DENINA, Carlo Giovanni Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DENINA, Carlo Giovanni Maria (il cognome originario era De Nina)

Guido Fagioli Vercellone

Nacque a Revello presso Saluzzo (Cuneo) il 28 febbr. 1731, secondo di tre maschi e una femmina, da Giuseppe Maria e da Anna Gabriella Boasso.

La famiglia, originaria di Villanova di Mondovì, si era trasferita da due generazioni a Bagnolo, dove un prozio era prevosto. Alla morte di questo la nonna, vedova, si portò coi figli a Revello, dove il padre del D. divenne agente del feudatario locale conte F. S. Roero, sposando la damigella di compagnia della contessa madre.

Il D. apprese a Revello i primi rudimenti del latino da un maestro nizzardo (che egli ricorda migliore come giardiniere che come grammatico) e poi dal curato del luogo, passando indi alle scuole reali di Saluzzo per i corsi di filosofia e d'umanità. Nel 1745 perse il padre, il quale lasciò la famiglia in così cattive condizioni economiche che, nonostante la parsimonia materna, il D. fu sul punto di entrare per necessità tra gli agostiniani di Ceva, e non lo fece solo perché si rese vacante a Villanova un beneficio patronato dei De Nina, la cui scelta cadde su di lui. Così prese l'abito ecclesiastico, pur restando ancora per circa due anni alla scuola di Saluzzo, dove "apprese un po' di teologia antigesuitica", come scrive egli stesso, imparando anche il francese da un ufficiale svizzero che alloggiava nella stessa casa. In quegli anni (1746-47) le truppe sarde e imperiali si accamparono spesso nei dintorni, e il quartiere reale fu posto in Saluzzo: il D. col fratello cadetto vi si recava ogni volta che poteva a visitarvi le conoscenze influenti dei suoi parenti, alla ricerca di appoggi; fu così che poté entrare nelle grazie di un segretario regio, il cav. Ferraris, che diverrà il suo protettore. Infatti, l'anno stesso della pace (1748), otterrà una borsa di studio per l'università di Torino, nella classe di belle lettere del Collegio delle provincie. Ivi suoi professori ordinari per cinque anni furono l'abate G.D. Chionio (un teologo poco amico dei gesuiti ma assai moderato, ottimo umanista specializzato in letteratura latina) e G. Bartoli di Padova (antiquario del re ed erudito, solito tenere al corrente gli allievi della letteratura contemporanea, essendo in relazione con personaggi come l'Algarotti, il Maffei, F. Zanotti, i cardinali Querini e Passionei). Essendo risultata la sua preparazione piena di lacune, il D. dovette provvedere a colmarle con lezioni private: apprese così la cosmografia e la matematica dal padre Acetta, napoletano, e la teologia dal teatino milanese Michele Casati. 1 primi frutti dei suoi studi furono alcune epistole latine alla maniera di Orazio, brani in prosa sullo stile di Cicerone, Sallustio e Aulo Gellio, versi italiani e dissertazioni sull'arte poetica; ma soprattutto un'orazione pronunciata per i funerali di un gentiluomo nizzardo suo condiscepolo gli diede una qualche reputazione nell'ambito dell'università.

Nel 1752, svanita la possibilità di ottenere un posto presso il ministro degli Esteri G. Osorio, decise di prendere gli ordini, rinunciando per sempre agli impieghi civili. Verso la fine del 1753 fu inviato come professore di umanità a Pinerolo e nella primavera dell'anno successivo ricevette l'ordinazione sacerdotale dal vescovo di Saluzzo. Al collegio di Pinerolo egli incorse in una disavventura, componendo, affinché fosse recitata dagli allievi, un lavoro teatrale, Don Margofilo, alla maniera di Aristofane, in versi sdruccioli: era una pièce castigatissima, dove però figurava come eroe comico un prete pedagogo, don Margofilo, contrapposto a un frate chiamato Brodario; i due nell'ultimo atto disputavano sul sistema delle scuole pubbliche come felice alternativa a quelle tenute dal clero regolare. I gesuiti e gli altri Ordini religiosi presenti a Pinerolo si sentirono direttamente attaccati, e l'affare fece rumore. Chiamato a comparire dinanzi al tribunale del Senato di Torino, il D. si vide obbligato a lasciare l'insegnamento a Pinerolo. Fu questa forzata interruzione della carriera, annota egli stesso, che lo spingerà verso la letteratura. Intanto trovò lavoro presso le scuole locali delle Comunità, a Cuorgné e poi a Barge: in questi luoghi ebbe il tempo per approfondire i suoi studi teologici, tanto che, all'inizio del 1756, poté recarsi a Milano per addottorarsi in quella disciplina presso le scuole palatine. Nacquero così i due volumi De studio theologiae et norma fidei (Taurini 1758), che, pur completamente ispirati alle idee del card. G. S. Gerdil e con intenti manualistici, denotano già una certa larghezza di vedute, in assenza di ogni passione controversistica e teologica: Dupin e Mabillon vengono considerati scomodi, ma non certo condannati, e perfino Voltaire, pur confutato, gli appare meritevole per il suo Siècle de Louis XIV.

Questo lavoro meritò al D. il reintegro nei ruoli delle scuole reali, prima come supplente di umanità e retorica nel collegio di Torino e sei mesi dopo come professore ordinario a Chambéry. In questo periodo, specie nell'estate e nell'autunno 1759 che trascorse in villa, il D. cominciò a occuparsi dell'impostazione di un'opera di storia della letteratura: tramite l'addetto alla legazione d'Inghilterra, L. Dutens, si era trovato in relazione con un gruppo di dotti, come il conte di Saluzzo, il Lagrange e G. F. Cigna. Per queste frequentazioni ebbe l'incarico di dar lezioni private ad alcuni inglesi di rango, legandosi così al futuro duca di Portland e al futuro duca di Marlborough e acquisendo discrete nozioni di letteratura inglese. Sotto tali stimolanti auspici il D. poté completare e pubblicare il Discorso sopra le vicende della letteratura (Torino 1760), poi seguito da un supplemento, Saggio sopra la letteratura italiana con alcuni altri opuscoli, serventi di aggiunte al Discorso sopra le vicende della letteratura (Lucca 1762).

