Carne

Universo del Corpo (1999)

Carne

Cecilia Pennacini e Anna Maria Paolucci

Il termine carne, che viene dal latino caro-carnis, a sua volta derivato dal greco χείρω, "taglio", ha diverse accezioni. Se in generale designa la parte muscolare del corpo dell'uomo e degli animali, nel linguaggio filosofico-religioso, e soprattutto in quello biblico e teologico, esso indica l'uomo nella sua totalità, ma più spesso l'uomo considerato nel suo elemento materiale del 'corpo', in contrapposizione con l'anima, e quindi dal punto di vista della sua debolezza, mortalità, soggezione ad appetiti inferiori e peccati. Nell'accezione nutrizionale, alla quale ci si riferisce in questa trattazione, si intende per carne qualsiasi parte dei muscoli degli animali e i loro organi interni, che l'uomo utilizza a scopo alimentare, anche in forma di prodotti trasformati e conservati. Il consumo di carne è fortemente legato a elementi economici e sociali e presenta notevoli variazioni a seconda delle epoche e delle regioni; un ruolo importante è svolto anche dai fattori culturali e in particolare da antiche, ma tuttora diffuse forme di astensione parziale o totale (vegetarianismo) ispirate da motivi igienico-sanitari, etici e religiosi.

Prescrizioni culturali e funzioni simboliche

di Cecilia Pennacini

1.

Consumo alimentare e prescrizioni religiose

La carne non è soltanto uno tra gli alimenti più ricercati e apprezzati dalla maggior parte delle società umane. Vastissime sono infatti le implicazioni culturali e psicologiche connesse al consumo o al rifiuto della carne: esse sono il risultato delle relazioni concrete e simboliche che gli uomini intrattengono con le altre specie, delle classificazioni cosmologiche, delle prescrizioni religiose e di altri complessi fattori ideologici. La carne costituisce un 'simbolo naturale' (Douglas 1970) estremamente potente: alla stregua del corpo di cui è parte, la carne viene utilizzata universalmente come metafora, per veicolare particolari significati culturali, i quali tuttavia affondano in un sostrato biologico comune all'intero genere umano.

Nessuna cultura utilizza semplicemente tutta la carne disponibile nel suo ecosistema per far fronte alle proprie esigenze proteiche. Molto spesso vengono scartate risorse di proteine valide dal punto di vista nutritivo, mentre le modalità con cui la carne viene preparata e consumata sono evidentemente il frutto di abitudini culturali profondamente radicate. In Occidente per es. non si considera commestibile la carne di insetti come le termiti o le cavallette, che costituiscono invece due piatti ampiamente diffusi tra le popolazioni dell'Africa centrale, presso le quali sono ritenuti prelibati oltre che fonte di proteine. Consumare o meno la carne di un determinato animale, scegliere un tipo di trasformazione ritenuta idonea a renderla commestibile piuttosto che un altro, sono questioni di gusto e di cultura più che considerazioni 'razionali' o nutrizionali; le scelte alimentari, e in particolare quelle concernenti la carne, manifestano infatti l'appartenenza etnica, religiosa, sociale o di genere. Lo stesso meccanismo biologico alla base dell'alimentazione, il fatto cioè di 'incorporare' elementi estranei per derivarne in un certo senso la vita e l'energia, suggerisce vaste possibilità simboliche, utilizzabili per la definizione stessa di umanità che ciascuna cultura propone e su cui interviene attivamente mediante specifiche attività 'antropo-poietiche' (Remotti 1996).

La gamma delle variazioni culturali presenti nel fenomeno del consumo - e del rifiuto - della carne è vastissima. Moltissime popolazioni pongono la carne in cima alle loro preferenze alimentari: il desiderio di mangiarla è concettualizzato con un termine specifico in alcune lingue africane, mentre talune culture operano addirittura una sacralizzazione del concetto di carne. Una delle principali divinità dei dinka, allevatori nilotici del Sudan, è Ring, che nella lingua dinka significa appunto "Carne". Si ritiene che questa divinità si manifesti ogni qual volta si scuoi un animale ucciso, nei fremiti e nelle contrazioni della sua carne. La divinità Carne rappresenta per i dinka uno dei principi basilari dell'esistenza, sinonimo della stessa essenza vitale: secondo questa concezione, può impossessarsi di taluni individui entrando nel loro corpo sotto forma di un tremore - analogo a quello osservato nelle bestie uccise - che prelude a una trance profonda, nel corso della quale il soggetto entra in possesso di poteri soprannaturali (Lienhardt 1961).

