CARLO I d'Angiò, re di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO I d'Angiò, re di Sicilia

Peter Herde

Nacque alla fine di marzo del 1226, ultimo dei sette figli del re di Francia Luigi VIII e di Bianca di Castiglia. Battezzato dal cardinal legato Romano di Sant'Angelo, ricevette dapprima il nome di Stefano; solo più tardi esso fu mutato in quello di Carlo, un nome fino allora insolito per i Capetingi e chiaramente riferito alla discendenza, all'epoca messa frequentemente in rilievo, del padre dall'ultimo dei Carolingi, Carlo di Lorena, attraverso sua madre, figlia di Baldovino di Hainaut. Stefano-Carlo non ebbe modo di conoscere suo padre: a metà maggio del 1226 il re partì per la conquista della Francia meridionale e morì sette mesi più tardi, il 3 nov. 1226, dopo un breve periodo di regno. Secondo il testamento del re (giugno 1225) C. doveva essere avviato alla carriera ecclesiastica; ma la morte, nell'anno 1232, dei fratelli più grandi, Giovanni e Filippo Dagoberto, gli aprì la successione nei diritti di Giovanni, che comprendevano l'Angiò e il Maine, rendendolo erede di vasti possedimenti nella Francia centrale.

Nulla si sa della sua prima giovinezza né della sua educazione; certamente rimase fino a dieci anni con la madre, che attraverso i figli governò la Francia per circa trent'anni con grande energia. Nel 1237 l'undicenne fanciullo si trovava alla corte del fratello maggiore, il secondogenito Roberto d'Artois, che divenne allora maggiorenne; nel 1239 il tredicenne C. aveva già una sua piccola corte, possedeva un cavallo da caccia, disponeva di un cameriere e di altro personale, tra cui un maestro e un chierico. Indubbiamente egli si formò nell'atmosfera della corte di Francia del tempo, in cui guerre e tornei si univano all'amore per la poesia cortese e il canto: si pensi al ruolo dei trovatori quando C. sarà re di Sicilia. Ma al contrario del fratello maggiore, re Luigi IX, egli non interiorizzò mai le sollecitazioni religiose ricevute in questi anni giovanili.

Nel corso dell'anno 1239 egli superò una grave malattia e dal 1241 andò al seguito del fratello Alfonso, allora armato cavaliere e investito del Poitou; a quindici anni disponeva già di una corte piuttosto numerosa, con maresciallo, servitori e paggi. Nel 1242 seguì Luigi IX nella spedizione contro il conte della Marche, impegnandosi, così, per la prima volta in un'impresa militare. Per i tre anni seguenti non sappiamo nulla di lui; nel 1245-46 tuttavia gettò le basi della sua futura potenza in Europa sposando Beatrice, erede della Provenza.

Raimondo Berengario V della casata dei conti di Barcellona (ramo collaterale della casa regnante d'Aragona), dal 1209 signore di Provenza e di Forcalquier, aveva con molta abilità allargato l'area del suo potere, sposando nel 1234 la primogenita Margherita al re Luigi IX di Francia e nel 1236 la secondogenita Eleonora al re Enrico III d'Inghilterra.

Il 20 giugno 1238, aveva designato nel testamento la ultimogenita Beatrice quale erede universale in caso di sua morte senza discendenza maschile, mentre le prime due figlie avrebbero ricevuto un indennizzo in denaro. Questa disposizione rispondeva a un preciso calcolo politico: la Provenza avrebbe dovuto rimanere indipendente o al più unirsi a un paese affine del Sud, non del Nord.

Alla morte di Raimondo Berengario (avvenuta il 19 agosto del 1245) entrarono in vigore le sue disposizioni testamentarie ed ebbe inizio la gara dei pretendenti alla mano di Beatrice. Coltivava speranze in proposito Raimondo VII di Tolosa, il quale in passato aveva conteso a Raimondo Berengario il possesso della Provenza e il cui ultimo matrimonio con Margherita della Marche era stato dichiarato nullo da Innocenzo IV nel settembre 1245; Raimondo disponeva in Provenza di un forte seguito. Anche l'imperatore Federico II si era fatto avanti e cercava di concludere il matrimonio tra Beatrice e il proprio figlio Corrado. Il pericolo di quest'ultima eventualità spinse il papa, inizialmente contrario a una secondogenitura francese nella Francia meridionale come anche ad una signoria del poco sicuro Raimondo VII, ad appoggiare un piano indubbiamente ordito della regina madre Bianca di Castiglia: far sposare appunto Beatrice al suo ultimogenito Carlo. Il progetto fu avversato persino in seno alla corte di Francia: Luigi IX era contrario a un'ambiziosa politica espansionistica, mentre sua moglie Margherita, insoddisfatta del testamento paterno, pur non potendo contestarne la legittimità, cercava di ingerirsi nel problema del pagamento del denaro lasciatole. Alla fine di novembre del 1245 tuttavia Bianca sembra aver prevalso nel corso di un importante incontro avvenuto a Cluny tra il pontefice e il re di Francia: Innocenzo IV, che in quella occasione conobbe personalmente il giovane C. e che da allora in poi lo sostenne costantemente, diede il suo assenso, come anche Luigi, soprattutto perché il controllo della Provenza e delle sue città era importante per la crociata che si preparava. Il 28 dic. 1245 il papa concesse al giovane principe la dispensa per il matrimonio con una parente in quarto grado. Le nozze vennero celebrate ad Aix il 31 gennaio dell'anno 1246.

Sin dall'inizio del suo governo il nuovo conte dovette affrontare in Provenza l'opposizione di un partito antifrancese che era forte soprattutto nelle città. C. fece molto presto vedere che avrebbe governato con energia. Già poco dopo le nozze nominò un siniscalco per la Provenza, che doveva sovrintendere alla giustizia e alle finanze e, durante l'assenza del conte, sarebbe stato suo luogotenente e comandante militare. A quest'ufficio, già rivelatosi utile al re di Francia, non nominò nobili provenzali, ma forestieri provenienti dagli antichi possedimenti della Corona francese che rimanevano in carica da due a quattro anni. Il giorno di Pentecoste (27 maggio) del 1246 C. fu creato cavaliere e nell'agosto successivo, a vent'anni compiuti, Luigi IX lo investì dei feudi ereditari dell'Angiò e del Maine. Il suo stemma furono da allora gigli d'oro in campo blu. Per lui era tuttavia più importante la Provenza, dove si erano sviluppate gravi lotte intestine.

Qui le principali città, quali Arles, Avignone e Marsiglia in piena ascesa economica per la progressiva espansione dei loro commerci, tendevano a costituirsi in liberi Comuni sull'esempio delle città dell'Italia centrosettentrionale: cercavano pertanto di sbarazzarsi della signoria vescovile e soprattutto di affermare la propria autonomia dall'autorità comitale. A tal fine queste avevano cercato il sostegno e l'amicizia di Barral des Baux, discendente da una delle più illustri casate di Provenza, il quale già precedentemente aveva stabilito stretti rapporti con i Comuni per conto di Raimondo VII. La rivolta dei Comuni era scoppiata poco prima della morte di Raimondo Berengario nell'agosto del 1245 ad Arles. Neppure l'omaggio feudale prestato da Barral des Baux a Beatrice appena entrata in possesso dell'eredità né i tentativi promossi da C. per stabilire buoni rapporti con le città migliorarono la situazione. Nell'aprile del 1247 Avignone, Arles e Marsiglia, sotto la guida di Barral des Baux, conclusero un'alleanza difensiva contro Carlo.

L'azione di C. in Provenza tesa a rafforzare l'autorità comitale fu, comunque, interrotta ben presto dalla crociata del 1248-50. Dopo la conquista dei luoghi santi da parte dei Kwārismi nel 1244 il pio re francese se ne era prefisso la riconquista come suo compito particolare. C. accolse l'invito del fratello nonostante la situazione esplosiva nei suoi domini. Aveva preso la croce nell'ottobre del 1245 a Parigi, ma i preparativi richiesero ancora tre anni. Luigi IX, Roberto e C. insieme con le mogli si imbarcarono ad Aigues-Mortes il 28 ag. 1248. Il 18 settembre sbarcarono a Cipro, dove Beatrice diede alla luce un figlio che dovette morire poco dopo. L'anno seguente la crociata si diresse contro il territorio-chiave dei musulmani, l'Egitto. Nel giugno del 1249 fu presa Damietta sul delta del Nilo; a fine novembre dopo l'arrivo dell'altro fratello di C., Alfonsodi Poitou, i crociati si diressero contro il Cairo. Presso Mansura C. si mise per la prima volta brillantemente in luce in combattimento. Anche negli scontri dei mesi seguenti (il 7 febbr. 1250 cadde Roberto d'Artois) presso Mansura C. ebbe più volte l'opportunità di mostrare il suo coraggio. Il 6 apr. 1250 C. e i suoi fratelli furono fatti prigionieri insieme con i resti dell'esercito crociato: furono tutti liberati un mese dopo dietro pagamento di un alto riscatto. Impressionato dai disordini scoppiati in Provenza durante la sua assenza e indebolito dalla malaria, C. propose il ritorno in Francia dei resti dell'esercito. Luigi IX decise di rimanere in Terrasanta, ma rimandò indietro entrambi i fratelli.

In Provenza Arles, Marsiglia e Avignone si erano ribellate sotto la guida di Barral des Baux. Nel 1250 tuttavia i ribelli avevano finito per accordarsi con Bianca di Castiglia e riconosciuto l'autorità comitale. Rientrato in Francia C., dopo aver sistemato la situazione nell'Angiò, giunse nell'aprile 1251 in Provenza. Una dopo l'altra gli si sottomisero Arles e Avignone (la signoria di quest'ultima città spettava congiuntamente a C. ed Alfonso). C. pensò quindi a sottomettere Marsiglia che attaccò nell'agosto del 1251. Ma dopo la conclusione di un armistizio stipulato tra C. e Barral des Baux nel mese di ottobre seguente, la città rinunciò a un'ulteriore resistenza. Nell'atto di resa del 26 luglio 1252 fu sancito il diritto di C. a insediare due suoi funzionari nella città, cui fu tuttavia lasciata, diversamente che per Arles e Avignone, un'ampia autonomia amministrativa. La supremazia di C. in Provenza fu così momentaneamente rafforzata.

Nello stesso periodo papa Innocenzo IV cominciò a cercare un nuovo sovrano per il Regno di Sicilia. Forse già nella primavera del 1250, in occasione delle visite successive di Riccardo di Cornovaglia e di C., il pontefice aveva mosso i primi passi al riguardo. Il problema divenne urgente solo nel 1252, quando il figlio di Federico II, Corrado IV, pretese nelle trattative con laCuria la dignità imperiale e il Regno di Sicilia, minacciando i domini della Chiesa. Innocenzo si rivolse nell'estate del 1252 a Riccardo di Cornovaglia e a C., offrendo loro la corona di Sicilia: a questo scopo inviò in Inghilterra e Francia il notaio pontificio Alberto da Parma. Il 3 e 5 agosto il papa scrisse lettere di ugual tenore ai re Enrico III d'Inghilterra e Luigi IX di Francia, che era ancora in Terrasanta, nonché ad Alfonso di Poitou. Evidentemente Alberto doveva trattare per primo con Riccardo di Cornovaglia, il candidato più conveniente, scelto soprattutto per le speranze riposte dal papa negli ingenti mezzi finanziari inglesi; in caso di rifiuto, avrebbe dovuto offrire la corona a C., mentre i relativi documenti sarebbero stati consegnati al destinatario solo in caso di necessità. L'emissario pontificio giunse in Inghilterra nel novembre del 1252. Non c'è modo di appurare se nel corso del viaggio avesse iniziato a trattare con Carlo. Poiché Riccardo richiedeva notevoli garanzie, per le quali fu necessario ricorrere ad Innocenzo IV, le trattative si trascinarono fino alla primavera del 1253. Dimostratosi il papa restio, Alberto interruppe il negoziato alla fine di aprile del 1253 e si recò presso Carlo. Le trattative con quest'ultimo, cominciate intorno alla metà di maggio, sembrarono procedere positivamente.

Il principe angioino avrebbe ottenuto in feudo dalla Chiesa l'intero Regno, a eccezione di Benevento. Il Regno non doveva mai più essere sottoposto all'Impero né legato ad esso con unione personale; le leggi antiecclesiastiche della dinastia sveva dovevano essere annullate, mentre i privilegi pontifici a favore della Sicilia sarebbero rimasti in vigore e l'elezione dei vescovi e dei religiosi doveva essere libera e sottratta all'approvazione regia; i possedimenti ecclesiastici alienati dovevano essere restituiti, così come dovevano tornare ai proprietari i beni di tutti i partigiani della Chiesa nel Regno, i quali ultimi avrebbero goduto da allora in poi del favore reale. C. avrebbe dovuto trovarsi entro il 1º nov. 1253 nell'Italia meridionale con un forte esercito. In discussione rimanevano il privilegium fori, l'esclusiva competenza giudiziaria della Chiesa sui religiosi, l'esenzione fiscale per il clero ed il finanziamento dell'impresa. Nonostante la nomina di Alberto a legato pontificio con tutti i relativi diritti (7 giugno 1253) C. continuò ad avere forti perplessità, alimentate soprattutto dai suoi consiglieri, sull'opportunità di accettare l'offerta: le trattative infine fallirono a causa della non ancora consolidata situazione in Provenza, degli alti oneri finanziari che la Francia si era accollata per la crociata ancora in atto e anche per i successi di Corrado IV nell'Italia meridionale.

Nel frattempo C. si inserì nella lotta in Fiandra, a fianco di Margherita di Fiandra, Guglielmo Dampierre contro Guglielmo d'Olanda, re dei Romani, e Giovanni d'Avesnes. La lotta si concluse nel luglio 1254 con l'arbitrato del re di Francia Luigi IX: C., che per un breve periodo all'inizio dell'anno aveva occupato l'Hainaut, ricevette la somma di 160.000 tornesi.

Dopo aver lasciato per il momento cadere la sua candidatura al trono di Sicilia, C. aveva rafforzato il proprio dominio sulla Provenza, principalmente tramite il suo siniscalco e Barral des Baux. Per i Comuni gli anni 1253-56 rappresentarono un periodo di pace. Alcuni abusi contro istituzioni ecclesiastiche crearono tuttavia tensioni sia col nuovo papa Alessandro IV sia con re Luigi. Diversamente che sotto Innocenzo IV il principe angioino non godeva più del completo favore papale.

Nel 1254 la moglie di C., Beatrice, diede alla luce un secondo figlio, il futuro Carlo II. In questi anni il principe risiedeva per lo più alla corte francese e nell'Angiò. Le successive vicende di Marsiglia lo spinsero però a intervenire personalmente in Provenza. Dopo il trattato del 1252 la città aveva rafforzato i suoi legami commerciali sia col Mediterraneo orientale, soprattutto con San Giovanni d'Acri, sia con la costa nordafricana da Alessandria a Ceuta, aumentando così la propria potenza economica. Allorché C. nell'anno 1255stabilì più strette relazioni con Montpellier, rivale di Marsiglia nel commercio, in quest'ultima città si formò un partito che si proponeva l'abolizione delle clausole del trattato del 1252 e il ristabilimento della piena indipendenza comunale. Secondo quanto successivamente affermato da C., la città aveva trattenuto rendite che spettavano al conte, si era rifiutata di seguire gli inviti di presentarsi davanti al tribunale comitale di Aix e aveva catturato navi cariche di grano a Tolone e Bouc, di proprietà di Carlo. Il conte allora prese contatto con il partito a lui favorevole a Marsiglia, che col suo consenso si sollevò a Pasqua del 1257 e presto riuscì a prendere il sopravvento. Così già all'inizio di giugno del 1257 fu concluso tra la città e C. un accordo in base al quale egli e sua moglie venivano confermati signori della città e titolari della giurisdizione e di tutte le entrate, comprese quelle provenienti dal Levante, mentre l'autonomia amministrativa veniva ulteriormente ristretta con l'insediamento di un vicario del conte: la libertà commerciale non veniva tuttavia limitata. Poco dopo il vescovo cedette al conte la propria parte della città. Il 9 luglio C. stipulò la pace anche con Montpellier, mentre al nord subito dopo il delfino Guido VII gli prestò omaggio per alcuni suoi feudi. Anche successivamente C. poté rafforzare, durante il suo soggiorno semestrale, la propria autorità in Provenza; all'inizio dell'anno 1258 gli si sottomisero anche i conti di Ventimiglia e la sua signoria lungo la Riviera si estese così verso oriente. Nell'estate del 1259 il principe angioino intervenne nell'Italia settentrionale, dove s'intromise in contese locali. Nel luglio gli si sottomise la città di Cuneo, seguita in novembre da Alba e Cherasco e in seguito da Savigliano, Bene e Comigliano; inoltre passarono dalla sua parte il conte di Biandrate e i marchesi di Saluzzo, Cravesane e Ceva. In queste città C. inviò ben presto propri funzionari. Per il momento tuttavia la sua espansione verso oriente si arrestò qui: ne impedivano ulteriori progressi a sud Genova e ad est il marchese Pallavicini, alleato del re di Sicilia Manfredi, ed i marchesi del Monferrato.