Si tratta di un'opera di ampio respiro sull'eterno tema dei nascere, fiorire e decadere delle scienze e delle lettere nella storia delle civiltà, germogliata sulle letture di Dubos, Racine fils, Méhégan, Lacombe e Algarotti. Se i principi che l'informano sono quanto mai conservatori (come ammetterà egli stesso nella dedica a Federico II di Prussia dell'edizione del 1784), tuttavia fra le pieghe del suo classicismo gia compare una curiosità nuova, interessi meno conformisti. La sua difesa, "parziale ma interessante" (B. Croce), del Seicento potrebbe ancora apparire frutto di tradizionalismo, se non si occupasse tanto delle scienze e non si soffermasse tanto su autori come Ammirato, Mascardi, Bona, Noris, De Luca; o se il suo studio dei Francesi non comprendesse Le Blanc, Terrasson e Muralt, ed altri ancor meno noti e tuttavia interessanti. Vi è poi un significativo avvicinamento agli Inglesi (Addison, Pope, Shaftesbury, Bolingbroke), un interesse particolare per Haller fra i tedeschi, e per i trascuratissimi spagnoli; le numerose edizioni successive furono accresciute fino a comprendere anche la letteratura russa. Poiché vi era in Europa grande richiesta di simili opere di storia comparata delle civiltà, il Discorso ebbe un lusinghiero successo ovunque, con traduzioni in francese e inglese, e una ristampa a Glasgow nel 1763. Le recensioni furono numerose: G. Baretti ne pubblicò una assai estesa sulla Frusta letteraria (nn. 8-9), in cui, pur, con ampie riserve, parla di "impresa d'un Ercole fanciullo". Negativo per il D. fu invece l'essersi inimicato parecchie e influenti personalità della cultura del tempo (primo fra tutti il Tagliazucchi), che si erano viste trascurate nell'opera.

Sull'onda di questo successo il D. volle liberarsi della cattedra di Chambéry, conservando però quella di Torino senza emolumenti. Pubblicò in quel periodo la Lettera di N. Daniel Caro [Carlo Denina] a p. Atanasio da Passagna sopra il dovere de' ministri evangelici di predicare, colle istruzioni e coll'esempio l'osservanza delle leggi civili, e spezialmente in riguardo agli imposti (Lucca 1761), che suscitò l'irritazione del ministro G. B. Bogino per alcune osservazioni critiche sulla sua politica finanziaria, senza però pregiudicare un'amicizia che sarà importante in futuro. Frattanto, spinto da G. Pitt, inviato straordinario d'Inghilterra, da V. De Souza, ministro del Portogallo a Torino, dal de Sabatier de Cabre incaricato d'affari di Francia (e fondatore della prima loggia massonica torinese), e dal marchese D. Caracciolo, inviato straordinario di Napoli, il D. entrò nell'idea di dare all'Italia un'opera periodica di critica, sul genere dello Spectator dell'Addison e dello Spectateur françois;si gettò con foga nell'impresa, e vide così la luce a Lucca nel 1763 l'Assemblea degli osservatori italiani, più noto come Parlamento ottaviano. Sitrattava di un periodico che rappresentava la società torinese sotto il trasparente velo dell'immaginario salotto romano di un marchese Ottavio di Campoameno (in realtà Ottavio Falletti di Barolo) dove si tenevano i parlamenti del titolo.

Ne vennero pubblicati solo dodici numeri, ché la libertà di giudizio degli articoli (nonostante accattivanti attacchi a Rousseau ed a Voltaire, che si vendicherà ferocemente nell'ultimo capitolo de L'homme aux quarante écus), portò ben presto alla sua soppressione, sebbene le idee di riforma e i giudizi che vi si affacciavano fossero quanto mai moderati, senza vere rotture con le tendenze ufficiali, limitandosi ad esprimere istanze circolanti nella società colta piemontese del secondo Settecento. Di fatto la caratteristica del D. che infastidiva gli ambienti governativi era la sua grande, ampia, insaziabile ed eclettica curiosità per tutto, che, unita a una notevole capacità di sintesi, formava il carattere di un grande giornalista in senso moderno. Sulle qualità letterarie del periodico bisogna dire che lo stile risente delle abitudini universitarie del D., trasformando conversazioni salottiere nelle intenzioni in vere allocuzioni accademiche, anche se i soggetti trattati sono molto interessanti, come quando traduce l'elogio delle accademie in propaganda per le nuove società agrarie ed economiche (fasc. 1), o si occupa dell'uso dei teatri (fasc. 3), o istituisce un parallelo tra Rousseau e Voltaire (fasc. 1), o si preoccupa dell'educazione delle donne (fasc. 7), o analizza i filosofi moderni (fasc. 12), dopo un originale tentativo di comparare l'idea di contratto sociale in Hume e in Rousseau. Interessanti appaiono anche le discussioni relative a Diderot, Helvétius, Condillac e Toussaint.

