CHAPLIN, Charles Spencer

Enciclopedia del Cinema (2003)

Chaplin, Charles Spencer (detto Charlie)

Guido Fink

Regista e attore cinematografico inglese, nato a Londra il 16 aprile 1889 e morto a Vevey (Svizzera) il 25 dicembre 1977. Fra gli artisti più geniali del Novecento, C. è senza alcun dubbio quello cui maggiormente si deve la trasformazione del cinema da semplice spettacolo o 'curiosità' a nuovo linguaggio, in grado di raccontare e di esprimere situazioni e vicende di grande e profonda complessità. La sua personalità e la sua opera, che hanno segnato più di cinquant'anni di storia del cinema, anche se soggette ‒ durante e dopo la sua vita ‒ a drastici ridimensionamenti e a veri e propri tentativi di linciaggio morale e artistico (specie nella sua patria di adozione, gli Stati Uniti), hanno resistito a revisioni e liquidazioni sommarie, a contrapposizioni forzate con altri grandissimi comici precedentemente dimenticati (per es. Buster Keaton), e a certe discutibili edizioni sonorizzate dei suoi capolavori di cui C. stesso fu responsabile negli ultimi decenni della sua vita. Nel 1972 gli venne tardivamente assegnato un Oscar per il suo incalcolabile contributo all'arte cinematografica.

Figlio di due attori privi di fortuna, cresciuto nei sobborghi londinesi, C. perse il padre alcolista all'età di cinque anni e, con il fratello Sidney (1885-1965), venne mandato per due anni in un orfanotrofio. Tornato dalla madre, cominciò a lavorare con lei comparendo in alcuni spettacoli e svolgendo, nel contempo, numerosi altri lavori. Tra il 1902 e il 1906 frequentò saltuariamente la scuola, senza lasciare tuttavia il teatro fino a quando riuscì a entrare con il fratello nella compagnia di Fred Karno, con la quale nel 1910 si esibì a Parigi e negli Stati Uniti, dove sarebbe nuovamente tornato nel 1912. La storia artistica del personaggio C. (Charlie nei Paesi di lingua inglese, Charlot in Francia e in Italia) cominciò nel 1913, quando, proprio durante una tournée con Karno, venne chiamato da Mack Sennett, autore (geniale) e attore (modesto) di un'infinita serie di brevi comiche cinematografiche, per fargli rimpiazzare uno dei suoi comici che minacciava di andarsene, Ford Sterling. Già nella seconda delle trentacinque comiche che avrebbe interpretato e diretto, o soltanto diretto, nel giro di poco più di un anno negli studi californiani della Keystone, Kid auto races at Venice (1914; Charlot ingombrante o Charlot si distingue) di Henry Lehrman, C. appare nel costume sbrindellato del Vagabondo (tramp), non esente da buffe e assurde pretese di eleganza, con tanto di bombetta e bastoncino (il costume lo aveva scelto, a quanto pare, pescando a caso nel guardaroba dello studio): in quella scenetta, per molti aspetti profetica, girata sulla spiaggia californiana di Venice, si limitava a 'entrare in campo' e a rimanervi ostinatamente, sordo ai disperati tentativi del collega Henry Lehrman che, nella parte di un operatore di attualità, faceva di tutto per farlo allontanare, dovendo riprendere una gara di minuscole automobiline per bambini. Quella sua tranquilla presenza, quell'atteggiamento da gentleman male in arnese, rientravano, magari inconsapevolmente, in un'illustre e inveterata tradizione, quella affectation che aveva ispirato le teorie del comico di H. Fielding o di Ch. Dickens, e che autorizzava l'umorismo a spese del popolo minuto o del sottoproletariato, purché non esenti da assurde e buffe aspirazioni altoborghesi. Che negli Stati Uniti, ovviamente, assumevano anche una connotazione 'europea', costituendo ulteriore elemento di comicità a spese del cosiddetto Vecchio Mondo.