All'inizio del 1262 C. dovette però affrettarsi a tornare in Provenza perché a Marsiglia era scoppiata una nuova rivolta: i ribelli avevano espulso il vicario e gli altri funzionari di C. e avevano rifiutato i pagamenti dovuti in base all'accordo vigente. Ai rivoltosi si unirono Ugo, figlio di Bertrand des Baux, e Bonifacio di Castellane, valoroso guerriero e trovatore. I ribelli sembrano aver trovato appoggio in Aragona, e non tanto presso il re Giacomo I, la cui figlia Isabella aveva sposato l'erede al trono di Francia Filippo, quanto presso gli infanti Pietro e Giacomo II. Pietro, che vent'anni dopo avrebbe posto fine al dominio di C. sulla Sicilia, sposò la figlia di Manfredi, Costanza. Nella stessa occasione Giacomo II prese possesso dei possedimenti in Linguadoca. Già in marzo, Barral des Baux riuscì ad attirare dalla parte di C. Bertrand des Baux, padre di Ugo, ma C. poté pensare ad attaccare direttamente Marsiglia soltanto nell'estate del 1262, quando giunsero i necessari rinforzi dalla Francia. A questo scopo concluse il 21 luglio 1262 ad Aix un accordo (ratificato l'11 agosto dello stesso anno) con Genova, alla quale cedeva sulla Riviera Ventimiglia, Roccabruna e Monaco, conservando tuttavia nell'interno, sulla strada di Tenda, Castilion e Briga per facilitare l'accesso ai suoi possedimenti piemontesi. Tra le due parti venne anche stipulato un patto di mutua assistenza, che peraltro non era valido in caso di guerra di Genova contro Francia e Aragona e del conte contro re Manfredi. Quest'ultimo punto si riferiva chiaramente alle nuove trattative intavolate da C. col Papato a proposito del Regno di Sicilia.

Alla morte di Alessandro IV era salito al soglio pontificio Urbano IV (29 ag. 1261), nativo di Troyes e legato alla casa regnante francese. A questa si rivolse per cacciare gli Svevi dal Regno. In un primo momento offrì a Luigi IX la corona siciliana per il figlio più piccolo: di fronte al rifiuto del re - che non voleva contestare i diritti ereditari di Corradino e di Edmondo d'Inghilterra - il pontefice incaricò (23 marzo 1262) il notaio Alberto di Parma di fare la medesima proposta a Carlo. Il notaio cercò di superare gli scrupoli del re francese prospettandogli la conquista dell'Italia meridionale da parte del fratello minore come uno strumento utile alla crociata che il monarca intendeva promuovere in seguito alla caduta dell'Impero latino di Costantinopoli e alla decisa avanzata musulmana contro gli Stati cristiani d'Oriente. Comunque, prima di accettare, C. volle consolidare la propria autorità in Provenza. Riconquistata Castellane, raggiunse nel novembre 1262, grazie anche alla mediazione di Giacomo d'Aragona, un nuovo accordo con Marsiglia che ripeteva sostanzialmente i termini di quello del 1257. Ai ribelli, con l'eccezione di Bonifacio di Castellane e di Ugo des Baux, fu assicurata l'impunità; nessun nuovo tributo venne imposto sulla comunità; tuttavia furono abbattute le fortificazioni cittadine e venne elevato a 1.000 il numero dei soldati,che Marsiglia era tenuta a mettere a disposizione di C. in caso di guerra.

Risolti i conflitti in Provenza, C. fu in grado di aprire trattative con la Curia per la spedizione nell'Italia meridionale.

Urbano IV e il successore Clemente IV erano fermamente decisi a servirsi del principe angioino per eliminare Manfredi, ma, non sottovalutando il pericolo di una sua espansione, intendevano porgli precise e rigide condizioni. Le trattative durarono a lungo, come dimostrano i circa cento documenti dei due papi riguardanti la questione e precedenti la stipula definitiva dell'accordo. Nel quadro complessivo della politica europea l'impresa si presentava audace e difficile. Il 5 giugno 1263 il papa inviò l'arcivescovo di Cosenza Bartolomeo in Francia ed Inghilterra per ottenere - se necessario anche col denaro - il consenso di quei monarchi. Alla stessa corte di Francia sussistevano notevoli resistenze: re Luigi esitava, la regina Margherita odiava C. al punto da costringere l'erede al trono Filippo a giurare di non allearsi con lo zio (Urbano IV sciolse formalmente il principe da questo giuramento il 6 luglio). In Inghilterra Enrico III accampava pretese per il figlio Edmondo in virtù degli accordi con Innocenzo IV e Alessandro IV. Il 28 luglio 1263 il papa negò a Edmondo, in maniera formalmente cortese ma sostanzialmente decisa, qualsiasi diritto sul Regno, non avendo adempiuto alle condizioni previste dagli accordi. Né c'era da pensare del resto a un attacco inglese in Italia meridionale, nel momento in cui maggiormente infuriava la guerra dei baroni contro Enrico III. Per quel che riguarda le trattative con C. (le relative istruzioni per Alberto erano partite nel giugno del 1263), sorsero difficoltà circa il tributo annuo da pagare alla Chiesa, che Urbano voleva fissare in 10.000 once d'oro, cui si sarebbe aggiunto un pagamento una tantum di 50.000 sterline dopo la conquista. La Chiesa intendeva conservare la sovranità feudale ed esigeva da C. la prestazione dell'omaggio. Un'altra condizione, la cessione alla Chiesa di un'importante parte del Regno comprendente Fondi, Sora, San Germano, Nola, Capua, Napoli e Sorrento, fu fatta successivamente cadere dal papa, che invece mantenne la richiesta per Benevento. Fu discusso anche il problema della successione di C.: il papa concesse che in mancanza di legittimi eredi di C. il trono sarebbe passato in prima istanza ad Alfonso di Poitou, quindi al secondogenito del re di Francia, ma non ai loro eredi. Il papa tenne duro sulla libertà della Chiesa nel Regno di Sicilia: il sovrano non avrebbe dovuto influenzare le elezioni ecclesiastiche né esercitare sui religiosi i propri diritti giurisdizionali o fiscali. Fu vietata l'unione personale dell'Impero romano col Regno di Sicilia; C. non avrebbe potuto accettare l'elezione a re di Germania né puntare a insignorirsi dell'Italia settentrionale e della Toscana, e gli era anche interdetta l'assunzione di cariche nello Stato della Chiesa. Un anno dopo l'entrata in vigore dell'accordo C. doveva lasciare la Provenza con almeno 1.000 cavalieri e 300 lance e tre mesi più tardi entrare nel Regno. Finché il papa l'avesse desiderato, C. avrebbe poi dovuto mettere a disposizione della Chiesa nei suoi possedimenti italiani 300 cavalieri per tre mesi all'anno. Il papa si impegnava a sostenere l'impresa col versamento triennaledi un decimo di tutte le entrate della Chiesa in Francia, Provenza, Borgogna, e a bandire la crociata contro Manfredi.Un nuovo episodio si inserì, poi, nello svolgimento delle trattative. Nella città di Roma l'oligarchia dominante, divisa da gravi lotte interne, si era accordata nel 1261 per trasformare in vitalizia la carica di senatore. Il partito filosvevo scelse allora Manfredi, mentre la fazione avversa gli preferiva Riccardo di Cornovaglia. Nessuno dei due partiti riuscì a prevalere sull'altro; e, mentre si andava profilando la candidatura di Giacomo I d'Aragona, e di suo figlio Pietro, genero di Manfredi, nell'agosto del 1263 C. fu eletto senatore. I particolari di questa scelta non sono chiari. L'iniziativa venne dal cardinale Riccardo Annibaldi, la cui famiglia era filosveva; anche Guy Fouquois, il futuro pontefice Clemente IV, altro amico della casa reale di Francia, potrebbe essere intervenuto nella vicenda. è difficile dire se e quanto C. abbia brigato per farsi eleggere. Diversi motivi dovettero essere alla base della scelta: in primo luogo il partito antisvevo desiderava un senatore autorevole, capace di eliminare definitivamente i partigiani di Manfredi; poi un principe potente, che trattava col papa sul suo futuro ruolo di re di Sicilia, sembrava assicurare un periodo di calma e di pace; infine i mercanti romani erano interessati ai mercati di Provenza e Sicilia. Urbano IV però rimase sorpreso della notizia, anche perché una delle condizioni delle trattative era appunto che C. non avrebbe assunto cariche nei domini della Chiesa. Inoltre la Curia aveva sempre rifiutato il principio dell'attribuzione a vita della carica di senatore. Ma poi il papa decise di non opporsi, nella speranza che l'elezione inducesse C. a concludere le trattative per il conferimento del Regno: rinunciò quindi alla condizione che C. non avrebbe dovuto ricoprire cariche nelle terre della Chiesa, anche se continuò ad osteggiare la durata vitalizia dell'ufficio senatoriale. Ad Alberto da Parma il papa inviò istruzioni in proposito l'11 ag. 1263. Da allora in poi C. si servì della carica conferitagli e da lui accettata come mezzo di pressione nel prosieguo delle trattative: tenendo intenzionalmente in sospeso la questione della durata della sua carica di senatore riuscì a strappare al pontefice ulteriori concessioni. Prima del 25 dic. 1263, nel concistoro, la maggioranza dei cardinali decise che C. avrebbe potuto sì prendere impegni a lunga scadenza nei confronti dei Romani, ma doveva rinunciare al suo ufficio trascorsi cinque anni, e se i Romani avessero insistito sulla assunzione a vita della carica, avrebbe dovuto promettere di rinunciarvi in qualsiasi momento il papa glielo avesse imposto.

Le trattative procedettero a rilento tra la fine del 1263 e la primavera del 1264: erano ancora in discussione l'ammontare del tributo da pagare al papa e la condizione che i sudditi del Regno avrebbero dovuto giurare ogni dieci anni di negare l'obbedienza al re se la Chiesa gli avesse tolto la signoria, un giuramento che re Luigi IX considerava oltraggioso. Sorsero difficoltà anche sui problemi della successione e delle prestazioni militari.

Nel frattempo (inizio del 1264) venne scoperta a Marsiglia una congiura, promossa da Ugo des Baux e Alberto di Lavagna, e mirante all'unione con l'Aragona. Mentre entrambi i principali responsabili riuscirono a fuggire, alcuni congiurati di minore importanza furono condannati a morte e decapitati. Pare fosse la prima volta che C., mostratosi in precedenza moderato, deliberava di condannare a morte i ribelli.

Le trattative riguardanti la Sicilia proseguirono anche nel 1264; il cardinale francese Simon de Brion, in qualità di legato pontificio, tentò di eliminare gli ultimi ostacoli. Nell'aprile dell'anno 1264 C. inviò con truppe a Roma, come suo vicario, Giacomo Cantelmo. I sostenitori di Manfredi guidati da Pietro da Vico si ritirarono allora a Sutri, ma ne furono scacciati dal Cantelino, che condusse però in seguito una guerra sfortunata, nonostante i sussidi del papa, contro i rinforzi di Manfredi e finì per trovarsi in una situazione particolarmente difficile. Nel frattempo C. preparava definitivamente la sua spedizione al Sud, chenell'autunno del1264 avrebbe dovuto prendere il via per terra, attraverso l'Italia settentrionale e centrale, e per mare. Il marchese Guglielmo del Monferrato assicurò il libero passaggio sul suo territorio con un trattato concluso il 14 maggio 1264. La morte di Urbano IV (2 ott. 1264) comportò un ulteriore ritardo che C. utilizzò per assicurarsi il passaggio nell'Italia settentrionale. Insieme con il marchese di Saluzzo, nel gennaio 1265 anche le città di Milano, Bergamo, Como, Novara e Lodi, e in marzo Brescia, si dichiararono pronte a sostenere C. e le sue truppe durante il passaggio in Italia settentrionale. Il nuovo papa Clemente IV (eletto il 5 febbr. 1265) era originario della Linguadoca, legato ad Alfonso di Poitou e Luigi IX, e ciò garantiva una favorevole prosecuzione delle trattative con Carlo. Il pontefice accettò i risultati fino allora raggiunti nel negoziato, limitando tuttavia a tre anni la durata della senatoria di C. a Roma. Simon de Brion condusse in porto le trattative il 30 aprile.

Il trattato ratificato da C. prevedeva che Benevento rimanesse in possesso della Chiesa. Il re e i suoi eredi non avrebbero potuto godere di possedimenti o cariche nelle terre della Chiesa; la successione avrebbe potuto essere maschile o femminile, nel senso che sarebbe toccata al maggiore dei figli maschi o, in mancanza di questi, alla maggiore delle femmine. In caso di morte di un re di Sicilia senza eredi legittimi, il Regno sarebbe tornato alla Chiesa, ma se questa sorte fosse toccata allo stesso C. la successione sarebbe spettata ad Alfonso di Poitou o al più anziano dei figli di Luigi IX dopo l'erede al trono. Se C. fosse sopravvissuto a tutte queste persone il reame sarebbe tornato alla Chiesa. Il tributo annuo spettante alla Chiesa fu fissato in 8.000 once d'oro; dopo la conquista della Sicilia C. avrebbe dovuto poi versare una tantum 50.000 sterline, una somma che avrebbe però potuto essere ridotta dopo il felice esito dell'impresa. In segno di vassallaggio C. avrebbe mandato ogni tre anni un cavallo bianco al papa. Una volta l'anno il re di Sicilia avrebbe inviato nei territori italiani della Chiesa un rinforzo di 300 cavalieri corazzati o, in alternativa, navi da guerra. Il reame era indivisibile. Il monarca, sotto pena di perdita del Regno, non doveva accettare o cercare di ottenere l'elezione a imperatore romano, re di Germania, signore della Lombardia, della Toscana o di vasti territori nella zona. Se in mancanza di eredi maschi la successione fosse toccata a una donna, questa non avrebbe potuto sposare un titolare delle cariche suddette. Era proibito ogni attacco ai territori pontifici e tutti i beni sottratti alla Chiesa sarebbero stati ad essa restituiti. Le elezioni ecclesiastiche nel Regno erano libere; il clero godeva del diritto a un foro particolare, che lo esentava dalla giurisdizione penale e civile dei giudici regi (con esclusione delle cause concernenti feudi), e poteva appellarsi indiscriminatamente al papa. Godeva inoltre dell'esenzione fiscale, in caso di vacanza di chiese il re non avrebbe avuto diritto alle relative entrate. Venivano annullate tutte le leggi di Federico II e di altri re contro la libertà della Chiesa. I laici del Regno avrebbero dovuto godere di tutti i diritti e le libertà in vigore ai tempi di Guglielmo II (1166-1189). Tutte le persone bandite dal Regno avrebbero avuto il diritto di rientrarvi e avrebbero riottenuto le loro proprietà, tutti i prigionieri sarebbero stati rilasciati. C. dovette inoltre impegnarsi a lasciare la Provenza per il Sud entro un anno dall'investitura del Regno con 1.000 cavalieri e 300 balestrieri e a raggiungere i confini del Regno nei tre mesi seguenti. I principali obiettivi della Chiesa erano così raggiunti: era garantita la piena sovranità feudale della Chiesa sul Regno e assicurata la definitiva separazione di questo dall'Impero tedesco e dal resto dell'Italia, mentre tramontava il sogno d'Oltralpe di accerchiare i domini pontifici; alla Chiesa siciliana era stata accordata la più piena libertà.

