PISACANE, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PISACANE, Carlo

Carmine Pinto

PISACANE, Carlo. – Nacque a Napoli il 22 agosto 1818 da Gennaro, duca di San Giovanni, e da Nicolina Basile de Luna, secondogenito di tre figli.

Apparteneva a un’antica famiglia del Regno, ricca di esponenti dell’amministrazione civile e del foro cittadino, entrata definitivamente nella nobiltà all’inizio del Settecento.

Il giovane Carlo si formò nell’epoca di Ferdinando II. Il re cercò di consolidare il Regno delle Due Sicilie attraverso una politica di tipo conservatore e assolutista, caratterizzata da valori fondamentali come l’indipendenza e il lealismo dinastico. In quel contesto la riorganizzazione dell’esercito, la spina dorsale dello Stato, diventò un’opportunità di carriera per la generazione di Pisacane. Questi, restato giovanissimo senza padre, seguì le orme del fratello maggiore, Filippo (1815-1894), entrando nella prestigiosa scuola militare della Nunziatella, dove studiavano, fra gli altri, Enrico Cosenz, Girolamo Ulloa, Matteo Negri, i fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo. Una volta conclusi l’accademia e il corso di artiglieria a Capua, diventò alfiere. Svolse per quasi un decennio compiti tecnici nelle province di Napoli, Terra di Lavoro, Principato Citeriore e Ulteriore e negli Abruzzi, mostrando un carattere deciso e privo di conformismo.

Nell’ottobre 1846 fu accoltellato mentre rientrava alla casa familiare. Gravemente ferito, riuscì a sopravvivere e dichiarò di aver subito un assalto da parte di malfattori comuni. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1847, invece, fuggì da Napoli sotto falso nome con una donna, Enrichetta Di Lorenzo, che abbandonò il marito e tre figli.

Nella lettera d’addio ai familiari, Pisacane raccontò una storia d’amore nutrita di moduli romantici, retrodatata alla fanciullezza e dichiarata pochi anni prima, che nella sua ricostruzione aveva superato anche le nozze della donna. Enrichetta, a sua volta, dopo aver sopportato un matrimonio imposto, con un uomo che non stimava, aveva lasciato tutto per fuggire con quello che considerava il suo compagno di vita, mostrando a sua volta una personalità complessa, fragile e appassionata.

La coppia giunse in Inghilterra inseguita dai diplomatici di Ferdinando II, che pretesero la loro espulsione. I due si recarono quindi a Parigi, dove i rappresentanti napoletani ne chiesero l’arresto, ma poi si scoprì che il marito della Di Lorenzo – Dioniso Lazzari – non aveva sporto denuncia, forse per evitare di venire identificato come il mandante dell’agguato a Pisacane.

Uscita di prigione, la coppia si inserì nella comunità degli esuli italiani. Gabriele Rossetti, conosciuto a Londra, li accreditò presso il vecchio comandante dell’esercito napoletano del 1820-21, Guglielmo Pepe. La sua casa era un riferimento per i rifugiati della penisola e per noti intellettuali e politici parigini. Nella capitale francese Pisacane partecipò all’esperienza dell’esilio come altre generazioni di meridionali, iniziò la lettura di nuovi libri e giornali, cominciò a maturare una visione dell’Italia che, dalla prospettiva europea, non aveva i caratteri regionali e limitati della sua giovinezza nell’esercito napoletano. Privo di mezzi e di prospettive, decise di arruolarsi nella legione straniera, il corpo mercenario che il governo francese aveva costituito in occasione dell’occupazione dell’Algeria ma, quando egli lo raggiunse in Africa, la guerra era finita.

Il 1848 cambiò ogni cosa. La rivoluzione travolse l’Europa, il Regno delle Due Sicilie adottò la costituzione, il governo liberale di Carlo Troya decise di partecipare alla guerra contro l’Austria. Pisacane si dimise dalla legione straniera e propose al console napoletano a Marsiglia di rientrare nei ranghi. Non ottenne risposta e si recò a Milano con Enrichetta: nella primavera del 1848 era lì il centro della guerra italiana. Si recò da Carlo Cattaneo, iniziando un’amicizia che avrebbe resistito alle vicissitudini successive. Questi apprezzò la sua competenza. Pisacane fu messo al comando di una compagnia di cacciatori e si misurò con un altro elemento distintivo della sua generazione, il volontariato politico-militare. Fu inviato al fronte, dove conobbe un mondo composto da giovani (e meno giovani) che giungevano da tutte le regioni d’Italia e a volte d’Europa. Partecipò a diversi scontri con gli austriaci, che gestì con successo, ottenendo riconoscimenti sulla stampa e dal governo provvisorio lombardo. In un contrattacco fu ferito al braccio. Evitò l’amputazione dell’arto, ma fu messo fuori gioco nella parte finale della campagna.

