CEE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

CEE

Giannandrea Falchi
Paolo Quirino
Franco Papitto

(App. III, I, p. 338; IV, I, p. 401).

Evoluzione del quadro economico − Dopo gli ampi squilibri che hanno caratterizzato i primi anni Ottanta, a partire dal 1983 il tasso d'inflazione medio nei paesi della CEE è andato rapidamente riducendosi, mentre il saldo della bilancia dei pagamenti di parte corrente ha presentato ampi avanzi.

Nel corso degli anni Ottanta, tuttavia, la CEE si è sviluppata a un ritmo inferiore a quello del decennio precedente: il tasso medio annuo di crescita del PIL è stato infatti del 2% contro il 3,3% nel periodo 1970-79. La disoccupazione è aumentata, quale riflesso, dal lato dell'offerta, di una lieve pressione demografica (la crescita della popolazione in Europa è stata in media dello 0,2% l'anno) e, soprattutto, dell'aumento dei tassi di partecipazione. Dopo il secondo shock petrolifero, nei maggiori paesi della CEE la crescita della produttività ha ecceduto quella del costo del lavoro, per effetto di una politica di moderazione salariale; in questo periodo l'aumento della disoccupazione in Europa ha riflesso, oltre che il modesto sviluppo del reddito, una certa rigidità nei mercati del lavoro.

La decelerazione dell'attività nei paesi della Comunità si è accompagnata a un rallentamento della formazione di capitale fisso: il rapporto tra investimenti lordi e PIL è sceso di quasi 3 punti percentuali nell'insieme dei paesi membri. Il rallentamento del processo di accumulazione ha determinato una riduzione della crescita del potenziale produttivo; il concomitante aumento nell'utilizzo del capitale rispetto al lavoro si è riflesso nella coesistenza di un grado di utilizzo della capacità e di un tasso di disoccupazione elevati.

Nel corso degli anni Ottanta per numerose industrie europee è stato inoltre difficile sostenere la concorrenza dei principali paesi industriali. Dal 1979 al 1985, la quota delle esportazioni comunitarie di prodotti industriali (scambi intracomunitari esclusi) sul totale delle esportazioni dei paesi dell'OCSE è regredita di circa 1,4 punti. Nello stesso periodo, la quota di mercato degli Stati Uniti è aumentata di 0,7 punti e quella del Giappone di oltre 5. Le perdite della Comunità hanno interessato soprattutto i settori industriali a domanda particolarmente dinamica (per es., componenti elettriche ed elettroniche, informatica e automazione degli uffici: −2,5 punti dal 1979 al 1985). In questi settori, gli Stati Uniti e il Giappone sono invece riusciti ad accrescere la loro quota di mercato, rispettivamente, di 1,2 punti e di oltre 7 punti. Per i paesi della Comunità le quote di mercato sono aumentate soprattutto nei settori a domanda debole (per es., +1,9 punti per il ferro e l'acciaio, i tessili e i materiali edili).

Tra il 1979 e il 1985 le perdite di quote dell'industria europea sui mercati comunitari sono state circa la metà di quelle registrate sui mercati dei paesi terzi. Il commercio intracomunitario, la cui importanza è andata accrescendosi nel corso degli anni, ha quindi avuto l'effetto di stabilizzare le quote di mercato per i prodotti industriali (nel 1988 circa il 60% delle esportazioni e delle importazioni di merci degli stati membri sono risultati in provenienza da o a destinazione di altri stati membri, contro meno del 40% trent'anni prima).

A rafforzare questa evoluzione contribuirà nei prossimi anni la realizzazione del mercato interno. Con l'Atto Unico europeo del febbraio 1986 i paesi della Comunità si sono infatti prefissati di creare, entro il 1992, uno spazio senza frontiere nel quale sia garantita la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, per migliorare l'allocazione delle risorse e completare, trentacinque anni dopo la firma dei Trattati di Roma, il processo d'integrazione in Europa.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale e la realizzazione di un mercato finanziario europeo costituiscono fasi fondamentali di questo processo che influenzeranno la condotta delle politiche monetarie e creditizie e l'evoluzione della struttura finanziaria europea.