Per soccorrere in breve tempo i Provenzali che occupavano Roma, ed erano seriamente minacciati da Manfredi, C. preferì la via marittima: con circa 40 navi e 1.500 uomini, ma quasi senza cavalli, salpò il 14 maggio 1265, per essere a Roma il giorno di Pentecoste (24 maggio). Manfredi, che stava radunando le sue forze, tentò di impedirne il passaggio. Fu bloccata la foce del Tevere a Ostia, ma la flotta sveva non poté attaccare a causa delle avverse condizioni atmosferiche. Così le navi di C. apparvero il 21 maggio davanti ad Ostia e approdarono liberamente. Pietro da Vico e i filosvevi Annibaldi e Orsini si ritirarono; i Romani accolsero con grandi onori il conte di Provenza a S. Paolo fuori le Mura e lo accompagnarono al palazzo di S. Pietro, dove gli porsero il saluto quattro cardinali inviati dal papa. Manfredi tentò invano di sollevare i Romani contro C. inviando loro una lettera in cui, in relazione alle loro precedenti richieste, concedeva il ristabilimento della "Repubblica romana" e il diritto all'elezione ed incoronazione dell'imperatore. Nel complesso egli e i suoi sostenitori ghibellini presero troppo alla leggera il pericolo proveniente dagli Angioini. Nei mesi seguenti C. poté così rafforzare il suo potere nelle terre della Chiesa senza essere disturbato da nessun attacco da parte di Manfredi. Ciò che più angustiava C. erano i crescenti problemi finanziari, cui si aggiungevano le resistenze del S. Collegio a impegnare i beni della Chiesa in favore dell'Angiò, operazione che rese inoltre meno del previsto, tanto che alla fine del 1265 Clemente IV dovette impegnare perfino il tesoro della Chiesa.

Mentre Manfredi mutava i suoi progetti da offensivi in difensivi, C. e il papa trattavano con Genova, Pisa e il marchese Pallavicini per il transito delle truppe angioine. Conclusesi senza esito queste trattative, si studiò la possibilità di seguire la via di nord-est: in agosto C. stipulò un accordo con Obizzo d'Este e Luigi di San Bonifazio, mentre fu bandita la crociata nella Marca di Ancona. Così l'esercito di C. poté mettersi in movimento da Alba in novembre e, passando senza grandi difficoltà attraverso Vercelli, Novara, Milano, Mantova, Bologna, Faenza, la Marca di Ancona e il ducato di Spoleto, giunse a Roma tra gli ultimi giorni del 1265 e i primi del 1266.

Il 6 genn. 1266 in Laterano C. fu incoronato re di Sicilia. Già il 20 gennaio partì con l'esercito per il Sud e, seguendo la via Latina, raggiunse e conquistò San Germano. Manfredi, davanti alla crescente ribellione in Terra di Lavoro, aveva abbandonato Capua per ritirarsi in Puglia, dove la sua signoria era più forte. Ma C. cercò di prevenirlo e, consigliato da esuli esperti dei luoghi e da disertori, avanzò lungo le valli del Volturno e del Calore in direzione di Benevento, dove si dirigeva anche la ritirata di Manfredi per sbarrare all'avversario la strada della Puglia. Il 26 febbraio si venne a battaglia ai piedi del monte S. Vitale, a nord-ovest di Benevento: un attacco degli arcieri saraceni e dei cavalieri tedeschi parve in un primo momento far volgere le sorti dello scontro in favore degli Svevi. Ma quando l'attacco si esaurì, i romani, campani, lombardi e toscani dell'esercito di Manfredi si diedero alla fuga. Nello scontro finale Manfredi trovò la morte. La strada verso la conquista del Regno era ormai aperta per gli Angioini.

A C. rimaneva ora poco tempo per consolidare la situazione nel Regno. Ancora più difficile della vittoria su Manfredi era il compito di prendere saldamente in mano il paese solo superficialmente conquistato. Gli fu molto utile quindi Jozzelino della Marra, il maestro razionale di Manfredi che insieme col tesoro dello Stato gli consegnò l'archivio degli uffici finanziari di Manfredi e fu confermato nella carica. Registri e atti risalenti al tempo di Federico II poterono venire in mano di C. solo dopo la caduta di Lucera nell'autunno 1269. C. mantenne in larga misura gli istituti amministrativi svevi, sia perché era il modo più semplice di amministrare il Regno sia perché la continuità avrebbe tranquillizzato i sudditi. In un primo tempo, negli anni 1266-68, prevalse tuttavia nella sua azione la politica estera, mirante a consolidare la sua signoria. I mandati e i registri di questo periodo giunti fino a noi sono scarsi e non seguono direttive sistematiche: innanzitutto si dovevano ristabilire pace e ordine (la soldatesca francese si comportava in modo tale da suscitare le proteste di Clemente IV nel febbraio del 1267). Mediante l'esazione di una subventio generalis nell'autunno del 1266 e la emissione di editti sulla moneta nel novembre dello stesso anno fu assicurato il finanziamento di future imprese. Inoltre nell'ottobre del 1266 fu riorganizzata l'università di Napoli. In questo primo periodo il sud rimase escluso ogni provvedimento: C. oltrepassò per la prima volta la linea Salerno - Lagopesole - Trapani in occasione della crociata a Tunisi nel luglio del 1270.

Nell'aprile del 1267 C. lasciò il Regno. Nel frattempo si affacciava dal nord un nuovo pericolo. I partigiani di Manfredi che, come Corrado d'Antiochia e Giovanni da Mareri erano fuggiti dalla prigionia, o che, come Federico e Galvano Lancia, erano andati in esilio dopo la confisca dei loro possedimenti da parte di C., riponevano ora le loro speranze nel giovane Corrado, figlio di Corrado IV, l'ultimo rampollo della dinastia sveva. A lui si rivolgevano ora i Capece, i Lancia, Corrado d'Antiochia e altri; con lui si schierò il famoso notaio e stilista di Manfredi, Pietro de Prece. I ghibellini toscani e il partito imperiale dell'Italia settentr. condussero un'efficace propaganda in favore di Corradino (questa forma italiana del nome, mai attestata dalle fonti contemporanee, ma apparsa solo più tardi, è entrata nella storia). All'incirca dall'inizio del 1267 si ritrovarono presso di lui in Baviera molti degli esuli dell'Italia meridionale; Corradino distribuì già allora, come più tardi a Verona, le cariche più alte del suo Regno ereditario siciliano: Galvano Lancia divenne il suo consigliere più importante, Corrado Capece fu nominato maestro giustiziere dell'intero Regno e capitano generale e vicario in Sicilia, Manfredi Maletta (e più tardi Tommaso d'Aquino) camerario dei regni di Gerusalemme e Sicilia, Roberto Filangieri luogotenente degli stessi due regni. Corrado Capece, a Pisa dal marzo del 1267, tentò di riunire le forze antiangioine per un attacco al Regno. La situazione era grave.

Nel novembre 1266 il capo dei ghibellini fiorentini Guido Novello aveva dovuto lasciare la propria città: la vittoria di C. a Benevento aveva rafforzato anche in Toscana i guelfi, che ora chiedevano aiuto a Carlo. Clemente IV cercò in un primo momento di mediare tra le parti. Siena e Pisa, i cui mercanti C. aveva espulso dal Regno (marzo 1267), abbracciarono la causa di Corradino, e ad esse si unì Guido Novello. Il fatto accelerò l'arrivo in Toscana delle truppe di Carlo. Clemente IV intervenne allora in favore dei guelfi comminando pene canoniche contro i sostenitori di Corradino e chiamando questo ultimo a discolparsi in Curia entro il 29 giugno. Il 17 apr. 1267 le truppe di C. insieme con Guido Guerra e i guelfi fiorentini entrarono a Firenze cacciandone i ghibellini che non vi avrebbero più fatto ritorno. C. fu eletto podestà di Firenze per il resto dell'anno e i successivi sei anni. L'esempio fu seguito da Prato, Pistoia, Lucca, San Gimignano e altri Comuni toscani. Presto rimasero dalla parte di Corradino soltanto Siena e Pisa. A metà luglio lo stesso C. fece la sua comparsa in Toscana.

Nel corso del suo lungo soggiorno a Viterbo - salvo brevi intervalli, dalla fine di aprile alla fine di giugno - C. aveva dovuto sopportare le prime recriminazioni e rimproveri di Clemente IV per gli scarsi riguardi usati nella conquista del Regno. A Viterbo divenne anche chiaro che C., prima ancora di consolidare il suo potere nel Regno, mirava più in alto. Progettò di passare l'Adriatico e riportare sul trono di Costantinopoli l'imperatore Baldovino, ricavandone notevoli acquisti territoriali in Grecia. Il 25 e il 27 maggio 1267, con la mediazione del papa, furono conclusi i relativi accordi: cominciarono così i tentativi di C. di espandere il proprio dominio nel Mediterraneo orientale secondo un progetto che non avrebbe abbandonato fino alla morte.

Per leggittimare l'intervento di C. in Toscana, Clemente gli conferì il 4 giugno 1267 il titolo di "pacificatore" della Toscana fino all'elezione del nuovo imperatore. In tal modo si riuscì a mascherare l'usurpazione dei diritti imperiali: poco dopo C. si autonominò vicario imperiale senza che il papa trovasse nulla in contrario. Il 15 agosto entrò a Firenze, ma i tentativi di conquistare Siena fallirono e Poggibonsi si arrese solo dopo un lungo assedio il 30 nov. 1267. Pisa, che proprio allora rafforzava il suo potere in Sardegna, si alleò più strettamente con Corradino. Nella Marca prendevano il sopravvento i ghibellini di Guido da Montefeltro.

Nel frattempo l'autorità di C. a Roma era in declino. Nella primavera del 1267 era giunto in Italia il principe Enrico (Arrigo) di Castiglia, fratello del re Alfonso X e cugino di C., che da tempo era a ricerca di un dominio. Intelligente, ambizioso e brutale, aveva cospirato contro il padre, era quindi stato alla corte di Enrico III d'Inghilterra (per il cui figlio Edmondo avrebbe dovuto conquistare la Sicilia), passando poi al soldo del signore di Tunisi e assumendo i costumi saraceni.

Al momento del suo arrivo in Italia, i rapporti tra lui e C. erano buoni: egli aveva sostenuto finanziariamente la spedizione contro Manfredi e quindi sperava di ottenere l'appoggio di Carlo. Ma questi si oppose al progetto di Enrico di sposare la vedova di Manfredi, che accampava diritti sull'isola di Corfù e le zone vicine della Grecia continentale, ricevute in dote dal padre, dato che egli stesso aspirava a un'espansione in Grecia. E si oppose anche all'altro piano di Enrico d'impadronirsi della Sardegna. Il principe castigliano, comunque, riuscì ad approfittare della nuova situazione venutasi a creare a Roma. Qui proprio nella primavera del 1267 il partito popolare era riuscito a giungere al potere e successivamente si era rivolto ad Enrico, offrendogli la carica di senatore. Con il consenso del pontefice, il principe castigliano nel giugno assunse l'ufficio senatoriale e, subito dopo, anche perché influenzato dagli antichi sostenitori di Manfredi, cominciò a seguire una politica di opposizione a C.: prese, infatti, contatto con i ghibellini toscani e in luglio-agosto anche con Corradino, per il tramite di Guido da Montefeltro. Lo Svevo, che stava portando a termine i preparativi per la spedizione in Italia, rispose favorevolmente all'iniziativa di Enrico.

In agosto Corradino partì da Augusta con un esercito non molto numeroso: all'inizio vi erano solo circa 3.000 cavalieri, poi rinforzati dall'apporto di ghibellini italiani. Il predominio del partito antimperiale in Lombardia rallentò la spedizione e mise Corradino in gravi difficoltà finanziarie. Frattanto Corrado Capece si era recato a Tunisi dove, utilizzando i legami stabiliti al tempo degli Svevi, aveva ottenuto l'appoggio dello hāfside al-Mustansir che alla fine di agosto allestì una spedizione. Ne facevano parte lo stesso Corrado Capece con tedeschi e toscani e Federico di Castiglia, fratello e alleato di Enrico, con spagnoli e musulmani, che, sbarcati in Sicilia presso Sciacca, dove l'autorità di C. arrivava appena, sconfissero il vicario di C. e spinsero alla rivolta quasi tutta l'isola. Nell'ottobre del 1267 Galvano Lancia trattò a Roma per conto di Corradino con Enrico di Castiglia, che in novembre escluse dalla politica cittadina i sostenitori dell'Angiò. All'inizio del mese di dicembre si stabilì un'alleanza tra l'emissario di Corradino, i ghibellini toscani ed Enrico di Castiglia, mentre il pontefice Clemente IV tentava ancora una mediazione. Sulla base di questo crescente accerchiamento della signoria di C. e nonostante il parere contrario dei parenti Luigi di Baviera e Mainardo del Tirolo, il 17 genn. 1268 Corradino decise di proseguire la marcia verso il Sud. Nel frattempo C. tentava invano, con l'aiuto di Genova, di conquistare Pisa; poi, dopo l'arrivo di Corradino a Pavia, ritenne più opportuno bloccare i passi appenninici tra Lucca e la Lombardia e la strada della costa verso Genova. Dovette tuttavia rinunciare al suo piano originale di affrontare in questa zona Corradino, perché la situazione del Regno si faceva per lui sempre più difficile. In particolare all'inizio di febbraio del 1268 si erano ribellati a Lucera i saraceni trasferiti in quella città dalla Sicilia per ordine di Federico II. In aprile il re lasciò la Toscana e s'incontrò a Viterbo con Clemente IV: questi scomunicò Corradino, Enrico di Castiglia, Guido da Montefeltro e altri partigiani del principe svevo, offrì a C. la carica di senatore di Roma per dieci anni e lo nominò il 27 aprile vicario imperiale in Toscana. Un attacco del re contro Roma fallì il 23 aprile, così C. all'inizio di maggio si diresse attraverso L'Aquila e Chieti verso la Puglia e cominciò il 20 maggio l'assedio di Lucera. Clemente IV bandì la crociata contro Corradino ed i suoi seguaci. Il principe tedesco aveva lasciato Pavia il 22 marzo e attraverso la valle della Bormida di Spigno aveva raggiunto la costa presso Savona, imbarcandosi quindi lì per Pisa su navi pisane con una piccola parte dell'esercito, mentre il grosso faceva ritorno a Pavia. Di qui alla fine di aprile ripartì per raggiungere - attraverso il territorio di Piacenza, la valle del Taro e il passo di Cento - la costa presso Sarzana e proseguire poi per Pisa, dove entrò il 2 maggio senza essere ostacolato dalle truppe di C. al comando di Guillaume l'Estendart e Jean de Braiselve.

Alla testa di un esercito di circa 5.000 cavalieri, attraverso Siena, Grosseto, Tuscania e Viterbo, Corradino raggiunse Roma il 24 luglio, dove venne accolto da Enrico di Castiglia. Fu quindi deciso di cercare immediatamente lo scontro risolutivo. C. non era riuscito a prendere Lucera e a soffocare la rivolta; Corradino doveva quindi tentare di prendere contatto il più presto possibile coi ribelli. C. si rese conto della gravità della situazione. La rivolta si estendeva a tutta la Puglia, mentre anche in Calabria i partigiani di Corradino guidati da Rinaldo da Cirò prendevano il sopravvento. Anche C. dovette quindi cercare lo scontro decisivo. A fine luglio abbandonò l'assedio di Lucera e marciò lungo la via Valeria attraverso la Marsica; il 4 agosto egli si fermò ai Campi Palentini a nord-ovest di Avezzano, particolarmente adatti come campo di battaglia. I suoi agenti a Roma l'avevano evidentemente informato della direzione di marcia di Corradino, che subito dopo l'arrivo nella città aveva deciso con Enrico di Castiglia di non proseguire lungo la via Latina verso la Campania, dove il seguito di C. era ancora forte, ma attraverso Tivoli e la via Valeria raggiungere rapidamente la Puglia e unirsi ai ribelli. Il 3 agosto l'esercito di Corradino, rinforzato dai mercenari di Enrico di Castiglia, lasciò Roma; il principe svevo era certamente informato attraverso spie della presenza di C. ai Campi Palentini. Per evitare la battaglia l'esercito di Corradino a Carsoli il 20 agosto piegò a nord lungo aspri sentieri di montagna, per aggirare a settentrione C. attraverso L'Aquila. Quando C. si accorse della manovra, spostò il campo a Ovindoli per tagliare ad ogni costo la strada a Corradino. La difficile marcia attraverso i monti di Carsoli costrinse però Corradino ed Enrico di Castiglia a rinunciare al loro piano di aggiramento; raggiunta il 21 ag. l'alta valle del Salto, la discesero verso il sud di nuovo in direzione della via Valeria e dei Campi Palentini. C., informato a sua volta di questo cambio di direzione, lasciò Ovindoli per tornare anch'egli ai Campi Palentini. La sera del 22 agosto i due eserciti, quello di Corradino in marcia da nord-ovest a sud-est e quello di C. in direzione opposta, vennero a contatto tra Magliano e Cappelle presso un torrente di montagna chiamato Riale. Il giorno dopo si venne a battaglia, che poi fu detta di Tagliacozzo dal nome di questo centro più grande sito dieci chilometri ad occidente.