In quel frangente, Pisacane iniziò a distinguersi anche per la passione polemica. Criticò sin dagli inizi gli alti comandi piemontesi, la strategia difensiva del governo provvisorio lombardo e – privatamente con il fratello, con il quale mantenne sempre un’intensa corrispondenza – il re Carlo Alberto. Era solo una delle tante testimonianze della crisi. Sconfitto l’esercito sabaudo, sbandati i volontari, l’armistizio finì per ratificare la conclusione della rivoluzione milanese. Pisacane si ritrovò nella marea di profughi che si riversò in Svizzera (tra questi Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini), dove si costituì per qualche mese un ritrovo generale dell’emigrazione italiana. Non smentì la sua personalità inquieta e passionale. Rientrato in servizio nella divisione lombarda affiancata all’esercito piemontese, maturò riserve sempre più forti verso i comandi, fino a giungere, nel febbraio 1849, alle dimissioni dal servizio.

Poche settimane dopo, sempre con l’inseparabile Enrichetta, era a Roma, nel cuore dell’ultima capitale della rivoluzione italiana, oltre che delle attenzioni dell’opinione pubblica e delle grandi potenze europee. Le vicende romane avevano avuto una risonanza mondiale. Inoltre, anche se stava per iniziare l’ultima e disastrosa campagna di Carlo Alberto, Roma esercitava un fascino irresistibile sulla generazione di Pisacane. Migliaia di italiani, tra questi Giuseppe Garibaldi, Luciano Manara, Goffredo Mameli, Giacomo Medici, subirono l’intensa suggestione esercita dalla città. Pisacane incontrò Mazzini, ora al vertice della Repubblica. Conquistò subito l’interlocutore e trovò la strada per occupare posti di responsabilità: diventò nel giro di pochi giorni il principale responsabile della commissione costituita per condizionare il ministro di Guerra e Marina, Pompeo Campello. Questi subito dopo si dimise. Pisacane era virtualmente il responsabile del dicastero.

Carlo ed Enrichetta si identificarono definitivamente con il movimento nazional-patriottico italiano. A Roma la coppia divenne uno dei simboli della rivoluzione romantica. Enrichetta si impegnò fino allo spasimo in un comitato di signore, formato dalla principessa Cristina di Belgiojoso: curavano i feriti, a volte in condizione di estremo pericolo. Pisacane in poco tempo fu promosso maggiore e poi colonnello. All’inizio di aprile 1849 diventò il sostituto del nuovo ministro della Guerra, Alessandro Calandrelli, poi il responsabile della prima sezione dello stato maggiore: una tipica carriera rivoluzionaria. Pisacane si impegnò nella riorganizzazione di un esercito raffazzonato, anarchico e spesso ai limiti dell’insubordinazione. Tentò di consolidare la struttura dei reparti e gli organici, soprattutto evitò l’affidamento del comando a un generale straniero, contribuendo invece all’indicazione – nella seconda metà di aprile 1849 – del generale Giuseppe Avezzana.

I suoi piani si basavano su un concetto strategico preciso: la difesa della città era possibile solo affrontando in campo aperto i diversi nemici che stavano per sfidare la Repubblica. Una linea che non fu mai condivisa da Mazzini e da buona parte dei vertici del governo che consideravano un errore lasciare Roma: era un simbolo imponente oltre che il centro dello Stato. Le discussioni continuarono fino al crollo della Repubblica e solo in un caso, la rapida offensiva contro i napoletani, videro prevalere la tesi di Pisacane.

