CENSURA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Censura

Mino Argentieri
Giuliana Muscio

Parte introduttiva

di Mino Argentieri

In ogni parte del mondo, sin dalle prime apparizioni, il cinema ha suscitato timori a causa del potere di suggestione che mostrava di possedere più di altri mass media: donde il ricorso a misure amministrative che tendevano, e ancora tendono, a subordinare la libertà espressiva al rispetto di alcune regole di comportamento, di norma sottoposte al controllo centrale dei ministeri competenti in materia. Sono esistite e sopravvivono varie forme di c. cinematografica: preventiva, se applicata alle sceneggiature dei film prima che siano realizzati; a posteriori, se messa in atto quando l'opera cinematografica ha concluso la fase di realizzazione; di ritorno, se interviene a revisione del primitivo giudizio e in quanto dettata da circostanze particolari. In genere, il compito di controllare i film è assegnato a commissioni di c. variamente composte, i cui verdetti talvolta tengono conto dell'opportunità che un prodotto sia diffuso all'estero. Oltre quelle istituzionali e dirette, esistono anche manifestazioni indirette di c., quali le classificazioni morali dei film compiute da appositi centri che si ispirano alle autorità religiose. Effetti non trascurabili ha anche la cosiddetta c. di mercato, definizione con la quale si designa l'impedimento di fatto alla diffusione dei film in quanto considerati privi di requisiti commerciali dalle stesse case distributrici o dai gestori delle sale.

Il principio, su cui si fondano le istituzioni censorie, comporta che la libertà di giudizio e di scelta dello spettatore anche se adulto debba essere protetta e, comunque, preventivamente limitata. I bersagli principali della c., pur variando a seconda dei regimi politici e dei tempi, sono: i film contrari al buon costume e alla morale; le presunte offese alle istituzioni, alle chiese e alle religioni, al prestigio nazionale; la crudeltà nei confronti degli uomini e degli animali; i soggetti che potrebbero turbare l'ordine pubblico e i rapporti internazionali. Per fare alcuni esempi, negli anni Trenta in Estonia venivano bocciati persino i film ritenuti privi di valore artistico; in Cina non si perdonavano i tentativi di modificare i costumi locali; ancora oggi, nei Paesi musulmani, la raffigurazione del Profeta è ritenuta inopportuna se non vietata. Sesso, ideologie politiche, concezioni sociali sono i cardini dell'azione censoria, al di là della catalogazione dei film adatti ai minorenni. In Italia la c. amministrativa venne istituita nel 1913 dal governo G. Giolitti (v. oltre: Italia).

Le cinematografie nazionalizzate, più che sottoposte a controlli delegati a commissioni ministeriali, sono sottomesse a una forma di c. non regolamentata, che interviene ‒ tramite le aziende produttrici o distributrici ‒ per applicare le decisioni riguardo la rappresentazione cinematografica prese dai governanti in sede politica.In nazioni come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Repubblica Federale Tedesca, è stato collaudato un sistema di autodisciplina voluto dagli stessi imprenditori cinematografici. Hollywood nel 1930 adottò il cosiddetto Codice Hays, sistema di autoregolamentazione rimasto in vita sino agli anni Sessanta (v. oltre: Stati Uniti).

Un esperimento tra i più radicalmente innovativi è stato intrapreso, in primo luogo, in Danimarca, nel 1969, eliminando anche la c. contro la pornografia.