D'altro canto, alcune culture aborrono il consumo di carne e utilizzano diete esclusivamente vegetariane. Tale atteggiamento è comune nelle regioni di diffusione dell'induismo e del buddismo e corrisponde a un principio generale di non violenza (a-himsa in hindi) verso ogni creatura vivente. In India, il rifiuto di cibarsi di carne diviene più forte con il salire dello status sociale all'interno del sistema delle caste: i bramini sono vegetariani assoluti, mentre le caste inferiori rispettano soltanto la proibizione di mangiare carne bovina. La sacralità della vacca svolge un ruolo estremamente importante nel complesso religioso indù, dove il rispetto per l'esistenza animale rappresenta una tradizione molto radicata, come testimonia anche l'istituzione delle 'case degli animali', rifugi per bovini vecchi e infermi diffusi in tutta l'India (Simoons 1961).

Ciascuna cultura adotta dunque un diverso atteggiamento nei confronti della carne in generale, e più specificamente indica quali animali vadano ritenuti commestibili e quali invece debbano essere considerati impuri e quindi evitati. L'interdizione maggiormente diffusa riguarda la carne di maiale, oggi considerata tabu in tutto il mondo islamico, nella religione ebraica e in quella indù. Le fonti storiche indicano inoltre che il maiale era bandito nell'antico Egitto, dove veniva consumato soltanto nel corso di importanti occasioni rituali, e anche in Asia Minore tra i numerosi adepti del culto di Cibele.

Per tentare di spiegare la grande diffusione del tabu che investe la carne suina sono state invocate diverse teorie: quelle di tipo igienico-sanitario associano l'avversione per la carne di maiale al pericolo di contrarre determinate malattie, in particolare la trichinosi, una grave patologia causata da un parassita che può trasmettersi dal maiale all'uomo. Va però escluso che gli antichi ebrei e gli egizi conoscessero tale parassita, scoperto soltanto nel 19° secolo, e potessero dunque ipotizzare un collegamento tra i sintomi della malattia e il consumo di carne suina. Le teorie di tipo ecologico riconducono invece l'origine del tabu ai fattori ambientali connessi al deterioramento della particolare nicchia ecologica in cui si sviluppa l'allevamento del maiale (Harris 1985). Tuttavia, la diffusione mondiale del rifiuto del maiale, unita alla considerazione di un obiettivo vantaggio economico laddove invece esso venga utilizzato (sfruttando la sua notevole capacità di trasformare i rifiuti in considerevoli quantità di proteine nobili), rendono poco soddisfacente anche l'ipotesi ecologica.

L'antropologa M. Douglas ha condotto un'analisi della dottrina ebraica riguardante i tabu alimentari, esposta nel Levitico, alla luce delle specifiche distinzioni categoriali con cui la Bibbia classifica le creature viventi (Douglas 1966). Secondo l'autrice, il comandamento biblico "mangerai soltanto gli animali con l'unghia fessa e che siano ruminanti" considera impuri tutti quegli esseri che non possono essere ricondotti chiaramente a categorie riconosciute. Si tratta di esseri per certi versi liminari rispetto alle categorie definite, che proprio per questo motivo mettono in pericolo l'intero sistema classificatorio. Douglas identifica, dunque, all'interno della dimensione religiosa e culturale l'origine dei tabu alimentari, nonché dei concetti di purezza e contaminazione: essi investono tutti quegli elementi che, risultando estranei alle categorie culturali, potrebbero per questo mettere a repentaglio l'integrità stessa del sistema categoriale.

L'origine culturale dei tabu tende poi a radicarsi in processi di interiorizzazione, che contribuiscono, per es., a suscitare una reazione fisiologica di disgusto di fronte all'animale vietato. I tabu scompaiono così dalla nostra consapevolezza mentre la reazione di disgusto, che consideriamo innata, permane a mantenere saldi i confini culturali tra ciò che può essere mangiato e ciò che deve essere evitato. Un procedimento originariamente arbitrario si radica così profondamente nella cultura da essere infine percepito come naturale, garantendo tra l'altro l'efficacia simbolica di certi tabu alimentari nella definizione dell'identità etnica: gli ebrei o i musulmani ortodossi possono giungere a provare disgusto nei confronti di coloro che consumano abitualmente la carne dell'aborrito maiale.

