Pascarèlla, Cesare

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Poeta dialettale (Roma 1858 - ivi 1940). Fra i più significativi esponenti dei «XXV della Campagna Romana», P. dal 1930 fece parte dell'Accademia d'Italia. A consacrare definitivamente la sua fama di poeta furono i 25 sonetti di Villa Gloria, che meritarono il favore della critica e affermarono la profonda originalità la natura epica dei suoi versi. P. non fu un poeta epigrammatico e riuscì benissimo a raccontare senza nulla perdere nell'intensità del tono lirico. È la sua stessa visione che, a differenza di quella di G. G. Belli, tende a rappresentare lo svolgimento nel tempo, e di qui, oltre che dalla perfetta capacità di rivivere la situazione quale a lui apparve, derivano l'intima vitalità e la singolare efficacia dei suoi versi. Del dialetto, inoltre, egli non fece un fine a sé stesso: nella parlata romanesca trovò soprattutto un elemento intimamente congeniale alla sua sensibilità. Perciò nella sua poesia il dialetto ha tutta l'immediatezza dell'espressione naturale, nonostante il lunghissimo lavoro a cui, con senso critico molto sottile, P. assoggetta i suoi versi, portandoli a un'aderenza perfetta ai minimi moti del suo animo, a un'ampiezza, dignità ed espressività di suono, che pongono tutte le varie collane di sonetti al livello della migliore poesia dialettale italiana.

Vita e opere

Si fece dapprima conoscere come pittore e disegnatore, specialmente animalista, fra i più significativi del gruppo dei «XXV della Campagna Romana», entrando in contatto con gli artisti e letterati che, intorno al 1880, facevano capo all'editore A. Sommaruga e al Capitan Fracassa. E in questo giornale cominciò a pubblicare i suoi sonetti in dialetto romanesco, fra cui quelli formanti i poemetti Er morto de campagna (1881) e La serenata (1882), che comprendono, in una sintesi vigorosa, già tutti gli elementi della sua poesia: in particolare la tendenza a epicizzare il fatto di cronaca e il quadro d'ambiente, non al modo di Belli, da cui P. pur prende le mosse, ma secondo un senso romantico della storia che gli veniva da Carducci, affidando il racconto a un popolano trasteverino che ne è il protagonista o il testimone. Seguì nel 1886 Villa Gloria, poema in 25 sonetti, rievocante l'eroica impresa dei fratelli Cairoli. Grandemente elogiato da Carducci, esso consacrò la sua fama di poeta. Ma la vena umoristica, che non è meno autentica, in P., di quella triste o tragica, gli dettò, alcuni anni dopo (1894), i sonetti, sempre articolati in poema, di La scoperta de l'America, dove le avventure di Colombo vengono narrate dal consueto aedo popolare con tale partecipazione, che quella storia remota diventa storia d'oggi e quasi sua vicenda personale. E dopo la Scoperta, che per l'equilibrio dei vari elementi e la maggiore rispondenza fra contenuto e forma dialettale è da considerare la sua opera più felice, P. attese, per tutto il rimanente della vita, alla composizione di un vasto poema sulla storia d'Italia (Storia nostra), dalla fondazione di Roma all'unità, che però lasciò incompiuto e lacunoso (267 sonetti dei 350 previsti; pubblicati postumi nel 1941). Esso riprende l'intonazione epica di Villa Gloria, ma l'ispirazione stanca e intermittente rende più che mai palese la necessità, insita in tutta la poesia di P. - per la sua stessa natura drammatica e parlata - di essere integrata dalla recitazione (e infatti P., ottimo dicitore, amò spesso recitare in pubblico i propri versi). Egli scrisse anche poesie in lingua: bozzetti, diari di viaggio, ecc., ricchi di tipi, scene e notazioni di paesaggio assai belli. Le sue opere, che, lui vivente, ebbero numerose edizioni, sono ora raccolte nel vol. I sonetti - Storia nostra - Le prose (1955). Nel 1961 sono stati pubblicati gli inediti, vivaci Taccuini di viaggi in India (1885), in città italiane (1895), in Argentina (1899-1900), in Abissinia (1902).

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