Dal 1° marzo 1987 è in vigore una direttiva concernente la liberalizzazione nella Comunità dei crediti commerciali a lungo termine e degli acquisti di titoli non negoziati in borsa, e l'ammissione di titoli sul mercato dei capitali. Nel luglio 1990 è stata approvata la direttiva che estende la liberalizzazione alle transazioni monetarie (depositi, titoli e crediti finanziari a breve termine). Maggiori difficoltà si incontrano nel liberalizzare i sistemi di appalti pubblici consentendo la partecipazione anche di imprese estere.

L'abolizione dei controlli sui movimenti di capitale e l'integrazione dei mercati monetari e finanziari costituiscono un importante progresso verso l'unione monetaria. Esse implicano, tuttavia, un rafforzamento del coordinamento delle politiche monetarie e di bilancio degli stati membri per non compromettere la stabilità dei cambi. Per migliorare la gestione e il funzionamento del Sistema Monetario Europeo (SME), nel settembre 1987 è stata introdotta una procedura di sorveglianza più rigorosa per identificare tempestivamente eventuali tensioni nel sistema e sono stati ampliati l'ammontare e la durata del finanziamento a brevissimo termine concesso ai paesi membri per effettuare interventi sul mercato dei cambi.

La diminuzione dei costi che seguirà al completamento del mercato interno, le economie di scala, la maggiore concorrenza, l'ampliamento della base economica per la ricerca e lo sviluppo dovrebbero consentire ai paesi della CEE un aumento della produttività, un miglioramento della competitività sui mercati esterni e un potenziamento dell'interscambio comunitario.

Per migliorare la competitività tecnologica e recuperare il ritardo, la Comunità si è sforzata di promuovere l'innovazione industriale concentrando e potenziando i programmi di ricerca e sviluppo. Sebbene l'Europa disponga, nel complesso, di capacità e bilanci paragonabili a quelli degli Stati Uniti, essa è stata finora sfavorita dall'insufficiente cooperazione delle imprese in questo campo e dalla frammentazione delle iniziative tra stati membri. Le spese per la ricerca e sviluppo a livello comunitario rappresentano, infatti, complessivamente il 5÷6% del totale dei fondi pubblici destinati alla ricerca nella Comunità e appena il 2,8% del bilancio comunitario. Il programma quadro per il periodo 1987-91, adottato nel settembre 1987, ha introdotto, tuttavia, una nuova dimensione. In proposito vanno citati, nel campo delle tecnologie d'avanguardia, ESPRIT (European Strategic Programme for Research and development in Information Technologies), RACE (Research and development in Advanced Communications in technologies in Europe), BRITE (Basic Research in Information Technologies for Europe), EURAM (European Research in Advanced Materials) e i programmi di biotecnologia.

Redditi e potere d'acquisto. - Con una superficie territoriale di 2.263.000 km2 e una popolazione complessiva di 324.000.000 di abitanti, i 12 paesi della Comunità formano un mercato di enormi dimensioni e una delle aree economicamente più sviluppate del mondo. Dall'attività rivolta alla produzione di beni e servizi, in cui sono impegnati circa 128.000.000 di occupati, deriva infatti un PIL (espresso ai prezzi di mercato) appena inferiore a quello degli Stati Uniti.

I dati sul PIL dei singoli paesi, per renderli tra loro comparabili, vanno convertiti in una stessa unità monetaria che nel caso specifico è l'ECU (European Currency Unit). Ma la conversione non riflette esattamente il rapporto tra i poteri di acquisto delle monete all'interno dei rispettivi paesi per il fatto che il cambio ufficiale sopravvaluta le monete di alcuni paesi a scapito delle altre.

Per esprimere quindi più correttamente i dati in un'unità di misura che elimini le distorsioni provocate dai tassi ufficiali, occorre fare ricorso ai cosiddetti Standard di Potere d'Acquisto (SPA), consistenti in appositi coefficienti di ragguaglio che l'EUROSTAT calcola con una rilevazione dei prezzi su una vasta gamma di beni e servizi in ciascuno dei paesi considerati. Con riferimento al 1988 − ultimo anno per il quale si dispone di dati completi e comparabili − nella tab. 2 vengono riportati i valori in SPA del prodotto interno lordo considerati sia nel loro complesso sia in rapporto alla popolazione residente e al numero degli occupati di ciascun paese.

