CASATI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASATI ("de Casate", "de Caxate", od anche talvolta "de Casale")

Gigliola Soldi Rondinini

La famiglia è originaria di Casatenovo (Casate Novo), in provincia di Como, tra il fiume Lambro e il torrente Cerrone, che nel Medioevo era compresa nella giurisdizione della pieve di Missaglia. Si tratta senza dubbio di una famiglia di antica nobiltà (essa compare nella Matricula nobilium familiarum, edita dal Castiglioni, opera datata 1277, ma che in realtà venne composta forse un secolo più tardi), che ha avuto un certo peso nelle vicende di Milano dal secolo XIII in poi. L'indagine condotta sulla sua evoluzione, sulla politica svolta e sugli atteggiamenti assunti dai suoi membri nei vari momenti della storia milanese contribuisce a far luce sull'influsso esercitato dalle grandi famiglie sulla politica interna ed esterna del governo, comunale o signorile, della città.

Secondo la tradizione riportata dal Corio(Vita Lotharii), che la riprende da Galvano Fiamma, seguita dal Fagnani e dalle Probationes nobilitatis plurimarum familiarum Mediolanensium (fasc. 1), l'imperatore Lotario II (1125-33) avrebbe insignito un certo Apollonio - che abitava allora in Vigevano, ma che era a capo del comitato della Martesana - del vicariato generale di tutta la Lombardia. Il figlio primogenito di Apollonio avrebbe in seguito sconfitto la "Pontia gens" che, imperversava appunto nel contado della Martesana, e fondato il "castrum" di "Casate Novo", abitandovi coi nipoti. Secondo il Calvi (tav. I), il figlio primogenito di Apollonio avrebbe dato origine al ramo dei Bevolchi; il secondogenito a quello dei Giussani (altra importante famiglia); il terzogenito a quello del Vighizzolo. Tuttavia le suddette notizie, come fa notare lo stesso Calvi (p. 4), appartengono più al dominio della leggenda che a quello della storia.

È invece documentato (si vedano le succitate Probationes, fasc. 81, e Calvi, in Appendice)che un certo Eriberto de Burgo Brugorae, figlio di Pietro de Casate e fratello di Giovanni, fondò nel 1102, "secundum ius Longobardorum et legem Pipini", la chiesa e il monastero femminile dei SS. Pietro e Paolo a Brugora, località del contado milanese posta sotto la giurisdizione della pieve di Agliate, "de rebus, territoriis, censibus, reditibus, decimis, et primitiis, cum honoribus atque investitura ad predictam suam ecclesiam pertinentibus". L'ampiezza della formula di donazione, che si richiama peraltro alle consuetudini del tempo, indica anzitutto che i Casati erano grossi proprietari terrieri e, in secondo luogo, che godevano di molti privilegi ed immunità, sulla cui origine non si ha peraltro alcuna notizia. Tra i testimoni che sottoscrivono l'atto di fondazione appaiono altri membri della famiglia, ossia Riprando, Lanfranco e Antonio, che sono detti "Romani Longobardi". La prima badessa del nuovo monastero fu Nicondilla, figlia di Giovanni e nipote del fondatore e, fino alla metà del XV sec., per quanto risulta dai documenti consultati, furono sempre donne della famiglia quelle che vennero poste alla guida dell'abbazia. Nel 1103 Pasquale II emanò una bolla in forza della quale la chiesa e il monastero erano sottratti alla normale giurisdizione episcopale e sottoposti direttamente alla S. Sede, col preciso intento di proteggerli dalle pesanti influenze locali.

Altri C. vengono ricordati tra il 1179 e il 1245 nei documenti a noi noti (Gli atti del Comune di Milano fino al 1216, a cura di C. Manaresi, Milano 1918, pp. 167 s.; Gli atti del Comune di Milano nel sec. XIII, a cura di M. F. Baroni). Si tratta di persone che portano nomi che diverranno poi in seguito tipici della famiglia, "Iohannes, Petrus, Iohannetus, Lanfrancus, Martinus qui dicuntur de Casate", i quali presenziano in qualità di testi alla risoluzione di una controversia tra il monastero di S. Maria di Aurona e i rustici di Cisano e Binzago, dove essi avevano con molta probabilità dei possessi. Anche negli anni seguenti torna il riferimento alla località di Binzago (Baroni, docc. CV e CXV, anni 1123-24) nelle persone di Iacobus e Albricus, dei quali però si sa soltanto che avevano beni fondiari anche a Melzo e a Cesano Maderno. Un Mainfredusde Casate compare in un documento del 1217 come testimone in un atto pubblico del Comune di Milano, e così pure Guido (Guidottus), "filius Guglielmi de Casate de contrata de Conpito", mentre un altro Guido figura quale "consciliarius et secretarius comunis Mediolani", in un atto pubblico del 1245 (ibid., doc. CDLXIV). Un frate Pietrode Casate risulta poi in un doc. del 1248 (ibid., doc. CDXCVI) quale incaricato del Comune a inventariare le terre che pagavano le decime alla chiesa di S. Giorgio, pur non appartenendole.

