CELLAMARE, Antonio del Giudice, duca di Giovinazzo, principe di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CELLAMARE, Antonio del Giudice, duca di Giovinazzo, principe di

Giuseppe Scichilone

Nacque a Napoli nel 1657 da Domenico, figlio di Nicolò, primo principe di Cellamare.

La famiglia, originaria di Genova, si stabilì nel Napoletano intorno al 1530 e presto si distinse tra quelle più legate alla corona spagnola. Il padre del C. fu tesoriere del Regno di Napoli, ambasciatore di Spagna presso il duca di Savoia e i re di Francia e di Portogallo, viceré di Aragona e, nel 1706, membro del Consiglio d'Italia a Madrid.

Sostenuto dalle tradizioni politiche della famiglia, il C. iniziò la sua vita pubblica in giovane età. Nel 1702 partecipò alla battaglia di Luzzara e poco dopo venne nominato maresciallo di campo delle milizie spagnole. Nel 1707 partecipò alla difesa di Gaeta durante l'assedio degli Imperiali, dai quali venne fatto prigioniero. Liberato, si stabilì a Madrid, dove si affermò rapidamente a corte conquistandosi la simpatia del sovrano. Nel gennaio 1714 fu chiamato da Filippo V a far parte del ministero e col principe Pio si occupò della organizzazione dell'esercito; certo la influenza dello zio, il cardinale Francesco, fratello del padre, gli rese agevole il conseguimento di una posizione di rilievo, ma è indubbio ch'egli dovette dar prova anche di possedere capacità personali non indifferenti, tanto che riuscì a conquistarsi anche la stima e l'affetto del cardinale Alberoni.

Nel maggio del 1715 il C. fu destinato a Parigi come ambasciatore proprio nel momento in cui per Filippo V si poneva il problema di chi sarebbe stato designato da Luigi XIV ad assumere alla sua morte la tutela del delfino.

Le istruzioni dategli il 19 maggio erano precise: egli doveva appurare nel più breve tempo possibile le intenzioni di Luigi XIV circa la successione al trono e, nel caso in cui avesse raccolto prove concrete di una esclusione di Filippo V dalla tutela, avrebbe dovuto far sentire la sua protesta ai ministri in modo che al re giungesse l'eco delle aspirazioni del nipote. Contemporaneamente doveva svolgere un'azione intensa e capillare a Parigi e nelle province per formare un partito capace di sostenerlo al momento opportuno.

Con queste istruzioni, che sembravano più adatte ad un cospiratore che non ad un ambasciatore, il C. giunse a Parigi nel giugno, calorosamente accolto proprio dal duca d'Orléans contro cui poi avrebbe dovuto agire. La salute malferma di Luigi XIV non permetteva indugi. Avvicinò subito i personaggi e gli esponenti della nobiltà segnalatigli per i loro sentimenti filospagnoli, ricevendone consensi e dichiarazioni aperte di devozione al suo sovrano: ebbe così la conferma che negli ambienti di corte, fra i nobili, gli alti ufficiali e i prelati, c'erano molti simpatizzanti del re di Spagna che attendevano da lui un programma, un indirizzo da seguire, disposti ad appoggiarlo.

Il C. ne informò ampiamente il suo sovrano, esprimendo la convinzione che, muovendo da queste basi, si sarebbe dovuto indirizzare ogni sforzo verso i governatori delle province e i comandanti di truppe e fare in modo che il corpo d'annata francese dislocato in Spagna fosse disposto a seguire Filippo quando questi avesse deciso di entrare in Francia. In questo caso i reggimenti francesi si sarebbero uniti ad esso mentre si sarebbero quasi certamente opposti ad un principe seguito da truppe straniere.

Ma, a parte queste notizie e congetture, nulla di concreto il C. riuscì a comunicare sulle decisioni prese dal vecchio sovrano sulla tutela del delfino. D'altra parte la sicurezza ostentata dal duca d'Orléans faceva credere che questi aveva buone ragioni per nutrire speranze non vane sulla volontà espressa dal re nel testamento. Morto il 1° sett. 1715 Luigi XIV e affidata la reggenza al duca d'Orléans, il C. si trovò sostanzialmente impreparato e incapace di eseguire le istruzioni, secondo cui avrebbe dovuto fare "le proteste necessarie per bloccare e invalidare ogni risoluzione contraria al suo [di Filippo V] diritto" (Baudrillart, II, p. 211). D'altronde neppure Filippo V - il quale alle prime notizie della malattia di Luigi XIV aveva deciso che, nel caso in cui il nonno si fosse aggravato, si sarebbe avvicinato alla frontiera francese e avrebbe lasciato a una reggenza il governo di Spagna per essere pronto a varcare il confine onde rivendicare i suoi diritti sul trono francese - allora fece nulla per attuare i suoi bellicosi propositi. Da parte francese, invece, non ci furono tentennamenti: appena formatasi la reggenza, il duca d'Orléans, il Consiglio di reggenza e l'ambasciatore francese a Madrid, con perfetto sincronismo, si sforzarono di dimostrare che il governo era saldo, che il regno era tranquillo, che piena solidarietà regnava tra i cittadini.