Soffermandosi sui dati della penultima colonna e distinguendo per comodità i paesi in tre gruppi a seconda che appartengano rispettivamente alle aree ''forti'', ''intermedie'' e ''deboli'', nel primo gruppo s'inseriscono il Lussemburgo (con 18,3 mila SPA per abitante), la Danimarca (16,6), la Germania Federale (16,5) e la Francia (16,0); nel secondo si collocano il Regno Unito (15,4), l'Italia (15,3), i Paesi Bassi (15,2) e il Belgio (14,7); mentre nell'ultimo vanno a confluire la Spagna (10,8), l'Irlanda (9,4), la Grecia (7,9) e il Portogallo (7,8). Dalla graduatoria costruita sui redditi pro capite emerge, pertanto, che i paesi meno ricchi sono quelli compresi nella fascia periferica della Comunità (Spagna, Grecia e Portogallo), cui va ad aggiungersi l'Irlanda che, insieme ai primi, copre appena il 12,9% del PIL complessivo.

Tale graduatoria − rappresentativa del grado di sviluppo dei singoli partners - subisce tuttavia alcuni significativi spostamenti quando dai dati sul PIL pro capite si passa a considerare quelli dell'ultima colonna della tabella, ossia i valori medi del PIL per occupato. E ciò perché questi ultimi, che esprimono il livello di produttività del lavoro, risentono l'influsso della diversa efficienza dei fattori impiegati nella produzione. Conseguentemente, mentre nel gruppo delle economie a più alta produttività si ritrovano la Francia, il Lussemburgo e la Germania − che conservano, anche da questo punto di vista, le posizioni di punta nell'ambito della CEE − in cima alla graduatoria vanno a collocarsi i Paesi Bassi che con un valore di 47,2 mila SPA si qualificano come un'area strutturalmente avanzata e ad altissimo prodotto lordo per occupato. I livelli di produttività più bassi si registrano invece nel gruppo delle regioni meno ricche della CEE (Irlanda, Grecia e Portogallo), le quali si collocano a ridosso di un paese (la Danimarca) che scivola dal primo all'ultimo gruppo soltanto perché, pur trattandosi di un'area ''forte'' nel senso in precedenza accennato, la sua produzione viene ottenuta con l'impiego di un numero di occupati più che superiore alla media comunitaria, dato il prevalere nel suo ambito di attività labour intensive.

Un altro punto di vista da cui osservare i dati è quello della distribuzione del prodotto lordo (o valore aggiunto) tra i singoli settori di attività economica, da cui si evince che le aree più sviluppate presentano un'incidenza dell'agricoltura sempre minore, a tutto vantaggio delle attività industriali e, soprattutto, di quelle rivolte alla produzione dei servizi o ''terziario'' in senso lato. A questo riguardo, con riferimento ai tre principali settori dell'attività economica, dalla tab. 3 si rileva che il peso dell'agricoltura per il complesso della CEE è relativamente modesto (il 3,7% del prodotto lordo), mentre di gran lunga più importanti appaiono le quote di pertinenza del settore industriale (37,7%) e del terziario (58,6%). Tale struttura rappresenta, peraltro, la sintesi di situazioni alquanto differenziate, tra le quali spiccano − per quanto riguarda in particolare le quote di pertinenza del settore primario − quelle della Grecia (17,1%), dell'Irlanda (9,5%) e dell'Italia (8,7%); al contrario, le quote del prodotto industriale raggiungono le punte più elevate in Germania (41,7%) e nel Regno Unito (38,9%), mentre in Danimarca e nel Belgio risultano particolarmente elevate quelle relative al terziario (nell'ordine, il 67,9% e il 64,6%).

Consumi. - Solo una parte del reddito nazionale viene destinata al soddisfacimento diretto dei bisogni della popolazione, ossia al consumo, comunemente interpretato come un indicatore del benessere economico della popolazione, il quale oltre ai beni e servizi di carattere individuale (generi alimentari, vestiario, mezzi di trasporto, servizi igienici, culturali, ecc.) comprende i servizi di natura collettiva (difesa, istruzione, giustizia, sicurezza sociale, ecc.) gratuitamente prestati dalla pubblica amministrazione.

