GOLDONI, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GOLDONI, Carlo

Lucia Strappini

Nacque a Venezia il 25 febbr. 1707 da Giulio, veneziano anche lui ma di origine modenese, e da Margherita Salvioni.

Si devono allo stesso G. molti dettagli sui suoi primi anni di vita, secondo il racconto dei Mémoires, che, tuttavia, come ha rilevato la critica più recente, va considerato solo parzialmente attendibile, non solo per quanto condivide di finzionale con qualunque autobiografia, ma anche perché risponde in modo chiaro a un preciso disegno di ideologia intellettuale e culturale.

Mémoires de Goldoni pour servir à l'histoire de sa vie et de son théâtre: così, infatti, il G. intitolò la ricostruzione autobiografica che scrisse durante gli anni del lungo soggiorno francese e pubblicò a Parigi nel 1787. Ormai vecchio e lontano dall'Italia da molti anni, riprendeva e rielaborava i frammenti narrativi sulla propria vita sparsi tra le Prefazioni ai diciassette tomi dell'edizione Pasquali delle sue Opere (Venezia 1761-78) e gli spunti autobiografici disseminati in varie commedie o, a volte, nelle singole prefazioni a esse (che hanno il titolo L'autore a chi legge). Dal confronto delle varianti e dal riscontro di queste con gli accertamenti documentari, quando è stato possibile, è risultata confermata la volontà goldoniana di subordinare ogni ricordo e ogni omissione intenzionale al disegno del quadro autobiografico che, esattamente come recita il titolo, è funzionale alla illustrazione e alla valorizzazione del suo intervento riformatore sul teatro ("Ho intrapreso a scrivere la mia vita, niente per altro, che per fare la storia del mio teatro", Prefazione al tomo XII, ed. Pasquali).

Appartiene alla dimensione deformata dei ricordi l'evocazione della suggestione esercitata sul piccolo G. dagli allestimenti teatrali curati dal nonno paterno Carlo, morto quattro anni prima della sua nascita anziché nel 1712, come annotato appunto nei Mémoires ("Io sono nato in mezzo a tale confusione, in mezzo a tale abbondanza: come potevo disprezzare gli spettacoli? Come potevo non amare la festosità?", p. 28: tutte le citazioni dei Mémoires sono tratte da C. Goldoni, Memorie, a cura di P. Bosisio, Milano 1993). A una analoga prospettiva risponde l'atmosfera pacata e bonaria che si prolunga dalla sua nascita ("ero mite, tranquillo e obbediente", p. 29), per delineare il ritratto del bonhomme fin da piccolo, secondo una precisa intenzione programmatica; ogni parte dell'autobiografia è insomma meticolosamente selezionata e disposta per avvalorare quel mito della vocazione naturale al teatro e all'arte comica che il G. affermava prepotentemente già all'inizio della sua opera riformatrice, quando scriveva, nella Prefazione all'edizione Bettinelli delle Commedie (Venezia 1750) che "io certamente mi sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli studi teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza".

Nel 1712 nacque Giovanni Paolo (Giampaolo), l'unico dei fratelli che sopravvisse; a causa di serie difficoltà economiche, il padre dovette allontanarsi da Venezia, per andare a Roma, dove studiò medicina senza forse ottenere la qualifica di medico (come scrisse il G.) ma soltanto quella di farmacista (così risulta da un documento del 1716); si trasferì quindi con tutta la famiglia a Perugia dove esercitò la nuova professione. Il G., che aveva ricevuto i primi insegnamenti da un precettore, proseguì gli studi in collegio, prima a Perugia con i gesuiti (1719), poi a Rimini con i domenicani, poi ancora sotto la guida del domenicano Candini. Si collocano in questo periodo la stesura della prima commedia, il famoso episodio della fuga (aprile 1721) da Rimini a Chioggia (dove i genitori si erano nel frattempo trasferiti) al seguito di una compagnia di comici dai quali era stato affascinato e anche i primi segnali di quella malattia ("certi vapori ipocondriaci e malinconici che offuscavano il mio spirito", Memorie, p. 53) che lo accompagnò tutta la vita, con bruschi e incontrollabili passaggi dall'allegria alla malinconia.

Nel 1721 tornò a Venezia, con la madre, entrando, come praticante, nello studio legale dello zio Giampaolo Indric, dove rimase fino al 5 genn. 1723, quando fu ammesso al collegio Ghislieri di Pavia con una borsa di studio concessa dal marchese Pietro Goldoni Vidoni, protettore della famiglia; ma prima della fine del terzo anno venne espulso a causa di una composizione satirica "destinata a colpire la sensibilità di molte famiglie onorate e rispettabili" (ibid., p. 83). Accompagnò quindi a Udine e poi a Vipacco il padre che aveva in cura il conte Francesco Antonio Lantieri. Qui, tra l'altro, mise in scena in un teatro di marionette allestito nel castello una "bambocciata" di P.I. Martello, Lo starnuto di Ercole. Continuò a seguire il padre in varie località del Friuli, della Slovenia e del Tirolo, finché, tornati a Chioggia, fu assunto (gennaio 1728) nella cancelleria criminale della città come vicecoadiutore. Si trasferì quindi a Feltre (aprile 1729) con la funzione di vicecancelliere criminale e qui affiancò al lavoro una rinnovata attenzione al teatro, approfittando della presenza in città della compagnia di Carlo Veronese (la figlia Camilla sarà con lui trenta anni dopo a Parigi alla Comédie Italienne): curò, infatti, la rappresentazione di due opere di Metastasio (Didone e Siroe), nelle quali si riservò ruoli secondari (ma "per il tragico non valevo proprio nulla", Memorie, p. 126) e allestì due sue "operine" (Il buon vecchio e La cantatrice, la prima perduta, la seconda pubblicata più tardi con il titolo La pelarina), recitando anche in queste, ma con risultati più soddisfacenti, essendo le parti comiche.

Nel 1731 il padre morì e il G. riprese e completò gli studi, si laureò in diritto all'Università di Padova e divenne, l'anno successivo, "avvocato veneziano" (20 maggio 1732). Cominciò, quindi, a esercitare la nuova professione presso lo studio di Carlo Terzi, senza rinunciare alle divagazioni letterarie, come il lunario composto per l'anno 1732 intitolato L'esperienza del passato fatta astrologa del futuro, "che venne stampato, apprezzato e applaudito" (Memorie, p. 146) o teatrali come la tragedia lirica Amalasunta, ideata con il preciso scopo di guadagnare "d'un colpo cento zecchini" (ibid., p. 148), che tentò invano di far rappresentare a Milano, dove nel frattempo aveva dovuto rifugiarsi, in seguito a una mancata promessa di matrimonio. Il residente della Repubblica di Venezia a Milano, O. Bartolini, gli assegnò la qualifica di gentiluomo di camera, per nulla redditizia ma piacevole e leggera; tanto che poté dedicarsi alla messa in scena al teatro Ducale di Milano (1733) di un'altra "operina", I sdegni amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol veneziano o sia Gli sdegni amorosi (più tardi pubblicato con il titolo Il gondoliere veneziano), un intermezzo anche questa, composta per il ciarlatano Buonafede Vitali che aveva fatto compagnia con quattro maschere della commedia dell'arte; quindi, su commissione del primo amoroso della compagnia, Gaetano Casali, iniziò la stesura di una tragicommedia, Belisario, che terminò a Verona, dove si era rifugiato, per ripararsi dagli eventi bellici che stavano scuotendo la zona. Vi conobbe il capocomico genovese Giuseppe Imer che era impegnato con il teatro S. Samuele di Venezia, di proprietà del senatore Michele Grimani che possedeva anche il teatro S. Giovanni Grisostomo, adibito esclusivamente alle rappresentazioni dell'opera in musica.

