Carlo I d'Angio, re di Sicilia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Carlo I d'Angiò, re di Sicilia

Raoul Manselli

Figlio postumo di Luigi VIII, re di Francia, e di Bianca di Castiglia, nacque nei primi mesi del 1227.

Educato da sua madre, energica e abile, se non mancò di cultura e di gusto per la poesia e l'arte, fu però avviato all'attività politica e militare specialmente per formarsi un conveniente appannaggio. Il padre aveva pensato a lui destinandogli l'Anjou e il Maine; ma ben più alto destino gli prepararono la madre e il fratello Luigi IX inserendolo nella vasta trama politica per cui il regno di Francia andava annettendosi i vari grandi feudi della Francia meridionale. Come, infatti, Luigi aveva sposato Margherita, la prima delle figlie di Raimondo Berengario conte di Provenza, così venne negoziato il matrimonio di C. con Beatrice, altra figlia ed erede del conte, dopo esser riusciti ad eliminare altri pretendenti a quella che D. molto bene chiamò la gran dota provenzale (Pg XX 61).

Celebrate le nozze il 31 gennaio 1246, C. non esitò a riorganizzare lo stato di cui il matrimonio lo aveva messo a capo, secondo i modi e gli usi di Francia, affidando a Francesi i posti di maggiore responsabilità e più remunerativi, suscitando perciò la reazione ostile dei locali. Questi, che sapevano di contare sull'appoggio della contessa madre, di molti grandi signori e di alcune città come Arles, Avignone, e Marsiglia, stabilirono fra loro un'alleanza, contro cui poco potè fare C., impegnato nei suoi preparativi per la crociata.

Partito al seguito di suo fratello (1248), C. mostrò più volte il suo valore, ma non esitò a tornare in Francia, quando Luigi IX consentì ad alcuni dei suoi più grandi baroni di rimpatriare. La Provenza era difatti in piena insurrezione, per cui C. dovette dar prova, a un tempo, di energia e durezza, riuscendo in tal modo a dividere i suoi avversari e a batterli separatamente (aprile-metà giugno 1251); resistette sola Marsiglia, che però si arrese poco più di un anno dopo.

La morte della madre (27 novembre 1252) obbligò C. a interessarsi dei problemi del regno di Francia, in assenza del fratello Luigi. Si recò perciò nel Nord lasciando affidata la Provenza a persone di sua fiducia e di valida energia, quali Ugo D'Arcis (1251-1253), e Eude di Fontaine (1254-1257). Era appunto nel Nord quando lo raggiunse un primo invito da parte del papa a venire nell'Italia meridionale contro gli Svevi. Costretto, dopo una prima accettazione, a rinunciare, per la complessa situazione politica del momento, intervenne allora nel conflitto che nelle Fiandre opponeva la contessa Margherita al figliastro Giovanni D'Avesnes; ma la sua azione venne interrotta dal ritorno di Luigi, che pur dando al fratello ampio riconoscimento di meriti e grandi soddisfazioni, volle che ritornasse in Provenza. Qui C. potè concludere su basi vantaggiose un accordo con la contessa madre. Nel giro di pochi mesi venne a patti anche Marsiglia, portando con sé la resa delle altre città meridionali.

Raggiunta una pace completa in Provenza, C. gettò le basi di una sua espansione a Nord, verso il contado Venassino e poi lungo il Rodano, ottenendo da Raimondo des Baux, principe d'Orange, la cessione dei suoi diritti sul regno di Arles, che era parte dell'Impero. Si accordò inoltre con Guglielmo II, conte di Ventimiglia (19 gennaio 1258), per cui l'autorità di C. si estendeva da Monaco a San Remo, lungo il litorale. Anche qui, approfittando dei contrasti fra le città e i signori feudali della regione, riuscì a far riconoscere in molte città la sua signoria. Certo un'affermazione così vasta suscitò ancora opposizioni: di nuovo Marsiglia con alcuni signori locali si ribellò tra la fine del 1261 e l'inizio del 1262, ma nel giro di pochi mesi fu costretta a piegarsi alla potente volontà del conte.

Oramai C. si presentava come il personaggio più adatto, da tutti i punti di vista, a opporsi in nome del pontefice - era il francese Urbano IV - a Manfredi, re di Sicilia, considerato un usurpatore, e in lotta aperta col Papato.

Vennero allora iniziate lunghe trattative, dovendosi superare gli scrupoli giuridici e le perplessità politiche da parte di Luigi IX.

