CERVANTES SAAVEDRA, Miguel de

Enciclopedia Italiana (1931)

CERVANTES SAAVEDRA, Miguel de

Mario Casella

Nacque in Alcalá de Henares da Rodrigo Cervantes e da Leonor de Cortinas nel 1547, forse nel giorno dedicato al santo del suo nome (29 settembre), e vi fu battezzato, il 9 ottobre seguente, nella chiesa di Santa María la Mayor. Morì a Madrid il 23 aprile 1616. Della sua vita si possono segnare soltanto i momenti salienti: vita di travaglio, consumata tra vicende avverse, nell'assillante lotta per l'esistenza e in vane aspirazioni verso miraggi ideali. Ne rimase temprata la segreta disciplina del suo animo e ne fu nobilmente foggiata la materia umana della sua arte. Dolorose esperienze lo provarono sin da fanciullo. Suo padre, medico pratico senza diploma, lo trasse dietro di sé insieme con la numerosa famiglia nelle sue peregrinazioni da Alcalá de Henares a Valladolid (1554), da Madrid (1561) a Siviglia (1564-65) e quindi nuovamente a Madrid (1566-68). Giovinezza errante, che allargò gli orizzonti della sua fantasia e la liberò ai primi voli letterarî quando, a Valladolid o a Madrid, poté ammirare "il grande Lope de Rueda", delle cui rappresentazioni teatrali parla con entusiasmo nel prologo alle sue Commedie. Intorno agli studî giovanili si va per congetture. Pare abbia seguito i corsi pubblici che don Juan López de Hoyos aveva iniziato (29 gennaio 1568) nello Studio di Madrid. Nel volume che questi compilò a commemorare Isabella di Valois, terza moglie di Filippo II morta il 3 ottobre 1568, il C. vi porta il contributo di un sonetto di stampo petrarchesco, quattro lacrimose redondillas a "colores retóricos" e un'elegia. Di questi primi esordî null'altro sappiamo. Ma la varia e larga cultura che il C. possiede, di poesia antica e moderna, di lettere spagnole e italiane, comunque si sia formata, o in patria o fuori, ha il carattere personale e il tono fondamentale della sua arte. Il naturalismo e lo stoicismo del secolo, insieme con le inquietudini psicologiche del Rinascimento, vi stanno alla base, individuati e realizzati in originali figurazioni fantastiche, che a volta a volta si colorano al riflesso della sua anima appassionata. La dimora in Italia fu senza dubbio proficua al suo svolgimento spirituale, anche se nella fatica delle armi si dispersero i primi inquieti fantasmi letterarî. Nella dedica ad Ascanio Colonna, abate di Santa Sofia, che il C. premise alla Galatea, ricorda di aver servito a Roma, come "camarero", il cardinale Giulio Acquaviva. Forse le loro prime relazioni si strinsero a Madrid, dove questi (13 ottobre-2 dicembre 1568) era stato inviato da Pio V per presentare a Filippo II le condoglianze per la morte del principe Don Carlos: o forse il C. entrò al suo servizio a Roma, dopo la nomina a cardinale (17 maggio 1570), quando già si trovava in Italia attrattovi da speranze di fortuna. Comunque, il C. era a Roma sulla fine del 1569; e lo attesta un documento ufficiale (22 dicembre) che, a richiesta di suo padre, comprova la sua nascita legittima e la purezza di sangue cristiano negli ascendenti. Negli ultimi mesi del 1570 entrò soldato nell'esercito che Marcantonio Colonna organizzava contro i Turchi. L'anno dopo era nella compagnia del capitano Diego de Urbina, appartenente al reggimento di Miguel de Moncada. A bordo de La Marquesa, sotto il comando del capitano Francisco de San Pedro (squadra Doria), il C. salpò da Messina (16 settembre) con la flotta di Giovanni d'Austria, e prese parte (squadra Barbarigo) alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Sebbene febbricitante volle combattere e, ai fianchi della sua galera, su un battello con dodici uomini ai suoi ordini, si lanciò nella mischia. S'ebbe due ferite d'archibugio al petto e un'altra alla mano sinistra, che gli rimase rovinata per sempre. Ricordo di sangue e di gloria, che lo esalterà sulle oscure e mediocri vicende della sua umile vita. A Messina, dove la flotta fece ritorno (30 ottobre), trascorse la convalescenza. Non appena guarito entrò (29 aprile 1572) nel reggimento di Lope de Figueroa, nella compagnia di Manuel Ponce de León. Partecipò alla spedizione di Corfù, all'assedio di Navarino (luglio-agosto 1572), all'occupazione di Tunisi (10 ottobre 1573) e al tentativo di liberare la Goletta (1574). La ventura delle armi gli falliva a poco a poco correndo le guarnigioni d'Italia: a Napoli (1573-74), a Palermo (1574) e di nuovo a Napoli (1575). Come qui giunse Giovanni d'Austria (20 giugno 1575), egli ottenne di passare in Spagna per conseguire miglioramenti di carriera. Da lui e da Don Carlos de Aragón, duca di Sessa, viceré di Sicilia, s'ebbe lettere di raccomandazione per il re. Ma la sorte contraria lo portò verso nuove amarezze. All'altezza de Les saintes Maries, presso Marsiglia, la galera Sol, dove egli si trovava col fratello Rodrigo, fu catturata da corsari barbareschi guidati dal rinnegato albanese Arnaute Mamí (26 settembre 1575). I due fratelli furono tratti in prigionia ad Algeri. Schiavo di un altro rinnegato, il greco Alí Mamí, che lo credette personaggio d'importanza per le commendatizie trovategli indosso, il C., che già aveva tentato la fuga, fu posto sotto vigilanza speciale. Nella solitudine dell'esilio, nella continua esperienza del dolore, nel dramma della sua schiavitù, che più tardi rivivrà nelle sue opere come narrazione episodica o commedia o novella, egli tornò alla poesia. Scrisse due sonetti all'italiano Bartolomeo Ruffino (1577). La somma inviata dai suoi genitori, per mezzo di due religiosi dell'Ordine della Mercede (primavera del 1577), servì soltanto a riscattare suo fratello Rodrigo. A lui che tornava in patria egli affidò un'epistola in terzine per il segretario di Stato Mateo Vázquez: un appello in nome del suo passato di combattente, un'esortazione per una spedizione su Algeri, covo di pirati e barbara prigione di cristiani. Un secondo tentativo di fuga (settembre 1577) fallì. Portato in giudizio e minacciato di morte, si conquistò col suo eroico contegno l'ammirazione del viceré d'Algeri Hassan Pascià, che lo comprò per cinquecento corone. Verso la fine del 1579 si preparò a evadere su una nave spagnola insieme con altri prigionieri. Il piano fu sventato dietro delazione. Tutto crollava intorno a lui. Frattanto in patria la sua famiglia si rivolgeva per soccorsi al re (marzo 1578); e raggranellava 280 scudi, che furono affidati per il riscatto a due Trinitari, Antón de la Bella e Juan Gil. Ad Algeri (29 maggio 1580) essi trattarono con Hassan Pascià, che si tenne fermo sulla richiesta di 500 scudi. La somma si raggiunse con la sottoscrizione di alcuni commercianti cristiani, quando già il C. insieme col suo padrone s'era imbarcato su una galera alla volta di Costantinopoli (19 settembre). Il 24 ottobre egli veleggiava verso la Spagna.