Tornò così, come poeta della compagnia Imer, a Venezia (1734), dove venne rappresentato con gran successo il suo Belisario al quale, alla sesta replica, Imer volle affiancare La pupilla, un altro intermezzo, ossia la solita composizione comica breve, accompagnata dalla musica, imperniata su due o tre personaggi al massimo e destinata a essere rappresentata tra un atto e l'altro di tragedie o melodrammi: un genere nel quale l'estro del G. eccelse, permettendogli, insieme, di rodare e calibrare l'uso della lingua e dei dialetti, gli accorgimenti e gli espedienti della drammaturgia tradizionale (travestimenti, agnizioni, equivoci, ecc.), la mescolanza di comico e patetico, secondo linee di ricerca e di sperimentazione che andò percorrendo con impegno per molti anni. L'anno successivo si rappresentò, nel carnevale, ancora una tragedia, Rosmonda, insieme con l'intermezzo La birba, una "bagatella, molto allegra e comica" (Memorie, p. 211); in maggio, andò in scena una Griselda, con musica di A. Vivaldi e un libretto adattato dal G. sul testo originale di A. Zeno. "Eccomi, dunque, iniziato al melodramma, alla commedia e agli intermezzi, i quali ultimi furono i precursori dell'opera buffa italiana" (ibid., p. 213): così il G. sintetizzò questa prima fase di apprendistato che lo impegnò nella composizione di altri intermezzi (L'ippocondriaco, Il filosofo, 1735; Monsieur Petiton, La bottega da caffè, L'amante cabala, 1736), di tragedie (Enrico, re di Sicilia, Giustino, 1737), di tragicommedie (Rinaldo di Montalbano, 1736), di drammi eroicomici, comici e seri per musica (Aristide, 1735, con musica di A. Vivaldi; La generosità politica, 1736; Lugrezia romana in Costantinopoli, 1737), di un divertimento musicale (La fondazion di Venezia, 1736), di una ennesima versione del celeberrimo tema di don Giovanni al quale il G. diede forma di commedia con il titolo Don Giovanni o sia Il dissoluto (1735), normalizzandolo, per così dire, ossia sopprimendo i tratti più esasperati, sia nella trama sia nella sceneggiatura, sicché viene a perdersi quel senso di trasgressione e di oltranza dal quale deriva in buona misura il fascino del tema, tanto distante dallo spirito e dall'indole del Goldoni.

A Genova, dove aveva seguito la compagnia, conobbe Nicoletta Connio, figlia di un notaio del Banco di S. Giorgio, che il 22 ag. 1736 sposò, portandola subito dopo con sé a Venezia, dove continuò a scrivere drammi e intermezzi per il S. Samuele e libretti seri adattati per il S. Giovanni Grisostomo; di quest'ultimo divenne direttore e mantenne l'incarico per i cinque anni successivi.

Quando fu nominato, infatti, console della Repubblica di Genova a Venezia (12 dic. 1740), volle interrompere il rapporto professionale con il teatro, sia perché impegnato a redigere i dispacci settimanali che il suo incarico comportava (ne stese, in totale, 108), sia per rispetto del suo nuovo ruolo sociale ("non parendomi conveniente che un ministro di una repubblica fosse stipendiato da' comici", Prefazione al tomo XVI, ed. Pasquali). Ma l'alto tenore di vita e alcune sconsideratezze economiche, uniti alla natura pressoché onorifica dell'incarico, lo fecero ritrovare ben presto carico di debiti e in un'ambigua situazione finanziaria, sicché nel marzo 1743 abbandonò provvisoriamente l'incarico, rinunciandovi poi del tutto all'inizio del 1744. Si allontanò quindi, insieme con la moglie, anche da Venezia e vagò tra diverse città, da Bologna a Modena a Rimini, Firenze, Siena, finché alla fine del 1744 si fermò a Pisa dove rimase fino alla primavera del 1748, riprendendo la professione di avvocato. Qui ottenne l'aggregazione all'Arcadia con l'attribuzione del nome Polisseno Fegejo, che poi volle spesso esibire, come sul frontespizio dell'edizione Bettinelli delle Commedie già ricordata e in tutti i drammi giocosi per musica.

Ma, pure se allentato, il legame con il teatro rimase in questo periodo sempre vivo, soprattutto per la suggestione che su di lui continuavano a esercitare gli attori. Nel 1738 l'arrivo in città di due attori straordinari come il Pantalone Francesco Golinetti e il Truffaldino Antonio Sacchi stimolarono il suo genio, spingendolo a scrivere un canovaccio dal titolo Momolo cortesan (poi L'uomo di mondo), nel quale la parte del protagonista, pensata appositamente per la maschera di Golinetti, era per la prima volta scritta per intero ("di scritto non c'era che la parte del protagonista. Il resto era all'improvviso", Memorie, p. 236).

Una analoga mescolanza di parte scritta e parti all'improvviso caratterizza le due commedie successive, sempre ideate per Golinetti, Il prodigo (rappresentata nel 1739 e nel 1740 con il titolo Momolo sulla Brenta) e La bancarotta o sia Il mercante fallito (1740), che vengono a costituire un ideale trittico da porre all'inizio del percorso di trasformazione della maschera di Pantalone nel mercante veneziano serio, onesto e onorato di tante commedie successive, parallelamente alla metamorfosi dell'attore che dalla professionalità dell'"improvviso" passerà alla interpretazione del "carattere". A questi testi vanno affiancati i canovacci Le trentadue disgrazie d'Arlecchino, La notte critica o sia I cento e quattro accidenti in una notte (1737-38), Il mondo della luna (1743, perduto) per Antonio Sacchi, nonché i libretti per melodrammi Germondo (1739), Gustavo primo re di Svezia e Oronte, re de' Sciti (1740; questi ultimi due musicati da B. Galuppi), Statira, Tigrane (1741), l'opera buffa La contessina (1743), le cantate La ninfa saggia, Gli amanti felici, Le quattro stagioni (1740; aveva composto l'anno prima anche un oratorio latino, Magdalenae conversio) e gli intermezzi Amor fa l'uomo cieco (1742), Il quartiere fortunato (1743).