Ma a far scattare le censure e la soppressione fu l'aver affrontato un tema scottante ed attuale, quello del numero eccessivo dei preti e dei frati e del modo di destinarli ad impieghi socialmente utili. Questa volta Roma e Torino furono concordi nell'impedire il proseguimento della pubblicazione. li D., preso fra due fuochi, cercò invano di uscirne difendendosi, nell'ultimo fascicolo, con la Lettera al reverendop. Romualdo da S. Lorenzo. Chiusa l'esperienza del periodico, egli decise di dedicarsi ad un'opera sulla storia letteraria del Piemonte dalle origini; a tale scopo si recò prima a Pavia, antica capitale universitaria dell'Italia settentrionale, poi ad Alessandria e Casale. Ma l'occasione di un lungo viaggio di studio offertagli da uno dei suoi allievi inglesi, lord Spericer, lo allontanò per il momento da tali progetti. Così nel 1765 intraprese un tour per l'Italia, che lo portò ad incontrare a Parma il Condillac; a Modena il gesuita F. A. Zaccaria; a Bologna B. Beccari e i fratelli G. P. e F. Zanotti; a Firenze il senatore A. F. Adami, l'abate L. Mehus, G. Lami, M. Manni e R. Cocchi, a Roma gli astronomi T. Le Seur e F. jacquier, e infine a Napoli G. M. Della Torre, A. S. Mazzocchi quasi novantenne e il Carcani, tutti studiosi delle antichità di Ercolano. Il ritorno avvenne affrettatamente per la via di Loreto e Venezia, e nel dicembre 1765 il D. era di nuovo a Torino. Durante le sei settimane trascorse a Firenze aveva fatto stampare un'Epistola intorno ai moderni filosofi inversi (rist. poi a Torino nel 1793), una delle sue pochissime opere poetiche, peraltro assai modeste, interessante solo perché vi riprendeva la polemica contro gli illuministi e il Rousseau in particolare.

A Torino, bloccato il progetto di un lavoro storico sull'Ordine mauriziano dall'opposizione di C. F. Morozzo, conservatore dell'Ordine stesso, che gli rifiutò l'accesso ai necessari documenti, il D. cominciò a meditare una vasta opera sulla storia d'Itaha e a raccogliere il materiale necessario: il progetto prese corpo rapidamente, tanto da ottenergli dal re, tramite il Ferraris, una pensione sufficiente a permettergli di applicarvisi esclusivamente. Si buttò dunque a corpo morto nel lavoro, che aveva stabilito dovesse partire dalle popolazioni preromane e arrivare al trattato di Utrecht. Quando tutto sembrava procedere bene, anche per la collaborazione dell'allievo Gaffodio che fungeva da copista, il Ferraris venne a morte. Poiché questi era stato il solo tramite col sovrano, nella segretezza in cui si era voluto agire, il D. si trovò isolato: decise quindi di ricorrere direttamente a Carlo Emanuele III, cui portò il lavoro sino ad allora svolto. L'attesa dell'opinione sovrana fu lunga, tanto che nel frattempo il D. dovette trovarsi un'occupazione e per due anni predicò, con l'appoggio del vescovo G.L. Avogadro, nella diocesi di Casale. Ripresentatosi infine al re, lo trovò favorevole alla pubblicazione, ma perplesso se l'opera potesse procurargli fastidi con Roma, tanto che richiese all'autore modifiche su tutti i punti sospetti, da farsi sotto la guida di un magistrato esperto, il conte Galli. V.G. Costa d'Arignano, regio elemosiniere, s'incaricò degli imprimatur, e il barone C. Vernazza di Freney dei problemi tipografici: così finalmente nel 1769 a Torino si giunse alla pubblicazione del primo volume di Delle rivoluzioni d'Italia, cui faranno seguito alla fine del 1769 e nel 1770 il secondo e il terzo, per complessivi ventiquattro libri, completati solo nel 1792 da un venticinquesimo che integra l'opera per il periodo 1713-1792.

Si tratta senza dubbio del lavoro più valido e impegnativo della vastissima produzione del D., con cui egli volle, partendo certamente dalla conoscenza degli storici scozzesi che avevano prodotto qualcosa di sostanzialmente innovatore, dare un suo contributo alla "storiografia filosofica"; constatata, pur con sfasamenti di tempo, una fondamentale somiglianza di vicende nella storia dei diversi Stati italiani, aveva pensato di scrivere un'opera sul tipo "di quella di Montesquieu sopra le cause della grandezza e decadenza de' Romani", che analizzasse non solo i fatti politici, ma tutti i fattori geografici, antropologici e sociologici che determinano i destini degli uomini e delle Repubbliche. Forse mirò troppo in alto, e qualcosa di simile verrà realizzato solo molto più tardi dal Ferrari, dal Sismondi e dal Quinet, ma certo già il disegno e l'impostazione di simile progetto, che utilizzava l'immensa quantità di materiale del Muratori, del Baronio, del Sigonio, del Biondo, ne fanno qualcosa di particolarmente importante nel quadro della storiografia italiana del Settecento, anche se l'ideale inizialmente immaginato andò nella realizzazione stemperandosi un poco in una forse più ambiziosa ma più accademica storia d'Italia in tutte le epoche e in tutti i fatti, allontanandosi sempre più dai vagheggiati modelli scozzesi e inglesi, e sempre più assomigliando alle opere dell'abate Vertot. Però queste osservazioni nulla tolgono al valore dell'enorme mole del lavoro di preparazione e di compilazione da lui compiuto, alla passione che vi mise, alla sincerità nella ricerca del vero; ed è indubbia la validità di molte delle sue annotazioni filosofiche, sociologiche e specialmente economiche, anche se tante rientrano (come per esempio lo studio dell'influsso del clima sulle civiltà) nello spirito corrente della storiografia contemporanea. Ma il D. è sempre osservatore attentissimol e possiede una rara efficacia di colorito unita a straordinaria capacità di raggruppare e organizzare i fatti di diversa natura (assai più del Bettinelli. che considera prima gli studi, poi le arti, poi i costumi), pur in uno stile ben poco purgato: certo gli siamo debitori di un'infinità di informazioni sui suoi tempi, altrimenti irreperibili, e di molte acute analisi; per primo egli narrò una storia "ideale" di tutta la civiltà italiana, con logica ricerca di cause e d'effetti nelle vicende di ogni Stato (sia concomitanti sia contrastanti o isolate), tutto sempre nel quadro di una viva connessione spirituale, che intravede un disegno complessivo, anche se non unitario, della storia d'Italia.