Alla fine di aprile 1849 il corpo di spedizione francese attaccò una prima volta la città. Formazioni austriache, napoletane, persino spagnole invasero il territorio dello Stato. Dopo una prima vittoria sulle forze francesi, alcuni reparti repubblicani si scontrarono con i borbonici a Velletri. L’operazione fu incerta e confusa, anche se ebbe un certo successo propagandistico perché Ferdinando II aveva deciso di ritirarsi nei suoi confini. Non mancarono aspre polemiche tra i vertici rivoluzionari. Pisacane si trovò al centro di critiche per l’organizzazione dei servizi e per alcuni interventi nelle operazioni, litigando con molti ufficiali e con lo stesso Garibaldi.

In quei mesi emerse il suo radicalismo ideologico: maturò una concezione della rivoluzione italiana repubblicana e intransigente, ostile alla monarchia sabauda, ma diffidente anche verso molti aspetti della politica di Mazzini. Inoltre, già nei primi giorni si schierò per intervenire tanto contro i suoi conterranei quanto contro i piemontesi. Il Risorgimento fu anche un conflitto combattuto tra uomini che parlavano la stessa lingua e avevano origini comuni. La sua corrispondenza non tradì rimpianti o emozioni, un elemento che confermava una radicale scelta ideologica e personale: Pisacane rischiò di combattere anche contro il fratello Filippo che, fedelissimo al re e alla monarchia, era alla testa di uno degli squadroni della cavalleria borbonica che avevano messo in difficoltà i repubblicani sotto Velletri.

I due fratelli sintetizzavano un aspetto della frattura decennale della società napoletana, rappresentata a Roma dalla presenza di meridionali in tutti gli schieramenti. Il rapporto tra loro restò comunque profondo e affettuoso: proprio nella corrispondenza successiva alla caduta della Repubblica Romana, si confrontarono animatamente sulle reali caratteristiche delle operazioni e sul vero vincitore del piccolo confronto, ma all’interno di una solida solidarietà familiare. In ogni caso, la scelta di campo di Pisacane non implicò nessun problema o dubbio morale, né Filippo mise mai in discussione la sua appartenenza che lo portò, negli anni successivi, a seguire l’erede di Ferdinando II prima nell’estrema difesa del Regno e poi nell’esilio, restando fino alla morte a fianco dell’ex famiglia reale borbonica.

La Repubblica cadde sotto i colpi dei francesi del generale Nicolas-Charles-Victor Oudinot. Pisacane, dopo una breve detenzione, lasciò Roma per un nuovo esilio, prima a Losanna, poi a Lugano e ancora a Londra. Si trovò in un mondo cosmopolita, con polacchi e ungheresi, francesi e tedeschi. Per gli italiani questo significò proiettare la prospettiva della rivoluzione nazionale in una dimensione europea. Per molti implicò il definitivo superamento delle antiche patrie. L’ex capo di stato maggiore viaggiò per oltre un anno, partecipando alla principale attività dei fuoriusciti italiani: la produzione di uno sterminato numero di libri, giornali, opuscoli, riviste dove discutevano gli eventi appena trascorsi, analizzavano ogni tipo di scenario, producendo progetti e programmi, oltre che miti che avrebbero avuto un successo duraturo.

Era un ambiente pieno di energia, fatto di giovani che si erano sentiti protagonisti della grande politica europea e italiana. Pisacane, poco più che trentenne, aveva raggiunto obiettivi inimmaginabili in condizioni normali. Visse per qualche tempo con Mazzini. Scrisse articoli sull’Italia del Popolo, iniziò a esporre autonomi punti di vista politici: la rivoluzione nazionale doveva superare le alleanze con tutti i regimi passati, compreso quello sabaudo; la soluzione repubblicana era l’unica strada per la formazione della nazione; soltanto nelle aree più difficili, dove maggiore era la repressione degli antichi regimi, poteva davvero avere inizio la rivolta popolare. Tra le sue idee assunse sempre maggiore peso il sogno – non nuovo – di una insurrezione meridionale.

Decise dunque di tornare in Italia. Per la prima volta lontano da Enrichetta, la relazione aveva conosciuto una crisi profonda. La donna, combattuta tra la nostalgia della famiglia, una infatuazione per un amico (Cosenz) e la vita stessa di Carlo, gli espresse critiche, risentimenti, preoccupazioni. Pisacane decise così di raggiungerla a Genova, dove visse con lei fino alla sua ultima impresa (nel 1853 nacque la loro unica figlia, Silvia).