Dal dicembre del 1580, per circa sette anni, il C. dimora a Madrid. Ritornando in patria, egli portava con sé la luce del suo sogno di gloria: il combattente contro i musulmani e lo schiavo dei musulmani riviveva la sua vita nell'arte, al di sopra delle stanchezze, delle mollezze e delle tristezze di una nazione che riposava sui disseccati allori della sua potenza imperiale. Si dedicò al teatro; ma delle venti o trenta commedie recitate a Madrid dopo il 1583 non restano che la Numancia e El trato de Argel. L'una, classica nella sua stretta unità e vibrante di un esasperato amor patrio che piacque ai romantici: Numanzia contro Roma: la città ribelle, che la dominatrice sente di non poter vincere se non rifacendosi un'anima nuova; e il vano eroismo degli assediati e il cerchio fatale di un avverso destino che di giorno in giorno li stringe, finché la morte volontaria tra gl'incendî e la strage appare l'unica via dietro la libertà fuggente. L'altra commedia è tessuta di reminiscenze della schiavitù sofferta. Elementare ne è l'intreccio d'amore; ma il vero soggetto è l'antagonismo di due religioni e il conflitto morale di due razze: una trama d'idee, di passioni e di credenze, che s'allenta tragicamente nelle ultime scene di sangue. Ma le due commedie, che pur rivelano l'autore comico non ancora aduggiato dalla grande ombra di Lope de Vega, non sono che tentativi per fissare un sogno di poeta. Fuori della realtà, dopo averlo vagheggiato fors'anche nell'amara prigionia, quel sogno il C. lo ritrovò nel mondo fantastico, indeterminato e fluttuante del romanzo pastorale; e scrisse La Galatea. Mentre coi tipi del libraio Blas de Robles, cui era stata ceduta la proprietà (14 giugno 1584), se ne curava la pubblicazione (Primera parte de la Galatea, dividida en seys libros, Alcalá de Henares 1585), il C. sposava (12 dicembre 1584) Catalina de Salazar y Palacios di Esquivias (Toledo), molto più giovane di lui, perché non toccava ancora i vent'anni (1565-1626). L'amore gli fioriva nella vita, dopo che egli lo aveva nutrito di sogno celebrando Galatea, la pastora nata sulle rive del Tago. Il romanzo riprende un genere che Jorge de Montemayor, ispirandosi all'Arcadia del Sannazaro, aveva messo di moda in Spagna con la sua Diana enamorada (1542), dove gl'incanti della vita pastorale si fondono con le fantasmagorie dei poemi cavallereschi. Nell'arte del C., che ritorna alle forme primitive del romanzo pastorale, la Galatea è l'oggettivazione di un mondo ideale, dove l'amore è scienza che si teorizza al lume della filosofia platonica attinta dagli Asolani del Bembo o dai Dialoghi di Leone Ebreo. Gli amori di Elicio con Galatea costituiscono il filo conduttore del romanzo, continuamente interrotto e ripreso, tra suoni e canti e riti e discussioni, attraverso ad episodî che a lor volta s'intrecciano e si spezzano, svariando il tema e delibandolo a poco a poco con una lentezza che non sente urgenza né di tempo né di eventi. "Cosas sonadas y bien escritas para entretenimiento de los ociosos y no verdad", dirà del romanzo pastorale il C.; cioè poesia e non verità, universale poetico e non particolare storico, armonicamente rappresentato con la sottile preziosità di linguaggio che s'addice a un mondo irreale. Ed è qui appunto l'estetica di quel linguaggio che suonerà sulle labbra di Don Chisciotte quando, uscendo dalla realtà, penetrerà nel mondo che realizza il suo ideale.