Italia

di Mino Argentieri

In Italia l'avvento del cinema ha tempestivamente indotto le autorità pubbliche a esercitare un'attenta vigilanza sulla diffusione dei film. I timori attenevano alla morale e alle istigazioni a violare le leggi. Ad alimentarli era la coscienza che il linguaggio delle immagini in movimento, oltre a essere sommamente suggestivo, avesse un'immediatezza comunicativa sconosciuta ad altri mezzi espressivi. L'opera di controllo ricadde, in base a un provvedimento del 1910, sulle prefetture e sulle questure. Il sistema così attivato poneva tuttavia in forse la certezza del diritto, poiché i film ricevevano un trattamento disuguale, a seconda delle località ove avevano luogo le proiezioni. Donde non pochi disagi per la nascente industria cinematografica, che, decisa a correre ai ripari, invocò l'introduzione di un organismo centrale che giudicasse i film. L'8 maggio 1913 L. Facta, ministro delle Finanze, a nome del governo giolittiano presentò alla Camera un disegno di legge che attribuiva al potere esecutivo il compito di ispezionare le pellicole prodotte in Italia o importate e imponeva il pagamento di una tassa di 10 centesimi per ogni metro di celluloide. A non nascondersi i rischi connessi a una cinematografia sottomessa a verifiche di stampo amministrativo-burocratico fu F. Turati, cui il futuro avrebbe dato ragione. Con d.l. 31 maggio 1914 fu insediata presso la Direzione generale di Pubblica Sicurezza, alle dipendenze del Ministero degli Interni, una commissione composta unicamente da funzionari o commissari di PS incaricati di setacciare i film. La casistica censoria, messa a punto in un'Italia che si proclamava liberale, prevedeva di colpire gli spettacoli offensivi del buon costume, della decenza e dei 'privati cittadini', nonché quelli contrari alla reputazione, al decoro nazionale e all'ordine pubblico, ovvero che potessero turbare i rapporti internazionali, oppure che intaccassero il prestigio delle istituzioni più rappresentative, dei funzionari e della polizia. Nessuna indulgenza era prevista per le scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno degli animali e, più in generale, per delitti, suicidi, azioni o fatti tali da turbare gli animi e incitare al male. L'ingresso del Paese nella Prima guerra mondiale comportò poi che, per motivi precauzionali, i film fossero esaminati anche dai militari. E dal 1° novembre 1915 fu introdotto un nuovo criterio secondo cui il nulla osta, concesso a uso interno, sarebbe stato rimesso in discussione per la vendita dei film all'estero. Nasceva così un'apposita c. per l'esportazione. Gli strumenti predisposti vennero impiegati, sovente sfidando il ridicolo, allo scopo proprio di ogni congegno censorio: reprimere le presunte trasgressioni, scoraggiare l'anticonformismo e la deviazione dalle rotte editoriali più tranquille. Al successivo appuntamento parlamentare ‒ nel settembre del 1923 il fascismo governava da poco meno di un anno e non aveva ancora avviato la trasformazione dello Stato in senso totalitario ‒ la macchina della c. appariva, nella sostanza, già definita e strutturata, tutt'al più suscettibile di ritocchi indispensabili per perfezionarne il funzionamento e adeguarlo alle esigenze del regime e a un'ulteriore riduzione delle scarse libertà rimaste. Al paradosso di una c. applaudita nel 1913 dai cineasti se ne aggiunse un altro: quello dei codici ferrei che la democrazia prefascista aveva approntato e che trasmise alla dittatura senza che questa dovesse escogitare proibizioni suppletive. Le modifiche apportate durante il ventennio alla legge del 1923 interessarono principalmente la composizione delle commissioni ministeriali, in cui di volta in volta furono ammessi magistrati, madri di famiglia, pubblicisti, rappresentanti del PNF (Partito Nazionale Fascista), dei Ministeri dell'Educazione nazionale, delle Colonie, della Guerra, delle Corporazioni, dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e dell'Istituto Luce. Le novità maggiori, rispetto al periodo precedente, erano un paio: il battesimo della c. preventiva sulle sceneggiature e il trasferimento delle competenze, con r.d.l. 28 settembre 1934 nr. 1566, dal Ministero degli Interni al Sottosegretariato per la stampa e la propaganda, trasformato l'anno dopo in un ministero che diventerà nel 1937 il Ministero della Cultura popolare. La politica culturale del regime, che attribuiva al cinema un ruolo importante nella ricerca del consenso, espelleva automaticamente i progetti cinematografici discordanti dagli indirizzi politici e culturali prevalenti. Tanto più che l'industria cinematografica, non godendo di una piena autonomia finanziaria, era costretta a ricorrere all'aiuto dello Stato, che condizionava le operazioni di sostegno creditizio e promozionale. Imperante il fascismo, pochissimi film italiani incorsero nei rigori della censura. Nel 1933, Mussolini in persona ordinò che non vedesse la luce Ragazzo di Ivo Perilli, il racconto di un teppistello napoletano che, per redimersi, si iscriveva alle organizzazioni fasciste. Tra i film purgati finirono Il cappello a tre punte (1935) di Mario Camerini, Il ladro (1939) di Anton Germano Rossi e il documentario Il pianto delle zitelle (1939) di Giacomo Pozzi Bellini. Nel 1943 Ossessione di Luchino Visconti, approvato in prima istanza, in seguito alla sollevazione di magistrati e cittadini 'benpensanti', venne sottoposto a una drastica revisione e sfoltito di alcune inquadrature. Ancora nel 1943, nonostante il successo strepitoso riscosso, fu ritirata dalla circolazione l'opera in due parti Noi vivi ‒ Addio Kira (1942), di Goffredo Alessandrini: qualche gerarca aveva ravvisato nell'adattamento del romanzo scritto da A. Rand il personaggio di un commissario politico bolscevico, che, a suo dire, sarebbe stato tratteggiato con eccessiva simpatia. Il ricorso alla c. fu invece intenso nei confronti della produzione straniera che, portando la voce di altre culture e di forme mentali diverse, venne fatta oggetto di occhiuti accertamenti. Un primo setacciamento era d'obbligo per l'ammissione al doppiaggio, mentre decisivo risultava il secondo riscontro da effettuare sulla edizione italiana. Dichiarata l'ostilità ai film che avrebbero denigrato il nostro popolo ‒ Little Caesar (1931; Piccolo Cesare) di Mervyn LeRoy, Street scene (1931; Scena di strada) di King Vidor, Scarface (1932; Scarface ‒ Lo sfregiato) di Howard Hawks, A farewell to arms (1932; Addio alle armi) di Frank Borzage, Idiot's delight (1939; Spregiudicati) di Clarence Brown ‒ all'epoca delle Sanzioni caddero in disgrazia i film americani che esaltavano la dominazione imperiale inglese, come The charge of the light brigade (1936; La carica dei 600) di Michael Curtiz, The lives of a Bengal lancer (1935; I lancieri del Bengala) di Henry Hathaway, presto riabilitati. L'arma della c. venne altresì usata per arginare o rallentare le importazioni di film statunitensi in determinate congiunture. Nell'elenco dei bersagliati comparvero, fra i numerosissimi film, anche A night at the Opera (1935; Una notte all'Opera) di Sam Wood, These three (1936; La calunnia) di William Wyler, The garden of Allah (1936; Il giardino di Allah) di Richard Boleslawski, Modern times (1936; Tempi moderni) di Charlie Chaplin, Fury (1936; Furia) e You only live once (1937; Sono innocente) di Fritz Lang, The adventures of Marco Polo (1938; Le avventure di Marco Polo, noto anche come Uno scozzese alla corte del Gran Khan) di Archie Mayo, titoli recuperati in sede di appello. Inflessibile verso la cinematografia sovietica ‒ tra il 1927 e il 1936 vennero approvati non più di 17 film ‒ la c. era severa con i registi francesi. Dinieghi ricevettero Les bas-fonds (1936; Verso la vita), La grande illusion (1937; La grande illusione) e La bête humaine (1938; L'angelo del male) di Jean Renoir, Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, Orage (1938; Delirio) di Marc Allégret, La femme du boulanger (1938; La moglie del fornaio) di Marcel Pagnol, La fin du jour (1938; I prigionieri del sogno) di Julien Duvivier. Alcuni di questi film furono riammessi a prezzo di correzioni pattuite in un secondo momento. I freni si allentarono all'indomani del 1938, allorché un provvedimento dettato da disegni di natura valutaria ebbe come effetto la nazionalizzazione delle importazioni dei film stranieri, una misura che danneggiò soprattutto le maggiori società distributrici americane, al punto che le principali optarono per l'embargo dei loro film. Per non deprimere le tendenze espansive dei consumi cinematografici, si rese allora necessario aumentare gli indici della produttività nazionale e concedere più spazio ai film provenienti dalle nazioni europee. Non a caso, molti dei film francesi, già interdetti, furono riabilitati dopo alcuni tagli. La relativa permissività, giustificata da una ratio economica, agì da stimolo al cinema italiano, invogliandolo a inoltrarsi in percorsi più disinibiti, come dimostrarono i film invisi al Centro cattolico cinematografico, l'organismo che affiancava nell'attività censoria le istituzioni statali: La peccatrice (1940) di Amleto Palermi, La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti, Via delle Cinque Lune e La bella addormentata, entrambi del 1942, di Luigi Chiarini, La statua vivente (1943) di Camillo Mastrocinque, Ossessione di Luchino Visconti, Le sorelle Materassi (1944) di Ferdinando Maria Poggioli. Dal 1940 al 1943, nelle riviste specializzate e nella stampa quotidiana si accese un aspro dibattito tra autorevoli organi ecclesiastici, che protestavano contro una c. troppo lassista, e critici che difendevano l'operato dei censori. La diatriba ebbe strascichi anche dopo l'8 settembre 1943. Nella Repubblica di Salò la sorveglianza sui film fu ancora più rigida: i permessi sino ad allora accordati vennero sottoposti a riesame. Si collaudò altresì una procedura secondo cui gli imprimatur avevano valore a seconda della fascia di visione: film banditi dai locali di prima categoria circolavano nei quartieri popolari e viceversa. La Liberazione recò un biennio di confronti spregiudicati nel teatro, coraggiosi nel cinema. Sciolto il Ministero della Cultura popolare, la Presidenza del Consiglio dei ministri pose sotto la responsabilità del suo sottosegretario le attività dello spettacolo e quindi anche la censura. Nel 1945 venne eliminata la ricognizione preventiva sulle sceneggiature; nello stesso tempo, però, il governo Parri riesumò e rilegittimò la normativa del 1923, offrendo un'infinità di appigli per interferenze illiberali. Nel 1947, inaspettatamente, si concesse ai produttori la facoltà di sottoporre i soggetti all'approvazione della Direzione generale dello Spettacolo, una prassi presto tramutatasi in una consuetudine. In principio i censori non si scatenarono, ma presto sopraggiunsero tentazioni interventistiche. Si riverberò così sul mondo del cinema e del teatro un profondo contrasto culturale, anche di carattere psicologico, tra aspirazione alla modernità nei comportamenti individuali e collettivi e nella vita civile, e propensioni a non derogare da valori di riferimento ritenuti ineludibili e insindacabili. Per giunta, il Neorealismo postbellico aveva immesso nei film, oltre a una sentita cognizione del dolore umano in un preciso contesto storico-sociale, un bisogno di verità poetica e uno spirito critico che non si arrestavano di fronte a un atteggiamento sostanzialmente repressivo delle istituzioni e che non di rado si scontrarono con i lasciti di altre stagioni storiche. In ogni comparto censorio a valutare i film furono chiamati un funzionario dell'Ufficio centrale per la cinematografia, un magistrato, un rappresentante del Ministero degli Interni. Il collegio d'appello era presieduto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dal 1948 al 1962 la c. si trovò al centro di una controversia in cui si potevano riconoscere orientamenti politici che ebbero ripercussioni sulla condotta dei governi. Al cattolicesimo liberale di una Democrazia cristiana degasperiana che collaborava con i partiti laici, sul terreno delle politiche culturali si opponevano ispirazioni e pressioni di tipo clericale e conservatore, assecondate per motivi strumentali dall'estrema destra. Da qui una linea repressiva che, forte di una legislazione che era ancora quella fatta propria e potenziata dal fascismo, si accanì su ogni opera non convenzionale, accomunando capolavori a film di modesta levatura. Amputazioni e rimaneggiamenti forzosi non risparmiarono Gioventù perduta (1948) e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati, Adamo ed Eva (1950) di Mario Mattoli, Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Mario Monicelli, Anni facili (1953) di Luigi Zampa, Senso (1954) di Visconti, Totò e Carolina (1955) di Monicelli, Le avventure di Giacomo Casanova (1955) di Steno, I vinti (1953) e Il grido (1957) di Michelangelo Antonioni, L'assassino (1961) di Elio Petri e centinaia di altri film. Il versante straniero non soffrì di meno. Ritirato dagli schermi Le diable au corps (1947; Il diavolo in corpo) di Claude Autant-Lara, si rifiutò ogni licenza a La ronde (1950; La ronde ‒ Il piacere e l'amore) di Max Ophuls, Topaze (1950) di Marcel Pagnol, Casque d'or (1952; Casco d'oro) di Jacques Becker, ma anche a All quiet on the western front (1930; All'Ovest niente di nuovo) di Lewis Milestone, Aleksandr Nevskij (1938) di Sergej M. Ejzenštejn, Vredens dag (1943; Dies irae) di Carl Theodor Dreyer, film che sarebbero giunti più tardi alle platee e che rientrano in un elenco interminabile di persecuzioni. Achtung! Banditi! (1951) e Cronache di poveri amanti (1954) di Carlo Lizzani e Anni facili di Zampa attesero anni per ottenere l'autorizzazione a valicare i confini nazionali. Ancora nel 1961, Tu ne tueras point (1961; Non uccidere) di Autant-Lara fu respinto, "pur rilevando la commissione […] che trattasi di opera di alto livello artistico", una qualità, questa, non sufficiente a far tollerare un messaggio a favore dell'obiezione di coscienza. È, infine, da tener presente una maniera di influire indiretta e informale allora praticata dai censori: impartire consigli in via riservata, dissuadere gli ostinati, lasciar balenare la probabilità di attriti con l'amministrazione pubblica a film terminato, far trasparire insomma il potere di mettere in allarme il Comitato per il credito cinematografico e troncare così le gambe ai film più imbarazzanti. Nell'arco di un decennio, per iniziativa della sinistra e degli autori e dei critici cinematografici, fu sollevato ripetutamente il problema di mettere a punto un ordinamento censorio che fosse coerente con i principi costituzionali. Svariate furono le promesse governative vanificatesi strada facendo, finché nel 1962, preso l'avvio il centro-sinistra, fu varata una riforma che soppresse parecchie limitazioni e circoscrisse l'azione censoria ai film in cui si fosse identificata l'offesa al buon costume. Accanto a magistrati e giuristi, le nuove commissioni riunivano rappresentanze delle categorie cinematografiche, pedagogisti e psicologi, la cui presenza favorì interpretazioni meno rigoristiche del mandato ricevuto. La maggior tolleranza generò tuttavia malcontento nei nostalgici dei vecchi tempi; nel 1965, durante la discussione parlamentare attorno a una legge di sussidi alla cinematografia, venne formulato da parlamentari democristiani un emendamento che prevedeva l'esclusione dalla programmazione obbligatoria per i film che avessero "insufficienti qualità artistiche, culturali o di dignità spettacolare". Era la c. economica che si affacciava: intollerabile per l'imprenditoria cinematografica, per le sinistre e i partiti laici, cara ad alcuni ambienti ecclesiastici, così minacciosa da condurre la compagine governativa al limite estremo di una crisi, evitata poi grazie a un compromesso che pose sotto tiro unicamente i film che avessero sfruttato "volgarmente temi sessuali a fini di speculazione commerciale". Tuttavia non ci furono inasprimenti: a disinnescare il conflitto provvidero non i componenti delle commissioni di c., ma gli uomini di cinema designati alla disamina dei film, i membri del Comitato per il riconoscimento della programmazione obbligatoria, composto soltanto da rappresentanti delle categorie cinematografiche.