Il Regno di Sardegna era il cuore dell’esilio italiano. Migliaia di fuggitivi ne affollarono le città e le province. A Genova, ritrovo dei settori più radicali del movimento repubblicano, Pisacane incontrò colleghi della Nunziatella come i due Mezzacapo, Francesco Carrano, Camillo Boldoni, i reduci di Roma e altre personalità della rivoluzione come Agostino Bertani, Nino Bixio, Medici. Si ritrovò con molti di loro al vertice dello stato maggiore repubblicano, al centro una turbolenta folla di giovani attivissimi. Tra riunioni nelle redazioni dei giornali o nei caffè, fece la sua esperienza di intellettuale militante, portando a termine la pubblicazione del suo primo libro, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 (Genova 1851).

Il volume, denso di giudizi netti e di critiche personali, suscitò un vespaio nell’ambiente dell’emigrazione, soprattutto nel vasto mondo dei sostenitori di Garibaldi, molto mal giudicato da Pisacane. Fu sommerso da prese di posizione, lettere di protesta, divamparono polemiche e risentimenti. Il direttore dell’Italia e popolo di Genova, Gerolamo Remorino, lo sfidò a duello (Pisacane ne uscì ferito) e non fu l’unico. Le reazioni erano limitate a singoli episodi o a questioni che riguardavano persone, ma non toccavano il nucleo del libro, in cui Pisacane prese le distanze dalla piattaforma mazziniana. Propose una propria soluzione alla questione nazionale italiana che, a suo avviso, non aveva toccato gli interessi reali delle popolazioni. Solo proponendo risultati tangibili, offrendo insieme alle libertà anche vantaggi materiali, si potevano saldare le masse alle élites militanti, attraverso una rivoluzione sociale mancata nel biennio insurrezionale 1848-49. Il libro non provocò alcuna discussione su questo terreno, ma i suoi concetti profondi mostravano quanto Pisacane, nel suo girovagare per l’Europa, si fosse compenetrato con un’altra novità del 1848: la crisi sociale che, in forme e dimensioni diverse, si era profilata in tante realtà europee e italiane.

Le acquisizioni culturali e ideologiche dell’esilio pesarono nella sua formazione politica. Fu affascinato dalle idee francesi del socialismo utopistico, libertario e fraternitario, fortemente influenzato da Pierre-Joseph Proudhon e François-Marie-Charles Fourier, giungendo a sostenere la necessità di un radicale intervento ridistributivo della proprietà. Inoltre, la conoscenza dei dibattiti londinesi (dove agiva il giovane Karl Marx), le peculiarità dell’ambiente piemontese e di alcuni suoi autori impegnati sul terreno sociale (in quegli anni uscirono i lavori di Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Ausonio Franchi) esercitarono una potente suggestione su Pisacane. Egli si dedicò a studi e riflessioni scritte, storiche e politiche, che intrecciarono erudizione e intuizioni moderne, pedanterie storiche e competenza militare. Furono pubblicate postume dagli amici con il titolo Saggi storici-politici-militari sull’Italia (I-II, Genova 1858; III-IV, Milano 1860): contenevano tutto lo sforzo intellettuale di Pisacane, oltre che l’inevitabile confusione di un lavoro ancora in bozze, non ordinato. Nonostante le difficoltà dottrinali, discuteva problemi ideologi inediti per il dibattito italiano: l’idea di una rivoluzione sociale capace di superare anche la proprietà privata, l’analisi degli interessi economici e sociali come leva per i cambiamenti politici. Il nucleo fondamentale era l’approfondimento del disegno proposto in Guerra combattuta in Italia: la questione sociale era presentata come potenziale soluzione della crisi italiana, la nazionalità poteva formarsi solo autonomamente e senza lo straniero, combinando la lotta per la libertà politica a quella contro lo sfruttamento. Temi che sarebbero stati al centro della fortuna di Pisacane nei dibattiti storiografici e soprattutto politici della seconda metà del Novecento.