Eletto senatore di Roma mentre le trattative erano ancora in corso, C. dovette domare Marsiglia - di nuovo insorta per l'influenza di Manfredi e di suo genero Pietro III d'Aragona. La morte di Urbano IV (2 ottobre 1264) non ritardò i suoi preparativi di guerra, mentre il nuovo papa Clemente IV - anch'egli francese - troncava ogni indugio, concludendo i negoziati, e sforzandosi di bloccare ogni iniziativa di Manfredi.

C. s'imbarcò il 10 maggio 1265 a Marsiglia per Ostia, entrando subito in Roma, ove fu accolto con solennità ricevendo il 21 giugno le insegne senatorie e il 28 giugno l'investitura a re di Sicilia.

Mentre tutta l'Italia veniva lentamente distinguendosi in guelfa o ghibellina, C. dovette cercare a Roma finanziatori per la sua spedizione: lo aiutarono i guelfi esiliati da Firenze e da Siena.

Finalmente nell'ottobre 1265 l'esercito di C. si mosse da Lione, ove s'era riunito, entrando in Italia dal Colle di Tenda e dai territori controllati dagli Angioini, e marciando attraverso la pianura padana senza incontrare praticamente resistenza, appoggiato dai guelfi locali, alla metà di gennaio del 1266 entrava in Roma. Pochi giorni prima, il 6, C. era stato incoronato re in San Pietro; il 20 gennaio partiva col suo esercito da Roma, raggiungendo le frontiere del regno al ponte di Ceprano sul Liri. Abbandonato questo dai suoi difensori - e la fama di tradimento per danaro venne bollata da D. con la famosa frase là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese (If XXVIII 16-17) - fu facile l'avanzata, in direzione di Benevento: qui avvenne la battaglia del 26 febbraio 1266, in cui Manfredi fu vinto e ucciso.

Subito dopo la vittoria C. dovette dedicarsi al non facile compito di riorganizzare il regno sforzandosi di accontentare le aspirazioni ambiziose dei suoi fedeli senza troppo offendere i locali, secondo l'espresso impegno preso col papa. Affidò comunque a Francesi quasi tutte le più alte cariche dello stato, lasciando agl'Italiani soltanto la cancelleria e gli uffici finanziari. Ma quando si stava raggiungendo ormai un certo equilibrato assestamento, giunse la notizia che Corradino di Hohenstaufen, il giovanissimo figlio di Corrado IV, veniva a rivendicare il suo trono. Subito si ribellarono molti dei signori che avevano ormai giurato a C. la loro fedeltà, mentre la Sicilia intera era praticamente perduta per gli Angioini, insieme con la Calabria e la più grande parte della Puglia. Potendo contare sulle sole sue truppe e su pochi fedeli Italiani, C. non tentò neppure di muoversi incontro al suo nemico, anche perché nel resto d'Italia i ghibellini avevan tutti levata la testa in uno sforzo offensivo supremo. Corradino potè così attraversare l'Italia, entrando a Roma come un trionfatore, grazie anche all'appoggio di Enrico di Castiglia.

C. nelle valli d'Abruzzo attese il suo nemico, affrontandolo nella piana di Tagliacozzo; vinto in un primo scontro, riuscì a riprendersi e a battere definitivamente Corradino, grazie a un accorto uso delle riserve suggeritogli dal vecchio Alardo (v. 18) di cui parla D., e cioè Erard de Valery, rientrato proprio allora dalla crociata (23 agosto 1268).

La solitudine in cui C. era stato lasciato dallo stesso pontefice, la gravità del pericolo corso, la necessità di evitare di ricadervi improntarono di una durezza voluta e ben calcolata tutta l'azione successiva del sovrano angioino. Messa da parte ogni cautela riguardosa di quelle che il papa gli aveva imposto, il re questa volta affermò la sua autorità in maniera decisa. Impose la condanna a morte di Corradino e di molti di coloro che lo avevano accompagnato; creò un minuzioso piano d'inchiesta che tolse feudi e beni a quanti avevano aderito alla ribellione, passandoli a persone di sua assoluta fiducia; nella stessa gerarchia ecclesiastica provvide lentamente alla sostituzione di vescovi e abati. In tal modo nel giro di pochi anni venne cambiata, in maniera quasi completa, la classe dirigente del Mezzogiorno d'Italia e della Sicilia.