Nella sua vita nomade, dolorosa e tormentata, il C. andò incontro al suo eroe. Ricaduto su di lui, alla morte del padre (1586), il peso di due sorelle della madre, la letteratura non gli bastò per il pane. Né dovette essergli di grande aiuto la dote della moglie: decorosa povertà, che traspare da un documento del 9 agosto 1586. Cercò allora ed ottenne la carica di incettatore di viveri per la "Invincibile Armata" e per le navi in rotta per le Indie, e si trasferì (1587) a Siviglia agli ordini di Diego de Valdivia e quindi di Antonio de Guevara. Vagabondaggio senza pace di villaggio in villaggio dell'Andalusia: lotta coi fornitori di grano ed olio e contese con gl'impresarî nel render ragione dei conti; funzioni contrastanti al suo spirito alieno da ogni forma di attività pratica e bisognoso di libertà. A Écija (1588) incorse nella scomunica per l'eccessivo zelo nel trarre provvigioni dai beni del Capitolo sivigliano. Stanco di un impiego che lo stremava, sperò di passare alle Indie, "il rifugio dei disperati di Spagna"; ma invano si diresse al re (21 maggio 1590). Le condizioni finanziarie si fecero anche più penose quando (agosto 1592) fu tenuto responsabile di alcune irregolarità contabili compiute da un suo dipendente.

Per far denaro s'impegnò (5 settembre 1592) con un capocomico, Rodrigo Osorio, a scrivere sei commedie a cinquanta ducati ciascuna; ma il compenso gli sarebbe stato pagato solo che risultassero le meglio rappresentate in Spagna. Non ne scrisse nessuna. Per cause ignote fu di lì a poco (19 settembre) tratto in prigione a Castro del Rio. La libertà, conseguita con un pronto giudizio di appello, lo ricondusse alla sua vita errabonda finché gli venne soppresso l'impiego. A Madrid (1594) s'ebbe allora dal Ministero delle finanze l'incarico di riscuotere certe imposte arretrate nel regno di Granata; e diventò collettore fiscale in nome del re, col bastone della giustizia, tra gente che si piegava forzatamente ai diritti della corona. Il fallimento di un banchiere di Siviglia, Simón Freire de Lima, cui il C. aveva rimesso una somma per l'erario, lo travolse. Ritenuto responsabile della perdita, dové sopperirvi di suo (21 gennaio 1597). La fiducia gli venne a mancare dall'alto. L'equivoco coloriva sinistramente la sua incapacità di rendere in buon ordine i conti. Gli s'impose (6 settembre 1597) di recarsi alla capitale per presentare giustificazioni. Risultarono insufficienti. Fu imprigionato. Dietro cauzione ebbe la libertà provvisoria (10 dicembre). Sospetto, perseguitato e condannato, perdette l'impiego; conobbe le amarezze di una povertà senza rifugi; visse anni oscuri in un silenzio famelico; e in quel silenzio, che sfugge ad ogni documentazione, scrisse le prime pagine del Don Quijote. I primi accenni sono nel Pastor de Iberia di Bernardo de la Vega; di lì si può arguire che il sesto capitolo era stato scritto innanzi il 1591.

A Valladolid ritroviamo il C. l'8 febbraio 1603. Dalla sua miseria vagabonda l'opera letteraria, dopo la Galatea, era affiorata sporadica e occasionale. Del 1591 è un romance incluso nella Flor de varios nuevos romances di Andrés de Villalba; del 1595, le premiate quintillas in lode di S. Giacinto a chiosa di una redondilla proposta per il certame poetico di Saragozza (7 maggio); del 1596, due sonetti: l'uno satirico sull'entrata del duca di Medina Sidonia in Cadice (luglio), quando ormai s'erano ritirati gl'Inglesi; l'altro in lode del marchese di Santa Cruz apparso nel Comentario en breve compendio de disciplina militar di Cristóbal Mosquera de Figueroa. Forse è suo il sonetto celebrativo a Hernando de Herrera (1597). In morte di Filippo II (1598) scrisse due sonetti e alcune quintillas; e per la seconda edizione della Dragontea (1602) di Lope de Vega un sonetto proemiale di lode. Tutta la sua attività era rivolta alla composizione del Don Quijote. Lope de Vega, che già forse ne conosceva il capitolo dove s'accenna al suo teatro (XLVIII), scriveva (14 agosto 1604) a un amico: "Muchos poetas hay en cierne, pero ninguno tan malo como Cervantes, ni tan necio que alabe á Don Quijote"). Battesimo anticipato del romanzo che uscì, con licenza ufficiale (20 setternbre 1604), cinque mesi dopo, presso Francisco Robles coi tipi di Juan de la Cuesta: La Primera parte del Ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha (Madrid 1605). Il successo si delineò rapido e grandioso. Nello stesso anno si moltiplicarono le edizioni: una seconda a Madrid, col privilegio esteso anche al Portogallo, e altre due a Valenza. Seguirono le edizioni di Bruxelles (1607); e cominciarono le traduzioni: inglese (Londra 1612), francese (Parigi 1614), italiana di Lorenzo Franciosini (Venezia 1622).