Le sue riflessioni erano influenzate da una militanza rivoluzionaria densa di entusiasmo e delusioni. La generazione di Pisacane sperimentò una forma di politicizzazione che consentì circolazioni di idee e di uomini, uno dei principali prodotti degli esili ottocenteschi. Pisacane frequentò militari come Medici, politici meridionali come Raffaele Conforti, esuli stranieri come Aleksandr Ivanovič Herzen. Il gruppo repubblicano era quello più esposto alle tensioni interne ed esterne, per i suoi stessi dati costitutivi: radicalismo ideologico, forti personalità, movimentismo politico perenne. In quegli anni Pisacane e molti altri fuoriusciti, Cosenz, Medici, Mezzacapo, si scontrarono sempre più spesso con Mazzini e i suoi fedelissimi. Requisitorie da un lato, critiche aspre dall’altro, si cumularono a temporanei ravvicinamenti. Il capo del movimento repubblicano respinse con determinazione il radicalismo socialista di Pisacane, mentre questi considerava un palliativo inutile le proposte mazziniane su quel tema. Fu solo nel 1855 che si poté registrare un riavvicinamento, mediato da comuni amici (in particolare dall’inglese Emily Hawkes). Il mondo dell’emigrazione si stava convincendo che il Regno delle Due Sicilie, al centro di una serrata polemica internazionale, poteva rappresentare il terreno ideale per ricominciare la rivoluzione italiana. Inoltre, prese piede un movimento a sostegno del figlio di Gioacchino Murat, Lucien, allora presente in veste di diplomatico a Torino e molto vicino a Napoleone III. Pisacane fu tra i promotori di un documento che condannava qualsiasi pretesa murattiana.

Le due principali componenti dell’emigrazione, radicale e liberale costituzionale, diedero vita a Torino a un comitato politico meridionale, ma il tentativo fallì rapidamente. I moderati, ma anche lo stesso Garibaldi, erano sospettosi e perplessi verso la sempre più diffusa idea di una spedizione armata nel Mezzogiorno, considerandola prematura e inutile. Al contrario Mazzini, tornato a Genova, riprese la direzione del movimento e scelse, insieme a Pisacane, quell’opzione come nucleo della sua strategia, utilizzando il suo carisma e la sua energia per rendere realizzabile la nuova impresa. Nell’estate del 1856 iniziò l’organizzazione della spedizione (in un gruppo formato con Cosenz e Rosolino Pilo). Pisacane e Mazzini erano in corrispondenza con un comitato segreto attivo nelle province napoletane e con le varie centrali dell’esilio, come quella maltese gestita da Nicola Fabrizi. Alcuni eventi confermarono l’illusione circa il possibile successo di una iniziativa meridionale: la rottura delle relazioni diplomatiche tra il Regno delle Due Sicilie e Francia e Inghilterra, la fallita insurrezione siciliana del barone Francesco Bentivegna, il clamoroso attentato del soldato Agesilao Milano a Ferdinando II. Pisacane fondò un giornale, La libera parola, da diffondere nelle province napoletane. A Genova ci si convinse ogni giorno di più di trovarsi sull’orlo di un’esplosione rivoluzionaria.

La corrispondenza con il comitato napoletano era confusa, pressante, intensa. Gli ultimi mesi che precedettero la spedizione testimoniarono la fragilità dell’organizzazione rivoluzionaria e la ferrea determinazione di Mazzini e Pisacane. L’ostinata e rigorosa contrarietà dei principali esponenti del Partito d’azione, Garibaldi, Bertani, Medici, Francesco Crispi, Aurelio Saffi, Benedetto Musolino, l’allontamento di Cosenz, l’ostilità dei moderati non dissuasero i due rivoluzionari. Le suggestioni di poche notizie confuse e l’esaltazione della cospirazione clandestina, insieme alla convinzione di marcare la storia italiana, appassionarono Pisacane che respinse ogni esitazione dei suoi amici. Le sue lettere con il coordinatore del comitato, il giovane Giuseppe Fanelli, testimoniano tanto l’estrema indecisione e preoccupazione dei meridionali quanto la sua assoluta risolutezza.

In realtà, esisteva nel Mezzogiorno una vasta area di opposizione, testimoniata dalla quantità di ‘attendibili’ (sospettati privi di diritti politici) e di reti clandestine. Un movimento che sarebbe diventato visibile nell’estate del 1860, ma che non era in grado di ribaltare da solo i rapporti di forza con il regime di Ferdinando II. Questo fu evidente tra l’autunno del 1856 e la primavera successiva: gli apparati di sicurezza borbonici demolirono la rete clandestina che nel Cilento e nel Vallo di Diano doveva attuare l’insurrezione, arrestando tutti i quadri più importanti, compreso Giovanni Matina, l’ideatore del piano d’azione che Pisacane aveva deciso di adottare.