Il successo fu notevole e immediato: l'opera fu tradotta in molte lingue, e ristampata perfino a Costantinopoli (trad. in francese dell'abate Jardin, Révolutions d'Italie, Paris 1771-75, otto voll.; in tedesco di J. A. Volckmann, Staatveränderungen von Italien, Leipzig 1771-73, tre voll.; parafrasata in inglese da J. Longhorn, A Dissertation historical and political of the ancient Republics of Italy, London 1773). Le edizioni successive non si contano, a prova della straordinaria durata di questo successo: L. Negri registra (pp. 150 s.) ben diciotto edizioni italiane dal 1769 al 1876 (ma in realtà sono di più), fra cui notevoli: Venezia 1816; ibid. 1817, Milano 1819, Firenze 1820 (la migliore in cinque volumi); Milano 1820; Padova 1822; Torino 1829; Milano 1829-30, Padova 1834-35; Firenze 1842, con Prefazione e Discorso storico di G. La Farina. Per quanto concerne il venticinquesimo libro, aggiunto nel 1792, esso risultò scorrettissimo, fino all'edizione milanese dei "Classici italiani" del 1820, condotta su un esemplare postillato dall'autore.

Questo successo ebbe conseguenze pratiche: l'uscita del primo volume procurò all'autore la cattedra di retorica al Collegio superiore di Torino, e l'apparizione del secondo quella di eloquenza italiana e di lingua greca all'università, dove tenne la sua prima lezione il 1º nov. 1770. Nel 1771, pronunciato l'elogio ufficiale per il compleanno del re (Delle lodi di Carlo Emanuele III re di Sardegna, Torino 1771), il D. ottenne la cattedra vacante per la morte di G. D. Chionio, come professore ordinario. Ma frattanto la diffusione del terzo volume aveva riattizzato il fuoco dell'opposizione che prese a pretesto la libertà con la quale il D. aveva trattato della decadenza italiana, additandone le cause nel cattivo sistema educativo, nella frivolezza della nobiltà, nella mendicità oziosa e nel numero eccessivo di preti e frati (libro XXII, cap. 6). Il teologo G. A. Rayneri riuscì a trovare in due sole pagine ben diciassette proposizioni "erronee, scandalose e vicine all'eresia"; si fecero passi a Roma per far mettere Le rivoluzioni d'Italia all'Indice oalmeno l'ultimo volume. Il D. aveva però amici nelle congregazioni romane, e si sapeva esser l'opera sotto il patronato del re; il ministro sardo a Roma, conte di Rivera, gli era favorevole e riuscì a stornare la minaccia. Il D. volle però approfondire il punto su cui era stato più attaccato, ampliandolo e chiarendolo in una specifica operetta, Dell'impiego delle persone, il cui manoscritto sottopose al re. Questi ne fu entusiasta, e addirittura gli ordinò di trasmettere uno dei capitoli, relativo all'insegnamento, ai magistrati che stavano curando la riforma delle scuole superiori. C.L. Caissotti, ora gran cancelliere (ma ancora alla testa dell'organizzazione scolastica) si oppose con ostinazione, obbligando il D. ad espungere molti passaggi, senza però che questo bastasse ad ottenere l'approvazione dei revisori.

La morte di Carlo Emanuele nel 1773 gli creò ulteriori problemi, perché col nuovo re Vittorio Amedeo non si stabilirono i medesimi rapporti diretti e di reciproca simpatia, anche se gli fu affidato l'incarico di pronunciarne l'elogio per il genetliaco, nella gran sala dell'università (Panegirico primo della Maestà di Vittorio Amedeo III, Torino 1773). Col premio in denaro assegnatogli per questa orazione, il D. decise di fare, alla fine delle lezioni del 1774, un viaggio di esplorazione storico-geografica attraverso la Moriana, la Savoia e la Francia meridionale, accompagnandosi a un dotto benedettino milanese, il padre Visconti. Fu a Lione presso l'arcivescovo mons. A. de Montazet, proseguendo quindi da solo per Ginevra, dove ricavò un'immagine molto positiva dell'organizzazione civile del Cantone calvinista. Al ritorno, pronunciato il Panegirico secondo del re (ibid. 1775), terminò un lavoro abbozzato da tempo, la Bibliopea o sia l'arte di compor libri (ibid 1776): una specie di manuale di belle lettere a uso dei suoi allievi, diviso in tre parti, con cui si oppone al costume di dettare le lezioni nelle scuole, auspicando l'avvento di veri libri di testo. Meditava allora anche opere poetiche e una specie di romanzo storico, La nuova Grecia, storia profetica, di cui parlò al Lessing quando lo conobbe a Torino nel 1775, sentendosi apostrofare con un ironico "Au nom de Dieu, ne touchez pas à mes Turcs!" che gli fece abbandonare il progetto. Rivolse allora il pensiero alla stesura di una storia dei sovrani sabaudi più organica di quelle esistenti, che non si realizzò. Decise a questo punto di accettare l'offerta del principe S. Chigi, che da tempo lo richiedeva a Roma per sistemare la sua biblioteca e i suoi archivi.

Il 26 giugno 1777, pronunciato il terzo Panegirico del re, si mise in viaggio col consenso regio (anzi Vittorio Amedeo III gli fece pervenire a Bologna un generoso sussidio): passò il luglio in Romagna presso suo fratello Marco Silvestro, superiore a Forlì dei trinitari scalzi, visitando Ravenna; in agosto era in Toscana, ove trascorse cinque settimane a Firenze. Ivi commise la leggerezza (ma è quanto egli pretende, altri pensa che sia stata una sua precisa e rischiosa scelta per forzare la situazione) di consegnare il manoscritto del mai approvato Dell'impiego delle persone al libraio-stampatore G. Cambiagi, in cambio di una fornitura di libri che gli servivano, pur sapendo che una recente severissima disposizione vietava ai sudditi sardi di pubblicare opere fuori dagli Stati se non avevano previamente ottenuto in patria i visti di censura. Il D., con la sola garanzia che la stampa non sarebbe avvenuta senza gli imprimatur e i visti toscani, lasciò dunque a Firenze il manoscritto, che era peraltro solo il Ragionamento Iº, Dell'educazione letteraria e civile.