Intorno alla metà del sec. XIII le notizie sulla famiglia si fanno più consistenti e soprattutto più omogenee. Nel 1243 certi Amizo (o Amizone) e Pinamonte risultano avere beni fondiari nel territorio di Casate (in località "qui dicitur ad Caxinas de Rancate et de Galzana"); sono anche comproprietari del succitato monastero di Brugora. Da Amizo discendono Giordano, che fa testamento nel 1259, e Ruggero, che testa nel 1264. Il documento relativo a Giordano, citato dal Calvi (tav. II), è interessante perché conferma come i Casati fossero già a quel tempo ben inseriti nell'ambiente cittadino e nella professione notarile. Infatti, l'atto è rogato da Girardo, figlio di Giovanni de Casate, scritto da Pietro de Casate e autenticato da Guinifredo de Casate, milanese. Del resto alcuni anni più tardi (1277) un Francescode Casate compare tra gli incaricati della riforma degli statuti di Milano e del regolamento delle acque del Nirone, mentre un Rolando (1282) è detto "cancellarius comunis Mediolani" (Santoro, Gli offici, p. 36). I beni che Giordano lascia in eredità ai quattro figli, Ottone, Allegranza, Conte e Manfredo, sono situati nel contado della Martesana, ma il testatore abita a Milano.

Il più noto dei figli di Giordano è senza dubbio Conte, cardinale ed erede in gran parte delle proprietà della famiglia, come risulta dalla donazione "inter vivos", da lui fatta per la salvezza delle anime del padre, del nonno e dello zio Ruggero, nonché dei fratelli Ottone e Manfredo, nella persona del canonico della chiesa di Missaglia, maestro Bartolomeo. Il suo testamento indica l'esistenza di altri membri della famiglia, come il dominus Guifredus, console di giustizia a Milano nel 1259 per la faggia delle porte Orientale e Nuova, di cui non vi è però alcuna altra menzione, o come Martino, figlio di Ottone e fratello quindi di Guidetto e di Marzio, ricordati dal Calvi (tav. II). Da Manfredo discendono, sempre secondo il Calvi, un ramo della famiglia che si estinse nel sec. XVIII, ma anche due linee (chiamate dal Calvi A e B) di notevole importanza. La prima ebbe come capostipite un Guglielmo, vivente nella prima metà del sec. XIII, e finì con i conti di Fabbrica; la seconda si suddivise ulteriormente in quattro rami, dei quali due tuttora esistenti. Nel 1288 un Ruggero, forse da identificare con lo zio di Conte, in qualità di "capitaneus Societatis mercatorum Lombardie in nundinis Campanie", stipula una convenzione con il conte Amedeo V di Savoia per la liquidazione dei danni sofferti dai mercanti lombardi a opera del suddetto conte. Un altro Ruggero, del quale non si ha finora alcuna altra notizia, figura quale giureconsulto nell'elenco degli scomunicati di parte viscontea, a seguito delle vicende che opposero Matteo Visconti alla S. Sede, il che indica le tendenze politiche della famiglia.

Le proprietà, che vennero divise tra Marzio, figlio di Ottone, e Filippino, figlio di Manfredo, entrambi nipoti di Conte, erano situate nella città di Milano, nel suo territorio, "in castro et loco de Caxate", "in loco et territorio dicti loci de Caxate", "in castro loci de Monte" e nel suo territorio. Sappiamo che Conte aveva però anche un fondo di 44 pertiche fuori porta Vercellina, a Milano, che egli lasciò perché gli venisse annualmente recitato un ufficio funebre nella cattedrale (Probationes, fasc. 81), e diverse prebende canonicali. Legato al cardinale Conte, in qualità di procuratore, è anche un Guidotto (1281), frate degli umiliati di Brera. Da un doc. del 1282 i Casate risultano poi avere anche il giuspatronato della chiesa di S. Giustina di Casate.

Da Filippino discendono, sempre secondo la genealogia del Calvi, Alberto, bandito da Milano col figlio Guglielmo in quanto legato ai Visconti, nel 1302, durante uno dei periodici ritorni al potere dei Della Torre, e un altro Conte. Alberto, che risulta già morto nel 1305, ebbe quattro figli, Pagano, Filippo (detto Filippino), Beltramo e Guglielmo. Da Marzio discendono Bonifacio, ricordato nel 1330 e 1332, e Amizone (già morto nel 1328). Di quest'ultimo sono figli Contolo, canonico della metropolitana di Milano, ricordato nel 1367 e 1379, Astolfo, ricordato nel 1368-1370, Marzio, ricordato nel 1367 e 1379, che fu ricco proprietario terriero nelle località di Lissone, Biassono, Besana, e Giovannolo ricordato nel 1370 e 1379. Dalle Petitiones risulta che nel 1329 un Bello, figlio del defunto Guifredo (figlio a sua volta di Ruggero), abitante a Milano, nella parrocchia di S. Giovanni "ad Quatuor Faties", si fece seppellire nella chiesa di S. Marco di quella città e legò ai frati eremitani colà residenti un credito di 420 lire di terzuoli, somma che gli era dovuta dagli eredi di Conte. Bello lasciò i suoi beni a Iacopino, detto Minetto, e al di lui fratello Ambrosolo, figli di Fanolo, che non sono però collocabili nell'albero genealogico tracciato dal Calvi.