L'esercito svevo, forte di circa 5.000 uomini, superiore per numero di un migliaio di unità a quello di C., avanzò su tre file, la prima guidata da Kroff da Flüglingen e la seconda da Enrico di Castiglia, mentre il giovane Corradino si trovava nella terza e ultima. C. mandò incontro al nemico le sue truppe, composte di francesi, provenzali e guelfi italiani, su due file guidate da Henri de Courances e Guillaume l'Estendart. Per ingannare l'avversario Henri de Courances portava le insegne reali. C. guidava personalmente la terza linea, pronta alla sorpresa in un avvallamento a nord-ovest di Antrosano, dove non poteva essere vista dal nemico. Questa tattica, che bilanciò la sua inferiorità numerica e lo condusse alla vittoria, gli fu suggerita sull'esempio di un modello saraceno da Erard de Valéry, un vecchio amico del tempo della crociata nel delta del Nilo che si era unito a C. da poco, proveniente da San Giovanni d'Acri, e da Guglielmo di Villehardouin, il principe d'Acaia che pure si trovava nell'esercito di Carlo. Non a torto quindi i cronisti di poco posteriori misero in rilievo la parte avuta da Erard de Valéry nella vittoria (cfr. anche Dante, Inf., XXVIII, 17 s.); In un primo momento gli Svevi, con un'abile manovra di aggiramento e un attacco sul fianco di Enrico di Castiglia, ebbero la meglio sulle prime due file di C., ma quando il principe castigliano si allontanò in direzione di Albe all'inseguimento dei francesi sbaragliati e i rimanenti cavalieri di Corradino, convinti che il caduto Henri de Courances fosse il re, smontarono da cavallo per l'usuale spoliazione delle salme, allora C., che aveva osservato gli avvenimenti da una collina, piombò all'improvviso con la sua terza linea sul campo di battaglia, disperse in un aspro scontro gli Svevi intenti al saccheggio e sconfisse anche Enrico di Castiglia reduce dall'inseguimento mediante l'uso di un'altra tattica orientale, quella della finta ritirata. Corradino, che era rimasto abbastanza indietro nella terza linea, potè fuggire verso Roma per la stessa strada da cui era venuto; Enrico di Castiglia fu preso prigioniero presso Rieti mentre fuggiva e trascorse molti anni in carcere; altri sostenitori di Corradino, come Tommaso d'Aquino e Kroff da Flüglingen, furono immediatamente giustiziati. La battaglia fu contraddistiata da un calcolo tattico modernamente apprezzabile (non c'è niente che ricordi la concezione, largamente diffusa, della battaglia come giudizio di Dio) e delle atrocità bestiali, che erano dovute anche alla pericolosa situazione nella quale si trovavano i contendenti. In segno di ringraziamento per la vittoria C. fondò proprio in vicinanza del campo di battaglia un monastero cisterciense per monaci francesi, S. Maria della Vittoria, che ancora nel 1313 sostenitori di Arrigo VII vollero distruggere per vendicare i fatti del 23 agosto 1268.

Mentre tentavano di fuggire in Sicilia Corradino e i suoi compagni Federico di Baden, Galvano e Galeotto Lancia, Napoleone Orsini e Riccardo Annibaldi furono catturati l'8 o 9 settembre presso Astura a sud di Anzio dal signore locale Giovanni Frangipane, già sostenitore di Federico II, ora passato dalla parte di Carlo. Il Frangipane, per motivi di lucro, consegnò i prigionieri all'Angiò dietro pagamento di un alto premio. Il 16 sett. C. fece il suo ingresso a Roma in veste di senatore. I due Lancia furono giustiziati come rei di tradimento; per la condanna e l'esecuzione di Corradino, C. prese tempo per dare al processo un'apparenza di legalità. In ottobre Corradino, Federico d'Austria e altri furono portati a Napoli in Castel dell'Ovo. A una commissione di giuristi venne posto il quesito se i due principi potevano essere considerati aggressori stranieri (invasores regni)e rei di lesa maestà - la situazione giuridica era al proposito evidentemente poco chiara -, reati per i quali la legge siciliana prevedeva la pena di morte. Dopo la risposta positiva dei giuristi al quesito seguì la condanna, pronunciata dal re secondo il diritto siciliano: non pare che sia stato celebrato un processo formale.

Dietro la facciata del rispetto formale della legge C. era mosso dall'effettiva preoccupazione politica di eliminare definitivamente un pericoloso concorrente al trono di Sicilia e di consolidare la propria dinastia, la cui situazione era resa estremamente difficile dal moto di rivolta in Puglia e Sicilia. Le fonti non dicono se, o fino a che punto, il papa Clemente IV fosse d'accordo con la decisione di Carlo. Dopo aver redatto il proprio testamento Corradino e Federico di Baden, insieme con altri ghibellini tedeschi e italiani - solo Enrico di Castiglia fu risparmiato -, furono giustiziati il 29 ott. 1268 sulla piazza del Mercato di Napoli; i resti di Corradino furono sepolti più tardi nella chiesa del Carmelo, da poco costruita.

L'inaudita crudeltà dell'esecuzione dell'ultimo erede della famiglia imperiale provocò sdegno non solo in Germania e tra i ghibellini italiani, ma anche tra i sostenitori guelfi di C. e negli ambienti ecclesiastici che cominciavano a prendere le distanze dall'Angiò, e a dubitare della bontà della loro scelta. A poco a poco nel partito guelfo maturò la convinzione che la comunanza di interessi con i Francesi era limitata e che gli interessi autonomi italiani dovevano essere difesi anche contro Carlo.

La consistenza dell'opposizione interna a C. è dimostrata dal fatto che per ben dieci mesi Lucera riuscì a resistere al suo assedio. Il re era partito per la Puglia già all'inizio del novembre del 1268; il 18 novembre, essendo morta la prima moglie Beatrice (23 sett. 1267), sposò a Trani Margherita di Borgogna, figlia del conte Eudes di Nevers e Tonnerre. I sostenitori di Corradino in Campania e Puglia furono perseguitati con notevole crudeltà. Il 4 dic. 1268 tuttavia C. promise l'amnistia per i sudditi ribelli (non per i tedeschi, spagnoli e pisani) che si fossero sottomessi entro la quaresima del 1269, ma nella maggior parte dei casi la resistenza, che ebbe i suoi punti forti, oltre che a Lucera, a Gallipoli, Amantea e nella zona di Sulmona in Abruzzo, dovette essere stroncata con le armi. In realtà l'opposizione non fu mai definitivamente sconfitta ed ebbe modo di manifestarsi in seguito. In Sicilia la resistenza era ancora più forte che sul continente e continuò anche dopo la battaglia di Tagliacozzo sotto la guida di Corrado Capece e Federico di Castiglia. Le truppe di C., impegnate nell'isola dall'inizio del 1269, combatterono senza successo fin quando, nell'agosto del 1269, non ne assunse la guida Guillaume l'Estendart: solo allora la repressione registrò progressi. Federico di Castiglia e Federico Lancia si ritirarono a Tunisi. Corrado Capece resistette nella rocca di Centuripe nell'interno dell'isola fino all'estate del 1270, quando per un tradimento cadde nelle mani dei Francesi e fu giustiziato.

Solo a questo punto C. poté affrontare una riorganizzazione complessiva del suo Regno. Lo fece concedendo sistematicamente a francesi e provenzali i numerosi feudi vacanti per l'esecuzione, la proscrizione o la fuga dei sostenitori degli Svevi, e ricostruendo, sempre con l'aiuto del suo seguito francese e provenzale, l'amministrazione centrale sul modello di quella sveva. Furono ordinate inquisitiones suifeudi, ricerche sistematiche, cioè, condotte da funzionari regi (dai giustizieri per le inchieste riguardanti intere province o tutto il Regno) mediante l'interrogatorio di testimoni: anche questo sistema ricalcava l'amministrazione sveva. Già nella primavera del 1269 fu condotta una di queste inchieste, diretta all'individuazione dei "traditori", cioè di quei sostenitori di Corradino cui si volevano confiscare il patrimonio e i feudi per assegnarli ad altri. Così nel 1272, prima della prevista spedizione in Grecia, furono anche accertate le connessioni tra i feudi dei baroni indigeni; si ha notizia di ulteriori inchieste sui feudi negli anni 1275, 1277 e 1278 ed anche dopo i Vespri siciliani, nel 1282 e 1283-84. Nel 1270 venne condotta un'inchiesta generale sui feudi colpiti dalla revoca di tutte le concessioni che erano state fatte da Federico II dopo la sua deposizione da parte del concilio di Lione (1245) e dai suoi figli Corrado e Manfredi. Il Liber donationum iniziato nell'autunno del 1269 testimonia la riassegnazione di questi feudi a francesi e provenzali. In Sicilia, a partire dal gennaio del 1270, fu ordinata una inchiesta generale sulla situazione delle proprietà. Nel 1277 un'analoga inquisitio accertò la consistenza delle proprietà ecclesiastiche.

Al vertice del Regno era la magna regia curia, la corte del re, che costituiva anche una sorta di Consiglio di Stato. Una volta l'anno questa corte, allargata ai giustizieri ed agli ufficiali finanziari, si costituiva in curia generalis, una prassi che cessò però presto.

Tra gli ufficiali di corte il rango più alto spettava al comestabulus (connestabile), comandante in capo dell'esercito, cui spettava il posto più vicino al re secondo il cerimoniale. La carica fu assunta fin dall'inizio del regno di C. da Jean Britaud de Noyels, che morì nel 1278; in seguito sotto C. non venne più ricoperta. Al secondo posto veniva l'ammiraglio, una carica esistente dal tempo dei Normanni e derivante dal termine arabo amīr, al cui detentore spettava il comando della flotta reale. Nel 1269 ricoprì l'ufficio Guillaume de Beaumont, che morì nel corso di quello stesso anno; gli successe Fulco de Puy-Richard, quindi nel 1271 Philippe de Toucy e nel 1273 Narjaud de Toucy. Alle alte cariche di corte appartenevano anche i magistri iustitiaratus o iustitiarii (maestri giustizieri), i funzionari più alti della giustizia e dell'amministrazione del Regno. Il protonotario esercitava diverse funzioni nella preparazione dei documenti. Eccezionalmente i titolari di questo ufficio erano italiani, ed anche qui troviamo solo dei laici. Il primo, Roberto da Bari, era un fuoruscito dal Regno, che troviamo in questa veste alla corte di C. negli anni 1265-1268 e che ebbe una parte ingloriosa nel processo a Corradino. Quindi la carica rimase formalmente scoperta, ma in realtà fu esercitata da Sparano da Bari e dal grande giurista Bartolomeo da Capua (a partire dal 1283). I camerari del Regno sovraintendevano in pari tempo al buon andamento della corte e alle finanze. Il sigillo era conservato dal cancelliere, un ecclesiastico cui spettava anche la giurisdizione sui religiosi della corte (mentre quella sui laici della corte spettava al siniscalco). Infine C. introdusse, sull'esempio francese, la carica di maresciallo (ve ne erano in realtà due), cui spettava la sovraintendenza sull'acquartieramento e l'approvvigionamento dell'esercito e sui castelli, nonché la responsabilità della giurisdizione militare. Le funzioni della maggior parte delle cariche, come quelle di connestabile, ammiraglio, maresciallo, corrispondevano a quelle in uso alla corte di Francia. Il fatto che alcune cariche di corte non fossero ricoperte indica che andavano perdendo significato e si trasformavano in cariche onorifiche, mentre le relative funzioni erano assolte da funzionari di rango inferiore.

L'ampia produzione legislativa di C. non costituisce un'unità organica, ma fu pubblicata con successivi decreti. Delle raccolte pervenuteci, la più antica è quella contenuta nel Vat. lat. 6770, che abbraccia le prime leggi e fu consegnata nel 1273 al giustiziere di Terra di Bari, Simon de Beauvoir. Anche nelle raccolte di leggi C. si rifece alle costituzioni di Federico II, trattando però le relative materie giuridiche in maniera più profonda e dettagliata.

Basata sul diritto vigente nell'Italia meridionale, la legislazione di C. si ispirò anche al diritto romano e al canonico e trasse spunti dalle nonne consuetudinarie francesi. Fu conservato il principio della personalità del diritto di origine germanica, mentre vennero disciplinati i reati di alto tradimento, lesa maestà, oppressione dei deboli, contraffazione di monete e documenti, abusi dei funzionari, delitti contro il buoncostume, ingiurie verbali e fisiche, assassinio e omicidio preterintenzionale, rapina, furto ed altri delitti contro la proprietà, usurpazione di beni, usura, violazione dei diritti di caccia e pesca. C. tenne, inoltre, fede agli accordi del 1265 in merito al foro ecclesiastico: il clero fu esentato dalla competenza dei giudici regi e tenuto all'osservanza delle norme canoniche.

Dall'organizzazione sveva C. riprese la suddivisione del Regno in undici giustiziariati (province), ciascuno con a capo un giustiziere (le suddivisioni dei giustiziariati erano provvisorie). La carica di giustiziere durava di norma un anno, ma poteva essere prolungata fino a due o tre anni. Inoltre i giustizieri passavano spesso da una provincia all'altra. Provenivano dalle file dei cavalieri francesi e provenzali, rappresentavano il re ed erano responsabili dell'amministrazione, della giustizia e delle finanze delle province loro sottoposte; dovevano provvedere all'esecuzione dei decreti reali ed assicurare il mantenimento dell'ordine. Nelle cause criminali erano giudici di prima istanza e nelle altre giudici di appello per i ricorsi contro le sentenze di giurati e giudici. Conducevano inoltre le inchieste di cui si è detto sullo stato della proprietà ed altre simili indagini. Al loro fianco erano uno o più giudici a latere, parecchi notai e perlopiù anche un tesoriere (erarius). Sotto di loro nella scala gerarchica si trovavano nelle zone amministrate dal Demanio regio i giudici (iudices)ed in quelle sottoposte all'autorità dei feudatari ecclesiastici e laici i giurati (magistri iurati), ma la separazione tra i due tipi non era rigida. Questi magistrati erano eletti all'inizio di ogni indizione per un anno dalle universitates, dovevano essere confermate dal giustiziere e nelle sue mani prestavano giuramento. I giurati delle zone non direttamente amministrate dalla Corona furono aboliti con le riforme successive ai Vespri siciliani e sostituiti da baiulivi.