Già in questa fase di apprendistato, dunque, come poi nella maturità e, infine, nel periodo francese, la produzione goldoniana è improntata a un massimo di variabilità sulla linea della sperimentazione, ma soprattutto dell'aderenza totale alle ragioni del teatro, del quale ha saputo sempre riconoscere e rispettare tutte le componenti materiali e intellettuali, individuali e sociali, artistiche ed economiche; che sono precisamente gli elementi che diventeranno ingredienti di spettacolo nel suo Teatro comico dieci anni più tardi. Ma nella visione progressiva del G. ideologo è con la commedia La donna di garbo (1743), la prima scritta per intero (per l'attrice Anna Baccherini), che ha inizio il percorso ascendente e progressivo della riforma ("da essa ho cominciato il nuovo genere di commedie intrapreso", Prefazione al tomo XVII, ed. Pasquali), anche se le date mostrano con chiarezza che non di movimento lineare e concorde si è trattato, ma piuttosto di andamento discontinuo e frammentato, legato tuttavia dal filo solido e persistente del riferimento al vivo teatro degli attori.

Come aveva fatto per il Pantalone Golinetti, infatti, così rispose alle sollecitazioni del Truffaldino Sacchi che gli chiedeva nuovi scenari; riprese dunque un vecchio canovaccio di Luigi Riccoboni, Arlequin valet de deux maîtres, e lo rielaborò su misura per Sacchi, dandogli per titolo Il servitore di due padroni (1745): "questa commedia l'ho disegnata espressamente per lui" (L'autore a chi legge); solo alcune parti erano scritte ("tre o quattro scene per atto, le più interessanti per le parti serie", ibid.) e vennero integrate più tardi con la stesura di "tutti i lazzi più necessari" (ibid.). Dunque nel testo che noi leggiamo oggi è fissata una deliberata selezione delle tante performances che furono realizzate a partire da quello spunto. Si tratta di un esempio significativo del metodo di lavoro del G., sempre massimamente reattivo all'ambiente del teatro, ed è anche una delle ragioni di interesse per questo testo, essendo l'altra dovuta alla predilezione che per esso hanno manifestato registi e attori d'avanguardia nel Novecento, riscontrandovi la più raffinata e astratta messa in gioco delle componenti drammaturgiche, sulla linea della commedia dell'arte, ma con una rinnovata e geniale capacità di produrre spettacolo puro. Ancora per Sacchi scrisse lo scenario Il figlio d'Arlecchino perduto e ritrovato (1746), mentre per un altro celebre Pantalone, Cesare Arbes, ideò Il paroncin veneziano o sia Tonin Bellagrazia (1745, che divenne, a stampa, Il frappatore), I due gemelli veneziani (1747) e L'uomo prudente (1748).

Fu proprio Arbes il tramite dell'incontro, a Livorno, tra il G. e l'impresario Gerolamo Medebach (1747) che in città rappresentava con la sua compagnia La Griselda e La donna di garbo (fu in questa occasione che il G. vide per la prima volta la sua commedia in teatro, nella interpretazione di Teodora Medebach); dunque il G. accettò la proposta del Medebach di assumerlo come poeta della compagnia e lasciò poco dopo definitivamente Pisa (aprile 1748) e la professione legale per un contratto, stipulato il 10 marzo 1749, che lo legava per i successivi quattro anni, impegnandolo a produrre ogni anno otto commedie e due opere musicali, a seguire la compagnia in tournée e ad accomodare i testi del suo repertorio. Tornava così, dopo cinque anni di assenza, a Venezia, dove, salvo qualche breve viaggio, rimase fino alla partenza per Parigi nel 1762.

Termina a questo punto la prima parte dei Mémoires (la seconda parte copre gli anni 1748-62; l'ultima coincide con il soggiorno francese): il noviziato era concluso e con esso il peregrinare di città in città; il ritorno a Venezia segna l'inizio della fase eroica della riforma ("Era là che avevo posto le fondamenta di un teatro italiano ed era là che dovevo lavorare per la costruzione di quel nuovo edificio. Non avevo rivali da vincere, ma avevo pregiudizi da superare", Memorie, p. 297). È superfluo sottolineare ancora una volta la natura tutt'altro che monolitica del processo, come testimonia efficacemente la composizione parallela di opere buffe, commedie e drammi musicati, tra gli altri, da B. Galuppi, G. Paisiello, Ch.W. Gluck, J. Haydn: La scuola moderna o sia La maestra di buon gusto, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1748); L'Arcadia in Brenta, Arcifanfano re dei matti, Il mondo della luna, Il finto principe, Il negligente (1749); Il paese della cuccagna, Il mondo alla roversa o sia Le donne che comandano, La mascherata, Le donne vendicate (1750); di intermezzi (La favola de' tre gobbi, 1748) e di canovacci (I fratelli riconosciuti, Pantalone imprudente, I flati ipocondriaci, Le amorose fattucchiere di Brighella, 1749).

Tuttavia è certo che al G. soprattutto interessava continuare a lavorare alla trasformazione di elementi della tradizione teatrale italiana, così come lui stesso la conosceva e la praticava; poiché riconosceva con assoluta chiarezza la funzione strutturante delle tre componenti essenziali del teatro, oltre l'autore, ossia l'impresario, gli attori, il pubblico, fu precisamente su tutti e tre che intervenne, senza mai dimenticarne o sottovalutarne il valore. Tutto ciò risulta, del resto, molto chiaramente dalle considerazioni, critiche e autocritiche, sulle sue composizioni che sono doviziosamente diffuse nei Mémoires.

Con questo spirito, dunque, il G. affrontava l'avventura nel teatro S. Angelo affittato dal Medebach dopo che i coniugi Gozzi l'avevano lasciato, a causa della lunga stagione di fallimenti: la sua inventiva era stimolata dalle caratteristiche del palcoscenico e della sala, come da quelle degli attori della compagnia, prima fra tutte Teodora Medebach che aveva già ammirato nella Donna di garbo. Per lei aveva scritto La vedova scaltra (presumibilmente già andata in scena a Modena nell'estate) che aprì la stagione del S. Angelo il 26 dic. 1748, seguita da La putta onorata e dalla riproposta di L'uomo prudente, I due gemelli veneziani, Tonin Bellagrazia.