Nella semplicità della sua favola il capolavoro del C. non è che la narrazione delle avventure di Don Chisciotte: un nobiluomo della Mancia, che, perdutamente esaltato dietro le mirabili storie dell'antica cavalleria, si veste d'una sua vecchia e mal ridotta armatura e, a cavallo di un magro ronzino, il suo Ronzinante, lascia il suo villaggio per rinnovare le generose prodezze e le glorie dei cavalieri erranti. Da un oste che la sua accesa fantasia innalza a dignità di castellano, si fa armare cavaliere; quindi proclama signora de' suoi pensieri un'oscura contadina, Dulcinea del Toboso, cui il mondo, per la forza di lui, dovrà rendere omaggio. La sua vita errante s'inizia minacciando di morte un villano che frustava a sangue un ragazzo suo pecoraio; ma ne lascia peggiorate le sorti non appena egli s'è allontanato. A uno stuolo di mercanti impone di riconoscere, senza averla veduta, la incomparabile bellezza di Dulcinea. Triste avventura, perché ne esce pesto dalle legnate che gli sono somministrate senza risparmio. Un paesano lo ritrova e sul suo asino lo riconduce a casa, dove il curato e il barbiere, la governante e la nipote lo curano, tentando invano di stornarlo da' suoi propositi. A nuove avventure s'avvia insieme con Sancio Panza, un contadino che egli ha eletto a suo scudiero e che lo segue su un somarello col lontano miraggio di un'isola da governare. Chiuso nel suo sogno eroico, Don Chisciotte cammina per i penosi sentieri di una realtà che la sua fantasia continuamente idealizza e trasfigura. Così scambia mulini a vento per giganti smisurati; una signora biscaglina condotta dai servi a Siviglia, per una principessa prigioniera; branchi di pecore e di montoni per eserciti nemici; misere locande di campagna per castelli incantati, e le donnine che v'incontra per nobili dame; un notturno accompagnamento funebre, per il trafugamento di un cavaliere ferito; una catinella di barbiere, per l'elmo di Mambrino. Arditamente s'aderge a difensore di un gruppo di condannati alla galera e li strappa alle mani della giustizia; ma da loro, che si ribellano alle sue imposizioni cavalleresche, soffre maltrattamenti e spogliazioni. Tra le balze della Sierra Morena si ritira quindi in solitudine di vita penitente e invia per mezzo di Sancio una sospirosa lettera d'amore all'adorata Dulcinea. Ripercorrendo la via dei dolorosi ricordi, Sancio incontra il barbiere e il curato in cerca di Don Chisciotte. Egli li guida nel deserto romitaggio del suo padrone; da dove essi riescono con astuzie, ma sempre attraverso a nuove grandiose follie, a ricondurlo a casa ingabbiato su un carro da buoi.