Anche più importante fu l'instaurazione in Italia di una politica guelfa a largo raggio che portò i fautori di C. al governo in moltissime città; e poiché assai stretti erano in molti luoghi i legami fra i ghibellini e gli eretici, anche l'Inquisizione intervenne a dare man forte. Contemporaneamente i commerci nel regno di Sicilia erano aperti ai mercanti fiorentini, lucchesi e toscani in genere, che avevano appoggiato e finanziato la spedizione angioina escludendo così Pisani e Genovesi. C., abbandonando le linee maestre della politica mediterranea seguite dai sovrani normanni e da quelli svevi, fu indotto a seguire con attenzione le vicende dell'Italia centrale e settentrionale e la lotta nel Tirreno fra Pisa e Genova, non senza guardare con una qualche preoccupazione alle mire di Pietro III d'Aragona, che tendeva a presentarsi all'opinione pubblica del regno di Sicilia come il solo, unico erede rimasto di Manfredi, avendone sposato la figlia Costanza.

Questa politica italiana del sovrano angioino, che comportava di fatto l'eliminazione dell'Impero dalla penisola, diede alla Francia, cui questo principe e i suoi discendenti rimasero legati, una posizione di prestigio incalcolabile che ebbe a sua volta una profonda influenza sullo stesso Papato, che proprio quel prestigio aveva voluto e patrocinato. Tutta la storia europea, quindi, ebbe dall'azione di C. una svolta di eccessiva rilevanza, per l'indebolimento e l'eclisse politica che ebbe l'Impero e la sua stessa autorità spirituale, esercitata fino ad allora accanto alla Chiesa. In ogni caso C., appena fu saldamente insediato sul trono, si propose una serie di obiettivi politici precisi: l'espansione in Epiro, in Acaia e nell'impero bizantino, riprendendo appunto antiche aspirazioni normanne tenute sempre vive fino ai tempi di Manfredi; l'affermazione in Terra Santa, che fu raggiunta con la cessione al re di Sicilia del titolo di re di Gerusalemme da parte di Maria d'Antiochia, e che si realizzò con l'occupazione di S. Giovanni d'Acri (giugno 1277). Tale politica comportò per il sovrano angioino un notevole dispendio finanziario, cui si sopperirà con forte fiscalità. E venne avvertita anche più odiosa in Sicilia, ove non sfuggiva il fatto che l'isola non era certo più il centro dell'attenzione politica del re, che aveva ormai la sua capitale a Napoli. Inoltre molti nobili, salvatisi dalla repressione dopo Corradino fuggendo in Catalogna, soffiavano sul fuoco, favorendo le ambiziose mire espansionistiche di Pietro III sul Mediterraneo occidentale.

Scoppiava così il 30 marzo 1282, lunedì di Pasqua, la rivolta del Vespro. Cominciava la lunga guerra che amareggiò gli ultimi anni di C., con una serie di rovesci, che ebbero il loro culmine quando, durante una sua assenza , dal regno e contro le sue istruzioni, il figlio Carlo lo Zoppo volle portare le sue navi contro la flotta siculo-aragonese di Ruggero di Lauria e fu vinto e preso prigioniero.

Avanti negli anni e stanco, C. tuttavia continuò le operazioni militari in Calabria, pur dovendo provvedere al destino del suo regno, di cui fu dichiarato erede, insieme col figlio prigioniero, anche il nipote, l'ancor giovanissimo Carlo Martello. Morì a Foggia il 7 gennaio 1285.