Giunto a Roma, la sua vanità fu largamente appagata sia dalla benevolenza del papa, che gli accordò due lunghe udienze, sia da quella dell'alta società, che lo ricevette e lo blandì. Della gente di lettere frequentò particolarmente il padre G. B. Audiffredi, bibliotecario della Minerva, l'abate P. A. Serassi, il domenicano T. M. Mamachi, l'ex gesuita F. A. Zaccaria, e fu in contatto con l'abate G. C. Amaduzzi, con i cardinali G. F. Albani, F. J. de Bernis, G. C. Boschi, C. Rezzonico e F. S. de Zelada, con mons. S. Borgia e mons. G. S. Gerdil, servendosi delle biblioteche dei cardinali L. Antonelli, I. Conti e M. Marefoschi. Ma questo viaggio non ebbe l'esito felice che egli s'aspettava: il Chigi che lo aveva invitato si trovò assente per affari urgenti, il card. Antonelli era pure assente, il ministro degli Esteri sardo, di cui portava commendatizie, si era dimesso mentre egli era in viaggio, e un domestico gli rubò alcune centinaia di scudi, tanto che solo la generosità del futuro card. Gerdil lo trasse d'impaccio. Così, forse anche preoccupato per il manoscritto lasciato a Firenze, che aveva saputo esser stato agevolmente approvato dalle censure granducali ed ecclesiastiche, decise di ripartire. A Firenze trovò la stampa in corso: con l'appoggio del prefetto della Magliabechiana, F. Fossi, riuscì a farla sospendere per un poco, sperando di riuscire a sistemare le cose appena rientrato a Torino; ma, invece di affrettarsi, si fermò a Bologna dal card. I. Boncompagni Ludovisi, a Modena per incontrarvi il Tiraboschi e l'economista A. Paradisi, a Parma per conoscervi C. G. Della Torre di Rezzonico, l'abate De Rossi e il Bodoni, e a Milano per rivedere il Beccaria, il Frisi, i Verri e altri vecchi conoscenti. Mal gliene incolse, perché il nuovo ministro sardo a Roma, P. G. Graneri, che stava raggiungendo la sua sede, fu subito informato, passando per Firenze, dallo scolopio piemontese B. Bruni, della pubblicazione in corso. Per eccesso di zelo più che per intenzione (lo dimostrano alcune sue lettere successive di pentimento) ne diede notizia al primo segretario di Stato C. Perrone di San Martino, con dispaccio 1º dic. 1777 (ma già il card. C. V. A. Delle Lanze, ostilissimo al D., ne aveva avuto sentore): così la tempesta si scatenò senza che vi fosse nessuno a cercar di ridurne le esagerate proporzioni.

Il D. arrivò alla frontiera piemontese a dicembre avanzato, e a poche poste da Torino incrociò i corrieri che portavano al vescovo di Vercelli e al governatore di Novara i dispacci a lui relativi. La pena decretata consisteva nella distruzione dell'opera a spese dell'autore e nella relegazione dello stesso in un seminario, o a Novara o a Vercelli; fu fortunatamente quello di Vercelli, dove era vescovo mons. Costa d'Arignano, suo antico amico, che mitigò le asprezze del confino fino a far dire al D. che, senza il pensiero della sua situazione e del futuro, sarebbero stati i mesi più felici della sua vita. In quel periodo il Costa fu trasferito alla cattedra di Torino: il D. sperò nei suoi buoni uffici per ottenere il perdono e compose un'operetta per l'occasione del suo solenne ingresso nella capitale, una Storia della gerarchia ecclesiastica dei primi sei secoli, che tuttavia rimase per il momento inedita. L'inimicizia del card. Delle Lanze e una lettera sfavorevole del card. M. A. Colonna, che gli era ostile fin dai tempi di Roma, fecero cadere le sue speranze: proprio quando contava di venir richiamato, ricevette l'ordine di ritirarsi nella patria Revello, dove passò in famiglia sei mesi, apprendendo che la sua cattedra era stata assegnata ad altri. Comunque mons. Costa d'Arignano continuava a interporre i suoi buoni uffici e, se non poté nulla per gli incarichi perduti, riuscì a fargli riottenere una parte delle sue pensioni e un indennizzo.

Nel periodo di confino il D. non era rimasto ozioso: aveva lavorato a una Storia della predicazione, che partiva dai profeti e da Pitagora, ma fu bloccato dalla mancanza di libri a Revello; si diede quindi alle ricerche etimologiche sui dialetti piemontesi, senza andar troppo avanti: però l'idea resterà, e sfocerà molto più tardi nelle opere di etimologia comparata delle lingue europee. Per passare il tempo fece molte escursioni, con intenti topografici, sulle Alpi circostanti, e stilò una memoria sul passaggio di Annibale che leggerà molti anni dopo all'Accademia di Berlino.

Il rientro a Torino venne infine permesso nell'ottobre 1779, ma in sordina e senza pubblicità. In quel periodo il D. entrò in possesso delle opere di G. vari Meurs (Meursius) sulla Grecia, e subito la decisione di scrivere un'opera sulle Repubbliche greche fu presa. Il conte Melina, che era divenuto consigliere del re per gli affari letterari, ne parlò a Vittorio Amedeo che si dimostrò favorevole, al punto che all'inizio del 1781 uscì dalla stamperia reale il prospetto annunciante la pubblicazione della storia della Grecia, e fu un successo di sottoscrizioni. L'Istoria politicae letteraria della Grecia (Torino 1781-82 in quattro volumi) fu un lavoro ambizioso ma non troppo meditato e lontano per qualità dai precedenti.