Nell'atto di cessione sono nominati anche altri membri della famiglia, tutti giurisperiti e tutti abitanti nella medesima parrocchia. I beni lasciati da Bello, che ammontavano a 344 pertiche, si trovavano nelle località di Monticello, Cassirago e Casatenovo; dalle coerenze indicate si può notare che essi confinavano in genere con le proprietà di altri Casati, o con la chiesa di S. Giustina, pure appartenente alla famiglia. Il lascito non fu comunque senza contrasti se, nel 1333, Giovannolo, figlio di Conte, abitante nella parrocchia di S. Stefano "ad Nuxigiam", a porta Nuova, intentò una causa (e la vinse) contro Amizo e Bonifacio, figli del defunto Marzio, abitanti a porta Comacina, parrocchia di S. Protaso "ad Monachos", contro Berto e Guidetto, figli del fu Guglielmo, e contro gli eredi di Bello, tra i quali figura appunto il convento di S. Marco, cui peraltro lo stesso Giovannolo devolse nel 1358 una somma di denaro "pro salute suae animae". Dei figlidel succitato Amizo, Contolo, forse naturale e legittimato (è indicato "natus de..."), fu canonico della chiesa metropolitana di Milano, carica cui accedettero del resto parecchi dei Casati anche nei secoli seguenti. Nel 1367, Contolo figura in qualità di arbitro per la divisione dei beni paterni tra Marzolo, Giovannolo e Astolfo, suoi fratelli. I beni di Amizo erano situati in diverse località, sia nella città, sia nel territorio milanese: figurano "sedimina" e "hospitia" (non meglio precisati) in Milano; terreni in Besana, Cortenuova, Biassono, Lissone, Zevio, Casatenovo, Casatevecchio, e in altri luoghi ora non piùidentificabili. Anche Giacomino del fu Guardo, non citato dal Calvi nelle sue genealogie, sembra sia stato finanziariamente ben dotato se acquistò "ad livellum" nel 1339 un appezzamento di terra in Milano, fuori porta Romana, e lo pagò 1.000 lire di terzuoli (Arch. Bendoni-Casati, cart. 34).

Uno dei figli di Alberto, Filippino, era nell'anno 1315al seguito di Pietro, fratello di Roberto d'Angiò, il quale scendeva in Toscana in difesa del partito guelfo attaccato da Uguccione della Faggiuola (Corio, p. 766). Meno chiara è la figura di un altro figlio di Alberto, Pagano, coinvolto nelle vicende che nel 1322 interessarono Monza. In questo caso, il legame politico che univa i Casati alla parte viscontea sarebbe stato spezzato, in quanto Pagano, inviato da Milano con 50 soldati in difesa appunto di Monza, avrebbe procurato di giungervi quando ormai il borgo era caduto in mano ai ribelli, "laonde con passo non lento ritornò a Milano". Fin qui il racconto del Corio (II, pp. 50 s.); Galvano Fiamma, da parte sua, aggiunge che Pagano fu poi rinchiuso da Azzone Visconti nel castello di Binasco, da dove pare venisse liberato nel 1329 da un altro Visconti, Luchino. Il terzo figlio di Alberto, Beltramo, compare nel 1340 tra i membri del Consiglio generale di Milano. Egli è già morto nel 1352, come risulta da un atto col quale suo figlio Porolo vende delle migliorie apportate in una proprietà di Casate Vecchio. Nel 1360 Simone, altro figlio di Beltramo di Alberto, vende a sua volta a Giovannolo Prealoni una proprietà del valore di 1.072 lire di terzuoli sita "in Cassinis de Buschis", località forse nelle vicinanze di Milano, in quanto gli altri proprietari confinanti appartengono alle principali famiglie cittadine. Il quarto figlio di Alberto, Guglielmo, fu invece il capostipite di uno dei rami principali della famiglia. Nel 1341 compaiono negli elenchi dei membri del Consiglio generale di Milano altri due Casati, Matteo e Beltramolo (Iregistri dell'ufficio di Provvisione..., reg. XVIII, n. 88). Pagano di Alberto ebbe due figli, Arasmolo e Alpinolo. Il primo, vivente nel 1345, aveva sposato Franceschina, figlia di Durante Prealoni, di primaria famiglia milanese. Filippo (detto Filippino) di Alberto ebbe probabilmente due figli, Giovanni, detto Giovannino, eGiacomo; del terzo, Paolo, ricordato dal Calvi, non si ha alcuna notizia.

Giovannino fu podestà di Piacenza verso il 1350, e in quella città sembra si trasferisse addirittura con la famiglia (C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, VI, Piacenza 1767. p. 291). Comunque, lo stesso, o forse un altro Giovanni de Casate, giurista, fu podestà di Cremona nel 1361 (Santoro, Gli offici, p. 318) e di Parma nel 1364; del resto, nel 1344 aveva già ricoperto la carica podestarile nella città emiliana un non meglio identificato Guido de Casate, anch'egli giureconsulto. La podesteria di Giovannino a Parma è confermata da lettere di Bernabò Visconti (cfr. Fagnani, s.v.), da cui risulta che fu sostituito nella carica dal pisano Ludovico della Rocca. Giovannino rimasetuttavia a Parma, per volere del Visconti, occupandosi dei lavori di fortificazione del castrum di porta Nuova, con lo stipendio di 50 fiorini al mese e con l'obbligo di partecipare alle delibere dei nuovi podestà e capitano della città. Giovannino, che figura sempre col titolo di miles, fu membro del Consiglio generale di Milano nel 1388 e, nel 1395, tra i prestatori di Gian Galeazzo Visconti per l'acquisto del titolo ducale, tassato per trenta fiorini. Continuando nellapolitica matrimoniale che sembra costituire uno dei primi impegni sociali dei Casati, Giovannino diedein moglie le figlie Ienina a Giovanni Colleoni, e Antonia aFrancesco de Casate, mentre il figlio Giovanni sposò una figlia di Francesco Barbavara. Un Paolo, non collocabile chiaramente nella famiglia, venne investito, nel 1414, dal capitolo della chiesa di S. Antonino di Piacenza dei beni di Mezzana sul Po, già appartenuti ai Visconti locali, il che sta a confermare il duraturo legame stabilito dal padre con quella città. Dagli elenchi contenenti i nomi dei cittadini milanesi facenti parte del Consiglio generale appaiono anche numerosi altri membri della famiglia, rappresentanti diversi quartieri cittadini. Risulta dunque chiaramente che tra la metà del sec. XIII e la fine del XIV la famiglia era andata progressivamente acquistando in potenza ed in ricchezza e che dal primitivo quartiere di porta Comacina, parrocchia di S. Giovanni "ad Quatuor Faties" - dove peraltro continuano ad abitare molti dei Casati - si è sparsa per tutta la città.