Ai giustizieri spettava anche il compito dell'esazione della ormai regolarmente imposta subventio generalis, cui erano obbligati tutti i sudditi tranne i vassalli regi tenuti al servizio personale (che potevano tuttavia evitare col pagamento dell'imposta dello adohamentum). La tassazione avveniva attraverso dei taxatores, la riscossione attraverso dei collectores che passavano le somme agli executores, i quali a loro volta le consegnavano al giustiziere che finalmente le versava alla Camera regia (dall'anno 1277 detta Trésor). Vi erano inoltre numerose altre imposte e tributi riscossi da quattro secreti, perlopiù italiani, per le quattro regioni: 1) Principato, Terra di Lavoro ed Abruzzi; 2) Puglie (in senso più ampio); 3) Calabria; 4) Sicilia. A questa categoria appartenevano canoni di affitto, tributi di vario tipo, gli adohamenta dei vassalli, imposte indirette, dazi, diritti di entrata e uscita, pedaggi e simili. I compiti deisecreti si sovrapponevano in parte a quelli dei magistri procuratores et portulani, magistri massarii e altri cui spettava, come indicano i loro titoli, la riscossione di diritti portuali e demaniali. Ulteriori fonti di entrate per la Corona erano rappresentate dalle confische di beni, dai diritti feudali e dai tributi di signori stranieri come gli Hafsīd di Ifrīqiya. Nonostante il bilancio complessivo delle finanze reali fosse notevole, mancano in proposito cifre esatte. La pressione fiscale creò un grave malumore nella popolazione contro la dominazione angioina e fece nascere anche problemi demografici legati all'esodo della popolazione rurale verso le terre ecclesiastiche in cui la pressione fiscale non si esercitava. Il fatto che spesso gli impiegati del fisco angioino fossero italiani non può costituire un argomento a difesa di questa rigida politica finanziaria.

I castelli (C. ne ampliò alcuni del tempo di Federico II, come a Lucera) furono amministrati come al tempo degli Svevi da provisores castrorum (la carica scomparve temporaneamente tra il 1269 e il 1273), anch'essi tratti dalle file dei francesi e dei provenzali. Una certa forma di supervisione e controllo era esercitata dal magister balistariorum, una carica introdotta da Carlo. I singoli castelli avevano come comandanti dei castellani, anch'essi francesi e provenzali.

L'ampia attività della cancelleria regia - era particolarmente alto il numero degli atti amministrativi - era in mano al protonotario, responsabile della stesura di privilegi, concessioni graziose e lettere di contenuto politico e amministrativo, al magister iustitiaratus, che si occupava delle lettere di giustizia, ed ai magistri rationarii, responsabili delle questioni finanziarie (vi erano tuttavia delle eccezioni a questa regola). I documenti redatti in mundum venivano consegnati al cancelliere che li controllava ed eventualmente correggeva, vi apponeva quindi il sigillo, li faceva registrare e li rimetteva ai destinatari. Oltre a ciò, in casi urgenti, il cancelliere aveva pieni poteri per emettere documenti concernenti l'amministrazione; nelle sue mani erano le questioni segrete, che il sovrano non voleva affidare al protonotario o ai notai. Erano famosi gli ampi registri, compilati da appositi scribi, registri che comprendevano serie separate per la Camera e gli uffici finanziari, il cancelliere e le questioni segrete. I cinquanta volumi del periodo di governo di C. sono purtroppo andati distrutti durante la seconda guerra mondiale e debbono essere faticosamente ricostruiti.

L'amministrazione finanziaria centrale era costituita dal Trésor, sottoposto al camerario: l'ufficio comprendeva nell'anno 1278 quattro magistri rationales e otto notai, a disposizione dei quali erano poi alcuni scribi. A questi altissimi funzionari finanziari spettava anche il controllo dell'archivio, che seguiva ancora gli spostamenti della corte. Altri notai lavoravano agli ordini del magister iustitiaratus e, dopo il 1269, del vicemagister iustitiarii e dei giudici e avvocati da questi dipendenti, nonché per conto degli altri uffici di corte. L'intero personale di corte apparteneva alla cerchia dei consiglieri e familiari (consiliarii et familiares) del re.

In politica ecclesiastica gli accordi pattuiti nel 1265 imposero a C. regole molto rigide riguardo al mantenimento della libertà della Chiesa. In questo ambito si inquadrarono la restituzione dei beni ecclesiastici espropriati, l'insediamento di vescovi da parte della Curia (attuato in parte cacciando eletti e vescovi sostenitori degli Svevi), l'astensione da ogni intervento negli affari ecclesiastici (soprattutto in elezioni, nomine, provvisioni), il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica e l'esenzione fiscale del clero. Ma queste condizioni spesso non furono rispettate, come dimostrano le proteste di Clemente IV e la riconferma di questi privilegi al Parlamento di San Martino (marzo del 1283), nell'ambito delle riforme rese necessarie dallo scoppio della rivolta in Sicilia. Per quanto concerne i resti della Chiesa greca nel Regno (in Terra d'Otranto, Calabria meridionale e Sicilia), furono attuate le disposizioni in materia di diritto comune prese al quarto concilio lateranense e al secondo di Lione, com'è dimostrato dagli statuti emanati dal cardinal legato Gerardo Bianchi in un sinodo tenuto a Melfi nel 1284.

In collaborazione con Clemente IV, C. riorganizzò l'università di Napoli, fondata da Federico II ma decaduta dopo la sua morte, cercando di chiamarvi insegnanti italiani e francesi di chiara fama. Ma lo Studio napoletano non riuscì a riacquistare la precedente autorità. Inoltre sotto C. proseguì la decadenza della scuola di medicina di Salerno, ormai sopravvanzata da quelle di Montpellier e di Bologna.

Alla morte di Clemente IV (29 nov. 1268), il trono pontificio rimase vacante per tre anni. In questo periodo C. proseguì nel consolidamento del suo dominio in Toscana. La sua roccaforte era dal 1267 Firenze: i guelfi locali si fecero portatori di un'idea guelfa di collaborazione tra Papato, Angiò e "liberi" Comuni contro i sovrani tedeschi. Nella primavera del 1269 Jean de Britaud intraprese una campagna militare in Toscana, nel corso della quale batté in giugno i ghibellini a Colle Val d'Elsa ed attaccò senza successo Pisa. Nell'agosto di quello stesso anno venne raggiunto con Genova un accordo che garantiva i diritti commerciali della città nel Regno. I Genovesi nel 1267 avevano però concluso un ampio trattato commerciale con Bisanzio che assicurava loro il quartiere costantinopolitano di Galata (Pera). Genova non poteva quindi essere indotta a una politica antibizantina, e dopo il 1270 si giunse a tensioni e conflitti tra Genova e Carlo. Il potere nella città era stato assunto da un governo antiangioino, che il 30 ottobre 1273 concluse un'alleanza con il marchese del Monferrato e gli altri avversari di C. in Lombardia. Il 25 ott. 1275 seguì un nuovo accordo con l'imperatore d'Oriente e solo nella primavera del 1276 la mediazione di papa Innocenzo V consentì di concludere una pace tra C. e Genova. Pisa invece si sottomise nell'aprile del 1270 e fu seguita un anno dopo da Siena.

Alle ambizioni di C. servivano anche i legami matrimoniali. La sua seconda figlia Beatrice era fidanzata, dal tempo dell'accordo di Viterbo, al primogenito dell'imperatore titolare di Costantinopoli, Filippo di Courtenay; il matrimonio ebbe luogo nel 1273. Il figlio di C. Filippo, proclamato re di Sardegna l'11 ag. 1269, sposò nel 1271 Isabella, figlia ed erede del principe Guglielmo d'Acaia. Si combinarono nel 1269 i fidanzamenti dell'erede al trono Carlo con Maria, figlia di re Stefano V d'Ungheria, e del figlio ed erede al trono di quest'ultimo, Ladislao, con la terza figlia di C., Isabella. Furono così gettate le basi della futura linea dinastica angioina in Ungheria, ma lo scopo immediato di questi progetti matrimoniali era la pressione su Venezia e Bisanzio.

C. preparava nel 1269, con i principi francesi costretti alla fuga dai loro possessi orientali, la riconquista della Grecia e degli altri territori bizantini. In base agli accordi del 1267 l'Acaia (Morea) sarebbe rimasta a Guglielmo di Villehardouin fino alla sua morte; se egli fosse morto senza eredi maschi sarebbe passata al genero Filippo, figlio di Carlo. Se poi Filippo fosse morto senza eredi prima del suocero, cosa che in effetti avvenne, il principato sarebbe toccato a C. o al suo successore nel Regno. Nei confronti dell'imperatore latino Baldovino, l'Angiò si era impegnato a combattere per un anno nel corso dei successivi sei o sette anni con duemila cavalieri per la conquista di Costantinopoli e per il reinsediamento di Baldovino sul trono imperiale; e in cambio C. avrebbe ottenuto la sovranità sull'Acaia, l'Epiro, Corfù, un terzo di tutti i territori riconquistati col suo aiuto e una serie di isole nell'Egeo. L'accordo fu sancito dal matrimonio di cui si è detto tra il figlio di Baldovino, Filippo di Courtenay, e la figlia di C. Beatrice. Nel caso che Baldovino e Filippo fossero morti senza eredi l'Impero sarebbe passato a C. ed ai suoi eredi. Per rafforzare le basi della spedizione, programmata per il 1270, C. concluse accordi con Stefano Uroš di Serbia, lo zar Costantino Tich di Bulgaria e Venezia. Quest'ultima tuttavia seguì i piani di C. nell'Adriatico con diffidenza.

All'inizio di luglio del 1270 Luigi IX salpò da Aigues-Mortes su navi genovesi per la crociata programmata sin dalla caduta dell'Impero latino di Costantinopoli (1261): il suo obiettivo non era né la Siria né Costantinopoli, bensì Tunisi. Parecchi motivi dovettero condurlo a questa sorprendente decisione. Con il crollo degli Almoliadi le signorie berbere musulmane dell'Africa setttentrionale si erano divise in tre parti, delle quali quella degli Hafsīdi al potere nell'odierna Tunisia (Ifrīqiya) sotto Abū Zakariyya (1236-49) e suo figlio al-Mustanşir (1249-77) era riuscita a prevalere sulle altre due, quella di Banū 'Abd al-Wād e quella dei Marinidi. Alla corte dello Hafsīde al-Mustanşir, che dopo il crollo del califfato abbaside a Baglidad a opera dei Mongoli nel 1258 era stato per breve tempo riconosciuto addirittura califfo, si era riunita una parte dei sostenitori di Corradino in Sicilia. Lo Hafsīde aveva inoltre sospeso il pagamento dei tributi al Regno di Sicilia ed aveva stretto legami commerciali con la corte d'Aragona, dove si trovava Costanza, erede di Manfredi di Hohenstaufen: era ovvio che si attrasse l'ostilità di Carlo. Un'ambasceria, inviata nella tarda estate da al-Mustanşir a C., non sembrò far diminuire la tensione; invece all'inizio di ottobre a Saint-Denis e Parigi essa suscitò in Luigi la speranza che a certe condizioni l'emiro ed il suo popolo sarebbero passati al Cristianesimo. Per il pio, sovrano di Francia questo può aver costituito un argomento fondamentale per guidare in Ifrīqiya il suo esercito crociato, tanto più che missionari domenicani lo consigliavano in questo senso. Per il suo meno pio fratello questa deviazione della crociata significava la soddisfazione di un'esigenza delle sue ambizioni politiche ed economiche in Africa settentrionale ed una copertura alle spalle per le sue iniziative contro Bisanzio, come pur per possibili ulteriori crociate in Siria. Al- Mustanşir non pensava tuttavia a convertirsi. Prima di potersi impegnare in azioni belliche l'esercito crociato, sbarcato davanti a Tunisi il 17 luglio, fu decimato dal tifo e dalla malaria. Il 25 agosto morì Luigi IX, preceduto dal figlio più giovane, mentre il primogenito e successore Filippo III sopravvisse alla malattia. C., che aveva interrotto i suoi preparativi bellici contro Bisanzio, e aveva seguito l'esercito crociato con la sua flotta passando per la Sicilia, giunse davanti a Tunisi poche ore dopo la morte del fratello. Dopo i successi militari di C. al-Mustanşir il 30 ottobre si vide costretto a concludere un accordo decennale con il quale si accollava le spese di guerra, si impegnava al pagamento di un tributo, apriva il suo territorio ai commercianti italiani del Regno e ne espelleva gli esuli svevi.

C. tornò in Italia col nuovo re di Francia Filippo III. A Viterbo, dove si recarono i due sovrani, era ancora riunito il conclave. C. non s'immischiò nell'elezione perché una lunga vacanza della sede apostolica favoriva i suoi piani. Dopo una vacanza di quasi tre anni, il 1º sett. 1271, una commissione fiduciaria di sei persone raggiunse il compromesso necessario ad eleggere finalmente un nuovo papa. Non era un cardinale, ma l'arcidiacono di Liegi, il piacentino Tebaldo Visconti, da un anno in pellegrinaggio in Terrasanta, che, tornato in Italia all'inizio del 1272, fu incoronato il 27 marzo a Roma col nome di Gregorio X. Da allora in poi tutti i suoi sforzi furono volti all'unione con la Chiesa greca e alla riconquista della Terrasanta. Come italiano dimostrò subito di aspirare all'indipendenza dai Francesi. Le trattative da lui iniziate già in Siria con Michele VIII per la riunione delle Chiese erano inconciliabili con la politica aggressiva di C. nei confronti di Bisanzio. Il 31 marzo 1272 Gregorio annunziò una nuova crociata ed un concilio ecumenico; nell'aprile del 1273 fu fissata Lione come sede del concilio, i cui lavori sarebbero iniziati il 1º maggio 1274 (in realtà il concilio si riunì dal 7 maggio al 17 luglio 1274). Ma anche in Italia il nuovo papa volle mutare la situazione. Le lotte in Lombardia continuavano al pari di quelle tra guelfi e ghibellini in Toscana. Tornava quindi alla ribalta l'idea di un ristabilimento dell'autorità imperiale. Il piano di C. di affidare la dignità imperiale a Filippo III di Francia, il quale, a sua volta l'avrebbe nominato proprio vicario in Italia, non incontrò il gradimento del papa. Gregorio X prese anzi segreti contatti con i principi elettori tedeschi, che reagirono prontamente eleggendo re il 1º ott. 1273 a Francoforte il conte Rodolfo d'Asburgo. Nel novembre del 1273 Gregorio X giunse a Lione. Fin dall'estate le trattative per l'unione con i greci procedevano rapidamente con l'adesione a malincuore di C., che tuttavia si preoccupava di instillare nella Curia differenza nei confronti di Bisanzio e si dichiarava disponibile soltanto a prolungare di un anno, col consenso di Filippo di Courtenay, il termine dell'attacco stabilito nel 1267 a Viterbo, che scadeva nel maggio del 1274. Dal canto suo Gregorio non si oppose decisamente ai preparativi di C. perché intendeva servirsi dei suoi piani di attacco come mezzo di pressione nei confronti di Bisanzio. Michele VIII Paleologo vedeva invece nell'unione delle Chiese la carta migliore per evitare la progettata invasione angioina dei territori bizantini. Per ottenere questo vantaggio politico era disposto ad affrontare la forte resistenza del clero bizantino, in particolare dei monaci, contro l'unione con gli odiati latini. Il 6 luglio 1274 il suo inviato Georgios Akropolites giurò l'accettazione dei dogmi controversi, mentre il papa si dichiarava disposto per sé e i successori a fare concessioni per il mantenimento del rito greco. In precedenza era stata trattata la questione della crociata in programma. Michele fece assicurare dai suoi inviati il proprio sostegno a condizione di essere protetto dagli attacchi di Carlo. Si inserì allora come mediatore tra C. e l'imperatore l'abate Berardo di Montecassino; l'obiettivo di Gregorio era quello di ottenere un'ulteriore proroga del termine di attacco contro Bisanzio, cosa che gli riuscì, e svuotare così di significato l'accordo di Viterbo. Così l'Angiò nei mesi successivi dovette assistere all'attacco portato dalle truppe bizantine contro i suoi possedimenti albanesi ed a Neopatras contro il suo alleato Giovanni, che si atteggiava a punto di riferimento ortodosso di tutti gli avversari dell'unione.