C. viene collocato da D. nella valletta dei principi che differirono in punto di morte il loro pentimento (Pg VII 113), ma va subito sottolineato il fatto che nella successione di sovrani, di cui in quel passo Sordello fa la rassegna, è ricordato senza la minima cordialità e simpatia; ed è circostanza importante, poiché proprio Sordello aveva trovato asilo alla corte di C. in Provenza dopo la sua fuga dalla corte dei Sanbonifacio, e lo aveva poi seguito nella spedizione in Italia meridionale ottenendo feudi. Ma proprio questa reticenza, il ricordar C. come colui dal maschio naso, il tacere della sua azione politica e militare per parlare invece dei suoi eredi ben inferiori a lui, indicano un giudizio sfavorevole, che altrove è ben aggravato e appesantito. C., infatti, ritorna con un carico ben grave di colpa là dove Ugo Capeto passa in rassegna le pecche dei suoi ultimi discendenti (XX 61-69): e proprio la gran dota provenzale, cioè il matrimonio con Beatrice di Provenza fatto con raggiri politici e colpi di mano, iniziò la rapina, l'avido ampliamento territoriale dei Capetingi del secolo XIII che sono accomunati nella condanna. E proprio C. è posto al centro di questo viluppo di intrighi e di violenza, per la sua venuta in Italia, che D. si limita a constatare soltanto con l'espressione più sintetica e neutrale possibile, ma che implicitamente denuncia se con amaro, tragico sarcasmo ricorda che ne furono ammenda due delitti: una tragica farsa giudiziaria, il giudizio e la condanna di Corradino e l'avvelenamento di s. Tommaso d'Aquino (ma di ciò C. è certo innocente). Dal confronto fra la figura di C. quale s'intravvede là dove il poeta l'incontra effettivamente, senza però nominarlo, e quale si rileva in pieno là dove è ricordato con risalto fortissimo da un avo lontano, in un fosco scenario di male, risulta un'ostilità di fondo, che è stata trattenuta e sorvegliata, forse, dalla tradizione guelfa di Firenze a cui D. ha inizialmente partecipato, ma che si è espressa senza riserve, man mano che veniva chiara la responsabilità della casa di Francia nella decadenza politica e morale dell'Europa e d'Italia.

Diremo precisando che, durante l'esilio, l'adesione alla parte guelfa, che includeva l'accettazione della politica angioina da cui i Fiorentini erano stati fortemente avvantaggiati nella loro attività commerciale, venne in D. allargandosi in una concezione ben più ampia dell'evoluzione storica dell'Europa del suo tempo, passando da un punto di vista più ristretto legato alla sua città e ai suoi interessi a uno di più largo respiro e di ambito addirittura umano, da Firenze cioè alla Monarchia.

Da questo angolo di visuale C. diventa in realtà, con la politica che egli iniziò e che D. considera con qualche rispetto per la sua violenta energia, il vero antagonista dell'Impero. Tanto peggio se i suoi discendenti, sviluppandola e svolgendola senza genialità e coerenza, ne hanno posto in luce i limiti, aggravandola poi e peggiorandola con la loro avida cupidigia di danaro e con l'oppressione della popolazione. Né D. manca di mostrare come anche di questa cupidigia e di questa oppressione la colpa prima risalga a C., la cui mala segnoria, come severamente giudica l'unico angioino che il poeta salvi dalla generale condanna della sua stirpe, Carlo Martello, in Pd VIII 73-75, era stata l'origine della rivolta del Vespro siciliano. Il giudizio che risulta dalla rappresentazione di C., della sua attività politica e della sua azione storica, è negativo sia per quanto riguarda la sua personalità individuale sia la sua stirpe; mentre nessuna luce lo illumina, non lo sfiora nessun alito di simpatia. Tale infatti non ci sembra l'accenno a la mal tolta moneta che rese Niccolò III contra Carlo ardito (If XIX 98-99), né l'altro che i discendenti di C. furono di tanto inferiori all'avo di quanto lo stesso C. è inferiore a Pietro III d'Aragona (Pg VII 127-129): vi vediamo piuttosto nel primo caso l'indicazione di un dato di fatto e nel secondo la precisazione di una graduatoria di meriti che, positiva per Pietro 111, si fa negativa sempre più da C. in poi.

In tutto ciò va dunque segnalato il limite del guelfismo di D., che proprio di fronte a C. e agli Angioini mostra di essere più un atteggiamento di parte legato alle vicende fiorentine e ai contrasti all'interno della città che non una fede politica coerentemente articolata, della quale C. e la sua politica erano dal 1266 in poi una parte essenziale. È da questo punto di vista significativo che proprio in Pd VI 100-103, dove mette in evidenza le colpe e gli errori dei ghibellini e dei guelfi, D. rimprovera precisamente a questi ultimi di identificare la loro politica con quella dei gigli gialli, appunto gli Angioini.

Bibl. - Su C. e sulla sua politica sono fondamentali E. Jordan, Les origines de la domination angevine, Parigi 1909; ID. L'Allemagne et l'Italie aux XII° et XIII° siècles, ibid. 1939, 347-421 e passim. Un profilo vivace e ben riuscito è in E.G. Léonard, Les Angevins des Naples, ibid. 1954, 36-160, con ampie e ricche indicazioni bibliografiche.

Per C. e D. si veda soprattutto F. Torraca, Il Regno di Sicilia nelle opere di D., Napoli 1912, 370-374.