La prudenza dei censori, dopo il 1962, dette origine a un fenomeno preoccupante. Contro i film approvati dall'apposita commissione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, istituito nel 1960, insorsero procuratori della Repubblica, singoli cittadini e associazioni che, appellandosi al codice penale, chiesero il sequestro delle opere stimate indecenti. Le premesse di questa crociata avevano radici negli ultimi anni Cinquanta, negli accanimenti giudiziari patiti da Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti, I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada, L'avventura (1960) di Antonioni, La giornata balorda (1960) di Mauro Bolognini e parecchi altri film che, per ottenere il visto, subirono tagli e oscuramento di immagini. Successivamente si manifestò una reviviscenza inquisitoria a sfondo moralistico. La lista dei film denunciati è folta, comprensiva di alcuni titoli significativi: Mamma Roma (1962), La ricotta (1963), Teorema (1968), Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, Blow-up (1966) di Antonioni, The devils (1970; I diavoli) di Ken Russell, Le souffle au cœur (1971; Soffio al cuore) di Louis Malle, La proprietà non è più un furto (1973) di Elio Petri, La grande bouffe (1973; La grande abbuffata) di Marco Ferreri, Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, Il portiere di notte (1974) e Al di là del bene e del male (1977) di Liliana Cavani. Scandalosa nella sua brutale eccezionalità fu la condanna che ingiunse di distruggere tutte le copie di Ultimo tango a Parigi (1972). Il film di Bernardo Bertolucci fu scagionato da una sentenza riparatrice solo nel 1987. A Salò o le 120 giornate di Sodoma venne negata la nazionalità italiana mentre per "vilipendio della religione di Stato" ebbe luogo il sequestro di Il pap'occhio (1980) di Renzo Arbore e nel 1998, con un capo di imputazione analogo, un film interessante come Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco ha iniziato un'avventura giudiziaria tortuosa e non priva di conseguenze economiche.