Quando Gregorio alla fine di settembre del 1274 riconobbe finalmente Rodolfo d'Asburgo come re di Germania e cominciarono le trattative sulla sua incoronazione imperiale, il papa propose un matrimonio tra una figlia di Rodolfo e il nipote di C., Carlo Martello; ma i relativi negoziati tra gli inviati di Rodolfo e di C. fallirono già all'inizio dell'anno successivo perché il secondo pretendeva il distacco del Piemonte dall'Impero, cosa che l'Asburgo rifiutava. Nel corso di un incontro con Gregorio nell'ottobre del 1275 Rodolfo prese la croce: la nuova politica del papa nei confronti dell'Impero aveva ottenuto come non ultimo risultato anche l'assicurazione della crociata. I preparativi della spedizione procedevano rapidamente; fu anche stabilita la riscossione della decima per la crociata. Con la mediazione di Gregorio, Maria di Antiochia, che rivendicava il trono di Gerusalemme contro Ugo III di Cipro, entrò in contatto con C., cui all'inizio dell'anno 1277 vendette i propri diritti dietro il pagamento di una rendita annila di 4.000 tornesi e 1.000 pezzi d'oro. Dal luglio del 1277 l'Angiò si chiamò quindi anche re di Gerusalemme. All'inizio di giugno una flotta di C. apparve di fronte a San Giovanni d'Acri; il capo della spedizione, Ruggero Sanseverino, riuscì in breve tempo a far riconoscere C. come re di Gerusalemme alla maggior parte dei baroni latini e dei templari; soltanto Tiro e Beirut si mantennero fedeli ad Ugo. La più formale che reale signoria di C. sui resti degli Stati crociati durò fino alla morte; soltanto in seguito ebbe inizio il grande attacco del sultano dei Mamelucchi Qalāwūn ai castelli e alle città costiere dei cavalieri crociati che si concluse nel 1290 con la conquista di San Giovanni d'Acri e la fine degli Stati cristiani.

La crociata programmata, scopo principale della vita di Gregorio X, non si realizzò: il papa morì il 10 genn. 1276 ad Arezzo. L'elezione del successore fu questa volta molto rapida: il 21 gennaio i cardinali elessero all'unanimità Pietro di Tarantasia, cardinale vescovo di Ostia, che assunse il nome di Innocenzo V. C. si rallegrò dell'elezionedi questo francese da cui si riprometteva un cambiamento della politica del predecessore. In effetti Innocenzo lo confermò nelle sue cariche di senatore di Roma e di vicario imperiale in Toscana, lo sostenne finanziariamente e complicò le trattative con Rodolfo di Asburgo mediante la richiesta della cessione della Romagna; anche nei confronti di Bisanzio il nuovo papa riprese toni più duri. Morì tuttavia già il 22 giugno 1276. L'11 luglio fu eletto il gravemente infermo Ottobuono Fieschi, che assunse il nome di Adriano V, ma che morì il 18 agosto a Viterbo. Anche il suo successore il portoghese Pietro, che assunse il nome di Giovanni XXI, fu eletto rapidamente per la pressione della popolazione di Viterbo (18 settembre). Egli dovette l'elezione soprattutto al cardinal Giovanni Gaetano Orsini, che ne ricondusse lentamente la politica sui binari di Gregorio X, avendo nel frattempo gli Orsini preso le distanze da Carlo. Quest'ultimo dovette aumentare i suoi sforzi fin dal tempo di Innocenzo V nel tentativo di far fallire le ulteriori trattative tra il Papato e Bisanzio. Egli non interruppe i suoi preparativi in attesa che la sperata rottura delle relazioni tra Roma e Bisanzio gli consentisse di realizzare senza ostacoli i suoi piani aggressivi. Nella questione dell'incoronazione imperiale di Rodolfo non si fecero progressi sotto Giovanni XXI, che morì prima che si giungesse a una decisione, il 20 maggio 1277.

La successiva elezione ebbe luogo nuovamente a Viterbo, dove era podestà un Orsini che non esercitò alcuna pressione sui cardinali.

Il S. Collegio era composto da otto cardinali, dei quali il francese Simon de Brion era assente perché impegnato in un'ambasceria e il cardinale vescovo di Sabina, Bertrando, morì proprio durante il conclave. Dei restanti sei cardinali due erano degli Orsini, G. Gaetano e Matteo Rosso, uno, Giacomo Savelli (poi papa Onorio IV) era imparentato con gli Orsini, due erano francesi, Guglielmo di Bray e Ancher Pantaleo, e Pultimo ancora un italiano, Goffredo da Alatri, imparentato con gli Annibaldi, i rivali degli Orsini nella città di Roma. C. sperava che i due francesi e Goffredo da Alatri riuscissero a tirare dalla loro parte il Savelli e ad eleggere così un papa a lui gradito. Invece il gruppo Orsini riuscì a convincere il francese Guglielmo di Bray, cosicché, dopo un conclave durato sei mesi, il 25 nov. 1277 si giunse all'elezione, con la prescritta maggioranza di due terzi, di G. Gaetano Orsini, che prese il nome di Niccolò III.

La politica del nuovo papa avrebbe presto dimostrato che i timori di C. non erano infondati. Pur mantenendo corretti rapporti con C., Niccolò III perseguiva una propria politica: concedendo il cappello a tre parenti rafforzò la sua posizione nel Collegio cardinalizio e mise anche alcuni nipoti in posizioni-chiave dell'amministrazione delle terre della Chiesa, cosa che gli valse la condanna come nepotista da parte di Dante (Inf., XIX, 70 ss.). Non prorogò a C. le cariche di vicario imperiale in Toscana e di senatore di Roma, che scadevano rispettivamente in maggio e settembre del '78. A Roma assunse egli stesso il governo della città e nominò subito suo fratello senatore, vietando anche l'assimtone della dignità senatoriale da parte di sovrani stranieri. Nello stesso tempo riprese le trattative con Rodolfo d'Asburgo. Nel dicembre 1277 inviò presso Rodolfo un'ambasceria che rinnovò la vecchia richiesta della cessione dell'Esarcato e della Pentapoli, cioè della Romagna. Con due ambascerie, nella primavera e nell'estate del '78, il re aderì alla richiesta ed il 29 ag. 1278, poco dopo la vittoria su Ottocaro di Boemia a Dürnkrut, confermò con un diploma la rinuncia; le autorità con della Romagna resero quindi omaggio agli inviati papali Giffrido da Agnani e Giovanni da Viterbo. La Romagna venne quindi annessa alle terre della Chiesa, mentre il re, pur mantenendo teorici diritti imperiali, riconosceva la Toscana come zona di influenza papale. Soprattutto nell'Italia centrosettentrionale l'iniziativa era sfuggita dalle mani di Carlo. Con la mediazione papale egli aveva trattato pure con Rodolfo d'Asburgo. Nonostante la diffidenza del re dei Romani si riparlò del matrimonio della figlia di Rodolfo, Clemenza, con il più anziano nipote di C., Carlo Martello; la dote di Clemenza avrebbe compreso il regno di Arles e Vienne (Provenza, Savoia e Delfinato). Se si può prestar fede a Tolomeo di Lucca, ben informato sui segreti della Curia, questi accordi facevano parte di un più vasto piano di Niccolò III secondo il quale la Germania sarebbe dovuta divenire regno ereditario degli Asburgo, il regno di Arles, come si è detto, sarebbe passato a un nipote di C. e in Italia si sarebbero costituiti due altri regni (Lombardia e Toscana) destinati presumibilmente a nipoti del papa. Quale che fosse il grado di realtà di questi piani, sta di fatto che di essi si realizzerà solo il matrimonio tra Clemenza e Carlo Martello. Gli altri progetti andarono in fumo per la morte del pontefice e lo scoppio della rivolta in Sicilia, che impedì a C. di prendere possesso del regno di Arles. Sebbene Niccolò presentasse a Bisanzio precise richieste riguardo all'unione delle Chiese, C. si astenne decisamente dall'intraprendere un'impegnativa impresa militare contro l'imperatore. Né mutò la situazione il fiato che con la morte di Guglielmo di Villehardouin (1º maggio 12-78) il principato d'Acaia, in base agli accordi, passasse a C. (il figlio Filippo era morto già da un anno). I balivi angioini che si alternarono in Acaia non poterono esercitare una effettiva autorità. A partire dall'agosto del 1279 Hugo le Rousseau de Sully organizzò le truppe angioine in Albania e alla fine del 1280 mosse all'attacco delle posizioni-chiave bizantine sulla via Egnazia, per aprire all'offensiva programmata da C. la strada per Costantinopoli; ma nell'assedio di Berat nella primavera del 1281 fu battuto e fatto prigioniero da truppe bizantine. Nel frattempo, con un accordo col despota Niceforo di Epiro (10 aprile del 1279), C. aveva cercato di allargare le basi per il programmato attacco a Bisanzio. Sul piano militare tuttavia Michele VIII Paleologo rimaneva in posizione di vantaggio; i contingenti angioini furono costretti alla difensiva. Niccolò III aveva anche cercato di mediare tra C. e l'imperatore.

La situazione mutò con la morte del papa, sopravvenuta il 22 ag. 1280 in seguito a un colpo apoplettico. Egli era riuscito abilmente ad allontanare C. dalla parte d'Italia spettante all'Impero e, come i pontefici suoi predecessori, con le trattative in corso dall'ottobre del 1278 con Bisanzio, aveva tolto il pretesto per attuare i suoi piani aggressivi al di là dell'Adriatico. La politica estera dell'Angiò ristagnava da quasi un decennio e all'interno del Regno le difficoltà crescevano. Così C. s'impegnò decisamente nel tentativo di influenzare l'elezione per far eleggere un papa a lui favorevole, che non creasse ostacoli soprattutto alla sua politica bizantina. In suo aiuto giocò il fatto che il nepotismo forse politicamente saggio di Niccolò III - che aveva così favorito l'autonomia della politica pontificia - aveva procurato molti nemici agli Orsini all'interno ed all'esterno del S. Collegio.

C. non comparve di persona a Viterbo, dove anche questa volta ebbe luogo, il conclave, ma che egli influenzasse anche da lontano il tumultuoso svolgimento dell'elezione è un fatto non contestato dagli stessi ambienti guelfi, come testimonia Giovanni Villani, e sul quale non dovrebbero sussistere dubbi. Dopo alcuni mesi di inutili trattative nacquero a Viterbo dei disordini, fomentati dai nemici degli Orsini, alla cui testa si mise un uomo di fiducia di C., Riccardo degli Annibaldi. Questi depose il podestà Orso Orsini, sospettato di corruzione, si autonominò podestà della città ed irruppe con un seguito di armati nel conclave, portando via il cardinal Matteo Rosso Orsini e due nipoti del defunto pontefice, i quali ultimi furono rilasciati, mentre Matteo Rosso rimase in prigione. Con questi brutali atti di violenza la potenza del gruppo Orsini fu spezzata; gli indecisi, tra i quali Gerardo Bianchi (poi legato in Sicilia, un uomo che aveva cercato di tenersi al di sopra delle parti, ma che era da tempo in rapporti di amicizia col francese Simon de Brion), passarono al partito angioino.

Dopo ulteriori trattative venne eletto il 22 febbraio del 1281 Simon de Brion, che assunse il nome di Martino IV. Era il papa ideale per Carlo. Appartenente alla piccola nobiltà francese (presumibilmente della zona di Provins nella Champagne occidentale), egli era da tempo un sostenitore sicuro degli interessi francesi ed angioini. Già sotto i papi Urbano IV e Clemente IV, in qualità di legato in Francia, egli aveva preparato l'avvento di C. nel Regno, ed anche più tardi aveva seguito in Francia la stessa linea. A differenza del francese Clemente IV, che intese almeno difendere gli interessi della Chiesa nei confronti di C., Martino IV pose la Chiesa, con conseguente nocumento della stessa, al servizio della politica angioina e francese e soltanto dopo i Vespri siciliani riconobbe in qualche modo che il governo di C. nel Regno aveva bisogno di riforme. Ad amministrare i domini della Chiesa furono chiamati dei francesi e C., abrogata la legge di Niccolò III, fu nominato senatore di Roma (questa volta a vita); i negoziati tra C. e Rodolfo d'Asburgo furono portati a conclusione col matrimonio di Clemenza con Carlo Martello, mentre durante il pontificato di Martino IV non si parlò più dell'incoronazione imperiale dell'Asburgo né del riassetto della parte d'Italia spettante all'Impero.

L'elezione del nuovo papa favorì immediatamente gli interessi bizantini di Carlo. Martino IV, mutando profondamente l'atteggiamento del Papato nei confronti dell'unione delle Chiese, annullò di colpo tutti i progressi ottenuti in due decenni di faticose trattative. Un'ambasceria greca, già in viaggio durante la vacanza della sede pontificia, fu ostacolata a Barletta dalle autorità angioine e quindi accolta freddamente da Martino ad Orvieto. Le attività dei nemici dell'unione fornirono il pretesto alla rottura delle trattative. Incoraggiato dalla svolta della politica papale, il 3 luglio 1281 ad Orvieto, allora sede della Curia pontificia e quindi certamente d'intesa con il pontefice, C. concluse una nuova alleanza per la conquista di Bisanzio con Filippo di Courtenay e Venezia. Quest'ultima intendeva così procurarsi una posizione di preminenza nel commercio con il futuro Impero latino di Costantinopoli (l'accordo di Orvieto fu ratificato a Venezia il 2 ag. 1281). Martino IV non fece attendere a lungo il suo appoggio ufficiale: il 18 nov. 1281 pronunciò la solenne scomunica di Michele VIII Paleologo, protettore dello scisma e dell'eresia. C. effettuò i preparativi con gran fervore e fretta: le forze alleate avrebbero dovuto riunirsi davanti a Corfù per l'attacco il 1º maggio 1282. Ma a questo punto non si arrivò mai. Nel frattempo infatti i contatti tra Bisanzio, Aragona e l'opposizione antiangioina in Sicilia avevano portato a risultati tali da porre fine a tutti i grandiosi progetti di C. di crearsi un grande impero nel Mediterraneo orientale.

L'ira popolare, a lungo repressa, scoppiò il lunedì di Pasqua, 30 marzo 1282, alle porte di Palermo, dove si trova, allora circondata da prati, oggi all'interno del grande cimitero della città, la chiesa cisterciense di S. Spirito, consacrata nel 1179. In occasione del lunedì dell'Angelo vi ebbe luogo una festa popolare cui presero parte numerosi i palermitani, usciti da porta S. Agata. Tra la folla si trovavano degli scudieri francesi, che dopo un po' presero a molestare le donne. In aiuto di queste vennero giovani palermitani e fuorusciti da Gaeta, che furono dai francesi insultati, chiamati "patarini" e perquisiti alla ricerca di armi. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: nella zuffa che ne seguì i francesi ebbero la peggio, quindi la folla fece ritorno a Palermo, espugnò il castello del giustiziere, saccheggiò le case dei francesi e li massacrò senza riguardo all'età o al sesso. Subito dopo lo scoppio della rivolta i palermitani si costituirono in Comune, che dichiarò la fine del dominio di Carlo d'Angiò e si sottomise alla Chiesa romana. Il grido di "Morte ai Francesi" si propagò rapidamente a tutta l'isola. Corleone si unì subito a Palermo, poi seguirono Cefalù, Castrogiovanni, Calatafimi, e presto ebbe inizio in tutta la Sicilia la caccia ai Francesi, alla quale ben pochi sfuggirono. Solo Messina, rivale di Palermo, esitò. Tra i suoi abitanti C. godeva di un forte seguito, cui apparteneva anche la famiglia Riso. Ma anche qui la rivolta scoppiò in pieno il 28 aprile; la città sotto la guida del capitano Baldovino Mussonus, un nemico dei Riso, si sottomise come Palermo alla Chiesa romana.