Ma non si riduce a schema un'opera che in ogni parte è pregna di vita; imperniata tutta sull'irrisolubile dissidio dei due protagonisti: Don Chisciotte e Sancio: l'ideale e la realtà o, come allora dicevano le interpretazioni correnti della Poetica aristotelica, verità poetica o universale, l'uno, e verità storica o particolare, l'altro: l'uno e l'altro agenti fuori dell'armonia in cui la loro antitesi si compone, anzi inseriti nella "sacra verità della storia" in reciproca recisa opposizione. Il capolavoro del C. non si chiude affatto nel Don Chisciotte: l'eroe della perfettissima vita, che trasforma il mondo con la potenza della sua illusione e tutto conforma alla verità immutabile e profonda della sua coscienza; come non si chiude in Sancio Panza: la rude e aspra voce della realtà, che richiama alla terra gli spiriti saliti alle altezze inaccessibili del sogno. E neppure può ridursi a un'interpretazione conciliativa che neghi il fondamentale dissidio tra i due protagonisti, per riconoscere in essi i due dissimili aspetti di una stessa natura comica: Don Chisciotte, il sogno eroico, e Sancio, il sogno plebeo, perché il comico in tutto il romanzo è solo di situazione, e rifiorisce inesauribile sulla mutabile tangente dei due mondi opposti, in cui ciascuno dei due protagonisti vive, pensa e opera con la dignitosa serietà della propria natura. La grande originalità del C. sta nell'aver trasformato a rappresentazione artistica una satira letteraria; nell'esser disceso dalle discussioni teoriche, in cui s'impigliavano gli accademici letterati del suo tempo, alla realtà degli eterni valori umani, incarnandola in tipi in cu̇i ogni significazione astratta si risolve in una potente affermazione di vita. Le intenzioni letterarie del Don Quijote sono dichiarate nel prologo al romanzo "che è tutto una protesta contro i libri di cavalleria"; protesta indiretta, che traspare con maggiore evidenza nelle discussioni sui rapporti fra storia e poesia. Il problema, vivo nei commenti della Poetica di Aristotile, era stato aperto in Italia per armonizzare la falsità della fantasia poetica con la verità storica, ed era stato risolto facendo dell'arte un riflesso dell'assoluto, e i personaggi poetici non più che esemplari eterni, fuori della realtà e della storia. Spiritualmente Don Chisciotte vive infatti in una sfera superiore dove spariscono le opposizioni della realtà e dove la libertà si svolge senza limiti. È il perfetto eroe dei romanzi di cavalleria: personaggio essenzialmente poetico, ma tuttavia legato alla storia, immerso nella storia, da cui invano si sforza di uscire per affermare il suo mondo solitario. L'universale poetico si attua in lui, ma continuamente in urto con la verità minuta e particolare della storia; la quale, nella voce di Sancio, ha la parola dell'esperienza concreta. Sancio vive nella storia e l'accetta come è: impoetica e volgare, e non quale deve essere; cioè un mondo umano di piccole miserie e di gioie mediocri, di apparenze vagheggiate e di realtà patite; dove le delusioni inevitabili non hanno forti amarezze, perché i sogni si rinserrano entro breve orizzonte e trascorrono radendo la terra. Da questa antitesi fondamentale e costante, osservata in ogni particolare minimo e scrutata con lo sguardo ȧttento di chi la incide ma non la supera mai, scaturisce l'immortale ironia del C. E ne sono investite in pieno tutte le finzioni dei romanzi di cavalleria, calate dal loro cielo poetico nella mediocre realtà del mondo storico. Con la coscienza che nega la possibilità di superare l'intimo dissidio tra storia e poesia, tra Sancio e Don Chisciotte, il C. sorride serenamente. La sua umanità è in quel sorriso. Nell'ampio ritmo dell'arte egli insegue, in concordia discorde il sogno e la realtà, che mai s'erano armonicamente composti nel doloroso ritmo della sua propria vita.

Dalla sua casa di Valladolid insieme con la fìglia naturale Donna Isabella, vedova di Don Diego Sanz de Águila, con la sorella Donna Maria e la nipote Costanza, il C. seguiva la marcia trionfale del suo Don Quijote nel mondo. Ma pur lì volle colpirlo la sorte. Nella notte del 27 giugno 1605 un cavaliere navarrese, Don Gaspar de Ezpeleta, raggiunto forse dalla vendetta di un marito geloso, si trascinò mortalmente ferito presso la porta della sua abitazione. Lo soccorse la sorella del C.; ma il doveroso atto di pietà fu motivo di sospetto per la sbrigativa giustizia del tempo e portò all'arresto di tutta la famiglia. La loro innocenza fu presto riconosciuta, e il C. poté tornare al suo raccoglimento letterario. Le urgenze della sua povertà le dilazionava con anticipi (23 novembre 1607) sui proventi delle sue opere. Pura finzione legale deve essere quindi la firma che egli appose a malleveria della dote che Donna Isabella trasse con sé, andando sposa (8 settembre 1608) a Don Luís de Molina. Seguendo la corte, il C. passò da Valladolid a Madrid, e lì s'iscrisse (17 aprile 1609) alla Confraternita del Santissimo Sacramento. Per un momento il ritorno in Italia, incontro ai suoi primi sogni, gli sorrise nella fantasia quando Don Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos, fu nominato viceré di Napoli (17 maggio 1610). Di nuovo la speranza glì fallì. Si raccolse a scrivere la seconda parte del Don Quijote, e pubblicò le Novelas Ejemplares (Madrid 1613; traduzione ital. di Guglielmo Alessandro de' Novilieri Clavelli, Venezia 1626, e di Donato Fontana, Milano 1627). Sono dodici novelle stranamente dissimili fra loro: alcune di costume, altre di intrigo e d'avventura, altre di carattere; tutte difficilmente giustificabili secondo l'aggettivo che le qualifica per educative. Ma quell'aggettivo è un puro omaggio al formalismo moralistico penetrato nella letteratura dopo il Concilio di Trento. Lo spirito del C. vi si rivela intero anche là dove lo si può cogliere (attraverso la duplice redazione di El celoso extremeño) in atto di smorzare miracolosamente gli estremi ardori della passione sensuale. La morale naturalistica di cui è imbevuta l'anima sua, traspare tra i veli dell'ortodossia assoluta. È la morale dell'istinto che batte con insistenza alla porta dei sensi (El celoso extremeño), impulso oscuro del sentimento che determina cieche elezioni (La Gitanilla, La ilustre fregona), o misteriose attrazioni (La fuerza de la sangre, La española inglesa). Nello svolgimento dell'arte cervantina, le Novelas ejemplares costituiscono nel loro complesso una nota pittorica e coloristica. Non si scende mai in profondità; le motivazioni psicologiche sono per lo più esterne; la forza di costruzione armonica è scarsa; l'intreccio, quando s'intrica in gro vigli strani, non è mai giustificato da quel brivido tragico che ispira i mondi inverosimili; ma dovunque si sente la serena gioia del raccontare, e dovunque traspare la facilità di cogliere le luci e le ombre della vita e di incidere in pochi tratti espressivi i gesti e le anime., Il capolavoro di quest'arte impressionistica è Rinconete y Cortadillo: due ragazzi che l'istinto più che la sorte trae nei bassifondi di Siviglia, fra ladri e bari, fra accoltellatori e donne perdute, nel covo di Monipodio, il re della malavita. La meraviglia delle loro anime, che si aprono a quel mondo sinistro e oscuro con lo stupore di un'iniziazione, si riflette in una rappresentazione sobria e incantata, dove tutto assume aspetto solenne. Il picarismo e il realismo vi entrano come gusto del colore. Così ne La ilustre fregona, dove la vita ristretta di una locanda toledana, tra amori che vi si accendono e gelosie che vi fremono, è descritta con espansivo umorismo; così ne La Gitanilla, graziosa creatura che si profila, tra canti, suoni e balli, sullo sfondo della nomade vita zingaresca. L'ottimismo del C., che non comporta violenze e non serba rancori, lo si ritrova nel dialogo di due cani (El coloquio de los perros): l'uno che narra le sue lunghe esperienze e l'altro che le commenta. Scene brevissime e staccate: inquadrano tutta la società spagnola contemporanea entro la luce del buon senso: cioè la ironizzano con indulgenza bonaria.