Nell'autobiografia, C. afferma di aver presentato a Sennett il personaggio da lui creato come "un vagabondo, un gentiluomo, un sognatore, un poeta, un solitario in cerca d'affetto d'amore e di avventure, capace anche di raccogliere le cicche delle sigarette dal marciapiede, di rubare le caramelle a un bambino in culla e all'occorrenza di sferrare calci nel sedere a una signora chic" (My autobiography, 1964; trad. it. 1964, pp. 154-55). Ma queste caratteristiche appariranno soprattutto nelle quindici comiche del successivo periodo negli studios della Essanay (nel 1914, del resto, il nome di C. cominciò a comparire nella graduatoria degli attori più redditizi al botteghino, una graduatoria che lo vedrà al primo posto nel gennaio 1915). Alla Essanay e nei successivi due anni alla Mutual Film Corporation, C. realizzò i suoi primi capolavori, sempre autodiretti, come A night out (Una sera fuori di casa o Charlot nottambulo), The tramp (Charlot vagabondo), Charlie Chaplin's burlesque on Carmen, tutti del 1915; The vagabond (Il vagabondo), One a.m. (Charlot rientra tardi), The pawnshop (Charlot usuraio o L'usuraio) del 1916; Easy street (La strada della paura), The immigrant (L'emigrante) del 1917. Sua partner non era più, come alla Keystone, la dirompente Mabel Normand, attrice e regista ‒ cosa che a C. non piaceva affatto ‒ capace di gareggiare con lui negli effetti burleschi, ma Edna Purviance, la cui femminilità, docile e passiva, sfuggente, consentiva illusioni romantiche, con un vago sentore di melodramma vittoriano.Fu in quegli anni che uscirono i primi articoli in cui lo si definiva un 'genio': il primo a usare questa parola fu Ch. McQuirk in un articolo uscito nel 1915 sul "Motion picture magazine"; seguirono molti altri, fra cui particolarmente autorevole la grande attrice del teatro di Broadway Mrs Fiske, prima a respingere ogni accusa di 'volgarità' e a definirlo sullo "Harper's weekly" erede di Aristofane, di Plauto e di Terenzio, senza dimenticare W. Shakespeare e Molière. Furono anche gli anni in cui apparvero i suoi primi imitatori (e tra di essi, in un concorso, venne premiato un certo Leslie T. Hope, che più tardi sarebbe divenuto famoso come Bob Hope). Né mancarono, prevedibili, i primi attacchi da parte di organizzazioni religiose e di 'difesa della morale', che prendevano spunto dalle notizie dei suoi lauti guadagni e del suo matrimonio e rapido divorzio da Mildred Harris, presto mescolate alle accuse di 'diserzione' al momento dell'entrata in guerra della Gran Bretagna e poi degli stessi Stati Uniti (C. saprà porvi rimedio partecipando con Douglas Fairbanks, Mary Pickford e altri attori a un'intensa campagna nell'Est e nel Sud del Paese per la sottoscrizione dei cosiddetti Liberty Bonds, proprio come si batterà, all'epoca della Seconda guerra mondiale, al fianco di Orson Welles e di vari esuli antifascisti, per l'apertura del secondo fronte)."Che sia ormai finito il culto di Charlie Chaplin?" si chiedeva, con malcelata speranza, un articolo apparso sul "Theater magazine" poco dopo la fine della guerra, nel 1919, prendendo spunto dallo scarso successo dei suoi primi film girati per la First National, Shoulder arms (1918; Charlot soldato) e Sunnyside (1919; Un idillio nei campi). In realtà C. era alla vigilia di un grande salto di qualità, ovvero la realizzazione dei suoi primi film di metraggio superiore ai 30 minuti: quel grande, straziante romanzo d'amore paterno che è The kid (1921; Il monello) e il memorabile The pilgrim (1923; Il pellegrino), che vede Charlot interprete di un evaso travestito da ministro del culto e infiltrato in una timorata comunità texana nella quale ovviamente non potrà rimanere a lungo. Sul piano del linguaggio C. non ha più nulla da imparare: nel primo caso basta una didascalia ("Il paese dei sogni"), e in un quartiere miserevole a tutti, compresi cani e poliziotti, spuntano ali che permettono di volteggiare nell'aria a pochi centimetri da terra. Nel secondo, tre brevi inquadrature sono sufficienti a creare una situazione complessa (un cartello con la foto di C. vestito da carcerato con la scritta wanted, un bagnante che non ritrova le sue vesti lasciate sulla spiaggia e alza disperato e compunto le mani al cielo, infine C. con indosso abiti clericali ovviamente non suoi); ancora, la macchina da presa, grazie al dettaglio, al primo piano e all'eredità della pantomima, può trasformare Davide in Golia e viceversa. Giustamente celebre poi il finale, in cui C., smascherato, viene accompagnato dallo sceriffo del paese, che lo ha preso in simpatia e non vorrebbe riportarlo in carcere, al confine fra Texas e Messico dove lo esorta alla fuga. Ma al di là della frontiera volano le pallottole scambiate fra esercito regolare e rivoltosi, al di qua c'è il riluttante sceriffo con le manette; e a C. non resta che correre e correre lungo la linea di confine, tragicomica e profetica anticipazione di tante vicende drammatiche che nei decenni successivi avrebbero spinto alla fuga e alla ricerca di un rifugio impossibile varie popolazioni del globo.