La tregua succeduta all'aspra attività repressiva degli anni Settanta e Ottanta non è stata determinata dalla depenalizzazione dei reati che avevano provocato la suscettibilità della magistratura, ma dalla necessità di operare in una realtà profondamente segnata dal crollo del mercato cinematografico italiano, crollo accelerato dall'exploit dell'emittenza televisiva privata in corsa per la conquista degli indici di massimo ascolto, al di fuori di qualsiasi regolamentazione almeno sino al 1990. Le fonti televisive sono diventate così ineludibili per la sopravvivenza della cinematografia. Pertanto, nelle architetture della c. e dei suoi paladini, ha assunto un rilievo cruciale la classificazione che, interdicendo la visione dei film ai minori di 18 anni, ne impedisce l'ingresso in TV o che, riservando agli orari di seconda serata i film sconsigliati ai minori di 14 anni, ne intacca il valore commerciale. La norma preesisteva, era stata adottata dalla legge del 1962 e non aveva suscitato allora nessuna obiezione. I fautori di una c. più efficace se ne sono avvalsi come di uno strumento che puntando in apparenza l'obiettivo sul circuito cinematografico, mira in definitiva a un più esteso orizzonte mediatico. Con la l. 30 maggio 1995 nr. 203, votata da entrambi gli schieramenti parlamentari, le commissioni ministeriali sono state riorganizzate e riassortite in modo da inserirvi docenti di diritto, pedagogia e psicologia ed esperti di cultura cinematografica, tutti nominati a discrezione del ministro per i Beni culturali, nonché quattro rappresentanti delle associazioni dei genitori e due rappresentanti delle professioni cinematografiche, questi ultimi in posizione minoritaria. Sono state gettate le basi per una c. che ha un potere dissuasivo di vasta portata e si configura come un filtro sommesso e dal volto apparentemente rispettabile, accettato da produttori e registi, immancabilmente interessati agli sbocchi televisivi dei film.