Frattanto maturarono le circostanze che porteranno il D. a Berlinó: egli aveva accennato a un suo progetto di scrivere qualcosa sul genere delle Rivoluzioni d'Italia anche per la Germania al marchese Saluzzo, il quale ne parlò a J.-P. Chambrier, inviato straordinario di Prussia a Torino, che, dopo aver consultato il D., ne scrisse a' Berlino al von Herzberg e al marchese Lucchesini. Quest'ultimo, il quale era stato a Torino al tempo della disgrazia del D., ne parlò a Federico II, sottolineando il racconto delle persecuzioni da lui subite, e mettendolo in luce di vittima delle cabale fratesche "contro la filosofia" . Il re si piccò ancora una volta di dimostrarsi "filosofo" e gli fece fare proposte allettanti. Per quanto egli stesso dichiarasse che in quel momento la sua posizione in patria era delle più brillanti, il D. accettò senza esitazioni, sebbene negli ultimi mesi avesse ricevuto segni di sovrana benevolenza, essendo stato nominato il 31 dic. 1781 direttore degli studi di storia e belle lettere dell'Accademia dei nobili, e, al momento di partire, anche bibliotecario onorario di Sua Maestà sarda e professore emerito dell'università. Terminata in fretta la pubblicazione dei due ultimi volumi della Storia della Grecia, ilD. volle completare anche due Elogi per il terzo volume dei Piemontesi illustri (Torino 1783), di cui era stato incaricato dalla società Filopatria: l'Elogio storico di Mercurino di Gattinara, gran cancelliere dell'Imperadore Carlo V, e cardinale di S. Chiesa (pp. 1-112) e l'Elogio del cardinal Guala Bichieri (pp. 201-301).

Nel settembre del 1782 egli lasciava il Piemonte per Berlino, per la via del Tirolo-Baviera-Sassonia. L'infaticabile giornalista non volle perdere l'occasione di questo viaggio per dargli forma letteraria, e scelse quella epistolare, indirizzando la maggior parte delle lettere a molti illustri rappresentanti della Filopatria e della Sampaolina: fu il Viaggio germanico, oprimo quaderno delle Lettere brandeburghesi (Berlino 1785; II, ibid. 1786), opera assai diseguale, nella quale accanto ad annotazioni interessanti trovano posto tesi bizzarre (basti per tutte quella che andando verso il Nord gli uomini delle diverse popolazioni diventano sempre più belli e le donne più brutte). Fu molto criticata (perfino dall'amico Costa d'Arignano) l'ostentazione di sé contenuta in queste lettere. Il D., giunto a Potsdam, fu presentato al re, il quale, accennando alle persecuzioni di cui aveva avuto notizia, lo assicurò che nel suo regno avrebbe potuto pubblicare tutto quel che avesse voluto. La prima cosa che il D. fece stampare in Germania fu una nuova edizione delle Vicende della letteratura (Berlino 1784; poi anche Venezia 1788), con considerevoli aggiunte, tra cui la premessa, Discorso intorno ai progressi dell'arte, e i Pensieri diversi tratti da ragionamenti inediti, una delle sue cose migliori. Naturale ampliamento di quest'opera fu la Reponse à la question: Que doit-on à l'Espagne? (Berlin 1786; Madrid 1787), con cui entrò in aperta polemica con l'Encyclopédie (e riattizzò quella con Voltaire) a proposito dell'importanza, da quella negata, della letteratura spagnola, che egli aveva potuto finalmente conoscere in modo soddisfacente nei libri della Biblioteca reale di Potsdani e in quelli del signor de Las Casas incaricato di Spagna presso quella corte; sull'argomento scrisse nello stesso anno le Lettres critiques al conte di Mirabeau (Berlin 1786), che furono apprezzate anche per il loro stile e segnarono la definitiva scelta della lingua francese per le sue pubblicazioni. La querelle con gli illuministi francesi l'aveva prevista, e cercò di smorzarla con l'Apologie de Fréderic II sur la préférence que ce roi parut donner à la littérature françoise, Dessau 1787, cui seguirà il Discours sur les progrès de la littérature dans le Nord de l'Allemagne, Berlin 1788, e che era stalo preceduto dai saggi Sur les causes de la différence des langues, ibid. 1783; Sur le caractère des langues et particulièrement des modernes..., ibid. 1785; Suite des observations sur la différence des langues et leur origine, ibid. 1786.

Il 18 sett. 1786 aveva presentato in pubblica assemblea La Sibilla teutonica, un ditirambo in cui celebra la casa di Brandeburgo dai tempi d'Arminio (derogando alla sua sempre fino ad allora osservata avversione per genealogie di fantasia). Ma il lavoro più impegnativo, quello per il quale si era recato in Germania, le Révolutions d'Allemagne, stagnava; l'aveva programmato in cinque anni, tuttavia la raccolta dei dati risultò più difficoltosa del previsto, richiedendo molti viaggi. Nel 1786 si era recato ad Amburgo, e nel 1787 ottenne il permesso di soggiornare a Brunswick, dove il duca regnante, studioso di storia militare e di letteratura, avrebbe potuto aiutarlo: ma trovò che era dovuto partire per la spedizione d'Olanda, onde, avendo saputo che J. A. Leisewitz stava per pubblicare una storia della guerra dei Trent'anni, decise di soprassedere per prendere conoscenza delle sue ricerche.

La posizione del D. a Berlino appare un po' ambigua: pare che il re non lo avesse in speciale simpatia, e mai lo ammise nella sua cerchia privata, pur accordandogli diverse udienze, in verità molto distanziate negli anni. Comunque il D. ebbe il pieno trattamento di accademico, con 1.200 scudi annui, palco a teatro e carrozza, e poté anche comperarsi un piccolo podere, sebbene la famiglia non gli desse tregua con le richieste d'aiuto. La sola persona alla quale si legò veramente, con consuetudine quotidiana di amicizia e di studio, fu il Lagrange, che era suo vicino di casa. All'arrivo "il debuta en abbé sémillant, élégant, aimable et ne cherchant qu'à se repandre dans toutes les sociétés. Peu à peu il quitta l'équipage, et reprit le ton plus simple de ses confrères" (13. Thiébault, Souvenirs de vingt ans de sejour à Berlin, II, Paris 1860, pp.305 s .).