I "Vespri siciliani" - il nome venne solo più tardi - sono uno dei più noti avvenimenti della storia medievale italiana. La tesi sostenuta dagli storici nazionali del secolo diciannovesimo - con alla testa Michele Amari -, secondo la quale la rivolta sarebbe stata del tutto spontanea, non è più sostenibile. In particolare le ricerche condotte soprattutto negli archivi spagnoli (Carini, La Mantia, Wieruszowski) hanno dimostrato che la sollevazione fu preceduta da una consistente attività diplomatica di congiurati e agenti e che soltanto il momento dello scoppio della rivolta non venne stabilito con precisione. Il centro della congiura era la corte aragonese, che la favorì sin dal tempo di Giacomo I d'Aragona: il matrimonio dell'infante Pietro d'Aragona con la figlia di Manfredi, Costanza, fornì le necessarie basi giuridiche per le rivendicazioni sul trono di Sicilia. Dopo la battaglia di Benevento l'infanta e alcuni fuorusciti italiani cominciarono a sollecitare Pietro a intervenire in Italia. A partire dal 1269 egli si tenne in contatto con i ghibellini dell'Italia centrosettentrionale, mostrando sin da allora chiaramente di aspirare al trono siciliano. Nel giugno 1275, poco prima che Pietro succedesse al padre, giunse alle corte aragonese il più autorevole dei congiurati antiangioini, il medico salernitano Giovanni da Procida, che era stato uno dei più fidati seguaci dell'imperatore Federico II. Il pontificato dell'indipendente Niccolò III offrì a Pietro la possibilità di intavolare trattative; nello stesso tempo egli cercò appoggio presso il gruppo antiangioino in seno al S. Collegio, guadagnandosi la fiducia di Giacomo Savelli e Matteo Rosso Orsini. Prese contatto anche con i cardinali Latino Malabranca e Gerardo Bianchi, mentre a partire dal 1280 accentuò i suoi rapporti di amicizia con l'antiangioino marchese Guglielmo del Monferrato, con il marchese Tommaso di Saluzzo, con Guido Novello, capo dei ghibellini fiorentini, con Pisa, Genova e gli altri oppositori degli Angioini in Lombardia e Toscana. L'elezione del francofilo Martino IV nel 1281 e i preparativi di C. per la conquista di Bisanzio accrebbero l'attività diplomatica di Pietro di Aragona. L'alleanza, che si presentava naturale, tra lui e l'imperatore Michele VIII Paleologo si realizzò nell'autunno del 1281; non si conoscono né la data né il contenuto dell'accordo, ma si può ritenere che sia stato concluso, con l'intervento di Giovanni da Procida, presso la corte aragonese da un'ambasceria bizantina e non già a Costantinopoli, dove secondo la voce popolare si sarebbe recato lo stesso Giovanni da Procida. Da allora denaro bizantino finanziò i preparativi degli Aragonesi e circolò nelle mani dei loro agenti che preparavano in Italia meridionale la sollevazione contro Carlo.

Per prevenire la resistenza delle Cortes e garantirsi il fattore sorpresa, l'impresa fu presentata da Pietro come una crociata in Ifrīqiya. Gli Hafsīdi al potere a Tunisi avevano d'altra parte perduto prestigio per la crociata di s. Luigi e di C. nel 1270; dopo la morte di al-Mustanşir (1277) controversie dinastiche causarono conflitti interni. Già dal 1277-78 Pietro d'Aragona chiese al figlio e successore di al-Mustanşir, al-Wāthiq, il pagamento di tributi come quelli versati a Carlo.

Quando lo Hafsīde si rifiutò di accondiscendere a questa pretesa e si alleò nel 1278 con Giacomo di Maiorca, fratello ed avversario di Pietro, l'Aragonese ruppe i rapporti commerciali con Ifrīqiya e sostenne lo zio di al-Wāthiq, Abū Işaq, pretendente al trono. Questi nel 1279 con l'aiuto degli 'Abd al-Wadid, al potere a Tlemcen, e di una flotta aragonese al comando di Corrado Lancia, rovesciò il nipote; ma successivamente anch'egli si oppose alle richieste aragonesi, presentate nel 1280 da ambasciate guidate da Ruggero da Lauria e Rodrigo Jiménez de Luna. Pietro d'Aragona progettò allora di far rovesciare il suo antico favorito dal governatore di Costantina, Ibn al-Wasīr.

I preparativi per la spedizione iniziarono nel gennaio 1281: alla fine fu pronto per l'imbarco un esercito di oltre 10.000 uomini, di cui facevano parte 1.000-2.000 cavalieri. L'obiettivo di questo grande corpo di spedizione era la Sicilia, come dice apertamente una lettera affidata il 18 gennaio 1282 da Giovanni da Procida all'inviato dei ghibellini italiani Francesco Trogisio perché la consegnasse al re Alfonso di Castiglia ed all'infante. Tuttavia il programmato attacco alla Tunisia non era solo un falso scopo, ma parte di un piano complessivo con cui Pietro mirava a dominare il Mediterraneo occidentale nel triangolo Aragona-Tunisia-Palermo. In questo piano giocavano un ruolo importante i motivi economici (il commercio col Magreb e il grano della Sicilia). L'impresa si concentrò infine esclusivamente sulla Sicilia perché la rivolta scoppiò prima di quanto prevedesse il piano aragonese, secondo il quale la spedizione doveva essere pronta per l'aprile del 1282.

Almeno dall'inizio del 1282, Pietro, come dimostrano vari documenti, manteneva contatti con nobili del Regno nemici di Carlo. Tra di loro comparivano i futuri capi della rivolta nell'isola, quali Palmiero Abate, Gualtiero da Caltagirone, Ruggero Mauro, Giovanni da Mazzarino e anche Alaimo da Lentini. Il fatto che i primi quattro, dopo l'occupazione dell'isola da parte degli Aragonesi, si ribellarono a Pietro, cospirarono con C. e furono imprigionati nel gennaio del 1283 dimostra, peraltro -, al pari della sottomissione alla Curia romana dei rivoltosi di Palermo e Messina - che gli oppositori di C. volevano scuotere il giogo angioino - se necessario con l'aiuto di Pietro -, ma non sostituirlo con la nuova dominazione aragonese. D'altro canto non si arriva ad una corretta interpretazione degli avvenimenti se li si considera soltanto come frutto dellattività cospirativa dei nobili locali nemici di C. o degli agenti di Pietro dAragona e Michele Paleologo. Vi si deve aggiungere una certa dose di spontaneità, perché l'improvvisa esplosione della rivolta non potrebbe essere spiegata senza un riferimento alla spontanea collaborazione di strati molto ampi della intera popolazione.

Non sappiamo se il piano aragonese prevedesse effettivamente lo scoppio di una rivolta dopo lo sbarco di Pietro. è certo, comunque, che la ribellione cadde in anticipo rispetto al programma da quello predisposto, tanto che il corpo di spedizione aragonese, comprendente circa 100 navi da trasporto e 50 da guerra, fu in grado di salpare soltanto all'inizio di giugno dalla foce dell'Ebro e, dopo una breve sosta a Minorca, approdò a Collo (nell'odierna Algeria) il 28 giugno 1282. Qui tuttavia la situazione era mutata a svantaggio di Pietro: il 9 giugno 1282 un'armata hafsīde aveva preso Costantina, mandando in fumo i piani di Ibn al-Wasir. Collo cadde comunque senza resistenza nelle mani degli Aragonesi, ma Pietro non intraprese un'offensiva di maggiori dimensioni: evidentemente il crollo del suo alleato a Costantina e la rivolta in Sicilia lo avevano fatto finalmente propendere per l'alternativa di un attacco in Italia meridionale, originariamente previsto in concomitanza con l'attacco di C. contro Bisanzio.

Ora, mentre gli avvenimenti si accavallavano, l'Aragonese attendeva l'occasione di passare all'azione. I ribelli siciliani avevano originariamente previsto di sottomettersi alla Curia romana; simili piani tendenti a uno stretto collegamento tra Sicilia e Calabria, in cui proprio le città avrebbero dovuto farsi interpreti della politica papale, erano già stati perseguiti dai papi Innocenzo IV ed Alessandro IV e avrebbero potuto trovare ora ascolto anche presso un papa indipendente quale ancora recentemente era stato Niccolò III. Purtroppo al momento della rivolta si trovava a capo della Chiesa il più francofilo di tutti i papi, che si schierò incondizionatamente a fianco di Carlo. Così non rimase ai ribelli che cercare aiuto altrove. Nel frattempo C., che il 7 o l'8 aprile aveva saputo della rivolta nell'isola, aveva interrotto i preparativi della spedizione contro Bisanzio e preso i primi provvedimenti per la riconquista dell'isola. In questa situazione a Palermo ebbero il sopravvento i sostenitori degli Aragonesi, guidati da Ugo Talach, che inviarono il 27 aprile Niccolò Coppola presso Pietro per offrirgli la corona. Messina si oppose, tuttavia, a un simile piano e continuò a sperare nella sottomissione dell'isola alla Curia romana.

Già il 7 maggio il pontefice Martino IV prese posizione contro i ribelli e ne sollecitò la sottomissione a C.; il 5 giugno nominò legato in Sicilia il cardinal Gerardo Bianchi, di sentimenti guelfi ma non incondizionato partigiano dell'Angiò. Mentre Pietro d'Aragona esitava ad accettare la corona offertagli finché Messina perseguiva propri obiettivi, C. cercò in un primo momento di ricondurre all'obbedienza i propri sudditi in maniera pacifica per avere così le mani libere contro Bisanzio.

Poiché anche i suoi più decisi sostenitori in seno alla Curia ritenevano necessarie delle riforme che mutassero la situazione nel Regno, il re emise il 10 giugno una serie di costituzioni miranti ad alleggerire il generale scontento suscitato dalla pesante dominazione angioina ed a sottrarre i sudditi agli abusi di funzionari e feudatari. Ma subito dopo concentrò il suo esercito a Catona (oggi parte di Reggio Calabria) per passare sull'altra riva dello stretto. Il 25 luglio sbarcò a sud di Messina, presso il monastero di S. Maria Roccamadore, e si accinse ad assediare la città, dove Alaimo da Lentini organizzava la resistenza. Dopo i primi assalti il cardinal Gerardo tentò una mediazione. Nel corso delle trattative i Messinesi cercarono ancora di convincere la Chiesa ad accogliere la loro sottomissione: mediante l'atto simbolico della consegna delle chiavi della città, Alaimo voleva fare del cardinal legato il governatore pontificio di Messina e dell'intera Sicilia. Gerardo chiese tuttavia in nome del papa e del re la piena dedizione della città. Il tentativo di mediazione fallì definitivamente quando il cardinale dovette rifiutare anche la richiesta minima di una parte della cittadinanza, secondo la quale C. avrebbe dovuto nominare nella carica di governatore un "latino" (cioè una personalità del luogo o comunque italiana). Quando C. cominciò il suo attacco alla città, i Messinesi rinunciarono ad opporsi alla prospettiva di un regno di Pietro d'Aragona. A metà agosto un'assemblea riunita a Palermo offrì nuovamente - e questa volta anche a nome di Messina - la corona a Pietro, cui fu inviata a Collo in Africa settentrionale una nuova ambasceria di cui faceva di nuovo parte Niccolò Coppola. L'Aragonese allora non esitò più: il 30 agosto sbarcò a Trapani ed il 4 settembre entrò a Palermo tra il giubilo della popolazione. Nello stesso periodo Messina resistette a tutti gli assalti di Carlo. Quando Pietro d'Aragona si mosse verso la città, C. tolse l'assedio (26 settembre) e si ritirò sul continente. Il 2 ottobre Pietro d'Aragona entrò a Messina: l'isola, come i fatti avrebbero dimostrato, era definitivamente persa per gli Angioini. Nel frattempo gli Aragonesi, occupando il punto più stretto della Calabria tra Nicastro e Catanzaro, tagliarono persino la strada verso il Nord all'esercito di C. accampato presso Reggio, ma il figlio del re, Carlo principe di Salerno, chiamato dalla Provenza, ruppe il blocco. Nei combattimenti navali gli Angioini ebbero la peggio.

Poiché tuttavia entrambe le parti erano interessate a guadagnare tempo, si giunse verso la fine del 1282 a un singolare accomodamento tra C. e Pietro d'Aragona per decidere la questione attraverso un giudizio di Dio nella forma di un duello di sovrani, un procedimento ormai antiquato nel XIII secolo e severamente vietato dal diritto canonico. L'accordo pertanto dovette sorprendere anche il pontefice, il quale aveva cercato di aiutare C. scomunicando Pietro ed i suoi partigiani e comminando l'interdetto sui territori sottoposti al suo governo (18 novembre del 1282).

Nell'epica contemporanea non mancavano esempi di simili duelli tra sovrani, ma la religiosità piuttosto bigotta di C. fa dubitare della serietà delle sue intenzioni e il sospetto è confermato dalla commedia svoltasi successivamente. C. voleva guadagnare tempo e inoltre concludere in Francia la grande alleanza con suo nipote, re Filippo III, contro l'Aragona. Anche l'Aragonese era interessato a consolidare il suo potere nell'isola ed a rimandare la decisione. Come sede del duello fu fissata una località presso Bordeaux, allora ancora sotto sovranità inglese: il 1º giugno 1283 vi si sarebbero incontrati l'Angiò e l'Aragonese con 100 cavalieri ciascuno. Il 12 genn. 1283 C. nominò quindi il figlio Carlo vicario generale del Regno e partì per il Nord passando per Roma e Firenze; Pietro d'Aragona lo seguì soltanto all'inizio di maggio passando da Trapani e Valencia. Alla fine di maggio i due sfidanti giunsero a Bordeaux. Re Edoardo I d'Inghilterra mantenne una stretta neutralità e lasciò al suo siniscalco di Guienna, Jean de Grailly, la regia della messinscena che seguì. Si evitò intenzionalmente di fissare un'ora precisa per il duello. Così il 1º giugno 1283, di mattina presto, comparve per primo sul luogo stabilito Pietro d'Aragona con i suoi 100 cavalieri e, fatta dichiarate la propria presenza e l'assenza dell'avversario, se ne tornò al proprio campo dove si proclamò vincitore. Alcune ore dopo apparve sul luogo del duello C., senza ovviamente trovarvi l'avversario, e si proclamò anch'egli vincitore. Dopo reciproche accuse di viltà entrambe le parti si allontanarono dalla zona di Bordeaux.

Nel frattempo il principe di Salerno, Carlo, insieme col legato pontificio Gerardo, aveva adottato importanti provvedimenti per riportare la pace interna nel Regno. Dopo che Martino IV, il 21 marzo 1283, ebbe proclamato la deposizione di Pietro d'Aragona, si riunì il 25 marzo nella piana di San Martino (ad est di Palmi in Calabria) un'assemblea generale dell'alto clero, della nobiltà e dei rappresentanti delle città del Regno al di qua dello Stretto; pochi giorni dopo, il 30 marzo, di fronte a questo Parlamento. Carlo di Salerno promulgò nuove costituzioni. La influenza esercitata dal legato è dimostrata dal fatto che molte di esse riguardavano la Chiesa: fu così ribadito l'obbligo del pagamento della decima e furono confermate altre norme come l'esenzione del clero dalla giurisdizione dei tribunali civili tranne che per questioni riguardanti feudi, il diritto di asilo delle chiese, la libertà dall'intromissione di laici nelle elezioni ecclesiastiche e quella di poter concedere feudi e benefici ecclesiastici (senza peraltro mettere in questione il diritto di patronato), l'esenzione fiscale del clero, il diritto delle chiese di fare donazioni ed impegnare proprietà; fu anche pretesa l'osservanza dei propri doveri da parte dei vassalli della Chiesa.

Queste ed altre disposizioni non erano nuove: la loro conferma dimostra quanto poco fossero osservate. Più urgenti erano tuttavia le riforme in campo civile, perché la Chiesa non minacciava il regime di C., anche se approfittò della difficile situazione in cui questi si trovava per ribadire i propri diritti. La nobiltà ottenne una serie di diritti che dovevano legarla più strettamente alla Corona; più che il giovane Carlo di Salerno sembrano aver inspirato queste riforme, con la collaborazione del giurista Bartolomeo da Capua, i potenti feudatari del suo seguito, come il conte Pietro d'Alençon, Roberto d'Artois, Ottone di Borgogna, Giovanni di Montfort conte di Squillace, Adenolfo di Acerra e Pietro Ruffo di Catanzaro. In considerazione dello stato di necessità il re fu costretto a fare concessioni che fece annunciare dal figlio; né si può dire quante ne avrebbe mantenute in seguito in caso di vittoria. La nobiltà ed il clero ottennero una esenzione da dazi e tributi, le prestazioni dei feudatari furono regolate, fu loro accordato il diritto di sposarsi senza il consenso del re e furono fissati la loro posizione giuridica, tasse, tributi e prestazioni di servizi, prendendo come punto di partenza il "buon tempo antico" del re normanno Guglielmo II. Poco dopo Carlo di Salerno diede inizio ai processi contro i nobili corrotti della cerchia del re, tra i quali si trovavano in particolare membri delle famiglie Rufolo e della Marra. Il principe rimase in Calabria fino alla fine di ottobre del 1283, quando tornò a Napoli abbandonando la regione ai saccheggi e alla temporanea occupazione degli Aragonesi, la cui flotta era padrona del mare.