Con riferimento al complesso dei consumi, dalla tab. 4 si rileva che il valore medio pro capite per l'intera Comunità ascende a 11,5 mila SPA e che il divario che separa le aree più sviluppate da quelle ''periferiche'' si restringe leggermente rispetto a quello messo in evidenza dai dati sul PIL per abitante. Tra il paese col tenore di vita più elevato (il Lussemburgo) e quello posto in fondo alla graduatoria (il Portogallo) esiste comunque una differenza come da 2 a 1 che non è ovviamente da sottovalutare, anche se i divari si vanno via via accorciando, come la dinamica registrata negli ultimi anni dalle aree più povere tende inequivocabilmente a dimostrare.

Un addensamento attorno alla media presentano, infine, alcuni paesi (Italia, Belgio, Paesi Bassi) dell'area ''intermedia'', che hanno raggiunto livelli di consumo piuttosto elevati, secondo un modello di comportamento che si va diffondendo a macchia d'olio e che tende ad attenuare le discrepanze che fino a poco tempo fa esistevano tra città e campagna o tra le diverse categorie di popolazione. Inoltre, come si evince dalle percentuali di composizione dei consumi privati riportate nella tab. 4, al crescere del livello di consumo diminuisce la quota delle spese familiari destinate all'alimentazione; e viceversa, scendendo nella graduatoria del benessere si osserva che la porzione di spesa assorbita dagli acquisti di generi alimentari (corrispondenti ai bisogni primari per antonomasia) si fa sempre più elevata, a scapito ovviamente della quota destinata alle altre spese e all'acquisto di beni e servizi voluttuari in particolare.

Tenore di vita. - Per meglio comprendere i livelli di consumo e di agiatezza raggiunti dalla generalità dei partners comunitari, si ritiene opportuno completare il quadro degli aggregati monetari con alcuni indicatori specifici tratti dalle statistiche correnti ed espressi, invece, in termini fisici.

Dalla tab. 5, in cui vengono esposti quattro di tali indicatori scelti in modo da rappresentare particolari aspetti del tenore di vita, la situazione appare piuttosto variegata, le singole graduatorie essendo influenzate, oltre che dal livello di reddito dei singoli paesi, anche dai modelli di consumo generalmente seguiti, da fattori di ordine sociale e culturale e, in parte ancora, dalle condizioni climatiche prevalenti.

Così per es., per quanto riguarda il consumo annuo pro capite di carne, non meraviglia che sia la Francia (con i suoi 107,1 kg per abitante, compresi nel calcolo anche i bambini e i vegetariani) a detenere il primato nell'ambito della CEE, dove la media è di 89,2 kg a testa; così come non destano eccessiva sorpresa né gli 83 kg tondi dell'Irlanda, che è un paese in cui l'allevamento viene praticato su larga scala, né gli appena 58,8 kg del Portogallo, che come al solito chiude la classifica. Analogamente, il consumo di energia elettrica per usi domestici risulta − a parità di altre condizioni − più elevato nelle regioni fredde dell'Europa e si riduce a mano a mano che si scende verso quelle più temperate del bacino del Mediterraneo, come dimostrano i consumi relativamente bassi dell'Italia (837 kWh) e della Spagna (661 kWh), in contrapposizione a quelli eccezionalmente alti della Danimarca (1794 kWh), del Lussemburgo (1719 kWh) e del Regno Unito (1661 kWh).