Certo la diatriba coi francesi non gli giovò: fu oggetto di feroci epigrammi, e molte malevole notizie che corsero su di lui nel secolo seguente sono di fonte francese, come quella di una sua sospetta appartenenza alla massoneria (ripresa da G. Manacorda e da U. Valente), di cui non esiste alcuna vera prova. Il D. temeva che con la morte di Federico II sarebbe cessato il suo soggiorno berlinese, ma ciò non si verificò; anzi, Federico Guglielmo gli dimostrò anche maggior considerazione, nominandolo consigliere di legazione, mentre il re di Polonia lo creava nel 1789 canonico onorario di Varsavia e gliene inviava la croce stellata, che fu oggetto di ironie. Alla morte di Federico pubblicò un Essai sur la vie et le règne de Fréderic II (Berlin 1788), e subito dopo La Prusse littéraire (ibid. 1790-91), ricco repertorio di biografia e bibliografia contemporanea, fonte principalissima per una parte della biografia dell'autore, anche se gli attirò non poche critiche l'aver dedicato ben 111 pagine alla voce Denina e solo due righe occasionali a Kant. Nel 1792 volle rivedere la patria per pochi mesi (il 10 marzo partecipò ad una adunanza dei filopatridi), e appena rientrato a Berlino descrisse il suo viaggio, in tre volumi: Considérations d'un Italien sur l'Italie: guide littéraire pour diffirents voyages; Considérations diverses sur l'Allemagne occidentale, la Suisse et l'Italie (ambedue Berlin 1794-95); e Pièces diverses servant de suite aux Considérations etc. (ibid. 1799), lettere a illustri personaggi che suscitarono un vero vespaio fra gli Italiani, per i giudizi, ora pungenti ed esatti, ora esagerati e imprecisi, che vi dava su uomini e fatti. Fra le molte, la reazione più violenta e non priva di acrimonia fu quella del Cesarotti, Lettera d'un padovano al celebre signor abate Denina (Padova 1796), in difesa della cultura padovana e del Bartoli, come pure quella del Cicognara in difesa di Ferrara.

Nel 1796 pubblicò a Berlino Della Russiade (ristampata a Pavia, 1799), poema ch'egli finse di tradurre in prosa da un originale greco, in dieci canti, dove celebra Pietro il Grande e la fondazione di San Pietroburgo (anni prima aveva consigliato al Parini di scrivere un poema sulla Russia). Consegnò al traduttore F. Strass la Storia del Piemonte (dalle origini al 1706), cui aveva lavorato in altri tempi, e la vide pubblicare in tedesco (Berlin 1800-1804, in tre volumi). Nel 1803 sollevò ancora una volta un polverone di polemiche in Piemonte, con la pubblicazione di Dell'uso della lingua francese (Berlino), in cui propose l'adozione ufficiale di quella lingua in Piemonte, ormai Dipartimento francese; questo trattatello venne ristampato a Torino nello stesso anno, nel secondo volume di Dell'impiego delle persone, che vedeva infine ufficialmente la luce fuori stagione, suscitando le violente reazioni dell'Alfieri e del Galeani Napione.

Intanto però le guerre avevano spazzato via il tranquillo mondo dell'accademico di Berlino, e bisognava rivolgersi a nuovi astri: il D., che aveva mostrato scarsa simpatia per gli avvenimenti rivoluzionari francesi, specialmente quando erano giunte a Berlino le notizie del Terrore giacobino, nel settembre 1803 aveva dedicato al primo console un'opera di linguistica, La clef des langues ou Observations sur l'origine et la formation des principales langues (Berlin 1804, 3 voll.), lavoro di scarsissimo valore scientifico, sulla comune origine delle favelle dissociate, contenente errori anche grossolani. Tuttavia, presentato a Napoleone, a Magonza, dal conte Salmatoris nello stesso 1804, fu invitato a Parigi, e nell'ottobre nominato bibliotecario del neo imperatore, non però come si crede nella Biblioteca imperiale di Stato poi nazionale, ma in quella privata di Napoleone, sulla cui qualità e consistenza il D. espresse pesanti giudizi. Da questo momento delle sue vicende si sa pochissimo, e i quasi dieci anni di soggiorno parigino sono scanditi solo dalla pubblicazione di nuove opere, che continuerà a sfornare fino alla morte, anche se la qualità era ormai lontanissima da quella delle sue migliori.

Finalmente, dopo una preparazione ultraventennale, poté pubblicare Le rivoluzioni della Germania (Firenze 1804-09, 8 voll., e Milano 1805), ma l'opera risente della frammentarietà e della discontinuità della compilazione. Seguirono il Tableau historique, statistique et moral de la Haute-Italie et des Alpes qui l'entourent (Paris 1805), ricco di ragguagli storici sul passato e sul presente, e di analisi dell'indole dei popoli soggetti all'Impero francese, e l'Essai sur les traces anciennes du caractère des Italiens modernes, des Siciliens, des Sardes et des Corses (Paris 1807), che amplia ed estende ad altre province italiane l'analisi precedente; questi saggi sono forse le più vivaci e interessanti cose dell'ultimo periodo del D., ed è tutta da esplorare l'importanza che essi poterono avere nella formazione di una certa immagine dell'Italia e degli Italiani propria del romanticismo francese (per esempio in Stendhal). Nel 1808 diede alle stampe a Parigi il Discorso istorico sopra l'origine della gerarchia e de' concordati fra la podestà ecclesiastica e la secolare, dedicato al cardinal Fesch. A Torino nel 1809 fece stampare la Istoria della Italia occidentale (in 6 voll.), in cui analizzava gli effetti della Rivoluzione francese in Savoia, Piemonte, Liguria e parte della Lombardia. Ottuagenario pubblicò il quarto volume de Le vicende della letteratura (Carmagnola 1811), intitolato Saggio istorico-critico sopra le ultime vicende della letteratura, cui volle unire diversi opuscoli e lettere scritte negli ultimi anni.

Andava lavorando intorno a una sua compilazione giovanile, la Biblioteca d'autori e traduttori italiani, quando il 21 nov. 1813 fu colto da una paralisi che lo privò della parola: morì a Parigi il seguente 5 dicembre, col rammarico di non esser riuscito a farsi accogliere quale membro de l'Institut. Fu sepolto al Père-Lachaise, e al funerale parlarono A. Barbier, bibliotecario imperiale (che pubblicò l'orazione in Magazin encyclopédique, genn. 1814), e M. Paroletti per l'Accademia delle scienze di Torino, presenti parecchi accademici di Francia e di Torino.