I Casati sono nominati infatti nelle parrocchie di S. Vito in Pasquirolo, di S. Tecla a porta Romana, di S. Silvestro a porta Nuova, di S. Lorenzo "in Torrigio", di S. Stefano "ad Nuxigiam", di S. Protaso "ad monachos". Tra i prestatori di Gian Galeazzo figurano, oltre a Giovannino e a suo fratello Filippino, Giovanni del fu Alpinolo, Annibale, Beltramo, Giorgio, Guglielmino, tassati per somme varianti tra i venti e i venticinque fiorini, il che mette i Casati tra le prime famiglie milanesi anche per il censo.

Guglielmo ebbe quattro figli: Ramengo, Aliprando, Alpinolo e Alberto (o Berto). Di essi i più noti sono senz'altro Ramengo e Alpinolo, che ebbero entrambi parte di primo piano nella repressione della congiura contro i signori di Milano tramata nel 1340 da Francesco e Surleone Pusterla, assieme a Pinalla e Martino Aliprandi, a Bonolo da Castelletto, a Bronzino Caimi, e con l'aiuto forse di Ludovico e dei figli di Stefano Visconti. Ramengo, continuando la politica paterna, si era posto al servizio di Ludovico il Bavaro, ed era, in quel tempo (1327), certamente avverso ai Visconti. Secondo il Morigia, quando Pagano di Alberto era stato imprigionato, Ramengo con un altro nobile della fazione antiviscontea, Bassiano Crivelli, si era rifugiato presso l'imperatore, restandovi anche in seguito. Al servizio di Luchino Visconti si trovava invece il fratello di Ramengo, Alpinolo, che a quanto sembra era d'indirizzo politico diverso. Era imparentato però con Giuliano Pusterla, figlio di Balzarino e fratello di Francesco, giacché ne aveva sposato la sorella Caterina. Trascinato dal cognato nella congiura e venuto a conoscenza di quanto si stava tramando, Alpinolo ne informò il fratello Ramengo, il quale, ritenendo forse opportuno ritornare in quel momento nel favore del Visconti, svelò a sua volta i fatti a Luchino, facendo così naufragare il complotto. Nel 1341 Alpinolo fu podestà di Crema e, fatto prigioniero dalle truppe di Ludovico il Bavaro, venne riscattato da Luchino Visconti con la somma di 2.000 fiorini d'oro. Divenne poi consigliere di Bernabò Visconti, indirizzandone la politica estera. Nel 1358 fu ambasciatore a Ferrara. Il Chronicon Estense riferisce che Alpinolo, insieme con Aron Spinola e con un "dominus Petrus Canzellerius", trattò e firmò la pace appunto tra Bernabò e il marchese Aldobrandino d'Este. Secondo il Fagnani, nel 1364 egli ricopriva a Parma la carica di referendario, ma in alcune lettere dell'aprile di quello stesso anno è chiamato anche "capitaneus civitatis Parmae". Poco dopo Bernabò sostituì Alpinolo, nominando al suo posto Guidetto Pusterla. Una lettera del Visconti (trascritta, come le successive, dal Fagnani), la cui data è illeggibile, accusa Alpinolo di aver introdotto abusivamente in Milano alcuni carichi di spelta e di carne salata, e non meglio precisati "arnixia que de Parma Mediolanum conduci fuit interdictum,", ordinandone l'immediato rientro a Parma. Nel luglio del 1364 Bernabò, fidando "de probitate et fidelitate nobilium virorum dd. Alpinoli de Caxate et Gaspari de Ubaldinis...", li inviò quali "capitanei et rectores cum mero et mixto imperio", ossia con la pienezza dei poteri, a combattere e a punire i ribelli della Val Camonica. In seguito, alcune lettere di Bernabò parlano di massacri e di distruzioni compiuti appunto nel castrum di Cumbergo, in quello di Calepio e in altri luoghi fortificati del territorio bergamasco. Infine, ad Alpinolo, assieme a Giovannino, venne affidata "curam civitatis Pergami nec non Leuci, Trivili, Ripalte et Glare Abdue". Nel 1366 Alpinolo firmò il contratto nuziale tra Verde Visconti ed il duca Leopoldo d'Asburgo. Morì probabilmente prima del 1405 (I registri ... di Provvisione..., reg. IV, n. 164). Secondo il Calvi, ebbe quattro o cinque figli: Giovannolo, Bernabò, fatto prigioniero da Giovanni Acuto a Gavardo nel 1373, Giorgio, Giacomo e Ruggero. Quest'ultimo però, che fu frate domenicano in S. Eustorgio e inquisitore per la Lombardia nel 1385, risulta dagli Annali della Fabbrica del duomo (I, App. I)figlio di Tommaso, a sua volta qualificato come "spenditore" della fabbrica.