D'altro canto molte società pongono il maiale al centro dei loro interessi alimentari e anche delle loro attività rituali. È il caso, per es., delle culture melanesiane, dove i suini vengono allevati in numero piuttosto rilevante per poi essere uccisi e consumati collettivamente nel corso dei rituali comunitari rivolti agli spiriti. Nel caso degli tsembaga, una popolazione della Nuova Guinea studiata da R. Rappaport (1968), quando i maiali allevati dalla comunità raggiungono un numero considerevole si organizza la festa del kaiko, nel corso della quale la gran parte di essi viene consumata in onore degli antenati. Il rituale contribuisce in questo caso a mantenere l'equilibrio ecologico tra gli tsembaga e le risorse del loro ambiente naturale.Le abitudini alimentari in fatto di carne sono dunque determinate in misura notevole dalle prescrizioni culturali, religiose e rituali. Se in taluni casi, come in quello degli tsembaga, il rito contribuisce a conservare l'equilibrio ecologico che regola l'utilizzo delle risorse, in altri casi l'interdizione di origine religiosa può giungere a provocare un danno economico e nutrizionale; tuttavia, la funzione simbolica svolta da certi tabu alimentari viene spesso considerata più importante dell'immediato soddisfacimento di un bisogno primario.

2.

Il problema del cannibalismo

Gli antropologi si sono sovente occupati di un aspetto particolarmente impressionante del consumo di carne: il cibarsi di carne umana a fini alimentari o rituali. I ritrovamenti archeologici lasciano supporre che talune popolazioni preistoriche fossero dedite al cannibalismo (v.), mentre alcune fonti etnografiche riportano testimonianze di gruppi che ancora in tempi recenti praticavano l'antropofagia. Famoso il caso dei tupinamba, un gruppo oggi estinto che abitava la costa atlantica del Brasile, visitati nel 16° secolo da un mercenario olandese, H. Staden, che lasciò una cronaca del suo viaggio corredata di una descrizione di pratiche antropofagiche, ripresa alcuni anni dopo da Montaigne nei suoi Essais. Casi recenti di cannibalismo sono stati riportati in Nuova Guinea, dove si ritiene si trattasse di una pratica culturalmente accettata da numerosi gruppi. Negli anni Sessanta un medico americano, C. Gajdusek, studiò la correlazione esistente tra il consumo rituale del cervello dei parenti defunti (il cosiddetto endocannibalismo) e una grave malattia neurologica, denominata kuru, presso i fore dell'altipiano centrale di Papua. Tuttavia, seri dubbi circa la realtà delle pratiche antropofagiche descritte da Gajdusek, così come della gran parte dei casi di antropofagia riportati nella letteratura antropologica, sono stati sollevati da W. Arens (1979). Pur non escludendo la possibilità che tali pratiche si siano effettivamente verificate, Arens denuncia l'infondatezza delle fonti conosciute, che non utilizzano mai dati di prima mano. Secondo l'autore, se l'immaginario antropofagico è quasi universalmente diffuso, ciò non significa necessariamente che esso si fondi su pratiche reali culturalmente accettate. Al contrario, l'accusa di antropofagia sembra investire per lo più i nemici di una determinata cultura, attribuendo loro in questo modo una natura fondamentalmente disumana.Il cannibalismo è visto in questa prospettiva come una sorta di 'controconcetto', utilizzato per segnare la differenza tra noi e gli altri, con un procedimento analogo a quello che sta alla base del concetto di 'barbaro' e che tende a sottolineare soprattutto gli aspetti di disordine e di antisocialità, opposti all'ordine e all'armonia interni alla propria cultura. Significativamente, la percezione della diversità, della distanza e dell'identità culturale si esprimono, ancora una volta, in termini alimentari. Sia che ci si consideri come coloro che aborrono la carne di maiale sia che si denuncino i propri vicini per le loro preferenze antropofagiche, la scelta della carne di cui alimentarsi sembra svolgere un ruolo estremamente importante nella definizione della propria e dell'altrui identità.

3.

Carne e identità

Il tipo di carne consumata contribuisce dunque a definire e a esprimere l'identità religiosa o etnica nei confronti dei gruppi esterni; allo stesso tempo, all'interno delle società i tabu alimentari contribuiscono a sancire le differenze di status, di genere, di specializzazione professionale. Abbiamo visto come in India la gerarchia castale si esprima anche nei termini della ricerca di una sempre maggiore purezza correlata alla pratica vegetariana. Analogamente, in molte culture africane i medium e gli specialisti della religione rispettano precisi tabu alimentari che contribuiscono a mantenerli 'puri' e lontani dalla gente comune. Così i medium delle religioni estatiche, praticate nella regione centroafricana dei Grandi Laghi, non possono consumare carne di pollo né uova - simboli della fertilità e della procreazione - sottolineando in questo modo non solo la loro generica differenza rispetto alla gente comune, ma più specificamente il loro ruolo di garanti rituali della fertilità riproduttiva.