Bibliografia

G. Gambetti, Nessuno la voleva, in "Bianco e nero", 1970, 11-12.

M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, Roma 1974.

G. Massaro, L'occhio impuro, Milano 1976.

D. Liggeri, Mani di forbice. La censura cinematografica in Italia, Alessandria 1997.

Italia taglia, a cura di T. Sanguineti, Milano-Ancona 1999.

Stati Uniti

di Giuliana Muscio

Negli Stati Uniti la c. è stata, in prevalenza, un'autocensura gestita dalla stessa industria cinematografica e identificata con il Codice Hays. Redatto nel 1930 e applicato dal 1933, il Codice conteneva principi etici e indicazioni specifiche che regolavano ciò che si poteva far vedere, dire e raccontare sullo schermo; esso interveniva non a film finito, mediante tagli, bensì a livello di sceneggiatura, proponendo modi alternativi di racconto. A partire dal 1968 il Codice è stato in larga parte sostituito da una divisione del pubblico per fasce d'età (rating).

Quadro giuridico-istituzionale

Negli Stati Uniti le autorità federali non regolamentarono fin dalle origini la c. cinematografica, a motivo della sentenza della Corte Suprema del 1915 (Mutual v. Industrial Commission of Ohio), in cui il cinema veniva definito "un affare economico puro e semplice […] da non considerare […] parte della stampa nazionale, o come organo di opinione pubblica". Nel periodo di massimo splendore della cinematografia americana, la c. era gestita quindi da una miriade di istituzioni locali e statali, senza un modello federale; la precarietà di questa situazione portò quindi, negli anni Trenta, all'adozione di una forma di autocensura (il Codice Hays), controllata dall'associazione di categoria dell'industria, la MPPDA (Motion Picture Producers and Distributors Association).

Nel 1948 la Corte Suprema cambiò, assai tardivamente, opinione e, all'interno della sentenza anti-trust relativa al caso Paramount (v. oltre), affermò che il cinema doveva essere considerato sotto la tutela del primo Emendamento: "Non abbiamo dubbi sul fatto che i film, come i giornali e la radio, siano inclusi nella 'stampa', la cui libertà è garantita dal primo Emendamento". Una successiva sentenza della Corte (Burstyn v. Wilson, Commissioner of Education of New York, 1952), che riguardava la distribuzione americana di Il miracolo, episodio del film L'amore (1948) diretto da Roberto Rossellini, dichiarò infatti il cinema "un significativo mezzo di comunicazione delle idee, la cui importanza non è sminuita dal fatto che il suo obiettivo sia quello di divertire quanto di intrattenere".

Altri casi esaminati dalla Corte negli anni tra il 1961 e il 1965 produssero un ulteriore indebolimento delle forme di c. locale, senza mai arrivare però a definirle incostituzionali. Nel 1968, nel caso Interstate v. Dallas, la Corte Suprema si pronunciò a favore dell'adozione del sistema di diversificazione dell'offerta cinematografica per tipologie di pubblico, cioè per fasce d'età, adottato dall'industria in quell'anno.

Le censure locali nel cinema delle origini

Fin dagli inizi del 20° sec., gruppi civici protestanti si mobilitarono contro le possibili influenze negative del cinema, criticando la presenza nei film di elementi come violenza, crimini, alcool, aborto, sesso, e mostrando viva preoccupazione per la rappresentazione sullo schermo dei rapporti razziali, delle minoranze etniche e religiose, o della conflittualità sociale. Questi gruppi intervenivano a livello locale, contestando i film presso l'esercente e mobilitando le autorità (municipali o statali) affinché li proibissero o eliminassero dalle pellicole ciò che non era loro gradito. Nel 1907, sotto la pressione della stampa e dei riformisti, la città di Chicago istituì, presso la polizia, una commissione di c., abilitata a concedere i permessi per la proiezione di film. Una forma di c. indiretta riguardava le sale, percepite come spazi urbani di socializzazione malsana: la crisi più grave si ebbe nel 1908, quando il sindaco di New York, George Brinton McClellan, emanò un'ordinanza di chiusura di tutte le sale cinematografiche della città, con il pretesto della scarsa sicurezza e insalubrità. La minaccia agli interessi dell'industria era tale che nel 1909 venne istituita a New York una commissione di c. (Board of Review) per mediare tra produttori e pubblico, proponendo interventi censori non coercitivi, ma moralmente obbliganti; inizialmente il Board ispezionava solo i film in uscita in città, ma su richiesta dell'industria stessa, il controllo venne esteso a livello nazionale. In questa operazione non fu secondaria la considerazione di partire dagli standard di New York, piuttosto che di altre zone più retrograde degli Stati Uniti. Nel 1915 la commissione assunse il nome, con cui è nota, di National Board of Review.Tra il 1909 e il 1922 vennero però costituite commissioni di c. in ben sette Stati, e in 37 Stati vi erano progetti di legge in tal senso. L'industria cinematografica, preoccupata, si organizzò nella National Association of the Motion Picture Industry (NAMPI). Nel marzo 1921 la NAMPI elaborò una prima forma di autocensura, proponendo i cosiddetti 13 punti, che raccoglievano la lista delle lagnanze e dei problemi contestati al cinema con maggiore frequenza: sesso, tratta delle bianche, nudità, amore illecito, "amore appassionato prolungato", crimine, gioco d'azzardo, ubriachezza, oltraggio a pubblici ufficiali o alla religione. Questa soluzione non placò però le autorità statali di New York, le quali decisero di istituire una commissione statale di c.; l'industria recepì il messaggio e cercò altre strategie.