Ramengo di Guglielmo ricoprì nel 1343 la carica di podestà di Brescia; nel 1354 quella di podestà di Pavia. Secondo il Calvi, si può far risalire a quel tempo la costruzione del settimo arco del ponte sul Ticino (distrutto nella guerra del 1940-1945 ed ora ricostruito), che recava appunto lo stemma della famiglia. Nel 1368 Ramengo, chiamato nobile "miles", vendette a Paganino de Casate, che l'acquistava a nome del fratello Filippino, una proprietà di oltre 175 pertiche, comprendente case, cascine, sedimi, orti, vigne, ecc. nonché i relativi diritti, al prezzo di 250 fiorini d'oro (Milano, Arch. dell'Ente comunale d'assistenza, Serie famiglie, cart. 123). Ramengo pare abbia avuto, a quanto risulta, un solo figlio, Giovanni, ricordato nel 1412. Di Alberto di Guglielmo sappiamo che ebbe tre figli: Beltramo, Filippo (detto anche Filippino) e Giovanna, andata sposa a Giacomo Marliani, appartenente ad una delle prime famiglie milanesi. Entrato nelle grazie di Bernabò Visconti, Filippino venne nel 1364 inviato a Crema in qualità di familiare del signore, "causa detineri faciendi Iacobum de Verme" (Fagnani). Quasi certamente Filippino esercitò, come altri in seguito nella famiglia, un'attività di prestatore di non scarso rilievo: infatti nel 1377 forniva a Bernabò Visconti la somma di 12.000 fiorini d'oro quale dote per la figlia naturale del Visconti, Elisabetta, andata sposa a un Landi. Inoltre aveva svolto per conto del suo signore, fino dal 1372, molti e delicati incarichi. Dai Registri dell'ufficio di Provvisione risulta con un certo rilievo la figura di Beltramo, abitante nella parrocchia di S. Silvestro, a Porta Nuova, del quale non e però indicata la paternità. Egli fu uno dei Dodici di provvisione negli anni 1395 per i mesi di luglio e agosto (reg. XIII, n. 91), 1397 per i mesi di marzo e aprile (n. 94), e 1398 (reg. XIV, n. 15); deputato alla Fabbrica del duomo nel 1388 (reg. XVI, n. 11), fu uno dei 36 cittadini milanesi scelti in quello stesso anno per unirsi al podestà nelle oblazioni in rappresentanza di Porta Nuova (reg. XIII, n. 95); nominato nel 1386 dal signore di Milano nel comitato dei Cento, incaricato di scoprire le frodi nelle vettovaglie (n. 98); nel 1388 fece parte del Consiglio generale cittadino (n. 61), nel 1395 fu tra i prestatori del duca.

Dei figli di Alpinolo, Giovannolo è menzionato, secondo il Calvi, per la prima volta nel 1373, quando anche egli fu fatto prigioniero a Gavardo. Divenne in seguito segretario di Regina Della Scala, moglie di Bernabò, ed ebbe, come ricompensa dei suoi servizi, feudi in territorio cremonese, la cui esistenza è confermata dai documenti esistenti nell'Arch. dell'Ospedale Maggiore nel già citato fondo Bendoni-Casati. Secondo il Calvi, ebbe anche beni allodiali in Oriano, Padernelle, Castellaro, Motule, Quinzano e Petragnache, e usufruì della concessione degli introiti dei dazi del pane e del vino, per i quali non sono però indicate le località. Giovannolo mantenne la sua posizione privilegiata anche al tempo di Gian Galeazzo Visconti, il quale esentò le sue terre di Robecco dai contributi richiesti a tutti gli abitanti della zona per la costruzione della fortezza di Abbiategrasso. Nel 1388 figurava nel Consiglio generale di Milano, per la parrocchia di S. Tecla, a Porta Romana. Sposò, fedele agli indirizzi della famiglia, Beatrice, figlia di Goffredo Pietrasanta, che gli portò in dote appunto i beni di Robecco. Dal 1394 fu consigliere di Caterina Visconti (ricoperse tale carica anche dopo la morte di Gian Galeazzo, assieme a Francesco Barbavara), e tutore dei giovani principi nel castello di Melegnano. Il suo nome è sempre accompagnato dalla qualifica di miles;egli godeva, inoltre, delle più ampie esenzioni nel pagamento dei tributi. Nel 1402 venne inviato dalla vedova duchessa quale ambasciatore presso Francesco Novello da Carrara signore di Padova. Anche altri membri della famiglia ricoprirono in questi anni cariche importanti, come Antonio, ufficiale della Zecca di Milano nel 1401, o Nicola, notaio dei sindaci ed ufficiale del Comune per i prezzi delle biade. Le vicende del ducato di Milano all'indomani della scomparsa di Gian Galeazzo furono alquanto torbide: si scatenarono infatti le opposte fazioni e si ebbero tumulti e violenze dogni genere, in particolare contro i Barbavara, favoriti della duchessa. L'ambasciatore di Città di Castello a Milano, Cristiano de' Guelfucci, mandò l'8 luglio 1403 una lettera ai Priori della sua città, che costituisce un'importante testimonianza sugli avvenimenti di quei giorni ed è la fonte più attendibile anche per quanto concerne la fine di Giovannolo (G. Franceschini, Dopola morte di Gian Galeazzo Visconti, in Arch. stor. lomb., LXXII-LXXIV [1945-47], p. 62). Il Guelfucci riferisce che il 23 giugno Antonio Visconti aveva radunato a casa sua "bene trecento huomini armati" con lo scopo di assassinare il Barbavara e far cadere quindi il governo della duchessa. Caterina gli aveva allora inviato Giovannolo, suo consigliere, con l'incarico di condurlo alla sua presenza. Ma "giunto a chasa del detto Antonio si feciono innanzi certi di quelli armati e tagliarlo a pezzi con certi de suoi compagni".

Così nella lettera, mentre una sorta di diario, unito alla missiva stessa, riferisce gli avvenimenti in modo più dettagliato, anche se in esso Giovannolo è chiamato "Zoanne da Casale". Lascia inoltre un poco perplessi la qualifica che gli viene attribuita di "stretto amico del detto Antonio" [Visconti]. I suoi assassini furono Giovanni e Galeazzo Aliprandi. Fuggiti i Barbavara da Milano, il partito capeggiato da Antonio saccheggiò le case dei Casati e dei Barbavara, nonché quelle di altri cittadini milanesi, come era nelle consuetudini. Secondo la relazione succitata, ed anche secondo alcuni storici milanesi, tra i quali il Corio (pp. 465 ss.), l'uccisione di Giovannolo sarebbe avvenuta senza premeditazione. Di questa opinione non è il cronista Andrea Biglia (Mediolanensium rerum historia, in L. A. Muratori, Rer. Ital Script., XIX, Mediolani 1731, col. 12). È da pensare ad ogni modo che i congiurati ritenessero necessario privare la duchessa reggente di appoggi per piegarne più facilmente la resistenza, a meno che più profonde, e a noi sconosciute, questioni di partito non avessero diretto gli avvenimenti di quei giorni.