Più volte definito espressione quintessenziale dell'humour ebraico, e perfetta personificazione dello shlemiel, il perdente per antonomasia che ricorre nella narrativa yiddish e poi in quella ebraico-statunitense, C. non doveva mai negare queste origini, peraltro smentite dalle ricerche di D. Robinson e di altri biografi, e all'epoca delle persecuzioni nazifasciste in Europa avrebbe depositato una grossa somma in una banca di Milano per aiutare l'emigrazione ebraica clandestina. Non si può comunque negare che la sua formazione, la sua cultura e la sua stessa comicità abbiano radici nel Vecchio Mondo, a dispetto di quegli studiosi che, come J. Smith o Ch.J. Malan, hanno cercato tardivamente di recuperarle all'interno della cultura statunitense del Novecento. Si pensi, per es., a come il vagabondo chapliniano non desideri che 'inserirsi' in un mondo restio ad accettarlo: pur covando a volte sogni di rivincita, e non alieno da metterli in pratica quando è sicuro che nessuno lo stia guardando, si infila da ospite più o meno indesiderato in un habitat provvisorio a cui finisce sempre per affezionarsi nonostante il suo patetico squallore. Spazza, spolvera, rimette in ordine, adorna i suoi bugigattoli come può, con piantine e fiorellini di aspetto quanto mai avvizzito e sofferente: così nella stanzetta che divide con l'adorato 'monello' nell'omonimo capolavoro del 1921, così nella botteguccia da barbiere che riapre e riassetta, con serena incoscienza, nel ghetto poco prima di un pogrom in The great dictator (1940; Il grande dittatore). Anche in un film che si propone di attaccare la cosiddetta civiltà industriale e il modo di vivere che ancora non si chiamava 'consumismo' (Modern times, 1936, Tempi moderni, risposta statunitense al troppo dimenticato À nous la liberté del francese René Clair), le casette unifamiliari dei dépliants pubblicitari diventano, miracolosamente, vere e accoglienti. Di fronte all'opera chapliniana nel suo complesso è fin troppo facile scivolare nella tentazione di rileggerla in chiave autobiografica: accade anche a un lettore di eccezione come Sergej M. Ejzenštejn, quando vi ravvisa l'evoluzione da uno Charlot fanciullo a un C. 'tribuno'. Certo, la maschera di Charlot ‒ il vagabondo squattrinato ma pieno di buffe pretese, che a C. garantì il successo negli Stati Uniti ‒ può essere vista anche come una prigione: nel 'lieto fine' di un film aspro e drammatico come The gold rush (1925; La febbre dell'oro: il più 'americano' dei suoi film, che ricorda certe pagine di J. London), il denaro e l'amore non vengono concessi all'omino arricchito e impellicciato che viaggia nella prima classe di un piroscafo al ritorno dall'Alaska, ma allo stesso omino che su richiesta dei fotoreporter si ritraveste, con una mascherata nella mascherata, con i suoi vecchi stracci e, sempre per ubbidire ai fotografi, indietreggia fino a cadere sul ponte della terza classe, ritrovando così la ragazza che ama. E nel successivo The circus (1928; Il circo) il trucco non funziona più, proprio perché ormai generalizzato in un mondo tutto dedicato allo spettacolo (una ragazza lo avverte che i padroni lo sfruttano, facendogli credere di non saper fare i suoi numeri mentre in realtà è bravissimo; ma da quel momento in poi, divenuto consapevole, fallisce sia nel lavoro sia in campo sentimentale: il volto, a differenza della 'maschera', non ha valore di scambio). Al termine della prima fase del suo lavoro, quella dei lungometraggi muti, con il melodramma incomparabile di City lights (1931; Luci della città), C. fornirà motivi eloquenti per riflettere sull'essenza dell''io diviso' e sulla natura di un linguaggio che gli consente di 'vedere' ma al tempo stesso lo mette in pericolo, in quanto può, a sua volta, essere 'scoperto'. Quando uscì City lights ‒ grande melodramma vittoriano per la parte che riguarda la fioraia cieca, e ispirato al The suicide club di R.L. Stevenson per le sequenze dedicate al miliardario ubriaco, che a loro volta ispireranno Herr Puntila di B. Brecht ‒ il cinema aveva già imparato a parlare da almeno cinque anni: ma C. usò moderatamente il sonoro e rifiutò il parlato, limitandolo, sia