1602, dopo la morte di G. Della Porta, il L. gli subentrò insieme con Ponzio nella direzione del cantiere della Madonna dei Monti (Antinori) e lo sostituì nei lavori nel palazzo di Cosimo Giustini (poi Piombino) a piazza Colonna.

L'edificio era sostanzialmente completo e gli interventi del L., come si evince dai modesti emolumenti, furono limitati, anche perché i lavori si interruppero bruscamente nel dicembre 1603 in seguito all'assassinio del committente.

Nel settembre 1603 ottenne dal camerlengo l'autorizzazione a costruire la propria casa "posta sulla strada maestra che va dalla strada del Corso alla Piazza Vecchia di San Silvestro" (demolita nel XIX secolo: Tomei).

La volontà di ribadire le proprie origini aristocratiche, nonché il proprio status economico appare con grande evidenza anche dalla fondazione della cappella gentilizia nella chiesa S. Maria in Via, di cui ottenne il patronato nel 1608.

Il L. intrattenne rapporti economici con i serviti che officiavano la chiesa e, attorno al 1609, risulta seguire la fase conclusiva di ricostruzione dell'edificio sacro (Fasolo). Nella cappella compare lo stemma marmoreo dei Lambardi, ripetuto anche nella volta della cappella, dove è accompagnato dall'iscrizione "Carolus Lambardus nobilis Aretinus". L'arma è la medesima che sarà in seguito registrata nel Libro d'oro della nobiltà aretina (1750: Arch. di Stato di Arezzo) e rende del tutto esplicita la raggiunta solidità finanziaria, testimoniata anche dalle Taxae viarum del 1617, dalle quali risulta che il L. nella zona dell'attuale piazza S. Silvestro possedeva quattro edifici.

Tra il 1605 e il 1609 risulta lavorare a palazzo Borghese (Fumagalli); e a partire dal 1606 sono documentati i rapporti con la famiglia Conti, in particolare con il cardinale Carlo e con Lotario duca di Poli.

In particolare, fu coinvolto nella lottizzazione del vasto appezzamento dell'orto della Torre de' Conti, ubicato nell'area del Templum Pacis, operazione edilizia nella quale si fece ancora una volta ricorso allo strumento dell'enfiteusi: il L., locatario dei Conti, come nel caso di palazzo Iacobilli, venne compensato con proprietà immobiliari ai Pantani, presso il foro di Augusto. Su questa base economica, si svolsero i lavori a Poli, dove il L. prestò la propria opera a partire dal 1614, trasformando il palazzo ducale, la piazza e il casino (Gordiani).

L'attività nell'edilizia civile è testimoniata da Baglione che gli attribuisce anche palazzo Patrizi (ora Costaguti) a piazza Mattei, lavori intrapresi di certo dopo il 1597, forse durante il pontificato di Paolo V. Tenendo presente il carattere imprenditoriale e speculativo della professione del L., non è difficile immaginare che questa sia stata assai più ampia di quanto tramandato dalle fonti.

L'opera architettonica per la quale ottenne i maggiori riconoscimenti fu il restauro della chiesa medievale di S. Maria Nova al Foro, da poco dedicata a s. Francesca Romana, canonizzata nel 1608.

I lavori furono iniziati nel 1612 e terminarono nel 1615. Il corpo longitudinale, in origine tripartito, fu trasformato in un'aula unica con cappelle laterali coperta da un soffitto ligneo; la facciata medievale preceduta dal portico fu ricostruita ex novo. All'interno si ripropose lo spazio unitario delle chiese romane della Controriforma; mentre il nuovo fronte della chiesa si impose nell'architettura romana di primo Seicento per gli accenti classicisti dell'ordine gigante e per l'eco palladiana, già intuita forse da Milizia e poi messa in evidenza da diversi studiosi (Fasolo, Wittkower, Blunt), che ne hanno percepito l'importanza per gli esordi della prima architettura barocca a Roma, da S. Bibiana (1624) di G.L. Bernini a S. Gregorio al Celio (1633) di G.B. Soria. In questa facciata, nella messa a punto del progetto, vi è una attenzione fortissima al recupero, nelle forme consone alla sintassi classica, di quegli elementi medievali che si andavano a sostituire; nel caso specifico il portico che precedeva la facciata venne incorporato nella nuova costruzione (Roca De Amicis, 1984).

Il L. morì a Roma il 28 giugno 1619 e fu sepolto nella sua cappella a S. Maria in Via.

La notizia, attestata dal Libro dei morti della parrocchia di S. Maria in Via (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Maria in Via, Morti, 11, c. 51v), smentisce le informazioni riportate nella lapide marmorea posta nel sacello gentilizio, dove si afferma che il L. morì nel 1620 all'età di 66 anni e 6 mesi. Tale, insolita, discrepanza può spiegarsi con la più tarda redazione dell'epigrafe fatta mettere in opera da Bartolo Lambardi, prima del 1642, poiché Baglione nella sua biografia, indica il 1620 come anno di morte.

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