Proprio la vedova Rosaura sorregge una commedia scritta per intero, la seconda dopo La donna di garbo, che si segnala pure per l'abolizione delle maschere (che vi compaiono, ma in una prospettiva direttamente funzionale all'intreccio), insieme con La putta onorata, in direzione di un progressivo allontanamento dei personaggi dalle figure stereotipate, dell'invenzione di un linguaggio popolare felicemente mimetico, com'è quello dei gondolieri che compaiono nella Putta onorata, di una operazione complessiva di asciugamento delle ragioni ereditate dalla tradizione comica e di una loro conversione "onesta e istruttiva", i termini da lui stesso assegnati alla storia di Bettina, che era "una popolana, ma, per i suoi costumi e la sua moralità, era fatta per interessare tutte le classi e tutti i cuori onesti e sensibili" (Memorie, p. 311). È facilmente avvertibile qui quella tonalità patetica e sentimentale che attraversa tante composizioni goldoniane, producendo esiti drammaturgici diversi, in linea del resto con un robusto filone della sensibilità settecentesca. Ma c'è un altro punto da segnalare ed è la sottolineatura goldoniana del carattere morale dei suoi personaggi e delle sue trame: proprio sulla Vedova scaltra, infatti, si addensarono quelle accuse di immoralità che furono spesso rivolte alle sue commedie, accompagnando, in qualche modo, tutta la sua carriera. Il poeta scritturato al teatro S. Samuele, Pietro Chiari, ne scrisse e ne fece rappresentare nel 1749 una parodia intitolata La scuola delle vedove (ce n'è pervenuto solo l'Argomento), che rispondeva, come tutti i successivi testi parodici e polemici del Chiari, alla volontà di distogliere dal S. Angelo il pubblico per attirarlo con ogni mezzo nel proprio teatro. Il G. contrattaccò subito con un Prologo apologetico della "Vedova", un dialogo tra Prudenzio sostenitore della riforma del teatro (nel quale è ben riconoscibile il Medebach) e Polisseno, trasparente schermo dello stesso drammaturgo. È di particolare rilievo la scelta operata, anche in questo caso, dal G. di appellarsi direttamente al pubblico. Il dialogo fu infatti stampato e diffuso per tutta la città e il teatro S. Angelo continuò a essere frequentato dai suoi estimatori. Benché poi il governo intervenisse introducendo per decreto "la censura per le opere destinate al teatro" (ibid.), lo scontro con il Chiari e con i suoi paladini continuò negli anni successivi, diretta e naturale ripercussione della accanita concorrenza tra i numerosi teatri attivi allora a Venezia, mescolato alle critiche anche aspre sulle quali convergevano posizioni intellettuali e letterarie diverse (come quella di Baretti e poi di Carlo Gozzi, per esempio) che erano accomunate tuttavia dal rifiuto - più o meno esplicito e aggressivo - delle innovazioni goldoniane sul terreno della morale e dell'estetica.

Per il primo aspetto, si contestava al G. di avere messo alla berlina personaggi del ceto aristocratico, opponendo a essi, in positivo, figure borghesi o addirittura popolari; più in generale gli si imputava un'ambientazione "troppo realistica e pungente" (Memorie, p. 307), con un atteggiamento ideologicamente sconveniente perché troppo poco rispettoso delle tradizioni e dell'ordine sociale. Scriverà qualche anno dopo il suo più temibile e tenace avversario, Carlo Gozzi: "Io non iscopro nelle sue Putte onorate che delle lascive fanciulle, bugiarde, di poco onore, ne' suoi Cavalieri di spirito che dei seduttori; ne' suoi Impresari delle Smirne che una scuola di immodestia e di lussuria; nelle sue Spose persiane che un cattivo specchio di poligamia pernizioso, che un'oppression della virtù" (Ragionamento ingenuo, in C. Gozzi, Opere, a cura di G. Petronio, Milano 1962, pp. 1075 s.). Sull'altro fronte, quello estetico, le accuse avevano uno sfondo del tutto simile: anche in questo caso era censurata la sua attitudine innovativa, per nulla libresca e conforme alle regole fissate dai classici. Dal mancato rispetto di esse discendeva, a parere dei suoi critici, il difetto di verosimiglianza che essi riscontravano nei comportamenti di tanti suoi personaggi.

La risposta del G. fu affidata alla già citata Prefazione alla prima raccolta delle Commedie e al contemporaneo Teatro comico che letteralmente mette in scena i capisaldi della sua riforma. Nella Prefazione illustrava con chiarezza i termini della sua poetica, introducendo i due concetti, "mondo" e "teatro", come fonti privilegiate della sua inventiva, sostitutive di ogni conformismo, sul terreno ideologico come su quello drammaturgico. "Ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de' più venerabili e celebri Autori, da' quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su' quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d'essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie […]. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggior rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati de' spettatori".

Non per caso F. De Sanctis evocò il nome di Galilei per sintetizzare l'indole dell'operazione intellettuale goldoniana ("E riuscì il Galileo della nuova letteratura", p. 355), evidentemente colpito dalla ripresa della metafora libresca mediante la quale appunto Galilei aveva voluto esporre le sue nuove idee; ed era precisamente nella capacità, straordinaria per la tradizione italiana, di sostanziare la scrittura drammaturgica con la diretta e profonda conoscenza della macchina teatrale, che, secondo De Sanctis, si manifestava il carattere più forte della sua innovazione; anche se, su questa via, esagerava la "naturalità" dell'ingegno del G. a scapito della sua cultura: "La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo" (ibid., p. 354). "Incultura" unita a "istinto" vanno così a confermare, nella critica, quel mito della vocazione congenita e inarrestabile che era stato posto dallo stesso G. a fondamento della sua riforma, fin dall'inizio. "Io certamente mi sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli studi teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza" (Prefazione, in C. Goldoni, Opere, a cura di G. Folena, Milano 1969, p. 1306); una linea, l'abbiamo visto, più volte ribadita nei Mémoires, direttamente funzionale al recupero degli elementi più vitali della tradizione scenica, legati alla recitazione, alla strutturazione drammaturgica dei testi, alle modalità di traduzione del "mondo" nel "teatro" ("Il teatro è un modo specifico di comporre gli elementi offerti dal Mondo", Baratto, 1964, p. 163). Si tratta dunque dell'opera di valorizzazione di quegli elementi, opportunamente selezionati e depurati delle scorie che la cattiva pratica delle compagnie aveva su di essi depositato negli ultimi decenni, corrompendo il gusto del pubblico e deprimendo l'arte degli attori. Con la piena legittimazione professionale e morale degli attori e, per la prima volta, dell'autore, il G. fissava le basi dell'idea moderna di teatro. Che fosse ben consapevole, di là da qualche vezzo, della portata delle sue novità, è facilmente riscontrabile alla lettura di molti passi, come il seguente, riferito proprio ai primi anni del suo lavoro al S. Angelo: "Per tutto il tempo in cui lavorai sul vecchio repertorio della commedia dell'arte e produssi commedie in parte scritte e in parte all'improvviso, mi si lasciò godere in pace degli applausi della platea; ma, non appena mi presentai come autore, come inventore, come poeta, i begli ingegni si risvegliarono dal letargo e mi ritennero degno della loro attenzione e delle loro critiche" (Memorie, p. 314). Questa è precisamente la materia del Teatro comico, un vero e proprio manifesto delle idee riformatrici: "Questa, ch'io intitolo Il teatro comico, piuttosto che una Commedia, prefazione può dirsi alle mie Commedie. In questa qualunque siasi composizione, ho inteso di palesemente notare una gran parte di que' difetti che ho procurato sfuggire, e tutti que' fondamenti su' quali il metodo mio ho stabilito, nel comporre le mie Commedie, né altra evvi diversità fra un proemio e questo componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i leggitori più facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione" (L'autore a chi legge). Com'è nel suo stile, il G. minimizza il valore della sua commedia che è in effetti più ricca e interessante di una semplice "poetica posta in azione" (Memorie, p. 331), se non altro perché la raddoppia, l'azione, presentando una nuova variante di teatro nel teatro, che arricchisce semanticamente il testo, offrendolo a una pluralità di letture.