Nulla di tutto questo valse a dissuaderlo. All’inizio di giugno 1857 giunse clandestinamente a Napoli per incontrare i capi della cospirazione e comunicò che la spedizione era decisa. Tornato in Piemonte, furono realizzati gli ultimi preparativi. Era il disegno di una rivoluzione generale: doveva iniziare, oltre che con la spedizione nel Mezzogiorno, con due insurrezioni nei centri più forti del movimento repubblicano, Genova e Livorno. Il giorno prima della partenza – il 24 giugno 1857 – Pisacane consegnò alla giornalista inglese Jessie White il suo Testamento politico, pubblicato dal Journal des débats il 27 luglio 1857, poi da L’Italia del Popolo il 2 agosto 1857, infine in opuscolo a parte (Testamento politico di C. P., Bruxelles [ma Genova] s.d.).

Era un tentativo appassionato, coinvolgente e affrettato di tenere insieme affermazioni ideologiche e obiettivi politici. Esponeva le sue convinzioni socialiste e la volontà di mobilitare le masse contadine meridionali, la necessità di una soluzione rivoluzionaria del problema nazionale italiano e l’entusiasmo di una impresa volontaristica tipicamente mazziniana. Quasi con fatalismo, anticipò il possibile esito drammatico dell’iniziativa, affermando la risolutezza estrema e romantica del suo gesto e il valore di un atto che avrebbe segnato la storia d’Italia.

Il 25 giugno Pisacane si imbarcò sotto falso nome sul piroscafo Cagliari con una trentina di uomini, dopo l’ultimo incontro con Mazzini. I suoi principali collaboratori erano due giovani calabresi: Giovanni Nicotera, un reduce del 1848 napoletano, nipote di Musolino, e Giovambattista Falcone, fuggito a Genova perché amico di Agesilao Milano. L’impresa iniziò subito male. I rivoluzionari si impadronirono della nave con un ammutinamento incruento, ma non riuscirono a incrociarsi con il siciliano Pilo che li aspettava al largo con un’imbarcazione carica di uomini e munizioni. Le progettate insurrezioni a Genova e Livorno fallirono immediatamente. Pisacane era determinato in ogni caso a portare a termine l’impresa. Il piano prevedeva la liberazione di prigionieri nell’isola di Ponza. Il colpo di mano riuscì, la piccola guarnigione borbonica si arrese, ma i detenuti politici erano pochissimi e tutt’altro che entusiasti.

La spedizione imbarcò circa trecento persone, quasi esclusivamente militari in punizione o relegati per reati comuni. Molto più grave fu la situazione nel momento dello sbarco a Sapri, il 28 giugno. Nel paesino del Salernitano non trovarono nessuno. Il comitato napoletano era stato avvisato in ritardo e fu in grado di mobilitare pochissimi uomini. I gruppi clandestini più forti, in Lucania e altre province, non furono informati in tempo. Pisacane decise di proseguire secondo il suo piano, puntando sul Vallo di Diano, sperando nel congiungimento con presunte colonne di insorti, per realizzare poi la marcia su Napoli. Nel frattempo l’apparato militare borbonico si era mobilitato. Il sottintendente di Sala riunì le guardie urbane e la gendarmeria. Tre colonne di forze regolari riuscirono a convergere con rapidità sul luogo della crisi. La formazione rivoluzionaria risalì il golfo di Policastro ed entrò nel Vallo senza trovare che qualche sparuta simpatia. Il 30 giugno era a Padula. Anche qui i quadri rivoluzionari erano stati tutti individuati dalla polizia borbonica e portati in carcere a Salerno.