nel discorso dell'uomo politico in questo film, sia più tardi nella canzone di Modern times, a un grammelot volutamente insensato. Sentì invece, successivamente, il bisogno di parlare al mondo, da vero 'tribuno', di fronte agli orrori del nazismo: e così, in The great dictator, tornò per l'occasione al vecchio, sempiterno tema del doppio e delle somiglianze: il dittatore Hynkel-Hitler somiglia al barbiere ebreo, e viceversa. Ma c'è di più: nella sequenza finale, quella in cui l'ebreo scambiato per il dittatore esorta i soldati del Reich a comportarsi come 'uomini', affiora secondo A. Bazin "in sovrimpressione il volto di un uomo già invecchiato, solcato di qualche ruga, i capelli striati di bianco: il volto di Charles Spencer Chaplin […], una specie di psicanalisi fotografica [che] resta senza dubbio uno dei punti più alti del cinema universale" (1973, pp. 47-48). Era proprio questo, invece, il volto che il pubblico statunitense stentava ad accettare: negli Stati Uniti furono assai poche (in particolare quelle di James Agee, Bosley Crowthers, Robert Warshow) le recensioni positive al successivo Monsieur Verdoux (1947), che fu forse l'ultimo o il penultimo dei suoi capolavori assoluti; per lo più una stampa ferocemente ostile, nel clima in realtà surriscaldato della guerra fredda, gli rimproverò le sue simpatie progressiste, l'amicizia con comunisti come Hanns Eisler, gli alti e bassi della sua vita sentimentale, il fatto di non aver cercato di ottenere la cittadinanza statunitense. D'altra parte, come non avvertire lo scandalo nelle ultime parole di Verdoux, compassato pluriassassino di ricche vedove che sostiene di essere, in fondo, soltanto un dilettante, perché quando si ammazzano poche persone si è considerati assassini, mentre quando se ne uccidono a migliaia si diventa eroi? Sono parole molto simili, fra l'altro, alle teorie del bandito settecentesco Jonathan Wild, presentate in un testo di H. Fielding (The history of Mr. Jonathan Wild the Great, 1743) che forse a C. non era ignoto.Per immaginare narcisisticamente e autolesionisticamente la propria morte, C. non poteva accontentarsi di venire ghigliottinato fuori scena con un ultimo sberleffo ai suoi detrattori e nemici. La morte e la consacrazione di Charlot si verificheranno, giustamente, sulla scena, nel finale del malinconico e commosso Limelight (1952; Luci della ribalta): sotto gli occhi della ballerina che ha salvato dal suicidio, restituendola alla vita come già aveva ridato la vista alla fioraia di City lights, e di un vecchio compagno di nome Buster Keaton, nonché di impresari, servi di scena, pubblico commosso a rispettosa distanza. Appena terminate le riprese di questo film-testamento, C. si concesse una vacanza in Europa insieme alla moglie Oona O'Neill e alla sua nuova famiglia, chiedendo rispettosamente all'ufficio immigrazione un 'permesso di rientro' che gli venne concesso, ma subito ritirato non appena il piroscafo lasciò il porto di New York. Per poter rientrare nella sua patria di adozione, alla quale aveva dato tanto, si sarebbe dovuto assoggettare a esami, inchieste, interrogatori, come quelli che le commissioni per le attività antiamericane stavano conducendo fra intellettuali, artisti e altri individui sospetti. Mr e Mrs C. si rifiutarono di farlo, e la loro vacanza europea si trasformò in un giro trionfale e nella decisione di rimanere nel Vecchio Mondo, dove si stabilirono in Svizzera. Molti anni più tardi, gli Stati Uniti gli avrebbero offerto la possibilità di tornare, glorificandolo con quell'Oscar che non era stato concesso a nessuno dei suoi film, ma la parabola era ormai conclusa, anche se prima della sua scomparsa C. regalerà due altri film, girati in Inghilterra: A king in New York (1957; Un re a New York) e A countess from Hong Kong (1967; La contessa di Hong Kong). Non sono forse all'altezza del grandissimo C., specie il secondo. Ma è significativo, e a suo modo commovente, che anche i suoi ultimi eroi, il re Shahdov e la contessa Natasha, abbiano ancora, come il Vagabondo e l'Emigrante, problemi di visti e di passaporti.

Bibliografia

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