In seguito, si ebbe la costituzione di quella forte fazione antiviscontea promossa dai Casati, assieme ai Rusconi di Como, ai Vignati di Lodi, ai Confalonieri, ai Cusani, ai Brivio, ai Medici, ai Biraghi, ai Biglia, ai Giussani, di cui parla il Calvi. Ènoto infatti che, dopo la morte di Gian Galeazzo, si ebbe nelle città di dominio visconteo un ripullulare di signorie, sotto la guida delle più potenti famiglie locali, che solo la forte personalità del defunto duca era riuscita a tenere a freno e ad inserire, più o meno saldamente, nella compagine dello Stato milanese. Giovannolo venne tumulato nella cappella che la famiglia aveva nella chiesa di S. Marco a Milano.

Da questo momento per alcuni anni i Casati militarono apertamente contro i Visconti che erano al governo. Nel 1403 si ebbe un tentativo di pacificazione, per opera di Antonio Visconti, tra gli Aliprandi e i Casati, tentativo del quale, però, non si conoscono i risultati (Il Registro di Giovannolo Besozzi cancelliere di Filippo Maria Visconti, a cura di C. Santoro, Milano 1937, ad annum). Nel 1404, nel corso delle rivolte contro il duca Giovanni Maria, Giorgio, un altro dei figli di Alpinolo, fu decapitato nel Broletto nuovo di Milano, mentre le sue case in città venivano distrutte. Giorgio, che abitava nella parrocchia di S. Giovanni "ad Quatuor Faties" e che nel 1390 era stato investito dal padre dei beni in Lambrate, esercitava probabilmente anche attività di prestatore e doveva essere assai ricco. Le vicende burrascose che opposero i Casati ai Visconti continuarono ancora per alcuni anni. Nel 1406 il duca assolse alcuni dei cittadini coinvolti nei disordini del 1404: ma i Casati non furono tra questi. Infatti Berro, Cristoforo, Galeotto e Antonino, fratelli di Maffino, non poterono tornare in città anche se ebbero facoltà di trovarsi un domicilio "non sospetto" e di godere dei loro beni; mentre furono considerati ribelli, colpevoli del delitto di lesa maestà e di quello di avere invaso la città, Maffino, Guidebono, i figli di Beltramo - Ordinario e Petano - Bertino, Bertino Magno del fu Filippino, Giovanni del fu Giovannolo e alcuni altri. In quell'occasione, Beltramo vendette i beni di Biassono ad uno dei Vimercati. Nel 1408, Ramengo del fu Annibale risulta incluso nella lista di coloro che dovevano presentarsi al maestro delle Entrate ducali per denunciare i propri beni; fece poi testamento nel 1437 e morì nel 1440 lasciando erede universale il Consorzio della Misericordia.

Giovannolo di Alpinolo, a quanto risulta, ebbe sei figli: Giovanni, Francesco, Galeotto, Caterina, Cristoforo, Maffino. Dall'ArchivioBendoni-Casati risulterebbe inoltre l'esistenza di un altro figlio, Simone, che compare intorno al 1430 quale proprietario di terreni nel territorio di Casate e che sarebbe già morto nel 1437. Giovanni ebbe una vita pubblica molto attiva e ricoprì diversi incarichi: fu infatti commissario delle armi dellago di Garda (e in quella zona si trovava ancora nel 1425, ossia durante la dominazione veneta, avendovi forse stabilito residenza), del lago Maggiore e capitano di Riva del Garda e della Lomellina. L'attività di prestito continuava probabilmente da parte di alcuni membri della famiglia, perché durante la loro permanenza nel territorio lomellino (1430) Giovanni e il nipote Francesco, figlio di Cristoforo, nominarono dei procuratori a Milano per la riscossione di crediti dovuti dal monastero e dall'Ospedale del Brolo di Milano (l'ente assistenziale aveva attraversato infatti nei primi tre decenni del secolo una grave crisi economica, determinata dalla cattiva amministrazione dei pur amplissimi beni). Nel 1427 Giovanni fu inviato da Filippo Maria Visconti quale ambasciatore presso il marchese del Monferrato; rivestì incarichi ufficiali anche al tempo della Repubblica ambrosiana: fu infatti nominato, nel 1448, tra i Dodici della balia per la guerra e per la pace. Sposò Donnina Della Torre.