Il 1° luglio Pisacane decise di affrontare gli avversari, comandati dal maggiore della gendarmeria Achille de Liguoro, sulle colline che dominavano il paese. Dopo un paio d’ore di fucileria, l’arrivo dei regolari comandati dal colonnello Giuseppe Ghio determinò lo sbandamento dei rivoltosi. Pisacane con un centinaio di uomini riuscì a fuggire nella valle. Molti altri furono uccisi nel paese, spesso massacrati a sangue freddo, o catturati. La mattina successiva i superstiti erano in vista di Sanza. La guardia urbana mobilitò la popolazione. Il gruppo fu aggredito. Molti, tra questi Falcone, furono uccisi. Altri, come Nicotera, ferito, vennero presi in consegna dai regolari appena giunti. Furono portati a Salerno e finirono al centro di un processo che ebbe grande risalto sulla stampa italiana e internazionale. Per molti anni dopo l’unificazione il ‘mito di Sapri’ e le polemiche sul processo furono al centro tanto delle rivendicazioni della Sinistra storica, quanto delle sue divisioni e lacerazioni interne, diventando poi, dopo una generazione, uno dei pilastri della narrativa risorgimentale. Per quanto riguarda la sorte di Pisacane non si giunse mai a comprendere se si suicidò, come sostennero alcuni, o fu ucciso, come scrissero altri.

In ogni caso, morì a Sanza il 2 luglio 1857.

Enrichetta Di Lorenzo si era opposta alla spedizione e aveva cercato di dissuadere Pisacane dal mettere inutilmente in pericolo la sua vita e quella dei suoi giovani compagni, ma da militante leale aveva dato la sua disponibilità a dirigere le ambulanze, qualora si fosse verificata un’insurrezione a Genova in concomitanza con quella del Sud. Dopo l’esito tragico dell’iniziativa, Di Lorenzo si rifugiò a Torino con la figlia. Tornata a Genova, molti patrioti, fra i quali Bertani, Cosenz, Medici, Giorgio Pallavicino Trivulzio, si presero cura della piccola Silvia e di lei, che a sua volta cercò di confortare la lunga detenzione di Nicotera con lettere e invii di denaro. Nel 1860, entrato a Napoli, Garibaldi destinò alla bambina una pensione di 60 ducati, mentre Nicotera, uscito di prigione, la adottò come aveva promesso a Pisacane poco prima che morisse. Dopo essersi impegnata ancora in un comitato di donne per Roma capitale fondato nel 1862 da Antonietta De Pace, Enrichetta Di Lorenzo morì nel 1871.

Silvia, invece, fu coinvolta suo malgrado in uno dei più clamorosi scandali politico-affaristici dell’Italia liberale, quando nel 1878 il padre adottivo prestò la sua cospicua dote all’amico senatore matesano Achille Del Giudice in vista di un investimento che si rivelò fallimentare. Nonostante la condanna al risarcimento subita alla fine di una lunga vertenza giudiziaria, Del Giudice non restituì la somma, ma nel 1888 fu costretto a dimettersi dalla Camera alta prima di essere travolto da una nuova causa penale intentatagli da Nicotera. Gravemente malata di tubercolosi, Silvia Pisacane Nicotera morì due anni dopo.

Opere. Fra le edizioni critiche degli scritti di Pisacane, si segnalano: Epistolario di C. P., a cura di A. Romano, Milano-Genova-Roma-Napoli 1937; Opere complete di C. P., a cura di A. Romano, I-III, Milano 1957-61; Scritti vari, inediti o rari, a cura di A. Romano, I-III, Milano 1964; Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, a cura di F. Di Tondo, Torino 1968; La rivoluzione, con un saggio introduttivo di F. Della Peruta, Torino 1970. Un elenco dettagliato degli scritti editi di Pisacane si trova in C. P.: catalogo delle opere conservate presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a cura di S.A. Puttini, Milano 2007.

Fonti e Bibl.: Salerno, Archivio della famiglia Pisacane; Napoli, Archivio della famiglia Di Lorenzo; Collezione privata Carlo Di Lorenzo; Biblioteca nazionale, Fondo Pisacane; Museo nazionale di S. Martino, Fondo Sapri. Lettere, documenti, incisioni, fotografie di Pisacane sono conservati altresì in numerosi fondi dell’archivio dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma (http://www.risorgimento.it/php/ page_gen.php?id_sezione=3&id_menu_sx=15 (20 giugno 2015). Inoltre: C. Cattaneo, Epistolario, raccolto e annotato da R. Cadeo, III, Firenze 1954, pp. 32, 36, 38 s., 94, 105 s., 276, 315, 339, 341, 551, 553; Carteggi di Carlo Cattaneo, s. 1, Lettere di Cattaneo, a cura di M. Cancarini Petroboni - M. Fugazza, I, Firenze-Bellinzona 2001, p. 469; II, Firenze-Bellinzona 2005, pp. 186, 218 s., 221, 224 s., 228 s., 237 s., 253, 259, 286, 289, 409, 504, 554-556, 584, 594 s., 605-607, 616, 620, 622, 629, 632, 645, 647, 677; III, Firenze-Bellinzona 2010, pp. 3, 28, 32, 59, 154, 243, 248, 365, 375, 388 s., 408, 446, 465, 519, 583, 638.