Al Teatro comico il G. assegnò il compito di aprire la stagione 1750, quella per la quale aveva promesso al pubblico di presentare sedici commedie nuove: la sua risposta agli attacchi, alle polemiche, all'annunciato abbandono della compagnia da parte di d'Arbes e, per ultimo, all'insuccesso della commedia L'erede fortunata, dopo la buona accoglienza delle precedenti La buona moglie (che riprendeva personaggi e situazioni della Putta onorata), Il cavaliere e la dama, L'avvocato veneziano, Il padre di famiglia, La famiglia dell'antiquario, che, sia pure in modi diversi, avevano continuato a segnare la distanza dai consueti canoni comici per tutta la stagione precedente. Alla rappresentazione inaugurale seguirono gli altri quindici titoli: Il giuocatore, Il bugiardo, L'adulatore, La bottega del caffè, Il poeta fanatico, Le femmine puntigliose, I pettegolezzi delle donne, Il vero amico, La Pamela, Il cavaliere di buon gusto, La finta ammalata, La dama prudente, L'incognita, L'avventuriere onorato, La donna volubile.

In alcuni di essi i caratteri sono disegnati con quella felicità di mano che produrrà le figure più note della galleria goldoniana, in altri è più accentuata, in qualche caso con risultati ragguardevoli, l'attenzione al ritratto d'ambiente, secondo la linea di altre commedie famose. Ampio spazio, poi, è dato ai personaggi femminili, sia nel comico, sia in quella dimensione sentimentale e patetica già sperimentata nella Putta onorata e nella Buona moglie, che rispondeva bene alle esigenze espresse dal pubblico in tutta Europa; con la Pamela eguagliò lo straordinario successo che aveva ottenuto, pochi anni prima, il romanzo di S. Richardson dal quale aveva tratto la storia: "fra tutte le mie opere rappresentate fino ad allora, fu quella che riportò la palma" (Memorie, p. 345).

Merito certamente anche della Medebach, pensando alla quale stese tanti testi, talora (come per La finta ammalata, cfr. Memorie, pp. 353-355) ispirandosi direttamente a qualche sua debolezza o caratteristica, come farà anche per la Corallina, Maddalena Raffi Marliani (cfr. L'autore a chi legge, in La serva amorosa: "Conoscendo io dove potea fare maggior risalto la di lei abilità, ho procurato vestirla d'una prontezza di spirito, che a lei suol essere famigliare") che entrò nel 1751 nella compagnia, inducendo il G. a orientare su di lei la sua immaginazione.

Dunque, seguendo il proprio metodo (che viveva anche delle relazioni sentimentali che frequentemente intrecciava con le attrici), cominciò ad affiancare ai ruoli della prima donna parti sempre più estese destinate alla soubrette, fino a farne la protagonista, come nella Serva amorosa e poi nella Locandiera (1752). Era l'esito, anche stavolta, del percorso di trasformazione di un ruolo tradizionale: la servetta da La donna di garbo alla Vedova scaltra, a La castalda, fino alle due citate sopra, era sottoposta a un'opera di affinamento sul terreno psicologico e drammaturgico, per essere proiettata su una serie di figure femminili, che vivevano del tutto autonomamente rispetto al tipo della tradizione.

La Mirandolina della Locandiera rappresenta, a giudizio della generalità della critica, uno dei punti più alti raggiunti dall'arte goldoniana. Temi cardine attorno ai quali ruota il meccanismo perfetto dell'azione sono la seduzione e la finzione, messe fin dall'inizio in rapporto preciso con un altro dei temi forti della invenzione goldoniana, ossia il denaro (o la sua assenza) che padroneggia le prime tre scene dell'atto primo e rimane costantemente presente in tutto lo svolgimento, insieme con gli altri. Tutti i personaggi sono dominati dalla passione, da una qualche passione; l'unica che, almeno fino a un certo punto, sa governare saldamente il quadro, perché sa fingere e sa usare la sua finzione, è la protagonista, nella quale è perciò possibile riconoscere anche una funzione, per così dire, metateatrale: "Se la locanda somiglia a un teatro e Mirandolina a un'attrice, non sarà arbitrario leggere la commedia anche come un'ulteriore esemplificazione che l'autore fa della sua idea di teatro e della sua poetica" (Angelini, La locandiera di C. G., p. 1110).

Già dal debutto La locandiera ebbe un successo così brillante "che fu posta sul medesimo piano, o anche al di sopra, di tutto ciò che avevo fatto nel genere in cui l'artificio supplisce all'interesse" (Memorie, p. 385); un successo che si è costantemente ripetuto nel corso degli anni e nei diversi paesi in cui è stata rappresentata. Nei due anni che passarono tra le sedici commedie nuove e La locandiera il G. iniziò quel girovagare al seguito della compagnia che lo portò in quasi tutte le città dell'Italia settentrionale e centrale, permettendogli di realizzare conoscenze e stringere amicizie, alcune delle quali mantenne per tutta la vita. Tra le personalità più significative il marchese F. Albergati Capacelli, attore dilettante e commediografo anch'egli, con il quale sviluppò una profonda e duratura amicizia testimoniata dal carteggio che presenta più di un motivo di interesse.

Il G. aveva continuato a scrivere per il Medebach e il teatro S. Angelo commedie come Il Molière, La castalda e L'amante militare (1751); Il tutore, La moglie saggia, Il feudatario, Le donne gelose, I puntigli domestici, La figlia obbediente e I due Pantaloni o sia I mercatanti (1752). Ma le condizioni imposte dall'impresario si facevano sentire sempre più pesantemente; i loro rapporti si erano inoltre guastati per le pretese avanzate dal Medebach sui proventi della pubblicazione delle Commedie goldoniane intrapresa presso l'editore veneziano Bettinelli. Insomma alla fine del 1752 il G. gli comunicò l'intenzione di non rinnovare il contratto alla scadenza dell'anno successivo; nel frattempo prese accordi per passare al teatro S. Luca di proprietà del nobile Antonio Vendramin con un impegno decennale (che si sarebbe protratto fino al carnevale 1763), molto più vantaggioso e rispettoso dei suoi meriti.

Alla rottura con il Medebach seguì la chiusura del rapporto anche con l'editore Bettinelli (il G. curò dunque per lui soltanto i primi tre tomi) e il passaggio all'editore Paperini di Firenze che fece uscire in dieci volumi le cinquanta commedie fin lì scritte (1753-57). Con la rappresentazione di Le donne curiose e di Il contrattempoo sia Il chiacchierone imprudente nel carnevale 1753 si concluse la collaborazione con il Medebach e con il S. Angelo (ma ancora nell'autunno dello stesso anno andò in scena l'ultima commedia scritta dal G. per Medebach, La donna vendicativa).