Anche le più basilari distinzioni tra categorie di individui trovano espressione simbolica a livello alimentare. La fondamentale opposizione di genere tra uomini e donne è spesso marcata da tabu alimentari che impediscono alle donne di cibarsi di taluni tipi di carne, o anche della carne in generale. Alcuni autori spiegano l'associazione simbolica che molte società istituiscono tra la carne e il genere maschile con la specializzazione che gli uomini hanno sviluppato nelle attività della caccia (Fiddes 1991): se l'uomo in quanto cacciatore è anche colui che dispone della carne e decide chi può cibarsene, un ulteriore sviluppo di tale associazione identifica metaforicamente il genere femminile con la preda, la cui carne viene consumata dall'uomo.

L'equazione simbolica tra l'erotismo e il cibo, utilizzata in diverse culture, si connota qui in senso evidentemente asimmetrico, equiparando unilateralmente l'uomo a colui che mangia e la donna alla carne. L'equazione tra la donna e la carne suggerisce un altro tema simbolico presente in molte culture compresa la nostra, e cioè l'assimilazione della donna alla natura, contrapposta all'uomo che controlla la sfera naturale attraverso gli strumenti culturali. In questa prospettiva, la carne viene spesso considerata un elemento che attraversa il confine tra natura e cultura: infatti, gli animali selvaggi vengono uccisi per poter essere mangiati e, in un certo senso, incorporati nelle culture umane; ma, affinché la loro carne possa essere assimilata dagli uomini, essa deve essere trasformata tramite il procedimento universale della cottura.

C. Lévi-Strauss (1964), analizzando alcuni miti sudamericani riguardanti le origini del fuoco di cucina, mette a punto la sua teoria sulla centralità del processo della cottura nel passaggio dalla natura alla cultura. La cottura della carne distingue l'uomo da tutti gli altri esseri viventi, che la consumano invariabilmente cruda. Tale trasformazione evita il rischio che la carne imputridisca, rientrando così nel mondo della natura, e garantisce la sua commestibilità, cioè il suo ingresso nella cultura. Il significato profondo e universale di tale trasformazione è rintracciabile anche in altre usanze, dove essa assume un chiaro valore metaforico. Presso talune popolazioni amerindiane, le ragazze puberi, le partorienti e i neonati venivano introdotti in forni scavati nella sabbia calda, a significare la necessità di cuocere metaforicamente tali esseri per socializzarli e trasformarli così da naturali in culturali. La carne suggerisce dunque profonde e spesso inquietanti considerazioni circa l'identità delle culture umane, non soltanto per il fatto di costituire uno strumento di identificazione della propria appartenenza sociale, culturale, di genere, ma anche in quanto elemento simbolico generale, continuamente ricorrente nella definizione dei rapporti che i membri di ogni cultura intrattengono con la natura che li circonda. Tale implicazione emerge anche dal crescente rifiuto espresso da molti occidentali nei confronti della carne.

In Occidente, il consumo di carne sembra essere notevolmente cresciuto in concomitanza con la rivoluzione industriale, quando l'aumento di ricchezza pro capite e l'introduzione dell'allevamento razionale dei bovini favorì la diffusione di talune consuetudini proprie della nobiltà. N. Fiddes (1991) mette in relazione tale crescita esponenziale del consumo di carne anche con l'ideologia 'moderna' del controllo tecnologico dell'uomo sulla natura. L'Europa del 19° secolo vede percentuali di consumo di carne superiori a quelle rilevate in qualunque altra epoca e in ogni altra società. Questa tendenza sembra oggi subire una flessione, determinata dalla crescente adesione alle diverse forme di vegetarianismo. Anche in questo caso le teorie igieniche o nutrizionali spiegano soltanto alcuni aspetti del problema. Se infatti da un lato si ritiene che un eccessivo consumo di carne possa provocare diversi tipi di disturbi alla salute, ciò non spiega la determinazione con cui molti individui rinunciano del tutto alla carne. È evidente che in tale scelta entrino molti dei complessi fattori simbolici e ideologici cui si è accennato nella descrizione di alcuni tabu alimentari. Con evidenza ancora maggiore, peraltro, sembra farsi avanti la consapevolezza degli eccessi prodotti dall'ambizione al controllo totale dell'ambiente da parte dell'uomo. Anche in questo caso, un importante processo di revisione dei valori che contraddistinguono l'identità dell'Occidente si esprime significativamente nell'introduzione di nuove abitudini alimentari.