Di Francesco, sappiamo che nel 1447 era entrato nel Consiglio generale di Milano. Il Calvi ritiene che Galeotto sia stato capitano del lago di Garda verso il 1411, ma ciò non è possibile, essendo in quel tempo il territorio veronese già sottoposto al dominio della Repubblica di Venezia. Fu certo consigliere alla corte di Filippo Maria e nel 1415 fece parte dell'ambasceria di sei persone inviata da quel duca al concilio di Costanza (Giulini). Nella procura relativa a tale ambasceria risulta però il nome di Galeotto di Casale (G. Romano, Contributi alla storia della ricostituzione del ducato milanese sotto Filippo Maria [1412-1421], in Archivio storico lombardo, s. 3, VII [1897], p. 69, doc. CCXVII, 15 gennaio). Cristoforo, il quale era stato implicato, come s'è visto, nella rivolta antiviscontea dell'anno 1404, fatto prigioniero da Francesco Visconti, venne riscattato con la somma di 4.000 fiorini d'oro. Nel 1408 sembra sia stato familiare ducale, ma in quello stesso anno, secondo il Corio (p. 497), egli s'impadronì, assieme a Pandolfo Malatesta, di Antonio Visconti che si trovava nel castello di Cassano d'Adda e l'uccise per vendicare la morte del padre. La sua condotta politica fu però in seguito ambigua, in quanto si adoperò per far bandire il Malatesta, riuscendo nel suo intento. Sposò Caterina, figlia del conte Vinciguerra. In seguito al bando del 1412 gli fu confiscata una parte dei suoi beni in Robecco, che venne poi donata in quello stesso anno dal duca a Sperone di Pietrasanta, e quindi restituita a Cristoforo nel 1414, dopo la sua riabilitazione. Un nuovo bando colpì nel 1412 alcuni dei Casati accusati da Filippo Maria Visconti di essere implicati nell'assassinio del duca Giovanni Maria. Assieme ai rappresentanti delle maggiori famiglie cittadine, furono allora esiliati Cristoforo e il fratello Giovanni, Bregolino, Luigi, Giacomo del fu Filippino, Galeotto, Bertino "e tutti i fuorusciti della famiglia Casati", eccettuati Giovanni e Filippo, fratelli del miles Giovanni; mentre Antonio detto Oriolo e Giovanni del fu Ramengo ottennero invece il perdono nell'anno 1413 (Iregistri... di Provvisione, reg. VII, n. 248). Maffino, dopo il bando del 1405, si rifugiò sul lago di Como, da dove tentò di rientrare a Milano a capo di un gruppodi suoi uomini. Cacciato definitivamente, si ritirò a Gravedona (ibid., n. 271).

Antonio, detto Belegata, del fu Manfredo, Antonio del fu Ambrogio e il nipote Guidetto, Francesco e fratelli abitanti a Galgiana avevano nel 1385 ricevuto dal signore di Milano l'esenzione totale dalle imposte, per interessamento di Matteo da Mandello. Nel 1411 tale privilegio venne rinnovato dal duca, su istanza di Facino Cane, conte di Biandrate. Nel 1428 gli eredi delle succitate persone, indicati come "ghibellini della Martesana... di antica fedeltà e devozione", ricevettero da Filippo Maria il rinnovo del privilegio di esenzione da ogni onere. Una serie di documenti del già citato Archivio Bendoni-Casati consente di seguire, almeno parzialmente, le vicende del feudo cremonese che Ramengo aveva ricevuto da Bernabò Visconti e quelle delle altre terre, che, sempre in Cremona, appartenevano alla famiglia. Appare chiaro che nel frattempo i Casati si erano inseriti nell'ambiente cremonese: infatti da un documento del 1392 risulta che Luchino de Casate, benché "civis Mediolanensis", aveva facoltà di acquistare qualsivoglia bene volesse in Cremona e nel territorio della sua diocesi, nonostante gli statuti cittadini stabilissero il contrario (ossia che i forestieri non potevano comperare proprietà in loco).

Nel 1397 Galeotto, figlio di Luchino, anch'egli abitante a Milano, a nome suo e del padre, teneva in investitura "ad fictum" certi terreni del monastero di S. Lorenzo di Cremona. Nel 1401 lo stesso Galeotto, che si trovava in quel tempo a Verona, rilasciò una procura ad alcuni conoscenti e parenti, tra cui Giovanni e Giacomo de Casate, perché ricevessero dal vescovo di Cremona il rinnovo dell'investitura del feudo di Oscasale. A questo punto, si deve rilevare un errore in cui sembra essere incorso il Calvi: egli ha infatti confuso Galeotto, figlio di Giovannolo, con Galeotto, figlio di Luchino, o ha forse attribuito al primo un figlio che non aveva. Dai nostri documenti, la paternità di Galeotto, feudatario cremonese, risulta inequivocabile. Nel 1418 ricoprì la carica di referendario per la città di Como, dove Venceslao era stato podestà dall'agosto del 1417 all'agosto del 1418. Nel 1443, quest'ultimo, figlio unico maschio, ed erede di Galeotto, veniva reinvestito dal vescovo di Cremona del feudo paterno, comprendente le località di Oscasale, Tanengo, Farfengo e San Martino della Casapagana. Le terre in questione appartenevano però ad alcuni signori locali, i de Oscasalibus, e nel 1447 Venceslao venne citato in giudizio da questi ultimi, che tentavano di rientrare in possesso dei loro beni. Morto senza credi Venceslao, furono riconosciuti eredi del feudo i fratelli Paolo, Massimo, Scipione e Alberto, figli del defunto Giovanni, abitanti a Porta Nuova, parrocchia di S. Giovanni "ad Quatuor Faties". Di esso furono successivamente investiti nel 1460 Scipione e nel 1470 Paolo. Morti anche questi senza eredi, il vescovo di Cremona rifiutò l'investitura ad altri parenti, ossia Alpinolo e Cristoforo del fu Francesco, abitanti anch'essi nella medesima parrocchia; ne seguì pertanto una vertenza che si concluse con un lodo arbitrale nel 1479, con cui vennero riconosciuti i diritti deiGasati ad una nuova investitura.