"Passai dal teatro Sant'Angelo al San Luca: là non v'era alcun impresario; i comici si dividevano i proventi e il proprietario del teatro che disponeva dei guadagni dei palchi, accordava loro provvigioni in proporzione al merito o all'anzianità" (Memorie, p. 389): una situazione che, in realtà, gli creò molti problemi, sia nei rapporti con il proprietario e gli attori ("non ancora abbastanza preparati al nuovo metodo delle mie commedie", ibid., p. 393), sia nell'adattamento alle nuove dimensioni del teatro che "era molto più grande; le azioni semplici e delicate, le finezze, gli scherzi, il vero comico vi perdevano molto" (ibid.).

Nessuna meraviglia perciò per la caduta delle prime rappresentazioni al teatro S. Luca: Il geloso avaro, e La donna di testa debole o sia La vedova infatuata, un dato negativo da aggiungere alle ripercussioni della concorrenza del Chiari che gli era subentrato al teatro S. Angelo.

Ma il G. reagì ancora una volta alle difficoltà con uno scatto d'ingegno: "Secondo l'intento che mi ero proposto, cercai un argomento che potesse fornire comico, interesse e sorpresa" (Memorie, p. 394). Il frutto fu la tragicommedia La sposa persiana (1753, in versi martelliani come il precedente Molière) che, con le sue 34 repliche, risultò uno dei successi più clamorosi del secolo. Ma la ripresa del tema in Ircana in Julfa (1755) non fu affatto gradita dal pubblico; il successo tornò con Ircana in Ispahan o sia Osmano ritornato dal campo (1756), un vero e proprio trionfo.

La principale ragione della fortuna, tra i contemporanei, della trilogia persiana va ricercata senz'altro nella bravura della nuova stella della compagnia, Caterina Bresciani, con la quale il G. raggiunse la sintonia che aveva sperimentato già tante volte con le sue attrici preferite. La trama, inoltre, l'ambientazione esotica e la modulazione del tema della passione erano tutti elementi che sollecitavano il gusto diffuso in tutta Europa dalla metà del XVIII secolo.

Ispirate a una tonalità variamente esotica sono ancora altre commedie o tragicommedie come Il filosofo inglese (1754), La peruviana (1754), Il medico olandese (1756), La bella selvaggia, La dalmatina (1758), La scozzese, La bella giorgiana (1761), che si affiancarono, spesso con ottima rispondenza di pubblico, agli altri filoni sui quali il G. continuava a lavorare.

Uno dei più consistenti, in termini quantitativi e qualitativi, è certamente quello che arricchisce, sulla linea della Locandiera, la galleria dei ritratti femminili, proseguendo nella trasformazione del ruolo della servetta, con una ampiezza di sfaccettature che poggia sullo scavo dei caratteri, sulla ricerca sempre più raffinata attorno a casi e situazioni psicologiche emblematiche. Di qui i tanti titoli in qualche modo raggruppabili sotto lo stesso segno: La cameriera brillante (1753); La madre amorosa (1754); La donna stravagante (1756); La donna sola, La pupilla, La vedova spiritosa (1757); La donna bizzarra, La sposa sagace, La donna di governo, La donna forte (1758); Pamela maritata (composta per gli attori del teatro Capranica di Roma), La donna di maneggio, La buona madre (1760): titoli che compongono quella che è stata felicemente definita l'"unica comédie humaine femminile della nostra letteratura teatrale" (Angelini, Vita di G., p. 72).

Accanto a queste commedie centrate sui personaggi femminili si dispongono quelle costruite su personaggi e situazioni diverse, come Il vecchio bizzarro, L'impostore (1754, appositamente priva di personaggi femminili, per poter essere rappresentata nei collegi dei gesuiti); Il cavalier giocondo (rappresentata con il titolo I viaggiatori), Il festino, La buona famiglia, I malcontenti (1755); Il raggiratore, L'avaro, L'amante di se medesimo (1756); Il cavaliere di spirito o sia La donna di testa debole, Il padre per amore (1757); Lo spirito di contraddizione, Il ricco insidiato, L'apatista o sia L'indifferente (1758); o centrate su personaggi storici come Terenzio (1754), Torquato Tasso (1755): commedie in prosa o, in diversi casi, in versi (martelliani, endecasillabi e settenari, ecc.), secondo un'attitudine praticata dal G. durante tutta la sua carriera. Un particolare interesse presenta un gruppo di testi di questi anni nei quali risalta la concentrazione drammaturgica sul disegno di ambienti, popolari o cittadini, per lo più in dialetto, su una linea che porterà all'alto risultato delle Baruffe chiozzotte (1762). Si tratta di Le massere (la prima commedia interamente in dialetto), Le donne de casa soa (1755), Il campiello (1756), Le morbinose, Le donne di buon umore (1758), I morbinosi (1759): commedie in cui spesso è il carnevale a essere protagonista, o almeno sfondo organico, in quanto allusione a un tempo eccezionale che permette l'espressione di sentimenti, comportamenti e inclinazioni tenuti in qualche modo a freno durante il resto dell'anno. In questo senso non si tratta mai di veri e propri intrecci, ma piuttosto di quadri montati con perizia per restituire una speciale atmosfera ambientale e corale. Già in commedie precedenti era comparso il carnevale, ma non per caso è in quella precisa stagione che il G. ambienterà la sua ultima commedia italiana, il congedo dal pubblico veneziano, intitolata appunto Una delle ultime sere di carnovale (1762), nella quale sono tratteggiate in una forma trasparentemente allegorica le ragioni della partenza, le delusioni, le amarezze e le speranze che animano il protagonista Anzoletto che lascia Venezia per Moscovia.

La decisione di accettare la proposta di andare per due anni a Parigi alla Comédie Italienne nasceva in buona misura dalle difficoltà che continuava a incontrare, nonostante tutto, la sua idea di teatro, concretata in buona parte della produzione, straordinariamente intensa e ricca, del decennio precedente.

Oltre le commedie e le tragicommedie di cui si è detto, il G. aveva continuato a produrre opere buffe presentate per lo più al S. Samuele, al S. Cassiano, al S. Moisè, al S. Angelo di Venezia: Il conte di Caramella, Le pescatrici, La mascherata, Le virtuose ridicole (1751); I portentosi effetti della madre natura, La calamita de' cuori, I bagni d'Abano (1752); De gustibus non est disputandum (1753); Il filosofo di campagna, Lo speziale o La finta ammalata (1754); Il povero superbo, Le nozze, La diavolessa, La cascina, La ritornata di Londra (1755); La buona figliuola, Il festino, Il viaggiatore ridicolo (1756); L'isola disabitata, Il mercato di Malmantile, La conversazione (1757); Il signor dottore, Buovo d'Antona, Gli uccellatori (1758); Filosofia ed amore, La fiera di Sinigaglia (rappr. al teatro delle Dame di Roma), Amor contadino (1760); La donna di governo (rappr. al teatro Argentina di Roma), La buona figliuola maritata (rappr. al teatro Formagliari di Bologna), Amore in caricatura (1761), musicate anche da artisti come B. Galuppi, G. Paisiello, N. Piccinni, A. Salieri, D. Cimarosa, J. Haydn, W.A. Mozart.