La MPPDA e il sistema di autocensura

Nel 1922 venne fondata la MPPDA, con a capo Will H. Hays. Organizzatore della campagna elettorale del presidente W.G. Harding, influente presbiteriano, Hays aveva le doti amministrative e politiche necessarie al difficile compito di migliorare le pubbliche relazioni dell'industria cinematografica. Il suo primo successo fu la campagna contro l'adozione della c. in Massachusetts; parato questo colpo, Hays elaborò strategie analoghe sul piano nazionale, intervenendo a livello locale o presso i gruppi più combattivi, monitorando la stampa e inondandola di veline anti-censura, nelle quali si affermava che la censura era antiamericana e incostituzionale. La MPPDA propose a quanti muovevano critiche ai prodotti dell'industria cinematografica di esternare le proprie lagnanze nel corso di una conferenza, che si tenne all'Hotel Waldorf Astoria di New York nel 1922. Si formò così il Committee on Public Relations, che includeva i rappresentanti di 70 organizzazioni nazionali di carattere educativo e culturale, come le Daughters of American Revolution, i Boy Scouts of America, la General Federation of Women's Clubs, l'International Federation of Catholic Alumnae, la Russell Sage Foundation, l'American Library Association, l'YMCA (Young Men's Christian Association). Il Committee aveva il compito di trasmettere alla MPPDA le proprie obiezioni, ma era difficile creare una coesione interna tra gruppi così eterogenei: già nel 1925 esso fu riassorbito dal Public Relations Department della MPPDA. Numerosi scandali, che implicavano attori famosi in omicidi, relazioni omosessuali o questioni di droga, costrinsero inoltre Hays a intervenire, imponendo clausole morali nei contratti del personale cinematografico.Nel 1924, per via delle critiche agli adattamenti cinematografici di testi teatrali e letterari, la MPPDA compilò una lista di divieti più complessa rispetto ai '13 punti', chiamata Formula. Ogni studio avrebbe dovuto sottoporre allo Hays Office trama e informazioni relative agli adattamenti in progetto; si avviava così una prima modalità di autocensura, a partire dalla sceneggiatura. Ma non vi era ancora la capacità di costringere l'industria all'obbedienza, e il sistema riguardava solo il cinema derivato da altre fonti.

Nel 1926, Hays nominò il colonnello Jason Joy alla guida dello Studio Relations Department, preposto a gestire i problemi di c. con le autorità locali e statali. Attraverso il funzionamento di questo ufficio i produttori cinematografici cominciarono a rendersi conto che una politica di autoregolamentazione e cautela nei contenuti dei film, suggerita dalle istanze censorie che via via si manifestavano, consentiva una circolazione più sicura dei loro prodotti. In una fase successiva, alla fine del 1927, l'ufficio di Joy elaborò la lista dei Don'ts and be carefuls ovvero delle 11 problematiche da evitare e delle 26 da trattare "con cautela e buon gusto". La sensibilità dell'industria rispetto al problema della c. venne stimolata dall'introduzione del sonoro, che rese particolarmente gravosi i costi e le difficoltà di attuazione di tagli e interventi a film finito. Nel 1928 però, a un anno dall'adozione dei Don'ts, esaminata la produzione cinematografica del periodo, i gruppi di pressione riscontrarono che l'82 % dei film non era adatto alla visione dei ragazzi sotto i 15 anni: la forbice tra gli standard etici e di gusto auspicati dai gruppi civici e quelli dell'industria cinematografica era ancora molto ampia. In quell'anno la c. costò ai produttori 3.500.000 dollari in scene tagliate. L'industria cinematografica aveva inoltre forti motivazioni economiche per volersi rifare un'immagine, in quanto doveva conformarsi agli standard auspicati da Wall Street (la cui entrata sulla scena imprenditoriale del cinema era stata alquanto autorevole) in modo da finanziare le tecnologie del sonoro e l'espansione delle catene di sale.Si giunse in questa fase (1929-30) all'elaborazione del Production Code o Codice Hays, che collegava le pratiche censorie e il sapere sociale sul cinema a una base etica e ideologica. La storia del Codice ha per protagonisti, oltre ovviamente a Hays, l'editore cattolico Martin Quigley, padre Daniel Lord, prete cattolico consulente a Hollywood in materia religiosa, e gruppi protestanti come la Church and Drama Association (CDA), del reverendo George Reid Andrews. Il Codice Hays nacque dunque sia per motivazioni interne alla MPPDA, costituendo un'evoluzione delle precedenti liste di divieti, sia per pressioni esterne, in prevalenza cattoliche: il testo di Lord e Quigley costituì infatti The reasons supporting the Code mentre la parte più tecnica, cioè il Codice vero e proprio, ricalcava da vicino i preesistenti '13 punti' e i Don'ts.

Il Codice Hays

La MPPDA promulgò il Codice Hays il 31 marzo 1930. Il testo comprendeva due sezioni: The Code (articolazione pragmatica del modello di autocensura) e The reasons (presentazione in chiave etico-sociologica). Crimine e sesso erano le aree più articolate, mentre la violenza non sembrava provocare grande allarme. Rispetto al crimine, il principio base recitava: "I reati contro la legge non verranno mai presentati in modo da provocare simpatia nei riguardi dei comportamenti contro la legge o la giustizia, o in modo da ispirare un desiderio di imitazione". Si prescriveva quindi: "Non si devono descrivere dettagliatamente i metodi di furto, rapina, furto con scasso, attentati dinamitardi contro treni, miniere, edifici, ecc.". La preoccupazione maggiore sembrava essere infatti quella di scongiurare l'emulazione; in particolare, rispetto ai film di gangster, nell'applicazione del Codice, si proponeva la necessità di punire il criminale (moral compensation), facendolo morire tragicamente negli ultimi metri di pellicola, per dare una chiara indicazione di ordine sociale.