Dove la naturale indulgenza del C. vien meno è nel Viage del Parnaso, già scritto nel 1613 e pubblicato l'anno dopo (Madrid 1614): critica mordace dei rimatori famelici e insolenti (la poetambre): i novatori che prendono d'assalto il Parnaso "con libros nuevos y con estilo nuevo". Vi sentiamo l'eco di risentimenti personali; vi troviamo il C. che si difende difendendo la propria arte. L'idea del poemetto è ripresa da Il viaggio di Parnaso (1582) di Cesare Caporali (1530-1601). Su nave costrutta di forme metriche, sotto la guida di Mercurio, il C. imbarca i migliori poeti di Spagna e li conduce in Grecia per soccorrere Apollo contro gl'innumerevoli aborti che si dicono poeti e che in nome della poesia vogliono occupare il Parnaso. In visione appaiono la falsa Poesia e la falsa Gloria che il C. contempla con lo stupore di un animo onesto; ma Apollo e Mercurio gli fanno intravedere la vera Gloria serbata a chi coltiva con animo puro la vera Poesia, orgoglio del cielo e della terra, datrice d'illusione e rivelatrice del bene che è diffuso in tutto l'universo. Il poemetto ha qua e là folgorazioni poetiche. Ma il tono della poesia del C. non è lì. Essa trova l'espressione propria nel motto satirico, nelle forme dei romances, nei versi intercalati nella prosa della Galatea, del Don Quijote e delle Novelas: ricami melodici su un sentimento già teso dalla narrazione: variazioni metriche in cui è sensibile l'influsso di Garcilaso.

Nel Viage del Parnaso il C. teorizza la propria arte come imitazione della natura: ricerca di armonia (consonancia) tanto nella rappresentazione del verosimile (posible) quanto nella rappresentazione dell'inverosimile (imposible); purché colto, questo, in modo tale da avvincere l'intelletto di chi legge, sì che tutto appaia in sé logico e conseguente. Posizione chiusa nell'ambito dell'estetica del Rinascimento: razionalismo che sta a fondamento della satira lanciata contro i romanzi cavallereschi e che spiega l'atteggiamento critico assunto dal C. di fronte al teatro contemporaneo. Rievocando nel prologo alle sue Ocho comedias y ochoentremeses nuevos nunca representados (Madrid 1615) i giovanili successi teatrali, il C. dice d'aver lasciato "la pluma y las comedias" quando entrò in campo "el monstruo de naturaleza, el gran Lope de Vega y alzóse con la monarquía cómica". Profonde divergenze teoriche lo facevano un suo mal celato oppositore. Il C. perseguiva nel teatro quella trasparente razionalità cui era portato da natura e dalla sua estetica, e che lo tenne sempre di qua dall'arte. Le sue commedie non reggono a un esame spassionato. Scene slegate, dove la semplicità dell'azione è perturbata da elementi di un comicismo inferiore sono i Los baños de Argel e La Gran Sultana. Esile trama che si svolge con varietà d'incidenti e non si raccoglie attorno a un centro vitale, è quella di El gallardo Español, o del gioioso intrigo de La enretenida o de La casa de los celos, la più strana delle finzioni cavalleresche. Talora, come in Pedro de Urdemalas, l'elemento comico troppo discorda dall'elemento romantico e non consente si sviluppi tutta la potenza drammatica del motivo ispiratore. Il C., desideroso di successo, piegò, da ultimo, verso la "comedia nueva" al modo di Lope de Vega, e compose (dopo il 1609) El rufián dichoso: fray Cristóbal de Lugo, il santo passato dai trivî di Siviglia alle vie del cielo. Non l'esaltarono però i rapimenti mistici; l'ispirò invece la malavita sivigliana in scene sorrette da quell'equilibrio realistico che caratterizza i suoi Entremeses. Qui davvero ritroviamo le impronte del suo ingegno, il suo nativo umorismo, e il suo fantastico trasvolare di impressione in impressione. Ci passano dinnanzi agli occhi le turbe dei paesani che si perdono nelle fittizie visioni del Retablo de las maravillas; gl'infelici che sciorinano le miserie della loro vita matrimoniale in presenza del Juez de los divorcios; il soldato che contende al sagrestano i begli occhi di una servetta ne La guarda cuidadosa; il condannato alla forca che parla, con fredda compostezza, di sangue e di corda all'amante e agli amici ne La cárcel de Sevilla: spettacolo vario di gente minuta, osservato con occhi pieni dell'aria del luogo in cui essa vive: figure coltre nella mobilità della loro natura, senza complicate ambagi di sentimento o di pensiero.