Casi di defezione cominciarono per la verità a manifestarsi anche in Sicilia: una serie di nobili dell'isola, che avevano da principio giurato fedeltà a Pietro d'Aragona, passarono segretamente sul continente dalla parte di Carlo di Salerno e ottennero la revoca della scomunica da parte del legato pontificio. Carlo di Salerno, dopo essere ricorso per un prestito a Edoardo I d'Inghilterra ed aver inviato ambasciatori a Venezia, Ancona, in Toscana e Lombardia, cercò all'inizio del 1284 soprattutto in Puglia di accelerare i preparativi per la riconquista dell'isola, puntando particolarmente sul rafforzamento della flotta. Per il finanziamento dei preparativi di guerra si utilizzarono aiuti papali, prestiti contratti con banche toscane e un decimo di tutte le entrate ecclesiastiche del Regno, concesso per i due anni successivi dal sinodo tenutosi alla fine di marzo del 1284 a Melfi sotto la presidenza del legato Gerardo. Contemporaneamente il papa e il suo cardinal legato proclamarono la crociata contro gli Aragonesi.

Il conflitto, tuttavia, in un primo momento si svolse, sul mare. L'ammiraglio aragonese Ruggiero di Lauria, dopo aver distrutto una flotta angioina che era partita per liberare Malta, incrociò davanti a Napoli bloccandone il porto. Quando, il 5 giugno 1284, Carlo di Salerno salpò per distruggere la base della flotta aragonese nell'isola di Nisida davanti a Posillipo, le sue navi furono intercettate da Ruggiero di Lauria e il principe fu fatto prigioniero degli Aragonesi che l'avrebbero rimesso in libertà soltanto dopo cinque anni. Ruggiero si servì della cattura del principe anche per ottenere la liberazione della figlia di Manfredi, Beatrice, dalla pluriennale prigionia angioina. La grave sconfitta provocò a Napoli tumulti contro il governo angioino che furono ferocemente repressi quando, l'8 giugno, C. tornò in città dalla Provenza con una flotta.

Dopo la commedia di Bordeaux, C. aveva progettato insieme col nipote, il re di Francia Filippo, un attacco all'Aragona partendo dalla stessa Francia; Martino IV nell'agosto del 1283 mandò, in appoggio a questo piano, il cardinale Jean Cholet alla corte di Francia per offrire il trono aragonese al figlio più giovane di Filippo, Carlo di Valois. Nonostante le resistenze in seno alla corte - prima moglie di Filippo III, madre dell'erede al trono Filippo il Bello, era stata la principessa aragonese Isabella -, nel febbraio del 1284 Carlo di Valois fu proclamato da Filippo III re d'Aragona e di Valencia ed il 5 maggio anche Martino IV lo investì di questi regni. Pietro d'Aragona a causa del minacciato attacco, che tuttavia ebbe inizio un anno dopo, non poteva arrischiarsi a tornare in Sicilia dove la regina Costanza fronteggiava crescenti disordini, mentre venivano meno i finanziamenti di Bisanzio (l'imperatore Michele VIII Paleologo era morto l'11 dic. 1282 e il successore Andronico II non era in grado di continuare la politica italiana, troppo gravosa per le declinanti forze dello Stato). Fu quindi soprattutto grazie alle vittorie navali di Ruggiero di Lauria che la dominazione aragonese sull'isola non fu messa in serio pericolo. Già alla fine di giugno del 1284 C. con un grande esercito e la flotta mosse verso la Calabria, dove alla fine del mese di luglio pose l'assedio a Reggio. La campagna si concluse tuttavia con un insuccesso: gli Angioini non riuscirono a conquistare la città né a sbarcare in Sicilia, mentre la loro flotta non fu in grado di bloccare Ruggiero di Lauria. Così all'inizio di agosto C. pose fine alla campagna, nominò capitano generale per la guerra in Calabria Tommaso Sanseverino (in sostituzione di Pietro Ruffo) il 22 agosto e Riccardo d'Acquaviva il 2 settembre e tentò di allestire in Puglia una nuova e questa volta meglio organizzata spedizione, in collegamento con la crociata francese contro l'Aragona. Ma l'ultima campagna aveva dimostrato che i contingenti del Regno erano stanchi della guerra e i mercenari francesi indisciplinati.

Sebbene le forze fisiche lo stessero abbandonando, C., rifacendosi ancora una volta alle giornate di Benevento e Tagliacozzo, tentò di rafforzare l'amministrazione e trovare i necessari mezzi finanziari. Trascorse il Natale del 1284 a Melfi e, a fine dicembre, si trasferì a Foggia, dove si ammalò gravemente. Il 6 genn. 1285 fece redigere il suo testamento in cui si stabiliva che, nel caso che il suo zoppo e da lui disprezzato figlio ed erede non fosse stato liberato dalla prigionia, la successione sarebbe toccata a suo nipote Carlo Martello. Fino al rilascio di Carlo di Salerno o al compimento della maggiore età di Carlo Martello, la reggenza sarebbe toccata a suo fratello Roberto d'Artois, al quale Martino IV, dopo la morte del re, associò il cardinal legato Gerardo. Il testamento prevedeva inoltre la distribuzione di 10.000 once d'oro ai membri della casa del re a condizione che giurassero fedeltà ai suoi eredi. Il papa fu invitato a confermare le disposizioni testamentarie a proteggere il Regno in queste difficili circostanze. Il re morì, a nemmeno 59 anni, la mattina del 7 genn. 1285. Secondo Giovanni Villani con le sue ultime parole avrebbe affermato di aver cinto la corona del Regno non a proprio vantaggio, ma per ubbidienza alla Chiesa romana. Il suo corpo fu trasportato a Napoli e sepolto nel duomo; nulla rimane del suo monumento sepolcrale, distrutto nel XVI secolo. Oggi vi si trova la figura seduta, che rappresenta C. insieme con Carlo Martello e sua moglie Clemenza, dell'enorme sovrastruttura di marmo della facciata interna, progettata da Domenico Fontana e fatta erigere nel 1599 dal viceré Enriquez de Guzmán.

La figura di C. è ancor oggi oggetto di discussione. Pur dotato di grande abilità, fu privo dei tratti di simpatia umana del fratello Luigi. Con soggettiva onestà univa in sé una religiosità personale, che arrivava talvolta alla bigotteria, ed una politica di potenza che non arretrava neppure di fronte a duri atti di brutalità. Una volta consolidata la sua autorità nel Regno, egli si preoccupò di assicurare un governo equo e nella vita privata si mantenne fedele ai precetti dell'etica cristiana più di qualcuno dei suoi precedessori normanni e svevi. Di carattere chiuso, non mancava tuttavia di sensibilità per l'ethos della società cavalleresca sovrannazionale: così si circondò di trovatori come Adam de la Halle e Raimond de la Tour, che in maniera poetica e retorica lodarono in lui l'ideale di un amante cavalleresco e di un campione di tornei. La sua politica di forza, spesso crudele, iniziò veramente soltanto dopo la conquista del Regno, quando il suo potere era continuamente minacciato dalle rivolte. Appare comprensibile, dal suo punto di vista, che per frenare l'anarchia e rafforzare il proprio potere egli affidasse le cariche principali dell'amministrazione centrale ereditata dagli Svevi ed i grandi feudi prevalentemente ad uomini di sua fiducia, che erano di regola francesi e provenzali; questa politica gli valse presto da parte dei regnicoli l'accusa di voler opprimere il paese, sotto il giogo di una dominazione straniera. La sua fama ne soffrì quindi anche nei confronti del partito originariamente guelfo-clericale. Era stato salutato dal partito favorevole alla Chiesa come "athleta Christi", "campion di San Piero", difensore della Chiesa; il culto di Carlo Magno diffusosi nell'epica cortese e popolare aveva preparato, ideologicamente, il terreno alla dominazione angioina. Come successore di Carlo Magno infatti C. fu celebrato al suo arrivo e anche successivamente da guelfi come il genovese Luchetto Gattilusi, ma soprattutto da guelfi, fiorentini come il minorita Tommaso da Pavia (Tuscus), Brunetto Latini, Monte Andrea e altri.

Particolarmente a Firenze la sua figura divenne un pilastro principale dell'idea guelfa di un'alleanza tra libero Comune, Papato e casa reale di Francia. A fare di Firenze il luogo di nascita di questa ideologia guelfa contribuirono anche motivi materiali: la grande ascesa della città a partire dalla seconda metà del sec. XIII si basò in buona parte sulle relazioni commerciali col Regno, la Curia e la Francia. Così ancora verso il 1400, quando questa idea guelfa era ormai prossima a scomparire, Coluccio Salutati nelle sue lettere di Stato loda C. come padre dell'alleanza guelfa e rievoca i giorni della lotta comune contro Manfredi e Corradino. Per Dante, che in questa espansione economica vedeva il germe della rovina della sua città natale, C. rappresentava invece l'odioso discendente della volgare stirpe capetingia che traeva origine da un macellaio, il quale, dopo "la gran dota provenzale", era l'incarnazione dell'avidità di bottino, della menzogna e dell'inganno, cui si rimproverava tra l'altro - lo fa persino l'altrimenti ingenuamente guelfo Giovanni Villani (Cronica, l. IX, c. 218) - di aver avvelenato s. Tommaso d'Aquino (Purg, XX, 52 ss.). In queste espressioni si rispecchia il già accennato mutamento della opinione pubblica che Amari ha descritto con accenti così forti. Le difficoltà create alla Chiesa dall'Angiò sin dal momento del suo arrivo, il fiscalismo oppressivo, l'afflusso dei francesi considerati arroganti, tutto ciò lasciò tracce anche negli ambienti guelfi che, favorendo in via di principio l'alleanza tra il Papato e l'Angiò, cercarono di sviluppare una politica indipendente e di moderare attraverso alcune riforme la pesante oppressione francese nel Sud. Il partito italiano in seno al S. Collegio e pontefici come Gregorio X e Niccolò III rappresentarono questa posizione. Si trattava di una tendenza del guelfismo italiano che teneva a distanza i francesi: di essa forniscono una chiara espressione il minorita Salimbene da Parma e, alla fine del Regno di C., lo scrittore papale e storico Saba Malaspina. All'altro estremo si trova il giudice e storico messinese Bartolomeo da Nicastro, portavoce dell'atteggiamento antifrancese dei Siciliani ribelli. Nella storiografia la situazione è analoga. M. Amari nell'opera monumentale e per erudizione ancora insuperata sui Vespri siciliani (La guerra del Vesprosiciliano, 9 ed., Milano 1886; cfr. ediz. a cura di F. Giunta, Palermo 1969) ha stigmatizzato la dominazione francese come poteva farlo uno storico nazionale del sec. XIX; molti dei cronisti locali da lui utilizzati, come Bartolomeo da Nicastro, non erano naturalmente imparziali e dipingevano con le tinte più oscure la dominazione francese per giustificare la rivolta. Finora il quadro tracciato da Amari ha influito in maniera prevalente sulla storiografia italiana. Ma già il suo contemporaneo Camillo Minieri Riccio, importante studioso di storia angioina, si preoccupò di suddividere equamente le pagine oscure e meno oscure del governo di Carlo. Tra gli storici italiani l'Angiò ha trovato pochi difensori dichiarati, ma oggi è prevalso un giudizio equilibrato. Gli storici francesi, da Saint-Priest a Léonard, attraverso Cadier, Durrieu e lordan, hanno inclinato verso l'apologetica; pure positivo è il giudizio su C. espresso anche più recentemente dall'inglese Runciman. La storiografia tedesca del sec. XIX, ed in parte anche del XX, ha proiettato indietro fino al sec. XIII l'antagonismo con la Francia, dimostrando una particolare sensibilità per episodi come l'esecuzione di Corradino: con Raumer, Gregorovius, Schirrmacher e in parte ancora con Haller e Bock ha prevalso un giudizio negativo sull'Angiò. Ma già lo Hampe si è preoccupato di dare un'equa valutazione e il miglior conoscitore tedesco della struttura interna della dominazione di C., Sthamer, ha assunto una posizione intermedia suddividendo uniformemente luci ed ombre.

Fonti e Bibl.: Poiché appare impossibile fornire un elenco completo delle numerosissime fonti relative alla vita e all'azione politica e amministrativa di C., verranno qui indicate soltanto quelle più importanti. Il medesimo discorso vale per la sterminata bibliogr. dalla quale saranno segnalate unicamente le opere più significative; in molte di queste, peraltro, si trovano ulteriori indicaz. bibliografiche.

Tra le raccolte di documenti che contengono materiale importante su C. d'A. vanno ricordate soprattutto: Syillabus membranarum ad Regiae Siciliae Archivium pertinentium, I, Napoli 1824, pp. 1-275; G. Del Giudice, Codice diplom. del regno di C. I e II d'Angiò, Napoli 1863-1902, I e II, 1, passim;C.Minieri Riccio, Saggio di codice diplom., I, Napoli 1878, pp. 37-215; Codice diplom. barese, a cura di G. B. Nitto de Rossi - F. Nitti di Vito, I-XIX, Bari-Trani 1897-1971, ad Indices; Codice diplom. dei Saraceni di Lucera, a cura di P. Egidi, Napoli 1917, nn. 79, 109, 151, 324, 350, 705; A. de Boüard, Actes et lettres de Charles Ier roi de Sicile concernant la France (1257-1284), Paris 1926; Codice diplom. salernitano del sec. XIII, a cura di C. Carucci, I-III, Subiaco 1931-34, ad Indices;A. de Boüard, Documents en français des arch. angevines de Naples (Règne de Charles Ier), I-II, Paris 1933-35, passim;R.Filangieri, Gli atti perduti della cancelleria angioina, I-II, Roma 1039-43, ad Indicem; Codice diplom. brindisino, a cura di G. M. Monti-M. Pastore Doria, Trani 1940, pp. 159-200; Documenti delle relazioni tra C. d'A. e la Toscana, a cura di S. Terlizzi, Firenze 1950; I registri della cancelleria angioina, a cura di R. Filangieri, I-XXIII, XXVIII-XXX, Napoli 1950-71, ad Indices; Codice diplom. sui rapporti veneto-napoletani durante il regno di C. d'A., a cura di N. Nicolini, Roma 1965.

Per i rapporti con la Curia pontificia cfr.: E. Martène-V. Durand, Thesaurus novus anecdotorum, II, Paris 1717, pp. 10-635; A. Theiner, Codex diplom. dominii temporalis Sanctae Sedis, I, Roma 1861, pp. 159-282; I papi ed i Vespri siciliani, con docum. inediti e rari, Roma 1882, passim; Les registres d'Innocent IV, a cura di E. Berger, Paris 1884-1921, ad Indices; Les registres de Grègoire X, a cura di M. J. Guiraud-L. Cadier, Paris 1892-1906, ad Indices; Les registres de Clément IV, a cura di E. Jordan, Paris 1893-1945, ad Indicem; Les registres de Nicolas III, a cura di J. Gay-S. Vitte, Paris 1898-1938, ad Indicem; Les registres de Jean XXI, a cura di L. Cadier, Paris 1898-1960, ad Indicem; Les registres d'Urbain IV, a cura di J. Guiraud, Paris 1901-58, ad Indicem; Les registres de Martin IV, a cura di F. Olivier-Martin, Paris 1901-35, ad Indicem;ma vedi anche Arch. Segr. Vaticano, Reg. Vat.42 (cfr. E. Pásztor, Ilregistro camerale di lettere di Martino IV, in Misc. in memoria di G. Concetti, Torino 1973, ad Indicem); Les registres d'Alexandre IV, a cura di C. Bourel de La Roncière, Paris 1902-1959, ad Indicem.

Per le relazioni con l'Impero cfr.: E. Winkelmann, Acta Imperii inedita, I, Innsbruck 1880, ad Indicem;J. F. Böhmer-J. Ficker-F. Winkelmann, Die Regesten des Kaiserreiches unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII.), Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard, 1198-1272, Innsbruck 1881-1901, ad Indicem;O. Redlich, Die Regesten des Kaiserreichs unter Rudolf von Habsburg, Innsbruck 1898, ad Indicem;F. Kern, Acta Imperii, Angliae et Franciae ad a. 1267 ad a. 1313, Tübingen 1911, ad Indicem.

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