Il consumo alimentare

di Anna Maria Paolucci

1.

Valore nutrizionale

Dal punto di vista nutrizionale, il termine carne indica qualsiasi taglio proveniente dalle masse muscolari degli animali, indipendentemente dalla specie di appartenenza, come pure gli organi interni, quali fegato, cuore, reni, milza e polmoni, genericamente indicati con il nome di frattaglie. A parte alcune differenze nel contenuto di minerali, vitamine e grassi, il valore nutritivo della carne è fornito soprattutto dal contenuto proteico ed è largamente indipendente dall'animale di provenienza, dal costo e dalle sue qualità organolettiche.

I muscoli e gli organi interni del corpo umano, così come gli enzimi, molti ormoni, gli anticorpi, gli elementi del sangue, sono tutti costituiti da proteine. La funzione delle proteine alimentari è quella di fornire alle cellule gli aminoacidi che le costituiscono, i quali verranno poi utilizzati per sintetizzare le proteine corporee. Una proteina è costituita da una catena di centinaia o migliaia di aminoacidi di 20 tipi diversi, che si inseriscono lungo la catena secondo una sequenza fissata dal codice genetico. Se nella miscela di aminoacidi a disposizione della cellula uno di questi è presente in quantità insufficiente, una volta utilizzata l'ultima molecola di tale aminoacido, la sintesi proteica si interrompe e lo spezzone di proteina non completata viene distrutto perché inservibile. L'aminoacido cosiddetto limitante impedisce cioè di sintetizzare le proteine nella quantità voluta dalla cellula per i suoi bisogni o per quelli di altri distretti corporei. Le proteine animali, avendo una composizione più simile a quelle umane rispetto alle proteine vegetali, sono in grado di fornire una miscela di aminoacidi qualitativamente e quantitativamente più adeguata alle esigenze nutrizionali.

Il valore nutritivo delle carni non è limitato alle proteine, ma è dovuto anche alla presenza di minerali e di vitamine, tanto più rilevanti in quanto il loro contenuto è scarso o assente in altri alimenti, o perché più difficilmente assorbibili se convogliati da alimenti vegetali. Lo zinco, essenziale per l'accrescimento e per la fertilità maschile, si trova, per es., in maggiori quantità e in forma più facilmente assorbibile negli alimenti di origine animale; lo stesso vale per lo iodio, la cui carenza può indurre gozzo negli adulti e sordomutismo, nanismo e cretinismo nei bambini nati da madri in cui l'elemento è carente. Anche il ferro, essenziale per il trasporto dell'ossigeno nel sangue e particolarmente importante per le donne in età fertile, che subiscono notevoli perdite ematiche con le mestruazioni, viene assorbito meglio nella forma in cui si trova nelle carni, piuttosto che in quella dei vegetali come gli spinaci.

È possibile riconoscere le carni che contengono più ferro dal loro colore rosso, dovuto appunto alla presenza di tale elemento nella mioglobina, una proteina muscolare che funge da serbatoio di ossigeno, e nei mitocondri, particelle cellulari nelle quali avvengono le reazioni ossidative che trasformano in energia utilizzabile dalle cellule l'energia chimica convogliata dagli alimenti. Il ferro e l'ossigeno sono presenti in maggiore quantità nei muscoli che sono deputati a lavori di resistenza: questi infatti hanno bisogno di energia per tempi prolungati, resa disponibile unicamente dalle reazioni ossidative di zuccheri e grassi. Le carni bianche, al contrario, provengono da muscoli che hanno un bisogno immediato di energia per tempi brevissimi, ottenibile grazie al processo della glicolisi anaerobia, che non richiede la presenza di ossigeno e di ferro.