Pubblicando le Novelas ejemplares, il C. preannunziava "dilatadas las hazañas de Don Quijote y donaires de Sancho Panza", e già ne stava scrivendo il quarantesimo nono capitolo quando apprese che, sotto il nome del Licenciado Alonso Fernández de Avellaneda natural de la Villa de Tordesillas, veniva stampato ìl Segundo tomo del Ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha (Tarragona 1614). Chi sia l'autore che si celò sotto tale pseudonimo non sappiamo con certezza. Nulla ne sapeva lo stesso C.; il quale, vedendo profanata la costruzione ideale del suo romanzo s'affrettò a portarlo alla conclusione: Segunda parte del Ingenioso cavallero Don Quixote de la Mancha por M. de C. S. (Madrid 1615; traduzione francese, Parigi 1625; italiana di L. Franciosini, Venezia 1625).

È la terza campagna di Don Chisciotte. Al Toboso, dove s'avvia per prendere gli auspici dalla sua donna, egli vede ridevolmente accolti i suoi ossequî da una zotica contadina in cui l'incomparabile Dulcinea, al dire di Sancio, è stata diabolicamente mutata. Bisogna disfare l'incanto; e Don Chisciotte s'avvia verso Saragozza; passa attraverso la sassaiola di una brigata di guitti che egli disturba, e vince in singolar tenzone il Cavaliere degli Specchi, il baccelliere Carrasco che, così travestito, intendeva per forza d'armi ricondurlo a casa. Quindi affronta nella gabbia un pacifico leone e si noma Cavaliere dei Leoni. È ospite del Cavaliere dal Verde Gabbano; scende nella misteriosa grotta di Montesino e passa d'una in altra avventura (fuga dinnanzi ai contadini eccitati dai ragli di Sancio, impeto guerresco contro il casotto di un burattinaio, viaggio sull'Ebro nella nave incantata), finché viene accolto in un castello, dove il duca, la duchessa, le damigelle e i servi si prendono spasso di lui e di Sancio, creato governatore dell'isola Baratteria. Le amarezze si succedono alle amarezze. Il Cavaliere e lo Scudiero si rimettono in campagna e sono fatti prigionieri dal bandito Rocco Guinart, che li trae a Barcellona, dove sono ricevuti con ostentata festosità e fatti segno a burle feroci. Finalmente Don Chisciotte, vinto dal Cavaliere dalla Bianca Luna, che è lo stesso Carrasco, è obbligato a ritornare al suo borgo. Il suo bel sogno eroico è infranto; la realtà lo riprende: la realtà disincantata e triste, dinnanzi alla quale è un rifugio la morte.