Scritti inediti: La parte più cospicua di essi si trova in Torino, presso la Biblioteca nazionale; dei fondi originari molto andò distrutto nell'incendio del 1904, tra cui l'O VI 22 (che era un prezioso diario inedito), mentre altri due (N IV 1 ed N IV 2) sono stati recentemente identificati fra i frammenti ancora da restaurare. Di quelli tuttora consultabili si segnalano: la redazione italiana de La storia del Piemonte (Q² I 1); la continuazione de Le rivoluzioni d'Italia dal 1792 al '96 (Q² I 5); la corrispondenza ordinata alfabeticamente: lettere di vari al D. (Q² I 7-8), e lettere di parenti, cc. 422 (Q² I 9); la redazione dell'ultima opera, rimasta incompiuta per la morte, Libreria scelta di autori e traduttori italiani (Q² I 12). Esiste inoltre un fondo, acquistato nel 1932 dal gen. Denina, in cui spiccano: Histoire de Victor Amedée II (Q² I 17); cinquantuno lettere dalla Germania al fratello Marco Silvestro, dal 1782 al 1789, parzialmente studiate dal Tallone (R III 2); la Storia dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, libri 1 e 2 (R IV 105), insieme ad un'infinità di note e appunti, nonché ai mss. delle principali opere edite, con annotazioni e correzioni autografe. Presso la Bibl. reale, oltre ad alcune lettere, vi sono ben sette ritratti, di cui tre disegni originali P. I. 4/15/16/17). All'Arch. di Stato di Torino, Sez. di Corte, Fondo Casa Reale, Storia Real Casa, vi èuna Storia di Vittorio Amedeo III (cat. 3ª, mazzo 27 inventar., n. 2). Presso la Bibl. civica di Torino, nei fondi Prior e Cossilla si trovano numerose lettere, e nel fondo Bosio molte memorie mss. sulla biografia e le opere. Si segnala infine, alla Bibl. comunale di Siena, la cartella D, VI, 24 contenente un carteggio con l'abate G. Ciaccheri.

Fonti e Bibl.: Manca una soddisfacente biografia del Denina. Per ora indispensabili per la ricostruzione delle vicende biografiche e per un giudizio critico sulla sua opera appaiono: L. Negri, Un accademico piemontese del '700: C. D., sulla scorta di docum. inediti, Torino 1933 (estratto da Mem. della R. Accad. delle scienze di Torino, cl.di scienze morali, LXVII [1931-32], pp. 1-160); C. D., in Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 699-753 e ad Indicem;V. Titone, C. D., in La letter. italiana. I minori, III, Milano 1961, pp. 2169-2192. Oltre alla bibliografla ivi contenuta è opportuno ricordare qui: l'autobiografia del D. in La Prusse littéraire, I, Berlin 1790, pp. 359-470; G. F. Scarrone, Riflessioni imparziali e memorie sopra la vita e le opere dell'abate C. D. piemontese..., Parma 1798; G. Vernazza, Vita dell'abate D., Vercelli 1814; A. Lombardi, Storia della letter. italiana, IV, Venezia 1832, pp. 82-86; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri..., IV, Venezia 1834, pp. 169-179; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, II, Torino 1841, pp. 49-55, 360; C. Balbo, Pensieri sulla storia d'Italia, Firenze 1858, p. 477; F. Ottino, Di C. M. D. e de' suoi tempi, Torino 1874; G. Claretta, Sui principali storici piemontesi, Torino 1878, pp. 471-482; A. D. Perrero, Origine e vicende della disgrazia incorsa dall'abate C. D. per la sua opera "Dell'impiego delle persone", 1777-80, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, IV (1880), pp. 722-738; A. Tallone, Lettere di C. D. al fratello Marco Silvestro, Pinerolo 1901; P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes, Paris 1910, p. 198; A. D'Ancona, Federico il Grande e gli Italiani, in Memorie e docum. di storia italiana nei sec. XVIII e XIX, Firenze 1914, pp.3 ss., 116-126; G. Manacorda, Ombre e penombre di storia massonica, in Rass. nazionale, XL (1918), p. 118; U. Valente, Spigolando fra le carte dell'abate C. D., in Fanfulla della domenica, 15 dic. 1918, p. 1; C. Pellegrini, E. Quinet e l'Italia, Pisa 1919, pp. 31 -37; U. Valente, Una pagina inedita della vita di C. D., in Rassegna naz., XLI (1919), 19, pp. 303 ss. (sulla sua presunta appartenenza alla massoneria); C. Calcaterra, Dal D. al di Breme, in Mélanges... H. Hauvette, Paris 1934, pp. 485-499 (poi in IlBarocco in Arcadia, Bologna 1950, pp. 399-414); Id., Ilnostro imminente Risorgimento, Torino 1935, ad Indicem;Id., I filopatridi, ibid. 1941, ad Indicem;Id., Le adunanze della patria società letteraria, ibid. 1943, ad Indicem;B. Croce, La letteratura ital. del Settecento. Note critiche, in Scritti di storia letteraria e politica, XXXVII, Bari 1949, pp. 241, 248 ss.; Illuministi settentrionali, a cura di S. Romagnoli, Milano 1962, pp. 1207-1241; Storia della letteratura ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, VI, Il Settecento, Milano 1968, p. 285; G. Ricuperati, Giornali e società nell'Italia dell'"ancien règime"..., in Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo-N. Tranfaglia, I, Roma-Bari 1976, ad Ind.;F. Venturi, Settecento riformatore, II, Torino 1976, pp. 78-85; IV, ibid. 1984, ad Indicem;Cl. Morazzini, Un intervento innovatore nella storia della lingua: C. D...., in Lettere italiane, XXXIV (1982), pp. 245-59; E. Sestan, In margine alle "Rivoluzioni d'Italia" di C. D., in L'età dei lumi, Studi storici sul Settecento europeo in onore di F. Venturi, II, Napoli 1985, pp. 1043-1091.

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