La regolamentazione della presentazione sullo schermo dei rapporti sessuali ha suscitato in seguito l'ironia dei lettori più sofisticati; in effetti le prescrizioni del Codice erano un po' troppo insistite per essere prive di malizia bigotta. Nello specifico il Codice prescriveva:"Sesso. La santità dell'istituzione del matrimonio e della famiglia deve essere sostenuta. Il cinema non deve mostrare alcuna forma degradata di relazione sessuale come se fosse comunemente accettata.

I. L'adulterio, in qualche caso elemento essenziale alla trama, non deve essere trattato in modo esplicito o suggestivo, né giustificato.

II. Scene passionali […]. Baci eccessivi o lascivi, abbracci lascivi, posture e gesti allusivi non devono essere rappresentati.

III. Seduzione e stupro non devono essere altro che suggeriti, solo quando sia essenziale alla trama e anche in questo caso non devono essere mostrati esplicitamente […].

IV. La perversione sessuale e ogni riferimento ad essa sono proibiti.

V. La tratta delle bianche non deve essere mostrata.

VI. Le relazioni sessuali fra bianchi e neri sono proibite.

VII. L'igiene sessuale e le malattie veneree non sono argomenti adatti allo schermo.

VIII. Le scene di parto effettive o in silhouette non devono mai essere mostrate.

IX. Gli organi sessuali dei bambini non devono mai essere mostrati".

In altre sezioni specificava:

"Costumi. Il nudo integrale, sia esso effettivo o mostrato in silhouette, ed ogni riferimento lascivo e licenzioso ad esso da parte di altri personaggi del film, non è mai ammesso.

Danze. Sono vietate le danze che rappresentino atti sessuali o posizioni indecenti".

Sotto la voce Ambienti il Codice si soffermava su un unico locale, la camera da letto, ma senza quelle ridicole imposizioni (come i letti gemelli o la regola che le coppie a letto dovessero avere almeno un piede appoggiato al pavimento) di cui si è favoleggiato in seguito. Il testo diceva semplicemente: "Le scene che si svolgono in camera da letto devono essere trattate con buon gusto e delicatezza", aggiungendo, nelle Reasons supporting the Code: "Certi ambienti sono così strettamente associati alla vita sessuale o al peccato sessuale da imporne un uso estremamente limitato".

Il Codice Hays era frutto di un processo di mediazione: tra l'industria e i riformatori, tra la mentalità wasp benpensante e quella cattolica (ed ebrea) delle forze sociali emergenti. Esso interveniva a sostegno di standard ideologici duramente messi alla prova dalla Grande depressione, che, a causa della disoccupazione, intaccò le fondamenta stesse della famiglia patriarcale americana, già indebolite dall'urbanizzazione.

Nel corso degli anni Trenta il sistema americano di autocensura si diffuse, assieme ai popolarissimi film hollywoodiani, anche all'estero, influenzando i modelli di intervento censorio, come dimostrano le decisioni prese in merito o le liste degli argomenti censurabili in Italia e in altri Paesi europei, o i giudizi del Centro cinematografico cattolico.

L'applicazione del Codice

La stesura del Codice non placò l'opinione pubblica più conservatrice, anche perché il meccanismo di applicazione era debole: nonostante l'obbligo di sottoporre le sceneggiature allo Studio Relations Department, prevalevano ancora i compromessi. Dal 1930 al 1934, durante l'amministrazione di Joy prima, e poi di James Wingate, i produttori cercarono di strappare ai censori (che erano dei loro impiegati) le maggiori concessioni possibili, dato che, nella fase acuta della Depressione, film con sesso, violenza, gangster e mostri godevano di grande popolarità. Il Codice restò quindi sostanzialmente inapplicato.

Nel 1932, davanti a un'ondata di prodotti cinematografici 'scandalosi', quaranta gruppi di pressione a struttura nazionale richiesero una regolamentazione federale del settore. Anche la Chiesa cattolica si mobilitò e nel 1933 promosse una campagna per la moralizzazione del cinema con il boicottaggio dei prodotti censurabili; a questo scopo istituì la Legion of Decency, cui aderirono una decina di milioni di persone. Servendosi della pressione economica del boicottaggio, la Legion costrinse l'industria a venire a patti, insistendo su un'efficace applicazione del Codice. All'interno della MPPDA il processo fu agevolato dalla firma dello Standard exhibition contract, che regolamentava i rapporti tra produttori-distributori ed esercenti. Nel luglio 1934 l'industria cinematografica istituì, sotto la direzione del cattolico Joe Breen, la Production Code Administration (PCA), chiamata a gestire l'applicazione del Codice. Secondo questa decisione, le compagnie appartenenti alla MPPDA (ovvero le otto maggiori case di produzione) non potevano distribuire film senza il sigillo di approvazione della PCA, perciò quelli che risultavano privi del visto di c. non potevano essere proiettati nel circuito di sale da loro controllato (cioè, la gran parte della prima visione). I film che eventualmente avessero violato le disposizioni del Codice sarebbero stati multati fino a 25.000 dollari; era prevista la possibilità di appellarsi, ma non più alla compiacente commissione dei produttori di Hollywood, bensì a un comitato di executive di New York.

