CARNEADE di Cirene

Enciclopedia Italiana (1931)

CARNEADE (Καρνεάδης, Carneădes) di Cirene

Guido Calogero

Filosofo greco, nato fra il 214 e il 213 a. C., scolarco dell'Accademia e iniziatore, in essa, dell'indirizzo speculativo che integrava con una dottrina del probabilismo la tradizione scettica già iniziata da Arcesilao. Conoscitore espertissimo del pensiero contemporaneo, e specialmente stoico, fu insieme un oratore, un dialettico e un maestro d'eccezione. Membro, insieme col peripatetico Critolao e con lo stoico Diogene di Seleucia, dell'ambasceria inviata nel 156 a Roma per perorare la causa di Atene multata per il saccheggio di Oropo (ambasceria che tanto influì sulla diffusione del pensiero greco nell'ambiente romano da provocare le preoccupazioni di Catone il Censore e la conseguente disposìzione dell'allontanamento dei tre pensatori da Roma), vi pronunciò, in due giorni consecutivi, i due famosi discorsi pro e contro la giustizia. Allo scolarcato rinunciò fra il 137 e il 136, otto anni prima della sua morte, per ragioni di salute: lasciando la carica a Carneade il giovane, figlio di Polemarco, il quale peraltro gli premorì di due anni, e fu seguito nello scolarcato da Cratete di Tarso. Essendosi egli sempre limitato alla professione orale delle sue dottrine, queste gli sopravvissero solo attraverso gli appunti e le relazioni dei suoi scolari Clitomaco di Cartagine e Zenone di Alessandria.

La critica filosofica di C. si dirigeva anzitutto contro la gnoseologia stoica, impugnandone specialmente la fondamentale concezione del criterio della verità come coincidente con la "rappresentazione comprensiva" o "catalettica" (v. catalessi: Filosofia), cioè con la rappresentazione implicante una corrispondenza diretta con l'esterna realtà oggettiva. Impossibile, osservava C., constatare questa corrispondenza della rappresentazione col reale esterno, perché questo reale, per esser paragonato con la rappresentazione, doveva essere in realtà rappresentato accanto a questa, e quindi interno, in ultima analisi, alla funzione rappresentativa. All'assoluto scetticismo, che conseguiva da questo perentorio argomento, C. rimediava, nel campo teoretico, con la sua dottrina del "probabilismo", osservando che, se ogni reale è di fatto ἀκατάληπτον (cioè non propriamente asseribile secondo il concetto della κατάληψις), non perciò esso è ἄδηλον ("ignoto"), constando infatti alla conoscenza quale verità fenomenica (ϕαινόμενον ἀληϑές): e un valore di realtà può esser attribuito a questo fenomeno a seconda della sua capacità di "persuaderci" di questo stesso suo valore (πιϑανότης "persuasività"; meno esattamente "probabilità", che riproduce il probabilitas con cui Cicerone rendeva il termine di C.; e meno esattamente ancora "verosimiglianza"). Di questa persuasività esistevano naturalmente infiniti gradi: il massimo pare si avesse, secondo C., quando la rappresentazione non era soltanto ἁπλῶς πιϑανή ("semplicemente persuasiva"), ma anche ἀπερίσπαστος (non contraddetta da ogni altro elemento che essa implicasse e con cui si connettesse) e περιωδευμένη (rigorosamente controllata in tale suo carattere di non contradittorietà con riguardo a tutte le condizioni del soggetto, dell'oggetto - s'intende, nel senso empirico della parola - e del mezzo attraverso cui la conoscenza si realizzava). Quest'ordine dei tre gradi tipici risulta almeno dall'esposizione di Sesto Empirico in Adv. log. (I, 176-189), più chiara e logicamente attendibile dell'altra trattazione dello stesso Sesto in Pyrr. hypot. (I, 227-29), dove l'ordine di successione dei gradi secondo e terzo appare invertito.

Ma la critica di C. non si limitava a questa fondamentale istanza scettica, secondo cui ogni valore di verità propriamente positiva e dogmatica di tutte le dottrine stoiche ed epicuree, contro cui essa specialmente si dirigeva, sarebbe rimasto a priori impugnato: esse infatti avrebbero tuttavia potuto serbare, dallo stesso punto di vista di. C., un valore di probabilità, se non fossero state sottoposte a critiche particolari che avessero messo in luce le contraddizioni che ne derivavano, sia nella loro stessa natura intrinseca, sia nei confronti con le convinzioni del senso comune. Il corpo maggiore delle critiche di C. è così diretto specialmente contro le dottrine particolari dello stoicismo, e viene a distinguersi naturalmente in due grandi gruppi seconda che quelle si riferivano all'universale concezione stoica della divinità, del cosmo e del fato, o la determinavano nei problemi specifici e derivati della morale e della politica.