Passando a considerare gli altri due indicatori, val la pena di segnalare che l'uno (quello della circolazione automobilistica) soddisfa in parte l'esigenza di spostamento delle persone e in parte anche quella che deriva dal considerare l'autovettura come espressione dello status symbol; l'altro (la consistenza degli abbonamenti al telefono) viene incontro invece all'esigenza di comunicare con le altre persone e di dotare la propria casa di quegli strumenti che si ritengono ormai indispensabili. La diffusione delle autovetture nella CEE è mediamente molto elevata (36,4 per 100 abitanti) e raggiunge punte di particolare intensità sia in Germania (46,4) e nel Lussemburgo (44,8) che in Italia (39,8) e in Francia (39,7), mentre ancora modesti appaiono i livelli della Grecia (12,7) e del Portogallo (12,5), ultimi in graduatoria. Né miglior sorte spetta al Portogallo per quanto riguarda la densità telefonica (16,1 abbonati per 100 abitanti), in una graduatoria che vede peraltro la Grecia (34,7) avvicinarsi ai livelli dei paesi economicamente più evoluti fra i quali, in primo luogo, la Danimarca (52,9). Una particolarità, questa, che si spiega tenendo presenti le differenti condizioni dei singoli paesi − così come esposte in precedenza − a cui bisogna aggiungere, nel caso della Grecia, anche la sua conformazione geografica.

Bibl.: Fonti: Istituto Statistico delle Comunità Europee (EUROSTAT), Conti nazionali SEC, Lussemburgo 1989; Id., Statistiche generali della Comunità, ivi 1989; Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD), National accounts, vol. 1, Main aggregates 1960-88, Parigi 1990. Si veda inoltre P. Quirino, La funzione del consumo nell'economia moderna, in Lavoro e sicurezza sociale, 1968, 1; Id., I confronti internazionali delle condizioni di vita mediante gli indicatori monetari, in Rassegna di statistiche del lavoro, 1971, suppl. ii; Id., Il ruolo delle parità dei poteri d'acquisto nei confronti internazionali, in Monitor, 1987, 2.

Storia. - Avviata su binari economici, la cooperazione europea subì fatalmente i contraccolpi della crisi internazionale degli anni Settanta. Eppure, quel decennio fece registrare un sussulto dell'europeismo proprio verso il suo termine: il 9 e 10 marzo 1979 i Capi di stato e di governo della Comunità, riuniti a Parigi, diedero il via al Sistema Monetario Europeo (SME). Gli allora stati membri della CEE decisero di far fluttuare congiuntamente le loro monete entro margini del 2,25% (6% la lira italiana fino al gennaio 1990). Si decise che la Gran Bretagna facesse parte nominalmente dello SME, senza che la sterlina dovesse rispettare la disciplina di cambio.

La crisi economica internazionale travolse alcuni tentativi di cooperazione monetaria, minando anche le basi dei commerci fra i paesi del Mercato comune e rendendo difficilissima la gestione della politica agricola. Lo SME reagì a tutto questo e in effetti, dopo dieci anni, il suo bilancio è positivo. Il rischio di disgregazione incipiente è stato bloccato, l'evoluzione economica degli stati membri è stata resa più omogenea, tanto che il 26 e 27 giugno 1989, a Madrid, i paesi comunitari si proposero l'ambizioso obiettivo di costruire per tappe una Unione economica e monetaria.

Il decennio Ottanta si aprì in una pesante atmosfera di crisi e si concluse nell'aspettativa di una Comunità (passata intanto da 9 membri a 10, con la Grecia, nel 1981; e a 12, con Spagna e Portogallo, nel 1986) completamente integrata sul piano dei commerci, che gli impegni sottoscritti prevedono per la fine del 1992. E ci si accorse via via che, per edificare la Comunità dei commerci, bisognava fare anche, e prima, quella della produzione. La firma dell'Atto unico, nel febbraio 1986, ampliò le competenze della CEE e ne semplificò il processo decisionale. Gli ultimi anni Ottanta videro così un rilancio completo di quel processo di armonizzazione delle legislazioni che aveva prodotto scarsissimi risultati fra il 1975 e il 1985. Fra l'altro, si decise il reciproco riconoscimento dei titoli di studio e la liberalizzazione dei movimenti di capitale dal 1° luglio 1990.