Il sistema di classificazione per età

Negli anni Cinquanta l'avvento della televisione provocò una forte diminuzione degli spettatori del cinema, e Hollywood cominciò a sperimentare un cinema più 'adulto'; crebbe inoltre la distribuzione americana di film stranieri, dal Neorealismo al cinema svedese o francese. Nonostante le forti pressioni socio-culturali, il Codice non venne comunque modificato, anche perché la Legion of Decency, sulla spinta dell'anticomunismo cattolico della guerra fredda, riprese forza. Intervenne però a questo punto la sentenza della Corte Suprema del 1952, che poneva il cinema sotto la tutela del primo Emendamento; nel 1958 la stessa Legion of Decency fu costretta a rivedere i criteri di classificazione, formulando il concetto di 'vietato ai minori'.Il nuovo amministratore del Codice, Geoffrey Shurlock, un episcopale di origine inglese che dal 1954 aveva sostituito Breen alla guida della PCA, cominciò a pensare persino all'eliminazione del Codice: nei confornti di film come The children's hour (1961; Quelle due) di William Wyler e Advise and consent (1962; Tempesta su Washington) di Otto Preminger, che per la prima volta trattavano in modo esplicito di omosessualità, il Codice risultava del tutto esautorato. Per adattarsi alla nuova mentalità, nei primi anni Sessanta esso fu talmente stravolto da contenere ormai poco o nulla, mentre i film, per competere con il prodotto straniero e scavalcare la televisione, ricorrevano sempre più di frequente alla nudità e al sesso. Nel 1966 si procedette a un'ulteriore semplificazione del Codice; la PCA avviò inoltre un sistema di classificazione che segnalava i film più scabrosi con l'etichetta suggested for mature audiences, ma, come diceva il termine, si trattava soltanto di un suggerimento, mancando un meccanismo di imposizione legale, con multe o sanzioni.

La decisione di adottare un sistema di classificazione per età fu incoraggiata dalla sentenza della Corte Suprema del 1968, che auspicava l'adozione di criteri sistematici per la classificazione del pubblico. Il nuovo presidente della MPPA (Motion Picture Producers Association, sigla assunta nel secondo dopoguerra dalla MPPDA), Jack Valenti, dovette prima di tutto trovare un equilibrio tra gli interessi dei produttori e quelli degli esercenti, dato che, dopo la risoluzione del caso Paramount, che separava le sale dalle case di produzione, non vi erano più sovrapposizioni tra queste due categorie imprenditoriali e le loro necessità commerciali quindi divergevano. I produttori dovevano vedersela inoltre con un nuovo interlocutore, l'associazione dei distributori di film stranieri, l'International Film Importers and Distributors of America (IFIDA), interessata a tutelare la più ampia di-stribuzione dei propri sofisticati prodotti.

Nello stilare il sistema di classificazione si partì da un primo livello che comportava una proibizione, simboleggiata da una X, che non permetteva la visione di un film scandaloso ai minorenni; questo sistema, detto rating, venne inaugurato il 7 ottobre 1968. La vecchia PCA fu sostituita dalla MPPA Code and Rating Administration (CARA), che si rifaceva al nucleo del Codice Hays, proponendo 11 standard relativi a violenza, comportamento criminale, sesso illecito, bestemmia, aberrazioni sessuali e crudeltà verso gli animali. La classificazione era tarata a partire da ciò che i giovani non potevano vedere, contrassegnato dalla X, corrispondente alla formula italiana 'vietato ai minori di 16 anni'; la G indicava general audiences, cioè il cattolico 'per tutti', la categoria più ampia; M voleva dire suggested for mature audiences, quindi limitato agli adulti e adolescenti maturi; R restricted, cioè vietato ai minori di 16 anni, che avrebbero dovuto essere accompagnati da un adulto. Negli anni Settanta la M è stata sostituita da PG (parental guidance), con l'ulteriore aggiustamento del PG13 introdotto dopo le proteste per l'eccessiva violenza di Indiana Jones and the Temple of Doom (1984; Indiana Jones e il tempio maledetto) di Steven Spielberg. Il sistema dei ratings mantiene una forza di pressione autocensoria sui produttori, perché i film che non ricevono un G o almeno un PG, subiscono una contrazione di pubblico proprio in quelle fasce giovani, risultate i consumatori più voraci dell'attuale cinema statunitense. Rispetto al Codice, questo sistema funziona con minore prevedibilità e con un impatto inferiore sul prodotto, in quanto non vi sono criteri espliciti di classificazione; la sua applicazione è elastica, al punto che, se scontento del rating ricevuto, un produttore può fare appello alla CARA oppure tagliare il film e sottoporlo di nuovo alla commissione.Il Codice continua quindi a essere in funzione agli inizi del 21° sec. anche se in versione assai ridotta; è rimasto comunque nel cinema americano il suo imprinting, un moralismo edificante, formalizzazione del progetto ideologico del cinema americano, che intende rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile.

Bibliografia

H.J. Forman, Our movie made children, New York 1933.

The movies on trial, ed. W. Perelman, New York 1936.

O. Martin, Hollywood's movie commandments, New York 1937.

R. Moley, The Hays Office, Indianapolis-New York 1945.

W.H. Hays, The memoirs of Will H. Hays, New York 1955.

I.H. Carmen, Movies, censorship, and the law, Ann Harbor 1966.

G.C. Gardner, The censorship papers: movie censorship letters from the Hays Office, 1934-1968, New York 1987.

Tra i materiali recenti sul codice Hays:

L. Leff, J. Simmons, The dame in the kimono: Hollywood, censorship, and the production Code from 1920 to the 1960s, New York 1990.

L. Jacobs, The wages of sin: censorship and the fallen women cycle, 1928-1942, Madison 1991.

Prima dei Codici 2. Alle porte di Hays, a cura di G. Muscio, Milano 1991.

C. Lyons, The new censors: movies and the culture wars, Philadelphia 1997.

R. Vasey, The world according to Hollywood 1918-1939, Exeter 1997.

Sul ruolo dei cattolici:

P. W. Facey, The Legion of Decency: a sociological analysis of the emergence and development of a social pressure group, New York 1974.

J. Skinner, The cross and the cinema: the Legion of Decency and the National Catholic Office for Motion Pictures, 1933-1970, Westport (CT) 1993.

G. Black, Hollywood censored: morality codes, Catholics, and the movies, Cambridge 1994.

F. Walsh, The Catholic Church and the motion picture industry. Sin and censorship, New Haven 1996.

CATEGORIE
TAG

Salò o le 120 giornate di sodoma

Ministero della cultura popolare

Repubblica federale tedesca

Ferdinando maria poggioli

Industria cinematografica