Passato il momento di disorientamento, Filippo V non rinunciò ai progetti di rivalsa: inviò ingegneri sui Pirenei per rilevare le fortificazioni, che dopo il 1701 erano state lasciate andare in rovina, e prese una serie di provvedimenti limitativi della libertà di movimento e dei privilegi di cui godevano da tempo i commercianti francesi in Spagna. Contemporaneamente il C. a Parigi manovrò per tener vivo lo spirito d'opposizione al reggente, che già cominciava a manifestarsi, anche se di una sua attività cospirativa si può parlare solo a partire dal 1718: essa, sollecitata dall'Alberoni, ebbe come obbiettivo di far convergere contro il reggente non solo l'opposizione interna ma anche quella delle potenze del Nord coalizzate contro il suo alleato Giorgio I re d'Inghilterra.

Il C. all'inizio di quell'anno entrò in contatto con l'agente di Carlo XII re di Svezia, mentre il conte Poniatowski gli fece sperare l'aiuto dello zar e quello della Prussia. Contemporaneamente egli avvicinò il ministro plenipotenziario barone von Schleinitz che cercava elementi concreti per formare un'alleanza capace di tenere testa ai governi di Francia e Inghilterra, e si rivolse anche ai ministri dei principi italiani avvertendoli che il re spagnolo non approvava i vincoli che si pretendeva di imporre ai loro sovrani, che la regina Elisabetta seguiva con ansia le sorti di Parma e Toscana, che l'uno e l'altra non avrebbero voluto lasciare la Sicilia agli Austriaci e il resto dell'Italia alla mercé dell'imperatore.

Nel corso del 1718 l'attività sobillatrice del C. si fece sempre più intensa, ma in effetti non sembra che egli si fidasse molto della forza dirompente dell'opposizione interna, essendo convinto che nessuna impresa potesse realizzarsi senza l'aiuto dell'armata spagnola. In quest'atmosfera di tensione vanno inquadrati i primi approcci fatti dal C. con coloro che con lui avrebbero dato vita a quella, che si chiamò la congiura di Cellamare, ma che, secondo il Baudrillart, si dovrebbe meglio chiamare la congiura della duchessa di Maine.

Infatti costei, con l'aiuto del marchese di Pompadour e del conte di Laval, aveva gettato le basi di un'azione concreta e penetrante contro il reggente e cercava nel C. un appoggio. In un incontro che i due ebbero verso il 20 maggio, la duchessa gli fece leggere una sua memoria nella quale erano esposte le ragioni per cui il re di Spagna si sarebbe dovuto alleare con la Francia e con il re di Sicilia contro l'imperatore e l'Inghilterra piuttosto che accettare le condizioni contenute nel progetto della quadruplice alleanza.

Il 25 maggio il C. inviò all'Alberoni una ampia relazione di quell'incontro insieme con due lettere, una della duchessa e l'altra del Pompadour. Il 6 giugno gli venne ordinato di proseguire nei suoi contatti e di far circolare alcuni scritti favorevoli alla causa del re di Spagna. La conclusione della quadruplice alleanza, alla fine di luglio del 1718, spinse il C. a intensificare la sua azione e in un altro incontro con la duchessa dichiarò che il suo sovrano non avrebbe mai firmato il trattato e che avrebbe fatto il possibile per legarsi alla Francia. I congiurati francesi espressero l'idea che Filippo V doveva far conoscere pubblicamente il suo pensiero e prepararono un proclama e alcune lettere che il re di Spagna avrebbe dovuto indirizzare alla nazione francese, al re e al Parlamento quando la rivolta fosse stata effettuata.

Frattanto moti scoppiavano, con intensità e portata diversa, in alcune province, in Poitou, Piccardia e Bretagna, ma, per quanto i capi della congiura avessero tentato di trame partito per incoraggiare un certo numero di complici e per dimostrare allo stesso C. ch'essi avevano collegamenti di vasta portata e capacità combattiva notevole, in effetti questi avvenimenti si erano sviluppati senza alcun collegamento con la cospirazione parigina e, tranne che per i moti di Bretagna, lontani da ogni intervento spagnolo. È per altro certo che già a quel tempo il governo francese, senza che alcuno dei congiurati lo sospettasse, ne seguiva da vicino i movimenti.

L'abate Dubois ebbe cognizione di quanto il C. andava tramando almeno dal luglio del 1718; infatti è del 26 di quel mese una sua lettera al bibliotecario del re, abate di Targny, nella quale lo avvertiva che fra la corrispondenza del C. era stata trovata una memoria copiata con grafia che a colpo d'occhio aveva riconosciuto per quella di uno scrivano della biblioteca reale. Identificato il copista, un certo Buyat, fu facile al Dubois costringerlo a dar copia dei documenti che il C. o i suoi amici gli facevano copiare. Il 25 ottobre il Dubois comunicava al marchese de Nancré che informatori particolari gli avevano confidato che il C. era impegnato seriamente nella preparazione di sommosse in tutta la Francia. Un mese dopo da Madrid l'ambasciatore francese duca di Saint-Aignan si diceva convinto che Filippo V era pronto a passare il confine e che poteva contare sull'aiuto di un forte e numeroso partito filospagnolo.