L'obiettivo 1992, cioè di un'Europa del tutto aperta alla concorrenza dopo lo smantellamento di ogni protezione doganale, viene integrato nei calcoli degli operatori economici ed entra nelle aspettative della gente comune. Sulla scia di tanto successo, esso diventa anche una molla per le classi politiche. E pure il gollismo, sopravvissuto al suo leader, diventa europeista. La difesa delle prerogative nazionali, con la sola e vistosa eccezione della Gran Bretagna guidata da M. Thatcher, è alla fine del decennio appannaggio dell'estrema destra, laddove essa esiste. Tanto che, il 28 aprile 1990, il Consiglio europeo di Dublino può convocare una conferenza intergovernativa, nel dicembre del 1990 a Roma, allo scopo di "istituire per tappe un'Unione economica e monetaria". Parallelamente una seconda Conferenza discute tempi, modalità e strumenti di una "Unione politica" che assicuri, tra l'altro, "l'unità e la coerenza dell'azione internazionale della Comunità".

All'inizio del periodo analizzato (1979-89) la Comunità appariva come paralizzata dal cosiddetto ''problema britannico''. Il contributo del Regno Unito al bilancio comune era giudicato da questo paese eccessivo rispetto alle sue capacità economiche. Dopo negoziati difficili, un compromesso provvisorio intervenne il 30 maggio 1980: il contributo britannico venne infatti ridotto di 1175 milioni di Ecu nel 1980 e di 1410 nel 1981; parallelamente si affidò alla Commissione CEE il mandato (''mandato del 30 maggio'') di studiare proposte per gli anni successivi.

Il compromesso fu di breve durata, ma sbloccò una serie di decisioni: i prezzi agricoli per la campagna di commercializzazione 1980-81, l'organizzazione di mercato della carne bovina, una dichiarazione sul varo della politica comune della pesca che avrebbe trovato applicazione solo il 25 gennaio 1983, quando il Consiglio dei ministri approvò i quattro elementi su cui poggia questa politica: un regime comunitario di conservazione delle risorse, misure strutturali, un'organizzazione comune dei mercati, accordi di pesca con i paesi terzi.

La disputa sul contributo britannico riprese ben presto finché a Fontainebleau, il 25 e 26 giugno 1984, il Consiglio europeo trovò una soluzione a più lungo termine: al Regno Unito sarebbe stata rimborsata, nella misura dei due terzi, la differenza fra quello che Londra versava al bilancio comune e quello che riceveva attraverso le varie politiche comunitarie. L'intesa sbloccò gli accordi sul finanziamento futuro della Comunità che già da qualche tempo era arrivata al ''tetto'' delle sue risorse. La quota dell'IVA che gli stati membri ''girano'' alla CEE venne portata dall'1 all'1,4%.

A quel punto la CEE viveva già di artifizi contabili e in realtà aveva già raggiunto l'1,2% dell'IVA. Il margine residuo dello 0,2 permetteva solo di ''assorbire'' i due nuovi paesi, Spagna e Portogallo, che aderirono alla Comunità dal 1986. Nel Consiglio europeo dell'11 e 12 febbraio 1988, a Bruxelles, si decise di accrescere nuovamente le risorse comuni: la quota dell'IVA sarebbe rimasta immutata (1,4%) e a essa si sarebbero aggiunti trasferimenti dai rispettivi bilanci nazionali ''misurati'' sul prodotto nazionale lordo di ciascun paese. Il livello globale delle risorse venne fissato nell'1,20% del prodotto interno lordo totale della Comunità.

Il Consiglio europeo del febbraio 1988 completò anche la riforma della Politica Agricola Comune (PAC) che è stata uno dei temi dominanti del decennio. Le prime decisioni risalivano al 1984 ed erano state precedute e seguite da crisi. Nata anche per portare la CEE all'autosufficienza alimentare, nonché per avviare l'integrazione economica partendo dal settore primario, la PAC raggiunse il suo obiettivo e lo superò ampiamente, sino a determinare, nei primi anni Ottanta, l'accumulazione di eccedenze economicamente insostenibili. Inoltre, il problema agricolo si saldò a quello britannico determinando una miscela esplosiva. Alla politica agricola la CEE dedicò fra i due terzi e i tre quarti del suo bilancio. La Gran Bretagna, che ha un'agricoltura meno importante rispetto agli altri membri, beneficia di meno della spesa agricola ma contribuisce come gli altri al suo finanziamento. Da qui lo ''squilibrio'' del contributo britannico e la tentazione del governo di Londra di tenere quasi in ''ostaggio'' il funzionamento della PAC per ottenere una revisione delle regole di finanziamento della Comunità.