Tra gli organi interni, il fegato, oltre a essere una vera e propria miniera di ferro e di altri minerali, fornisce un gran numero di vitamine, sia idrosolubili, come quelle del gruppo B, sia liposolubili, come le vitamine A, K e D. Tra le vitamine idrosolubili è di particolare rilevanza la vitamina B₁₂, praticamente assente negli alimenti vegetali, a meno che le piante non siano contaminate da microrganismi o che questi non vi abbiano vissuto in simbiosi, come accade per le Leguminose. Il ferro è contenuto in abbondanza anche nella milza.Un altro componente che accompagna le carni è il grasso, che nei ruminanti è prevalentemente di tipo saturo. I grassi saturi sono stati associati al colesterolo e ai disturbi coronarici, e come tali considerati un fattore di rischio. Esistono tuttavia popolazioni, come gli eschimesi e i lapponi, le quali, pur avendo una dieta particolarmente ricca di grassi e colesterolo, registrano una frequenza di disturbi coronarici relativamente bassa. Il grasso di animali non ruminanti, come i maiali e il pollame, è invece caratterizzato da una maggiore presenza di acidi grassi insaturi, contenuti nei mangimi con cui vengono alimentati. Anche la selvaggina, che è più magra, ha grassi prevalentemente di tipo insaturo.

2.

Livelli di consumo

Nei paesi a economia di mercato, il consumo pro capite di carne è proporzionale al reddito. Del resto, in Europa, il privilegio di mangiare abbondantemente si è sempre accompagnato al privilegio di mangiare carne (talora anche con eccessi che favoriscono elevati livelli di acido urico e altre scorie azotate ed eventuali disturbi metabolici, renali, epatici ecc.). Questo continua a essere vero, anche se l'ideologia attualmente imperante tra coloro che non debbono più temere la fame è quella della magrezza e delle diete salutiste, possibilmente a base di vegetali crudi.

Le statistiche mondiali sui consumi di carne elaborate dalla FAO (Food and agriculture organization) mostrano come quelli di carne bovina, suina, ovina e di pollame siano diversi da paese a paese. In alcune zone del mondo tali differenze sono legate alle tradizioni alimentari o ai tabu religiosi, mentre nei paesi industrializzati i fattori che incidono maggiormente sono le leggi di mercato e le tendenze di consumo pilotate da complessi industriali specializzati nell'allevamento intensivo di un animale piuttosto che di un altro, nella sua trasformazione e nella distribuzione capillare del prodotto finale. Esempio tipico è, negli Stati Uniti, l'allevamento di bovini finalizzato alla produzione di hamburger e alla loro distribuzione giornaliera, sotto forma congelata e standardizzata, alle catene di ristoranti fast food, per un fatturato di milioni di dollari annui. Il consumo di carne bovina in tale area supera quello di altre carni, come quella di maiale, che pure si trovava in testa alle statistiche finché l'allevamento di questo animale è stato abbastanza redditizio. Una predilezione per la carne bovina si registra anche in Canada e in Argentina, dove l'esistenza di grandi praterie incolte ha permesso lo sviluppo massiccio dell'allevamento dei bovini, divenuto uno dei pilastri dell'economia nazionale. In Australia e Nuova Zelanda si registra invece un consumo tra i più alti di carni ovine, essendo questi paesi legati attraverso il Commonwealth alla Gran Bretagna, dove l'allevamento degli ovini è stato storicamente promosso nell'interesse dell'industria manifatturiera della lana.

In Europa, un tempo 'centro mondiale dei carnivori', secondo la definizione dello storico francese F. Braudel, il consumo totale di carni è in media leggermente più basso rispetto alle Americhe e la carne che si trova in testa alle statistiche di consumo è quella suina. I picchi più elevati si registrano in Danimarca e in Germania, dove il maiale (più del 50% del consumo totale) è divenuto una ricca fonte di produzione industriale di bacon e insaccati, e nei paesi dell'Est europeo, dove questo tipo di carne raggiunge il 60-70% dei consumi di carne totali.