Quanto al problema dell'esistenza della divinità, C. rilevava pazientemente una lunga serie di contraddizioni intrinseche, che derivavano dalle singole dottrine con cui, specialmente nel campo della teologia stoica, si era cercato di concepirla. La divinità non poteva anzitutto esser pensata come vivente, perché questo importava possibilità di corruzione, di caduta nel male. D'altronde, non poteva esser né finita né infinita, né corporea né incorporea: se fosse stata incorporea o infinita, non avrebbe potuto esser vivente e determinata, e d'altra parte la sua corporeità avrebbe implicato la sua corruttibilità, e dalla sua finità, importando questa l'esistenza di qualche realtà al di fuori di essa, si sarebbe potuto dedurre la sua imperfezione. Ancora: alla divinità non era possibile né attribuire né negare la virtù: perché da un lato le virtù potevano realizzarsi soltanto là dove preesistesse un'imperfezione che esse dovessero correggere o eliminare, e d'altro lato non era dato concepire assurdamente la divinità come non virtuosa, ma viziosa. Meno intelligente era invece la critica che C. rivolgeva all'argomentazione dello stoico Zenone, che, essendo il razionale più perfetto dell'irrazionale, ed essendo il cosmo la cosa più perfetta, il cosmo doveva essere razionale (onde la concezione panteistica dell'universo e del divino): C. infatti, parodiando questa deduzione in quella che, essendo chi conosce la grammatica più perfetto di chi non la conosce ed essendo il cosmo il perfettissimo, il cosmo doveva conoscere la grammatica, scherzava in realtà sull'esteriore formalismo logico dello stoico, ma non intendeva la più profonda verità della sua tesi.

Questa critica del concetto del divino doveva insieme portare alla dissoluzione di tutte quelle dottrine che in tale concetto trovavano il loro presupposto. Così era dell'idea della provvidenza (πρόνοια) che all'occhio di C. manifestava la sua debolezza in quanto appariva come costruzione eseguita dal punto di vista del mero interesse umano, onde poteva, per es., considerarsi come provvidenziale che alcuni animali perissero per il vantaggio degli uomini: che se invece la dottrina della provvidenza l'avessero invece costruita le bestie feroci, allora sarebbe stato conforme al disegno della provvidenza divina il fatto che gli uomini dovessero essere divorati da loro! Né, d'altra parte, pensava C., si poteva considerare come argomento della divina provvidenza l'aver gli uomini ricevuto in retaggio la ragione: perché neppure la ragione era in sé propriamente un bene, potendo essa egualmente essere usata a fin di bene e a fin di male. Più specifiche e penetranti le critiche rivolte al concetto della divinazione: la quale, osservava C., è a priori inutile, perché presuppone la realtà del fato, e questa realtà rende d'altra parte inevitabile il previsto. In particolare, poi, non c'è cosa che non possa in certa misura esser prevista secondo la speciale conoscenza tecnica che a essa si riferisce, senza bisogno di ricorrere a una universale "mantica"; questa potrebbe allora concernere il puro "casuale", quel che non v'è alcuna ragione che accada: ma ciò, per definizione, è tale che non può esser previsto neanche da Dio! Contro la scappatoia stoica, infine, che il caso apparisse tale solo al limitato conoscere umano, in sé tutto essendo in realtà razionale e fatale, C. aveva buon gioco a ribattere che in questo caso la ferrea predeterminazione del tutto tornava a rendere perfettamente inutile ogni sorta di divinazione.

Ma appunto contro la concezione stoica del fato si rivolgevan poi le più serrate critiche di C., che peraltro ci son rese note dalle trattazioni ciceroniane e plutarchee in forma purtroppo assai confusa e impoverita. Sostanzialmente, C. scendeva in campo come paladino della libertà del volere umano, e quindi come avversario della dottrina stoica del fato; ma soprattutto doveva mirar poi a dimostrare che gli stessi espedienti escogitati dagli stoici (e in primo luogo da Crisippo) per conciliare e l'una e l'altra erano affatto insufficienti: la sua critica doveva così rivolgersi tanto contro la concezione crisippea del "possibile" quanto contro quella della libertà dell'assenso (dove Crisippo, in sostanza, veniva a dire che l'unica libertà che poteva avere lo stoico era quella di esser scettico!). In modo analogo, C. denunciava le contraddizioni che si celavano nel compromesso fra determinismo e indeterminismo escogitato da Epicuro con la sua teoria della deviazione degli atomi.