Il 31 marzo 1984 i ministri dell'Agricoltura adottarono un sistema di quote di produzione per il latte, fissarono delle ''soglie di garanzia'' per i prodotti eccedentari (al di là della soglia i produttori non beneficiano del sostegno CEE), abolirono o ridussero una serie di aiuti, avviarono una politica prudente dei prezzi che da allora sarebbero aumentati annualmente meno dell'inflazione. La riforma fu perfezionata nel corso degli anni finché nel Consiglio europeo del febbraio 1988 le misure di contenimento della produzione furono estese ad altri settori e soprattutto ai cereali. Si avviò inoltre un programma di messa a riposo delle terre (set-aside).

Il decennio Ottanta fu anche quello della crisi siderurgica. Il 30 ottobre 1980 la Commissione proclamò lo ''stato di crisi manifesta'' della siderurgia appellandosi all'art. 58 del Trattato CECA: sono le quote di produzione per ogni impresa e, dalla fine del 1983, i prezzi minimi per i prodotti più sensibili. Nell'autunno 1982 si individuarono in 30÷35 milioni di t le capacità produttive eccedentarie. Ogni stato membro dovette ridurre il suo apparato industriale e venne autorizzato, a questo fine, a concedere aiuti pubblici al settore. Lo ''stato di crisi manifesta'' restò in vigore fino al dicembre 1985. Nel 1986 la quasi totalità delle aziende tornò a realizzare utili. Entro la fine del decennio fu completato anche il risanamento della siderurgia pubblica italiana.

Eccettuato lo SME, fra il 1980 e il 1985 vennero solo dal Parlamento europeo − eletto per la prima volta a suffragio universale diretto fra il 7 e il 10 giugno 1979 − le spinte per andare avanti. Le altre istituzioni, Commissione e Consiglio dei ministri, furono impegnate a pieno tempo nell'opera di razionalizzazione dell'esistente, dal riassetto delle finanze alla riforma della PAC. Il motore dell'iniziativa parlamentare fu un deputato italiano, A. Spinelli, dalla forte personalità e dalle profonde convinzioni federaliste (suo fu Il manifesto di Ventotene) che portò, il 14 febbraio 1984, all'adozione da parte del Parlamento di un ''progetto di trattato per l'Unione Europea''. Fu l'avvio di un processo che portò alla convocazione di una conferenza intergovernativa (Milano, 28-29 giugno 1985) che adottò l'Atto unico europeo, firmato il 17 febbraio 1986 a Lussemburgo da Belgio, Germania Federale, Spagna, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna, mentre Italia, Danimarca e Grecia lo firmarono all'Aia il 28 febbraio.

L'Atto unico prevede l'estensione del voto alla maggioranza qualificata in quattro settori: creazione di un vero ''mercato interno'' entro il 1992, ricerca e sviluppo tecnologico, coesione economica e sociale, miglioramento delle condizioni di lavoro. Inoltre contiene disposizioni ''relative alla capacità monetaria'' e alla politica dell'ambiente; aumenta i poteri del Parlamento europeo che viene maggiormente associato al processo decisionale comunitario; rafforza la cooperazione in materia di politica estera nonché i poteri di gestione della Commissione. A Hannover, il 27 e 28 giugno 1988, i capi di governo, richiamandosi all'Atto unico, affidarono a un comitato presieduto da J. Delors e composto essenzialmente dai governatori delle Banche centrali, "la missione di studiare e di proporre le tappe concrete che debbono condurre all'Unione economica e monetaria". Un anno dopo, a Madrid, il 26 e 27 giugno 1989, i capi di stato e di governo approvarono il rapporto del Comitato Delors che prevedeva un processo in tre fasi. Dal 1° luglio 1990 sarebbe partita la prima fase, mentre per i tempi delle altre due fu deciso successivamente (a Dublino, il 28 aprile 1990) di convocare nel dicembre 1990 a Roma una Conferenza intergovernativa.