Nello stesso periodo altre notizie sull'operato del C. giungevano al Dubois da Londra, da lord Stanhope, che le aveva ricevute direttamente dal marchese Isidoro de Monteleon ambasciatore di Spagna in quella città. Ma, nonostante queste segnalazioni concordanti e giunte da tante e diverse fonti, il Dubois, convinto della scarsa pericolosità della congiura, ritardò l'azione contro i congiurati fino al momento che considerò psicologicamente più produttivo.

Il 5 dic. 1718 due gentiluomini spagnoli, il figlio del marchese de Monteleon e il Portocarrero, che rientravano in patria insieme con un certo cavalier de Mira, furono fermati a Poitiers da un ufficiale munito di un ordine reale che ordinava l'arresto del de Mira e di coloro che lo accompagnavano. I due, abbastanza noti in Francia, protestarono invano contro l'arresto e, sottoposti ad attenta perquisizione, nelle selle dei loro cavalli furono scoperti dispacci del C. al sovrano concernenti le azioni dei congiurati.

Il C. seppe dell'arresto da un corriere del Portocarrero qualche ora prima del Dubois, ma non fu capace o non poté approfittare del vantaggio: si limitò ad avvertire dell'imprevisto qualcuno dei congiurati più compromessi e a reclamare presso il Dubois per riavere i suoi dispacci. Le parole del ministro furono tanto rassicuranti che il C. non, pensò nemmeno a distruggere le carte della congiura né la sua corrispondenza con l'Alberoni: ventiquattr'ore dopo ogni cosa era sotto sequestro in mano del Dubois e lui stesso era in arresto guardato a vista dai moschettieri. Il 13 dicembre il C. venne trasferito a Blois rimanendovi fino al marzo successivo, quando il governo decise di farlo rientrare in Spagna.

Dalla scoperta del complotto il Dubois riuscì a ricavare un vantaggio, in quanto poté sfruttare il successo per ottenere un completo ribaltamento dell'atteggiamento dell'opinione, pubblica francese, fino ad allora favorevole alla Spagna, denunciando la slealtà dell'ambasciatore che aveva violato il diritto delle genti, e di Filippo V che aveva portato la Francia, la sua patria, sull'orlo della guerra civile. Ora la guerra contro la Spagna poteva essere accettata da tutti e il Consiglio la decise come cosa ormai inevitabile e dettata dagli avvenimenti. La montatura fatta della vicenda dal Dubois ha resistito al tempo ed ha suggestionato studiosi di indubbi meriti, ma lo stesso Bourgeois riconosce che, se pure c'erano gli estremi per addebitare al C una concreta azione cospirativa, non poteva dirsi che egli rappresentò un reale pericolo per la Francia.

Rientrato in Spagna, il C. si fermò probabilmente a Madrid fino a quando, nominato capitano generale della Vecchia Castiglia, non raggiunse quella provincia. Fu anche nominato cavallerizzo maggiore della regina e si spense a Siviglia nel 1733 lasciando una sola figlia, Costanza Eleonora, con la quale si estinse il ramo della famiglia.

Fonti e Bibl.: Londra, British Museum, StatePaper 8756: A. Giudice, Mem. delle cose accadutea don Antonio Giudice di Cellamare CavallerizzoMaggiore della Regina Elisabetta Farnese, Gentiluomo della Camera ed Ambasciadore del Re Filippo V nella corte di Francia; P.-E. Lemontey, Histoire de la Régence, I, Paris 1832, pp. 179 ss.; I. Vatout, La cospiration de C., Paris 1832 (è poco attendibile e fantasioso); A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890, I, Philippe V et Louis XIV, pp. 562, 565, 570, 628, 632, 634, 647 s., 664, 670-675, 692-695; II, Philippe V et le duc d'Orléans, pp. 9 ss., 211-216, 229, 308, 311, 324-348, 372 s., 579-582; E. Bourgeois, La diplom. secrète au XVIIIe siècle, Paris s. d., I, Le secret des Farnèse, pp. 71, 99, 168, 170, 199, 211, 215, 218, 220, 314 ss., 339-345, 350, 354, 365; III, Le secret de Dubois, pp. 20-42; P. Castagnoli, Il cardinale G. Alberoni, I, Roma 1929; II, ibid. 1931, ad Indicem; G. Quazza, Il probl. ital. alla vigilia delle riforme, in Annuariodell'Ist. stor. ital. per l'età mod. e contemp., V (1953), pp. 125 ss.; B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionalid'Italia, VI, Napoli 1882, pp. 98, 237 n. 3, 238; Enc. Ital., IX, pp. 662 s.

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