Sulla figura e sul pensiero politico di Pisacane: L. Fabbri, C. P.: la vita, le opere, l’azione rivoluzionaria, Roma-Firenze 1904; L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1942, ad ind.; G. Quazza, La lotta sociale nel Risorgimento, Torino 1951, ad ind.; F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Milano 1958, ad ind.; G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, ad ind.; P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre ed insurrezioni, Torino 1962, ad ind.; F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Milano 1965, ad ind.; C.M. Lovett, Carlo Cattaneo and the politics of the Risorgimento, 1820-1860, The Hague 1972, ad ind.; N. Rosselli, C. P. nel Risorgimento italiano, con un saggio di W. Maturi, Torino 1977; C. Vetter, C. P. e il socialismo risorgimentale, Milano 1984; L. La Puma, Il pensiero politico di C. P., Torino 1995; F. Della Peruta, Carlo Cattaneo politico, Milano 2001, pp. 99, 106, 157 s.; C. Agliati, Il ritratto carpito di Carlo Cattaneo, Bellinzona 2002, pp. 92, 136, 141; L. Russi, C. P.: vita e pensiero di un rivoluzionario senza rivoluzione, Napoli 2007; Tra pensiero e azione: una biografia politica di C. P., a cura di C. Pinto - L. Rossi, Salerno 2010; S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma 2011, pp. 28 s., 36, 49, 74, 152; G. Palamara, Patrioti a confronto. C. P., Benedetto Musolino e Giovanni Nicotera, Soveria Mannelli 2012. Sulla spedizione di Sapri: L. De Monte, Cronaca del comitato segreto di Napoli sulla spedizione di Sapri, Napoli 1877; P. Bilotti, La spedizione di Sapri, Salerno 1907; L. Pollini, La tragica spedizione di Sapri, Milano 1935; A. Capone, Giovanni Nicotera e il ‘Mito’ di Sapri, Roma 1967; L. Cassese, La spedizione di Sapri Bari 1968; C. Pinto, 1857. Conflitto civile e guerra nazionale nel Mezzogiorno italiano, in Meridiana, 2011, vol. 69, pp. 171-200; D. De Donno, «Con l’Italia nel cuore». L’esperienza di un patriota mazziniano (Nicola Valletta, 1829-1815), in «L’Italia è». Mezzogiorno, Risorgimento e post-Risorgimento, a cura di M.M. Rizzo, Roma 2013, pp. 106-110. Sulla famiglia Pisacane e i rapporti di Carlo e Filippo: V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, V, Milano 1932, pp. 393 s.; E.M. Pisacane, Giovanni Battista Pisacane duca di San Giovanni, Casalvelino Scalo 2013; S. Sonetti, Carlo e Filippo Pisacane. Un «conflitto civile privato» nel Mezzogiorno borbonico, in Meridiana, 2014, vol. 81, pp. 151-168. Sulla famiglia Di Lorenzo, sulla relazione fra Enrichetta e Carlo, sul loro esilio: L. Guidi, Relazioni epistolari di Enrichetta di Lorenzo, in Scritture femminili e storia, a cura di L. Guidi, Napoli 2004, pp. 239-270; Ead., Donne e uomini del Sud sulle vie dell’esilio. 1848-60, in Storia d’Italia, Annali, XXII, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti - P. Ginsborg, Torino 2007, pp. 225-252; Ead., Nuove coppie. C. P. ed Enrichetta Di Lorenzo, in Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. Isnenghi - E. Cecchinato, Torino 2008, pp. 334-341; A. Di Lorenzo, Enrichetta Di Lorenzo. Storia di una famiglia, Frattamaggiore 2011; L. Guidi - A. Russo - M. Varriale, Il Risorgimento invisibile. Patriote del Mezzogiorno d’Italia, Napoli 2011, pp. 60-66, 112, 171-173.

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