Come abbiamo qua e là accennato, le proprietà terriere dei numerosissimi componenti la famiglia Casati erano sparse in molte zone della città di Milano e in molte località del suo territorio. Alcuni documenti ci consentono di individuarle con maggiore precisione, come pure d'intravvedere le diverse professioni che furono praticate nell'ambito delle famiglie e di valutarne quindi meglio il peso sociale ed economico. Oltre ai beni di Casate Vecchio, Casate Nuovo, Monticello, Robecco e Arcore, cui si è già accennato, ricordiamo le botteghe in città, attestate nel 1406; le case nelle quali abitavano i vari ceppi, e che erano sparse per tutti, o quasi, i quartieri cittadini; i terreni già citati a Porta Romana e a Porta Vercellina (1398); la grossa proprietà di Lambrate, in località Mulini della Trinità, attestata nel 1405; i beni del territorio di Locate (1369); di Gorgonzola, della cui chiesa è beneficiale nel 1405 Giovanni Casati; quelli in Bruzzano (1369); in Albignano, pieve di Corneliano (1396); in Biassono (1406); nella pieve di Corbetta (1420), e in molte altre località, oltre Casate Nuovo, nella pieve di Missaglia; in territorio di Bernate, pieve di Vimercate (1397), e così via. Per quanto concerne le professioni, sembra che le carriere notarile, giudiziaria e podestarile siano state le più seguite.

Dell'attività bancaria, o di prestito, si hanno solo notizie indirette, anche se pare probabile che da essa abbiano avuto origine le maggiori fortune della famiglia. Uno dei Casati fu medico, il "fisicus" Francesco, nominato medico degli infermi, dei poveri e dei carcerati del Comune di Milano nel 1389. Ricopriva tale carica ancora nel 1404, quando venne sostituito da Giovanni de Subinago (I registri dell'uff. di Provvis., reg. I, n. 8). Almeno due hanno trattato, o lavorato, metalli preziosi e commerciato in gioielli: Giovanni del fu Lotario, parrocchia di S. Tecla a porta Romana, nominato come "fabricus" nel 1388, e Giacomono del fu Cristoforo, parrocchia di S. Calimero, porta Romana, che acquistò oro e argento nel 1432; mentre un terzo, Ardighino del fu Beltramo, indicato come mercante, commerciava in pelli di agnello. Alcuni altri seguirono la carriera ecclesiastica, come canonici ordinari della Chiesa metropolitana di Milano, e come canonici, ad esempio, della chiesa di S. Fedele, pure di Milano. Agli enti ecclesiastici locali comunque furono legati in molti, come risulta dai già citati Annali della Fabbrica del duomo. Tra il 1387, anno della prima menzione, e la metà del sec. XV, i Casati vi figurano almeno con una trentina di nomi, sia come deputati delle Porte cittadine incaricati del controllo dei lavori, sia come funzionari ad alto livello.

Lo stemma della famiglia viene così descritto dal Calvi: "Un castello di rosso in campo bianco con la merlatura ghibellina, quasi incorniciato da due trecce pure rosse (Tricia Casatorum)".

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Notai in ordine alfabetico, cart. 37, Oldeni Antonio fq. Michele;Milano, Arch. dell'Ospedale maggiore, Fondo famiglie, Bendoni-Casati, cartt. 34, 86; Origini e dotazioni, Ospedale del Brolo, cartt. 18, 20, 25, 26; Ibid., Arch. d. Ente comun. di assistenza, serie Testatori, cart. 337; Ibid., serie Famiglie, cart. 123; Ibid., Arch. d. Fabbr. del duomo, serie Eredità, cartt. 69-79; serie Possessi foresi, cartt. 309 ss., in ord. alfab. per località; Ibid., Bibl. Ambr., ms. T 161-166 bis sup.: R. Fagnani, Familiarum commenta, sub voce; Probationes nobilitatis plurimarum familiarum Mediolanensium data occasione cooptationum in nobilium iurisconsultorum collegium Mediolani, II, s. l. (ma Mediolani) 1791, sub voce, ff. 1, 6, 23, 50, 67, 75, 81; C. Morbio, Codice visconteo-sforzesco, Milano 1846, ad ann. 1407; I registri dell'ufficio di Provvisione e dell'ufficio dei sindaci, a cura di C. Santoro, Milano 1929-1932, regg. nn. 8, 199, 204, 209, 239, 335; II, n. 132; III, nn. 89 s., 156 s., 215, 224; IV, n. 164; V, n. 18; VI, nn. 96, 160; VII, nn. 7, 113, 154, 248, 271; IX, n. 58; XI, n. 83; XII, n. 7; XIII, nn. 61, 94 s., 97 s.; XIV, nn. 15, 98; XVIII, nn. 13, 88, 234; Chronicon Estense, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XV, Mediolani 1729, col. 483; Gli atti del Comune di Milano nel sec. XIII, I, a cura di M. F. Baroni, Milano 1976, docc. X, CV, CVI, CXLVIII, CCLXX, CDI, CDLVII, CDXCVI; C. Santoro, Gli officidel Comune di Milano e del dominio visconteo-sforzesco (1216-1515), Milano 1968, pp. 36, 293, 296; Galvaneus Flamma, Chronicon maius, in Misc. di storia ital., VII (1869), p. 144; P. Morigia, Historia dell'antichità di Milano, Venezia 1592, pp. 479 s.; B. Corio, Historia di Milano, a cura di E. De Magri, Milano 1855, I, p. 766; II, pp. 50 s., 465 ss.; G. Giulini, Memorie della città e della campagna di Milano nei secoli bassi, XII, Milano 1760, p. 262; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, IV, Milano 1885, sub voce Casati; C. Castiglioni, Gli ordinari della Metropoli attraverso i secoli (con l'edizione della Matricula nobilium familiarum), in Memorie storiche della diocesi di Milano, I (1954), pp. 11-56; A. Noto, La congiura Pusterla negli atti di una rivendicazione patrimoniale, in Rassegna degli Archivi di Stato, s. 2, XX (1953), pp. 211-36; F. Cognasso, L'unificaz. della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, Milano 1955, pp. 154, 158.

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