In Italia si è gradualmente passati da un consumo di carne annuo pro capite di soli 25 kg alla fine degli anni Cinquanta a 88 kg, valore su cui ci si è stabilizzati tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Questa cifra si colloca nella fascia intermedia dei consumi nell'Unione Europea, dove il valore minimo, registrato in Grecia, ammonta a 74 kg annui pro capite e il massimo, registrato in Francia, a 105 kg. Per quanto riguarda la scala delle preferenze dei consumatori italiani, le carni suine sono in testa (36% del totale), seguite dalle bovine (29%) e dal pollame (22%), ma non si osserva la grande preponderanza del consumo di carne di maiale presente in altri paesi europei. Uno dei dati più confortanti che si evince dalle statistiche regionali italiane è comunque la sostanziale parità raggiunta nei consumi carnei in Italia settentrionale, centrale e meridionale, in contrasto con le notevoli differenze regionali che i consumi alimentari presentavano in passato.Ben diverso è il quadro nei paesi asiatici e in quelli africani, dove consumi di carne paragonabili a quelli occidentali si registrano solo a Hong Kong e in Mongolia, seguiti a distanza da Cina, Giappone e Sudafrica. Nella stragrande maggioranza degli altri paesi tali valori non superano in media il 2-3% di quelli occidentali, sia per i tabu che investono questo alimento per vasti strati della popolazione, sia per lo scarso reddito pro capite. È possibile, peraltro, che i consumi reali siano superiori a quanto indicato dalle statistiche, poiché nelle zone extraurbane dell'Asia, e soprattutto dell'Africa, si possono ancora cacciare animali selvatici e, come in tutto il mondo, si allevano animali da cortile che sfuggono alle statistiche ufficiali.

3.

Cottura

Se cuocere la carne è una prerogativa dell'uomo, la modalità di cottura ha assunto significati differenti nelle diverse culture. Nel Medioevo europeo, quando la cultura celtico-germanica aveva ormai preso il sopravvento su quella greco-latina, la carne bollita era considerata adatta ai malati, mentre mangiare grandi quantità di selvaggina arrostita allo spiedo rappresentava un segno di virilità, robustezza e virtù guerriere. Ancora oggi, il brodo, o il lesso, possibilmente preparato con carni bianche, è ritenuto un cibo 'leggero', più adatto a persone delicate, come, per es., malati e convalescenti, al contrario gli arrosti allo spiedo o sulla griglia, eseguiti preferibilmente all'aperto, con l'uomo di famiglia che presiede all'operazione come un antico sacerdote sacrificatore, hanno una connotazione di festa, salute e convivialità.

La cottura provoca nella carne cambiamenti diversi, a seconda della modalità attraverso cui essa viene condotta e anche del taglio, cioè del tipo di tessuto muscolare d'origine. Con il calore, le fibre muscolari si induriscono e il tessuto connettivo si intenerisce; quindi, per tagli che comprendono maggiori quantità di tessuto connettivo, come i muscoli degli arti, è più appropriata una cottura prolungata in ambiente umido, cioè la bollitura o la stufatura, mentre per tagli che hanno scarse quantità di tessuto connettivo, come il filetto o la lombata, sono preferibili metodi di cottura rapida in ambiente secco, per ridurre al minimo l'indurimento delle fibre muscolari. Le bistecche cotte al sangue, per es., sono più tenere e succose di quelle ben cotte. Tenerezza e succulenza sono considerati i due pregi principali della carne cotta. Oltre che dalla temperatura di cottura e dalla sua durata, la succulenza dipende anche dalla quantità di grasso intramuscolare: la carne degli animali maturi, che è più grassa, è più succosa di quella di animali giovani.

Con la cottura, la carne subisce un cambiamento di colore, che va dal rosso o rosato al bruno più o meno intenso. Questa colorazione più scura è dovuta ai pigmenti che originano da quella parte delle molecole di emoglobina e di mioglobina cui è legato il ferro e ai prodotti di decomposizione e polimerizzazione di carboidrati, grassi e proteine. Questi ultimi si formano in maggiore quantità sulla superficie di carni cotte al calore secco, mentre la cottura in ambiente umido conferisce un colore più uniforme e meno intenso, derivante dalla denaturazione e ossidazione della mioglobina. Anche il sapore e l'aroma della carne cotta dipendono dalla modalità di cottura, dalla sua durata e dalla temperatura. Essi risultano più gradevoli se la temperatura interna di un taglio sottoposto ad arrostitura non supera i 60-70 °C, mentre peggiorano se lo stesso taglio viene mantenuto a queste stesse temperature per un tempo più lungo o se viene sottoposto a una temperatura più elevata.

4.

Conservazione e trasformazione

Dalla storia alimentare dei tempi passati sappiamo che le carni conservate, e soprattutto il maiale salato, erano la fonte più comune di carne nelle mense contadine: le carni fresche erano infatti un lusso riservato ai giorni di festa, oppure alle mense dei signori e degli abitanti di città. Le tecniche di conservazione, nate per evitare lo spreco di quelle parti dell'animale macellato che non potevano essere consumate subito, esistono dunque da molto tempo. Le antiche pratiche artigianali sono state soppiantate dai moderni procedimenti industriali, che si basano sulla conoscenza dei processi di conservazione e maturazione e consentono di ottenere un prodotto di gusto più uniforme, e soprattutto molto più sicuro dal punto di vista igienico-sanitario. In passato, infatti, era frequente contrarre tossinfezioni alimentari anche gravi in seguito al consumo di carni avariate: un rischio ancora presente nelle conserve alimentari artigianali o casalinghe.