Accanto a queste andarono in scena le farse per musica Il matrimonio discorde (al teatro Capranica di Roma) e La cantarina (1756), le opere giocose Il conte Chicchera (1759), L'amor artigiano (1760) e La bella verità (1762), l'intermezzo La vendemmia (1760, ma composto negli anni precedenti), la tragedia a lieto fine Artemisia, la tragicommedia Gli amori di Alessandro Magno (1759), la tragedia Enea nel Lazio (1760). Per illustrare pienamente la straordinaria capacità lavorativa del G. vanno ricordate ancora la serenata L'amor della patria composta nel 1752 ed eseguita in onore del nuovo doge, la cantata L'oracolo del Vaticano (1758), l'operetta spirituale L'unzione del reale profeta Davidde (1760, ma composta l'anno precedente a Roma); nonché le numerose composizioni poetiche, per lo più d'occasione, che furono raccolte in due tomi e pubblicate presso l'editore Pasquali (1764 e 1768) con il titolo Delli componimenti diversi. Né va dimenticata l'attività quasi ininterrotta spesa per la pubblicazione delle sue opere. Rotto infatti, come si è detto, il rapporto con Bettinelli, curò la stampa delle Opere drammatiche giocose di Polisseno Fegejo per l'editore Tevernin (Venezia, 1753), contemporaneamente all'impegno con Paperini, mentre presso Pitteri (Venezia) uscivano in 10 tomi le 40 composizioni scritte per il teatro S. Luca e per il teatrino dell'Albergati a Zola Predosa (1757-64); dal 1761, poi, si occupò della edizione delle sue opere presso Pasquali che interruppe dopo il volume XVII (1778).

Tutta questa operosità venne spesso ripagata da soddisfazioni e riconoscimenti, ma ai successi di pubblico e agli incoraggiamenti dei suoi protettori (oltre l'Albergati Capacelli, si ritrovano in questa schiera, tra gli altri, G. Gozzi, P. Verri, M. Cesarotti e, tra i più lusinghieri, Voltaire: tutti, come si vede, esponenti di spicco della intellighenzia illuministica), si alternavano fallimenti, cadute e attacchi aspri e velenosi dei suoi detrattori, primo fra tutti C. Gozzi che nel 1761 debuttò anche come drammaturgo con la fiaba teatrale L'amore delle tre melarance, messa in scena da A. Sacchi al teatro S. Angelo e accolta trionfalmente dal pubblico. Un ulteriore dispiacere per il G. che aveva attraversato una fase di stanchezza attorno alla metà degli anni Cinquanta, forse a causa della morte della madre (1754), forse anche per il riacutizzarsi dei suoi malori ("I miei attacchi erano fisici oltre che psicologici", Memorie, p. 414), ma che era tornato sul finire del decennio alla più piena e ricca creatività, producendo una serie di capolavori: Gli innamorati (1759); La casa nova, I rusteghi (1760); Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura (1761, presentate fin dall'inizio come trilogia; una precedente commedia con il titolo La villeggiatura era stata rappresentata nel 1755); alle quali si affiancarono opere di grande perizia ed esito come L'impresario delle Smirne, La guerra (1759); Un curioso accidente (1760); L'osteria della posta (scritta su richiesta dell'Albergati), Sior Todero brontolon o sia Il vecchio fastidioso (1762).

Dunque, a spingerlo verso la Francia fu in parte la lusinga per la proposta parigina; ma influì certo maggiormente lo sconforto per l'abbandono del pubblico sempre più fortemente attratto dal teatro dei suoi avversari Gozzi e Chiari. Anche questo frangente, come tutti quelli fondamentali, è consegnato all'autobiografia in dimensione falsata: "io amavo la mia patria, vi ero vezzeggiato, festeggiato, applaudito; le critiche contro di me erano cessate e io godevo di una deliziosa tranquillità" (Memorie, p. 516). Il 22 apr. 1762 il G., dopo aver ottenuto licenza dal duca di Parma (che gli aveva assegnato, nel 1756, la patente di poeta di sua altezza serenissima e una pensione annua in cambio della produzione di opere buffe per la corte) e il permesso dal proprietario del teatro S. Luca (che tentò invano di dissuaderlo), partiva per Parigi con la moglie e il nipote Antonio, che insieme con la sorella Petronilla Margherita gli era stato affidato dal fratello Giovanni Paolo già dal 1754.

Ma il primo incontro con la nuova situazione fu tutt'altro che gratificante. Gli attori della Comédie Italienne (che dall'inizio dell'anno era stata fusa con l'Opéra Comique, con l'ovvia conseguenza della emarginazione del repertorio italiano) non erano preparati alla nuova recitazione dei testi "premeditati", così come il pubblico francese che identificava teatro comico italiano e commedia dell'arte, secondo una prospettiva consolidata da diverse generazioni di celebri comici italiani ma ormai gravemente impoverita. Così la prima rappresentazione a corte di un suo canovaccio, L'enfant d'Arlequin perdu et retrouvé, si risolse in una caduta. Di fronte all'insuccesso e alla constatazione della profonda disaffezione del pubblico agli spettacoli della Comédie Italienne, il G. tentò di ripetere a Parigi il percorso tracciato a Venezia: "i miei cari compatrioti non facevano che rappresentare commedie ormai logore, commedie all'improvviso di un genere pessimo, quel genere che io avevo riformato in Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci penserò io a dare caratteri, sentimento, progressione, condotta, stile" (Memorie, p. 545). Ma L'amore paterno o sia La serva riconoscente (1763), scritta per intero ma senza abolire le maschere, fu accolta molto tiepidamente, tanto che il G., nelle repliche, vi unì lo scenario Arlequin cru mort.

Questa è la linea sulla quale si andrà collocando tutta la sua produzione francese: fornire al pubblico e ai Comédiens Italiens quello che chiedevano e che apprezzavano, rinunciando del tutto ai propositi riformatori. Ecco dunque gli scenari Arlequin valet de deux maîtres, Arlequin héritier ridicule, La famille en discorde, L'éventail, Les deux frères rivaux, Les amours d'Arlequin et de Camille, La jalousie d'Arlequin, L'inquiétude de Camille (1763); Camille aubergiste (tratto dalla Locandiera), Arlequin, dupe vengée, Le portrait d'Arlequin, Le rendez-vous nocturne, L'inimitié d'Arlequin et de Scapin, Les métamorphoses d'Arlequin, L'amitié d'Arlequin et de Scapin, Arlequin complaisant, Arlequin philosophe, Les vingt deux infortunes d'Arlequin (1764); Arlequin et Camille esclaves en Barbarie, Arlequin joueur (1765); La bague magique (1770); Les cinq âges d'Arlequin (1771); Arlequin charbonnier (1779). Da alcuni di questi canovacci il G. trasse delle commedie da rappresentarsi al teatro S. Luca, a Venezia. Si tratta della trilogia Gli amori di Zelinda e Lindoro, La gelosia di Lindoro, Le inquietudini di Zelinda, e inoltre Gli amanti timidi o sia L'imbroglio de' due ritratti, Il ventaglio, Chi la fa l'aspetti o sia I chiassetti del carneval (1764-65), La burla retrocessa nel contraccambio (1775), che si collocano nel solco del rapporto con Venezia lasciato in qualche modo sempre aperto, già all'indomani della partenza con la commedia Il matrimonio per concorso, rappresentata al S. Luca (1763).