Tornati alla democrazia, Grecia (12 giugno 1975), Portogallo (28 marzo 1977) e Spagna (28 luglio 1977), presentarono la loro domanda d'adesione alla Comunità. I trattati di adesione furono firmati ad Atene il 28 maggio 1979, a Lisbona e a Madrid il 12 giugno 1985. Dal 1° gennaio 1981 la CEE passava a dieci membri, e a dodici dal 1° gennaio 1986. Ma il 23 febbraio 1982 la Groenlandia, dotata di un'ampia autonomia in seno allo stato danese, si espresse tramite referendum per il ritiro dalla CEE con una debole maggioranza (52%). Motivo della separazione era stata la politica comune per la pesca: la Groenlandia intendeva infatti conservare il controllo esclusivo su un'attività d'importanza primaria per la sua economia. La Turchia presentò una domanda d'adesione il 14 aprile 1987 e l'Austria il 17 luglio 1989, ma ai due paesi si fece presente che fino al 1992 la CEE doveva mirare prioritariamente al proprio rafforzamento interno piuttosto che al proprio ampliamento: una risposta dilatoria per rinviare, almeno per qualche tempo, i difficili problemi di integrazione posti dalla Turchia e quelli altrettanto delicati posti dall'Austria col suo statuto internazionale di ''neutralità permanente''. Al Marocco, che presentò un'inattesa domanda d'adesione l'8 luglio 1987, i Dodici fecero cortesemente presente che il trattato pone un limite geografico all'espansione della Comunità. Nel 1990 chiesero l'adesione Cipro (il governo della comunità cipriota di origine greca) e Malta. Alla fine del 1990 l'unificazione delle due Germanie spostò dall'Elba all'Oder-Neisse il ''confine'' orientale della CEE.

Nel contempo la personalità internazionale della CEE si è andata sviluppando. Alla fine degli anni Ottanta sono una sessantina le convenzioni multilaterali firmate dalla Comunità e circa 250 gli accordi bilaterali, mentre l'evoluzione rapida del mondo comunista ha aperto sbocchi impensati alla cooperazione con i paesi dell'Est. Il 25 giugno 1988 una ''Dichiarazione congiunta CEE-COMECON'' aveva fissato il quadro generale dei rapporti fra le ''due Europe'' e aperto la strada ai negoziati per accordi bilaterali con pressoché tutti i paesi aderenti a quell'organizzazione. L'aiuto dei paesi occidentali a Polonia e Ungheria è stato coordinato dalla Commissione CEE su incarico del ''Vertice dei Sette'', riunitosi a Parigi a metà luglio 1989. Presto quell'aiuto sarà esteso a tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale mentre, su iniziativa della CEE, viene fondata a Londra, nel 1990, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), che dovrà contribuire a finanziare le riforme per la transizione graduale verso l'economia di mercato. Il 15 dicembre 1990 si aprono a Roma le due Conferenze intergovernative con il compito di trasformare la CEE in una Unione politica e in una Unione economica e monetaria. Sempre a Roma (27-28 ottobre, 14-15 dicembre) i capi di governo della Comunità avevano già fissato alcuni principi e alcune scadenze: le due Conferenze dovranno lavorare "rapidamente" e "parallelamente" per consentire la ratifica dei loro risultati "entro la fine del 1992"; sarà creato un organo centrale, a struttura federale, che avrà la responsabilità della politica monetaria unica; la seconda fase della UEM "avrà inizio il 1° gennaio 1994"; nella fase finale l'Unione avrà "una moneta unica".

Bibl.: F. Merusi, P. C. Padoan, F. Colasanti, G. C. Vilella, L'integrazione monetaria dell'Europa, Bologna 1987; R. A. Cangelosi, Dal progetto di Trattato Spinelli all'Atto unico europeo, Milano 1987; P. Cecchini e altri, La sfida del 1992, ivi 1988; M. Emerson e altri, 1992: la nuova economia europea, in Economia europea, 35, Bruxelles 1988; R. Masera, L'unificazione monetaria e lo Sme, Bologna 1988; Comitato per lo studio dell'unione economica e monetaria, Rapporto sull'unione economica e monetaria nella Comunità europea, Bruxelles 1989

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