Nelle industrie di prodotti caratterizzati da marchio di qualità, l'intero processo di conservazione e maturazione è accuratamente controllato in tutte le sue fasi. Per il prosciutto, per es., si parte da cosci di maiale selezionati per razza, provenienza e alimentazione, per proseguire con processi di salagione regolata e, soprattutto, di stagionatura in ambienti climatici particolarmente favorevoli: si ottiene così un prodotto di gusto dolce e morbido alla masticazione. Il prosciutto comune è generalmente più salato e tiglioso, poiché viene sottoposto a salagioni più elevate, per meglio assicurarne la conservazione in mancanza di altre cautele, e a stagionatura talvolta accelerata mediante stufatura. Questo consente di ridurre i costi assicurando comunque l'igiene. Mentre per il prosciutto e la bresaola, che proviene da tagli pregiati di carne bovina, si utilizzano intere parti anatomiche dell'animale, per i prodotti insaccati, come il salame, la mortadella e i würstel, si parte da carni macinate, mescolate a grasso e a ingredienti di altra natura, tra cui spezie e additivi. Le carni possono essere di solo suino, come nei salami o nelle mortadelle di alta qualità, oppure miste di suino e bovino ed eventualmente di altri animali.

Per la preparazione dei salami si usa carne sia fresca sia congelata: se si utilizza carne fresca, questa viene comunque sottoposta a refrigerazione per facilitare il lavoro delle macchine tagliatrici. All'impasto viene quindi aggiunto grasso suino duro, preferibilmente di guanciale. Generalmente, i salami di migliore qualità sono costituiti per il 70% di tagli magri e selezionati di carne suina e per il restante 30% di grasso duro di suino. I vari tipi di salame differiscono, oltre che per la composizione, anche per la macinatura, che può essere fine, fornendo un prodotto detto a grana di riso, oppure a grana più grossa, con il grasso interposto a cubetti. I salami italiani, numerosissimi e spesso a carattere regionale, differiscono anche per il tipo di concia usata che, oltre al sale e al pepe macinato o in grani, può contenere ingredienti quali aglio, peperoncino, paprika, vino, peperone e finocchio, per conferire sapori particolari al prodotto. La stagionatura del salame è un processo complesso non ancora del tutto compreso, che avviene a opera di microrganismi favorevoli, già presenti naturalmente nell'impasto o aggiunti dal produttore. I microrganismi, per mezzo dei loro stessi enzimi, operano una scissione parziale delle proteine liberando peptidi e aminoacidi che, insieme alle spezie aggiunte, contribuiscono a conferire al salume l'aroma e il sapore caratteristici.

Mortadella, würstel e prosciutto cotto vengono invece sottoposti a un processo di pastorizzazione, con temperature sempre al disotto di 100 °C, in modo da eliminare la maggior parte dei germi non sporigeni presenti. I prodotti così trattati hanno un periodo di conservazione più limitato e andrebbero mantenuti preferibilmente in frigorifero. Nell'impasto della mortadella di qualità extra entrano solo carne suina magra e guanciale, mentre in quelle di qualità inferiore parte della carne suina viene sostituita con carne bovina e con parti anatomiche di minor pregio, quali cotenne e trippini. All'impasto vengono poi aggiunti additivi e spezie, che sono più abbondanti nei prodotti di minore qualità merceologica, al fine di sopperire alla mancanza di quell'aroma e gusto particolari presenti nella mortadella di pura carne suina. Va comunque sottolineato che il valore nutritivo e la sicurezza d'uso sono identici, indipendentemente dalla qualità merceologica. Il contributo nutrizionale dei prodotti di salumeria è essenzialmente proteico. A parità di peso, prosciutti e salami forniscono più proteine della carne fresca, della mortadella e dei würstel, in quanto durante la lavorazione hanno subito una maggiore perdita d'acqua. Altri elementi importanti dal punto di vista nutrizionale, oltre al grasso, che si aggira in media intorno al 30% del peso, sono il ferro e le vitamine, particolarmente abbondanti nei salami per l'apporto aggiuntivo dei microrganismi artefici della maturazione.

Bibliografia

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