Per quel che concerne le dottrine politiche ed etiche, esse ci sono note quasi esclusivamente attraverso Cicerone, che nel III libro del De republica riassume i due famosi discorsi pro e contro la giustizia tenuti da C., come si è detto, nell'occasione della sua ambasceria romana. Qui C. riprende, e già nella stessa forma del "doppio discorso", atteggiamenti e motivi della sofistica, che specificamente si presentano nella considerazione della giustizia in un caso come "per natura" e in un caso come "per convenzione": dal primo punto di vista, la giustizia è universale, intangibile; modello eterno del diritto posstivo, freno rigoroso di ogni edonismo individualistico, baluardo contro ogni guerra che non sia di difesa di diritti; dall'altro, la giustizia è mera ipostatizzazione di leggi che rappresentano interessi utilitaristici e che di questi ritengono il carattere molteplice e contraddittorio; ed è evidente che la politica non procede che sulla base di questo secondo concetto della giustizia, visto che, seguendo il primo, non si fonderebbero mai i grandi regni, e i Romani dovrebbero restituire ai vinti tutte le terre conquistate e ridursi nelle loro primitive capanne! Tutto ciò, è chiaro, doveva nel caso specifico servire a demolire le astratte presunzioni giuridiche che potessero essere avanzate dai Romani a proposito dell'affare in questione: e s'intende bene quale impressione disastrosa abbia dovuto fare ai custodi dello spirito conservatore di Roma. Assai meno chiare nella trattazione ciceroniana, per quanto forse anche più interessanti, sono infine le dottrine che C. dové professare in rapporto al famoso problema stoico dei beni e del fine dell'azione: è verosimile qui che C., aderendo a una morale pratica, dominata dal concetto della "fede" nella felicità (per lo meno come relativa prevalenza dei mali sui beni), accettasse il concetto stoico della virtù pur respingendone il motivo fatalistico e operasse così più o meno consapevolmente la mediazione e il superamento pratico del dissidio fondamentale dell'etica stoica, scissa fra il limite dell'incondizionata accettazione della realtà come razionale e quello dell'ascetico rifiuto della realtà come indifferente.

Così, in conclusione, C. appare come una delle più grandi e complesse figure della storia della filosofia antica. La sua critica gnoseologica è in fondo la più decisa asserzione idealistica che sia mai sorta sul terreno del pensiero greco: di un soggettivismo incomparabilmente più rigoroso, dal punto di vista teorico, di quello di Protagora. Sommato a quell'oggettivismo di diritto che è il limite invalicato di tutto il pensiero antico, questo soggettivismo di fatto non poteva che diventare scetticismo: ma col diritto a far passare davanti al suo tribunale ogni altra tesi della speculazione classica. La quale non ha mai raggiunto tanto chiara consapevolezza dei suoi limiti quanto nelle implacabili dissoluzioni di C.: senza riuscir mai, d'altronde, a controbattere quelle critiche con mezzi adeguati. La posizione di C. poteva in realtà esser superata soltanto dal punto di vista della filosofia moderna: e non è un caso che quella tesi agostiniana della certezza di sé, con cui s'inizia la storia di tale filosofia, sia stata scoperta dal pensatore cristiano proprio nel suo sforzo di sottrarsi all'inesorabile dubbio dell'Accademico.

Bibl.: La ricostruzione del pensiero di Carneade è resa particolarmente difficile dal fatto che le stesse relazioni dei suoi scolari (v. sopra) ci sono giunte, non di rado non evidenti alterazioni, confusioni e impoverimenti, solo attraverso gli scritti di Cicerone, Plutarco e Sesto Empirico. Fra i moderni, manca ancora un lavoro critico adeguato: una buona sistemazione del materiale è data da H. von Arnim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X, coll. 1964-85. Per l'ulteriore bibliografia v. specialm. F. Ueberweg, Grundriss d. Gesch. d. Philos., I, 12ª edizione, Berlino 1926, pp. 141-42 dell'Appendice. Cfr. inoltre gli articoli di N. Festa, in Riv. di cultura, 1921, pp. 199-208 e di E. Pistelli, in Pégaso, 1929, fasc. 7, pp. 3-13.

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