La seconda parte del Don Quijote chiarisce la prima nel suo intimo significato di critica letteraria. Prima che l'eroe mancego si avventuri per l'ultima volta, egli apprende che il racconto delle sue prime imprese e delle solenni bastonature ricevute è ormai fissato, insieme con le infinite disgrazie di Sancio, nella più "nuda verità, senza ammanto di lusinghe", e corre per il mondo, "storia trita, letta e risaputa da gente d'ogni specie". Sul suo sogno eroico, sulla poesia della sua vita errabonda, Don Chisciotte vede lo sguardo maligno e inesorabile della storia. Le ragioni dell'ideale, obliterate per quelle della realtà, diventano, nelle sue segrete confessioni con Sancio, sincerità di dolore e di pianto. La storia, nel cui ritmo avrebbe potuto realizzarsi, fuori di ogni soggettività astratta, la sua inflessibile volontà, la storia diventa in questa seconda parte del romanzo la persecutrice ostinata di Don Chisciotte. Dovunque lo porti il suo Ronzinante, dovunque egli si sforzi con fede infrangibile di accreditare e affermare il suo ideale, la storia ormai lo precede, lo soffoca, lo pone fuori della vita e lo fa ludibrio ridicolo di villani e di servi, di duchi e di banditi. Don Chisciotte, come egli dice, muore vivendo. La sua figura austera di folle inconsapevole perde i suoi lineamenti primitivi. La maschera comica, che copriva la sua occulta saggezza, si trasforma in maschera grottesca. La fede appassionata che trasfigura il mondo della realtà è ormai aperta mania. La sua felice demenza è ridotta alla disillusa malinconia del buon senso dalla logica della comune saggezza, che s'impersona nel baccelliere Carrasco. É sempre lo stesso spirito cervantino: ironia rifiorente sulla trama logica di un pensiero che si compiace dei contrasti, e li affronta e li acutizza sino all'inverosimile. Orientata così verso i due opposti poli, il reale e l'ideale, l'arte si dispiega nel Don Quiote in un delizioso disordine romantico, e ha la sfrenata libertà dei romanzi di cavalleria di cui si fa satira e nel tempo stesso i limiti di una fantasia che aderisce strettamente alla vita. Dietro le cavalcate di Don Chisciotte si scopre il piccolo mondo di Castiglia: contadini, pastori, barrocciai, guitti erranti, osti, ladri, serve di locanda e donnine allegre: un mondo vario che entra nella languente letteratura colta con l'anima squisitamente popolana di Sancio e col respiro di una poesia nuova che, a dispetto dell'aristotelismo idealista, prospera rigogliosa sotto la luce eguale e calma della storia. C'è tutta la Spagna contemporanea, fuori della boria mondana, della pompa aristocratica e dello scetticismo elegante delle classi elevate: l'umile vita di popolo tra odore di terra e di lavoro: seria, superstiziosa, comica, triviale, sentimentale e buffonesca: colta nei suoi aspetti caratteristici e sublimata dall'arte a quella vita che non ha più il colore del suo tempo, perché non conosce confini.

Il C. conobbe le regole aristoteliche e visse le inquietudini critiche del suo tempo, ma senza trasporto di passione filosofica: da letterato, per un intimo bisogno di chiarezza teoretica nel conciliare il mondo ideale col mondo reale. Pure la gioia di sequestrarsi nella solitudine della vita fantastica era così prepotente in lui, che l'ultimo suo sforzo fu di calare nell'arte la verità universale poetica che aveva contemplato nella Galatea e dietro il folle sogno del suo Don Chisciotte. Di qui l'ultimo romanzo, composto parallelamente alla seconda parte del suo capolavoro e pubblicato postumo: Los trabajos de Persiles y Sigismunda, historia setentrional (Madrid 1617; traduzione italiana di Francesco Ellio, Venezia 1626). Le peripezie di Persile, erede del regno di Tule, e di Sigismonda, figlia del re di Frislanda: due giovanetti innamorati, che sotto finto nome si avventurano nelle regioni dell'Europa settentrionale, errabondi in plaghe di neve e di gelo, prigionieri dell'isola barbara, naufraghi sul mare ignoto, scampati tra fatiche, rapimenti e stenti a mille pericoli, finché sbarcano a Lisbona; di dove, attraverso la Spagna, la Provenza e l'alta Italia giungono a Roma e vi celebrano le nozze benedette. Sono figure smarrite sullo sfondo di eventi grandiosi che dànno la misura del loro animo e del loro puro amore: ideali di un sogno che splende in tenebrose lontananze e che s'avviva quanto più l'ombra s'incupisce intorno. L'azione è frastagliata e rifranta da episodî che si svolgono con eccessiva autonomia, ma che si vanno materiando di realtà a mano a mano che dalle zone di una geografia fantastica si procede verso le regioni illuminate dalla storia. Il romanzo, informato agli spiriti ortodossi della Controriforma, doveva, nel pensiero del C., competere con Eliodoro, di cui tiene a modello, per la tecnica e la linea generale del racconto, Gli amori di Teagene e Cariclea; ma l'arte vi fiorisce sporadicamente non appena si disegni la nota coloristica di costume o vi trascorra la vena di un sottile umorismo: proprio là, dove meno converge quel signorile preziosismo stilistico che si fa talora tormento concettistico e verbale; là, dove l'astratta umanità dei caratteri s'individua, fuori di quella luce generica in cui il C. dissolse l'ultimo suo sogno romantico. "Ieri mi si dette l'estrema unzione... Il tempo passa, i dolori crescono, la speranza diminuisce", scriveva il 19 aprile 1616 al conte di Lemos, dedicandogli il Persiles y Sigismunda. Quattro giorni dopo a Madrid, si spense. Tratto di casa a faccia scoperta, come membro del Terzo Ordine cui s'era iscritto nel 1613, fu sepolto (24 aprile) nel convento delle Trinitarie di Calle de Cantarranas (oggi Lope de Vega). La sua tomba non fu più identificata.

Edizioni: Obras completas de M. de C. C., ed. J. E. Hartzenbusch, Madrid 1863-64; ed. R. Academia Española, Madrid 1917-23; ed. R. Schevill-A. Bonilla y San Martín, Madrid 1914-23; Don Quijote, ed. e comm. da D. Clemencín, Madrid 1833-39, da C. Cortejón, Madrid 1905-13, da F. Rodríguez Marín, Madrid 1911-13 (ed. critica), 1916.

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