Come si vede bene da questa cronologia, dopo l'entusiasmo iniziale il G. ripiegò su una produzione di routine, con alterne fortune, e soprattutto con un allontanamento sempre più marcato dal teatro e dalle sue ragioni, anche se alcuni tra i titoli sopra elencati sono considerati del tutto degni della sua migliore vena. Ma era la prospettiva a essere radicalmente mutata. Nel marzo 1765, in seguito alla nomina a maestro di lingua italiana della principessa Maria Adelaide, primogenita del re Luigi XV, abbandonò la Comédie Italienne per trasferirsi a Versailles dove rimase per i cinque anni successivi; tornò poi a Versailles nel 1775 con l'incarico di insegnante d'italiano delle due sorelle di Luigi XVI, che mantenne fino al 1780, quando gli subentrò il nipote che fino ad allora aveva svolto un ruolo analogo presso la reale École militaire. Nello stesso 1765 si era concluso l'accordo con Vendramin che lo aveva impegnato a fornirgli "in esclusiva" sei nuove commedie.

Tuttavia il legame diretto con i teatri d'Italia e di Venezia non si interruppe; il G. continuò a scrivere e a far rappresentare opere buffe (musicate, per lo più, dagli artisti sopra menzionati) come Il re alla caccia (1763, S. Samuele), La finta semplice (1764, S. Moisè), La notte critica (1765, S. Cassiano), La cameriera spiritosa, Le nozze in campagna (1768, entrambe al S. Moisè), I volponi (1777), Il talismano (1779, Milano, teatro alla Canobbiana); lo scherzo comico La metempsicosi (1776), l'intermezzo allegorico Il disinganno in corte (1777), la fiaba Il genio buono e il genio cattivo, messa in scena dal Medebach al S. Giovanni Grisostomo nel 1767 (probabilmente composta tre anni prima).

Indubbiamente il periodo francese, che copre più di un terzo della vita del G., rappresentò davvero un cambiamento radicale, con il grande spazio che acquistò la vita mondana, di corte e di società, con la frequentazione di giornalisti, scrittori e intellettuali francesi e poi gli incontri con personalità come Voltaire (che vedrà solo nel 1778, dopo molti anni di reciproci omaggi), come J.-J. Rousseau (lo andò a visitare nell'inverno 1770-71) e come Diderot con il quale era, per così dire, aperto un contenzioso che il G. volle concludere. Diderot era stato infatti accusato da alcuni avversari di avere plagiato Il vero amico e Il padre di famiglia goldoniani nella composizione dei suoi drammi Le fils naturel e Le père de famille; per rintuzzare gli attacchi, egli aveva tradotto e stampato le due opere italiane, accompagnandole da una malevola denigrazione del G. e da composizioni satiriche che alludevano ad alcune dame parigine tanto imprudentemente, da suscitare uno scandalo ancora vivo quando il G. arrivò a Parigi. Tutte queste vicende sono registrate nei Mémoires, dove si trova anche un rapido accenno a V. Alfieri che andò a visitarlo diverse volte negli ultimi anni.

Ma il teatro, la vita del teatro si andava facendo sempre più lontana dal suo orizzonte; vi tornò con uno scatto d'orgoglio con la composizione in francese di una commedia come Le bourru bienfaisant che venne rappresentata alla Comédie Française il 4 nov. 1771 e ottenne un grande successo di pubblico e di critica, rimanendo la più rappresentata di tutte le sue commedie in Italia e fuori, subito prima della Locandiera e del Servitore di due padroni. Tentò di ripetere l'esperienza con L'avare fastueux, presentato a corte cinque anni dopo, ma questa volta con un risultato tanto negativo da indurlo a ritirare del tutto la commedia. Una vita dunque che, sotto la superficie della amenità e della piacevolezza che domina nel racconto dei Mémoires, fu segnata, in buona misura, dalle ristrettezze economiche (nel 1780 fu costretto a vendere una parte della biblioteca e a 84 anni, nel 1791, si diede alla traduzione dell'Istoria dimiss Jenny di Marie Jeanne de Heurles de Labrovas de Mézières moglie di F.A.V. Riccoboni), dalle infermità (dal 1765 era rimasto orbo dell'occhio sinistro) e dalla delusione per il ruolo che si trovava a coprire a Parigi.

L'ultimo, emblematico, episodio della sua vita è legato alla pensione di 4000 lire annue che gli era stata concessa dalla corte nel 1769 e che perdette nel giugno 1792, quando l'Assemblea legislativa soppresse tutte le pensioni di corte; avanzò allora una supplica e la pensione gli venne restituita, ma la comunicazione fu recapitata il 7 febbraio, il giorno successivo alla sua morte, avvenuta a Parigi il 6 febbr. 1793.

Fino alla fine si era dedicato al progetto di composizione del quadro che doveva dar ragione del suo lavoro drammaturgico; dunque nel 1777 uscì a Torino una nuova edizione delle Opere drammatichegiocose (ed. Guilbert e Orgeas) e, dopo la chiusura della edizione Pasquali, intraprese (1788) una ulteriore pubblicazione, presso lo Zatta di Venezia, delle sue Opere complete, che si concluderà solo nel 1795. Ma era soprattutto ai Mémoires che aveva affidato l'immagine di sé e del proprio teatro, due immagini che aveva voluto far coincidere, nella convinzione che nella sua opera di drammaturgo fosse completamente risolto il senso di tutta la sua vita.

Oltre i Mémoires e le Prefazioni citate nel testo: Lettere di Carlo Goldoni, a cura di E. Masi, Bologna 1880; C. G. e il teatro di San Luca a Venezia. Carteggio inedito (1755-1765), a cura di D. Mantovani, Milano 1885 (rist. anastatica con introd. di N. Mangini, Venezia 1979); Fogli sparsi del G., a cura di A.G. Spinelli, Milano 1885. Alle edizioni delle Opere già segnalate nel testo, sono da aggiungere: Opere complete… edite dal Municipio di Venezia nel II centenario della nascita, a cura di G. Ortolani con la collab. di C. Musatti ed E. Maddalena (40 voll.), Venezia 1907-60 (Indici, a cura di N. Mangini, ibid. 1971); Tutte le opere…, a cura di G. Ortolani (14 voll.), Milano 1935-56; nonché numerosissime antologie e pubblicazioni di singole commedie. Nel volume C. Goldoni, Il teatro illustrato nelle edizioni del Settecento, a cura di G.A. Cibotto - F. Pedrocco, Venezia 1981, sono riprodotte le incisioni contenute nelle edizioni Pasquali e Zatta delle Opere.

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